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BuenosAires

E.Mail:musmarra@hotmail.com

 

 

 

 

 

 


 


 

                                              

 

                                                                                                      

                 Lo scorso autunno, mi trovavo in casa di mia sorella Teresa, ("Sina",per i familiari) e sfogliando distrattamente alcuni vecchi numeri dell'Oasi, ilnotiziario trimestrale degli Ex Allievi Lasalliani, mi sono riconosciuto constupore ed emozione in una vecchia foto pubblicata nel n. 3 diSettembre-Dicembre 1993, che ritraeva tutti gli alunni della prima elementare,nel 1932.Hoprovato sorpresa ed un'intensa emozione, e incredulo, ho voluto avere laconferma del riconoscimento dai miei tre figli: Donatella,Emanuele e Anna, etutti e tre, unitamente a mia moglie Graziella, senza esitazione hanno puntatoil dito su quel bimbetto che accovacciato a terra, "all'araba", al centro della prima fila, con il perenneciuffetto ribelle sugli occhi, guardava la macchina fotografica. Ero io a cinque anni d’età, assieme a tanti altri amici Fratelli Cristiani,la cui scuola era in Via Torino a Bengasi. E' stata per me una gran gioiarivedermi bambino. E poi, sfogliando ancora, rivedere alcune foto di Bengasi, lacittà che è rimasta nel mio cuore. E così sono andato a rivedermi tutti inumeri arretrati che ho potuto reperire, leggendo avidamente gli articoli che lariguardavano, emozionandomi, quando descrivevano luoghi e fatti a me tantofamiliari.

Successivamente,per la ricorrenza del Santo Natale, la mia adorata sorella, vedendomi cosìinteressato, mi ha regalato due libri meravigliosi:" LA MIA LIBIA" diPaola Hoffmann e "LA LIBIA" di Torquato Curotti. Libriinteressantissimi, che ho letto immediatamente in pochi giorni e che tutti iprofughi o meglio tutti i discendenti di "Italiani di Libia"dovrebbero leggere, per comprendere checosa significa, il "Mal d'Africa".Un malesottile, pieno di nostalgia, che nessuno può capire se non ha vissuto in Libia,e che cosa esso rappresenti per noi anziani, ancora oggi, a distanza dicinquantaquattro anni, da quando siamo stati costretti ad abbandonarla.

"LAMIA LIBIA" ha dato nome e collocazione storico-ambientale a strade e fattiche si erano persi nella mia memoria.Le descrizioniprecise e dettagliate di luoghi e fatti a me noti hanno all'improvviso fattoriemergere nella mia memoria, come tanti flash-back, episodi e particolaridimenticati o meglio, che credevo dimenticati e che ora invece si rincorronovelocemente uno dietro l'altro nella mia mente, mentre scrivo questi appunti.Mio padre, dopo anni di duro e tenace lavoro, aveva finalmente costruitotra il 1930 e il 1939, una bella casa a due piani, con prospetti in Viale Reginan. 43-45-49 e 51, Via Zarrugh Raed n. 1-3 e 5 e Via Luahi n. 1-3-5 e 9, (poiparzialmente distrutta durante la seconda ritirata), nella quale abitavo alprimo piano, assieme alle mie sorelle Rosa ed Agata ed ai miei fratelli germaniGiovanni, Pino e Sina Giudice, figli del primo marito di mia madre, morto inguerra nel 1919.Imiei genitori Emanuele Nicosia e Grazia Liotta gestivano, autonomamente, dueattività commerciali al piano terra dello stabile. Un locale bar con annessisala biliardi e sala giochi, e un locale per generi alimentari, tra lorointercomunicanti, siti sul Viale Regina quasi di fronte al Comando Truppe delGenerale Nasi, mentre nei locali di Via Luahi n. 9, i miei fratelli Giovanni ePino Giudice, gestivano una fabbrica per la produzione di "seltz"e di bibite gassate in bottigliette di vetro, (quelle che avevano come tappo unapallina di vetro che si abbassava con la pressione del dito), e un deposito divino che mio padre importava dalla sua città natia, Vittoria, in Sicilia.Sono vissuto,quindi, in un ambiente di lavoro e di varia astrazione umana e sociale, traitaliani, arabi, maltesi, ebrei, somali, eritrei, etc, dando anch'io allafamiglia un modesto contributo di lavoro come cassiere (a tempo perso) durantela siesta dei miei, leggendo i miei giornaletti preferiti: il Monello, Mandrakecon il suo fido servo Lotar, Cino e Franco con il cane Rin Tin Tin, Gordon ealtri di cui non ricordo il titolo.Crescevocosì coccolato per la mia tenera età, a contatto con gli avventori abitualiche giocavano al biliardo, la sera, nei due saloni avvolti dal fumo dellesigarette, oppure al bar. Militari somali e ascari eritrei del vicino ComandoTruppe, che la sera mangiando uova sode e vino si ubriacavano, litigando spesso,seduti attorno ad un tavolo. mentreio imparavo tutti i piccoli trucchi del mestiere dal banconista arabo Milud BenFarag, mio mentore e dal suo giovane aiutante sudanese Iadin (Eden) Zaret e dalcameriere Ahmed.Vivevo anche acontatto con i nativi, miei coetanei, con i quali avevo fraternizzato, avendofacilmente imparato alcune frasi essenziali in arabo, quelle più comuni percapire ed essere capiti e per difendermi, rispondendo a tono. Parole e frasipurtroppo, oggi, in parte dimenticate.

Sononote riguardanti strade, negozi e ambienti che molti lettori forse nonindividueranno o gradiranno leggere, ma che potrebbero rievocare ad altribengasini nostalgici, emozioni e cari ricordi come è successo a me leggendo illibro della Hoffmann,.E per questo midilungo a scriverle, corredandole anche di fatti strettamente personali, perché‚spero che possano leggerle anche i miei due teneri nipotini Roberta e Angelo,quando saranno in età per poterlo fare. Forse quando io non ci sarò più, perraccontare loro a voce, come fanno tutti i nonni, episodi allegri o tristi dellapropria vita.Dal1928 al 1941, ho passato gran parte della mia vita in casa di mio zio Diego,fratello maggiore di mio padre, in un grande edificio a due piani, con eserciziodi bar e sala biliardi a piano terra e con l'abitazione al primo piano. La casaestesa tra la Via San Francesco d'Assisi e Via Zuara, faceva angolo acuto con il Corso Italia e partedi questo angolo, occupato dal bar, era coperto con un ampia terrazza,antistante il salotto "buono"dell'abitazione.Sembrava ilponte di comando di una nave! era il mio regno incontrastato, dal qualegiocando, potevo osservare tutto quello che succedeva di sotto, sulle strade:

IlCircolo degli Ufficiali, tra PiazzaCagni e Via Torino, con il via vai continuo dei giovani ufficiali agghindatinelle loro bianche uniformi e accompagnati da leggiadre signorine, chearrivavano, mollemente sedute nelle nere carrozzelle;Le accesepartite di calcio che si svolgevano nella grande palestra scopertadell'antistante scuola elementare Giosuè Carducci e il passaggio freneticodegli automezzi militari che spesso si scontravano con fragore con altri mezzidi trasporto.Proprioassistendo ad uno di questi incidenti, quando avevo quattro anni, è legatopurtroppo, un triste ricordo della mia vita: una carrozzella distrutta e uncavallo disteso per terra, in una larga pozza di sangue. Spaventato dal rumoredelle ferraglie e impressionato dal repentino spettacolo di morte, mi sonoaccasciato lentamente a terra, svenuto, con le mani avvinghiate alle sbarredella ringhiera. Sono rimasto così, sotto il sole per un bel po’ di tempo, sino a quando lamoglie del Commissario Orecchio, vicina di casa, non provvide a farmi soccorreredai miei, che vennero preoccupatissimi a sollevarmi. Non ricordo quanto tempo rimasi a terra, quel giorno, ma so che daallora, quando vedo sangue, la scenadel mancamento, puntualmente si ripete.

Laprima strada da me frequentata, è ovvio, è stata la Via San Francesco d'Assisi, meglio nota come Via Torino. Era la strada dei più moderni negozi d’abbigliamento gestiti quasiesclusivamente da italiani, e della Chiesa più frequentata dai bengasini, la Chiesa di San. Francesco d'Assisi.Di fronte,sull'altro lato della strada, c'era una sala cinematografica, la Sala Italia, incui io avevo libero accesso, in cambio di qualche caffè, sorbito a sbafo dalbigliettaio, al bar di mio zio Diego.Erauna sala piccola ma graziosa, con pochi posti, sia in platea, che in tribuna laquale aveva due gallerie laterali doveio, dopo aver visto i film western con Tom-Mix sul suo cavallo bianco e con illargo cappello da cow-boy in testa, oppure quelli muti di Charlot, sonorizzatida un pianista che strimpellava sul pianoforte collocato sotto lo schermo, miaddormentavo regolarmente, rannicchiato nella poltroncina di ferro in primafila. A fine spettacolo, qualcuno del bar veniva a prelevarmi.In questa salaho visto un film che è rimasto impresso nella mia memoria, perché segnò unasvolta indelebile della miafanciullezza: "I ragazzi della Via Paal".

Adiacenteal bar c'era lo studio fotografico del Cav. Gaetano Nascia e Figlio, il piùattrezzato della città, dopo quello di Dinami, con i suoi fondali sceneggiaticolor seppia, le poltroncine di vimini con l'immancabile bouquet di fiori su untrespolo di legno e il parco lampade. Era uno studio molto frequentato, e le suefotografie stampate su uno spesso cartoncino con i lati frastagliati e laclassica firma, campeggiano ancora sulle pareti di casa nostra e ritengod’altre famiglie bengasine.Poi,percorrendo la strada più avanti, c'erano i negozi di vini del sig. Antonino Russo, all'angolo di una stradina coperta, e del sig.Porromuto.Il negozio del sig. FrancescoSenia, quello del tappezziere Macaluso, il negozio di pelletterie "AllaCittà di Napoli", la pizzeria del sig. Mezzasalma che tra l'altro, faceva delle favolose frittelle, le "crispelle"di riso con il miele o con le alici, che erano una delizia E c'erano tanti altrinegozi d’abbigliamento: l'emporio del sig. Rosario Russo pieno di giocattoli,tessuti, pianoforti, articoli per regali, c'era pure l'Albergo Torino, ilristorante Centrale e una farmacia.Edinfine, ricordo, c'era un negozio di generi alimentari, che esponeva nelle suevetrine meravigliosi piatti di pietanze già pronte, che in molti gustavano congli occhi e col naso incollato al vetro, (cosa che di tanto in tanto, piccolino,facevo anch'io). Non è che mi mancava allora l'occasione di gustare pietanze simili, in casa dimia zia Grazia, ma era la sapiente preparazione del piatto esposto, che attiravala mia attenzione. A casa nostra, di solito, si mangiava in modo più frugalesia a causa dell'attività commerciale esercitata dai miei, che lasciava pocotempo per queste cose, sia perché‚ "loro",pensavano al risparmio. Conservare in cassaforte tanti "filus",quei bei bigliettoni da cento lire, grandi come fazzoletti da naso, eral'aspirazione di tutti gli italiani d’Africa, allora!.

Sicuramente,non era come ai giorni d'oggi, che si ricorre spesso alle pizzerie o aifast-food !. Raramente si andava al ristorante ! E le pietanze a base di carnesi mangiavano, di solito, soltanto la domenica, quando il pranzo era fatto abase di casalinghe tagliatelle in brodo di gallina con piccole palline di carnemacinata, e poi gallina disossata ripiena di riso con fegatini macinati, efrutta e dolce fatto in casa.Una domenica,però, non mangiai la solita gallina! successe, infatti, che, approfittandodell'assenza delle mie cugine Rosa, Nellina e Franca che erano andate a messa,m’impossessai di tutti i cioccolatini che la più grande di esse, Rosa,prepotente e autoritaria, (se lo poteva permettere perché‚ aveva tredici annipiù di me che ne avevo cinque, allora), teneva conservati gelosamente in uncassetto.Perconsumare il frutto della marachella, senza essere visto, mi nascosi sotto ilsuo letto. Un letto di ferro, con le spalliere arcuate dipinte con motivifloreali e delimitate da due pomoli di rame che aveva una rete appoggiata sualti cavalletti di ferro, i cosiddetti "trispiti".E per maggior sicurezza mi sdraiai tra la parete e una grossa e bassa cassapancadi legno, che c'era sotto il letto, dove la cara cugina, che dopo alcuni annisarebbe diventata mia cognata, raccoglieva il suo corredo nuziale.

Atavola la mia assenza non destò meraviglia o preoccupazione perché io eroaduso a queste improvvise sparizioni. Infatti, quando le cose non mi andavanoper il verso giusto, in una delle due "mie"case, io prendevo i pochi indumenti personali, li raccoglievo in un ampiotovagliolo e salutando imbronciato, mi trasferivo nell'altra casa stringendonella mano "la truscia"(fagotto), sotto l'occhio divertito dei familiari, ormai abituati a questo miosdegnoso modo di agire.

Guardaronosotto tutti i letti, compreso quello dove ero nascosto io, malauguratamentesenza scorgermi, perché ero più corto della cassapanca che mi occultavainteramente. Poi, cominciarono a cercarmi nei vari posti che solevo frequentare,al porto, dove io ero solito andare in compagnia di altri ragazzi più grandi odietro la stazione ferroviaria nella Sebcha, dove spesso con loro, andavo acaccia con la fionda o con le trappole. Matutte le ricerche condotte, anche da amici e vicini di casa, furono vane e sicominciò a pensare al peggio.Io allora, ero il più piccolo, amatoe unico rappresentante maschio di una "famiglia" siciliana che angosciata per la mia lunga assenza, siriunì nel salotto della casa di mio zio, piangendomi per morto.Certo, non eratempo di sequestri, come sarebbe avvenuto da noi oggi, ma l'idea che mi fossecapitata qualcosa di grave cominciò a serpeggiare in famiglia, mano a mano chepassava il tempo, infruttuosamente. E ogni parente che veniva per consolare mia madre, i suoi lamenti si facevano sempre piùalti: "figghiu, figghiu miu",diceva lei, struggendosi nel pianto. E furono proprio quegli alti lamenti afarmi svegliare di soprassalto !.

Miamadre aveva un carattere forte e non l'avevo mai sentita piangere, prima diallora, né dopo per la verità, sino alla morte di mio fratello Giovanni, equel pianto che mi giungeva dalla stanza accanto attraverso il sottile muro acui io ero addossato, che ci separava, mi sconvolse.Uscito dal mionascondiglio, mi presentai carponi nel vano di porta dell'attiguo salone, epiangendo anch'io, chiesi il perché di quelle lacrime collettive. Quello cheaccadde di lì a pochi secondi, non posso descriverlo. In un attimo mi furono tutti addosso, felici, e contenti, sollevandomi,abbracciandomi, baciandomi e chiedendomi in coro il motivo della mia lungaassenza da casa.

La Via SanFrancesco d'Assisi, ultimava nella zona dove prima c'era il vecchio Cimitero Arabo, ad angolo con la Via Roma e col Palazzo delle Poste, vicino al quale c'era una libreria con vendita di giornali e il negozio di generi alimentari gestito anni prima da un altro fratello minore di mio padre, Salvatore. "U zu' Turiddu" con sua moglie Marietta e le tre figlie Rosetta, Franca ed Elsa.

Adieci anni, la mia attività ricreativa preferita era, la pesca, che iopraticavo utilizzando una canna preparata con le mie mani. Partivo per le miescorribande in bicicletta, (allora si poteva fare!), e mi dirigevo verso ilporto, dove andavo a pescare sull'antemurale, dopo la Dogana e la Stazione Marittima , nel luogo dove attraccavano le maone, grandi barconi a motore chetrasbordavano a terra i passeggeri dalle navi, che arrivando da Siracusa,allora, non potevano attraccare al molo, per il suo basso fondale.E durante iltragitto spesso mi fermavo per entrare o osservare alcuni locali pubblici, perlo più bar, che erano quelli che maggiormente attiravano la mia attenzione.All'angolotra il Viale Regina e la Via Gasr Ahmed, ricordo, c'era una moderna tabaccheria di proprietà dell'ex BrigadiereTroia, ben assortita di tanti tabacchi e dove io compravo le sigarette preferiteda mio padre, le "Macedonia Extra"; nella stessa strada c'eral'appaltatore d’opere edili, il sig. Stefano Fugardi, marito della modistasig.ra Fugardi, e il laboratorio per la produzione e riparazione di carri deifratelli Cusumano. Poi continuando sullo stesso lato del Viale Regina, c'era unbar dove vicino abitava il Dott. Fusco, medico di famiglia, di fronte allaCaserma dei Carabinieri, dopo, all'angolo di Via Bazar, c'era un grande emporiodi prodotti per l'edilizia, e di ferramenta e colori di proprietà del sig.Pietro Ruffatto.Il Viale Reginaterminava all'angolo con Via Aghib, su un grande slargo trapezoidale. Era la Piazza Generale Cagni, con tanti fabbricati moderni sui lati ed un monumento sito al centro a mòdi spartitraffico.

Sull'altrolato della piazza, c'era il Palazzo Prosdocimo, con un fornitissimo negozio digeneri alimentari, poi il grande bar Zizzo, e subito dopo il negozio di cappellidella sig.ra Gina Modafferi, quello del sig. Menta e quello del sig. Papouchado.

Dailati opposti della piazza, si dipartivano due larghe strade: una alberata, chesi chiamava Viale della Stazione, conduceva alla Berka, passando davanti allaStazione Ferroviaria e alle case popolari I.N.C.I.S., l'altra chiamata CorsoItalia, finiva nella zona del porto. Questa era la strada più bella della città,con le sue palme altissime sui marciapiedi, con i suoi cento negozi di articolivari, e con gli studi dei professionisti più noti , tutti residenti in palazzicostruiti di recente dagli italiani, confinante con il quartiere araboretrostante.Proprioall'inizio del Corso Italia, a sinistra, c'era un bel palazzo in stile colonialea due piani, (come quasi tutta l'edilizia bengasina), in cui aveva sede ilCircolo degli Ufficiali, con i suoi ampi saloni sempre brulicanti di militari e con i rossi campi da tennis, sull'area retrostante.Unasede, che era l'ambita meta di tutte le ragazze e anche d’alcune signore dellaborghesia, che aspiravano di partecipare al braccio di qualche giovaneufficiale, alle periodiche feste che ivi si tenevano. Di fronte al circolo c'era il negozio d’articoli da regalo della sig.ra SantaRaimondi, suocera del Dott. Beccali che aveva sposato la figlia Rosetta e i cuifigli Giorgio e Mario erano nati in un appartamento sito nel nostro palazzo diViale Regina.  Ricordo che ilpadre di Rosetta, Nunzio Ammirata, aveva una fabbrica di candele in Via MercatoNuovo, mentre lo zio Angelo Raimondi con la moglie Concetta Fontana, aveva unnegozio d’articoli da regalo in Corso Italia, vicino alla modista sig.raFugardi. Dopo lo sfollamento da Bengasi, questi due negozi furono trasferiti daiproprietari, a Palermo, in Corso Vittorio Emanuele.

Dopoil Circolo degli Ufficiali, c'erano le Scuole Elementari e le Scuole Medie, due grandi edifici con ampi spazi a verde, in uno dei quali io hocompletato gli studi elementari, iniziati presso i Fratelli Cristiani. C'erapure una grand’area recintata di fronte le scuole, in Viale Giacomo DeMartino, dove c'erano due palestre coperte e un campo di calcio, sede di epichebattaglie a calci negli stinchi, che mi hanno lasciato il segno.Di quel periodoscolastico,ricordo poche cose, forse perché marinavo spesso le lezioni: ilcucchiaio colmo di olio di fegato di merluzzo con gocce di limone che ciobbligavano a prendere ogni mattina per migliorare la "razza"; il grembiule nero con il collettobianco e il fiocco azzurro; i nomi di alcuni miei compagni: Emanuele Carfì,oriundo di Gela, (diventato Deputato del P.C.I. e morto alcuni anni fa, Angelo Jacobucci di Palermo, Massimo Magnani e la sorella, oriundi di Cerignolae il cognome di una mia maestra, "Buongiardino", zia di un miofraterno amico di nome Nino Rosano, (mi sembra oriundo da Siracusa), che abitavain Viale Regina, vicino casa mia. Suo padre faceva il calzolaio e il cortile dicasa sua era il ritrovo d’altri comuni amici tra i quali ricordo solo: Aldo eGilda Giardinella, Lillina Sisto, Lina Cusimano, Lucia e Maria Bellavia, figliedi "Ciccia" e "Peppino" Bellavia, miei compaesani di Agira. Questi gestivano, insieme con Filippo Bruno (detto Pacione), una piccolafabbrica di pasta fresca vicino casa nostra. Un uomo affabile e simpatico, Peppino Bellavia, dal perenne cordiale sorrisofra le labbra, ereditato anche dalle due sue care figliole. Lucia e Maria chevive in Belgio, a Bruxelles, assieme al marito Luigi Musumeci, nato ad Agiracome me.

Difronte alle scuole c'era la casa di mio zio Diego all'angolo di Via SanFrancesco d'Assisi, di cui ho già scritto prima.E adiacentialla casa, lungo il corso, c'erano alcune fornite cartolerie e librerie esopratutto per noi scolari che ci andavamo spesso c'era, una salumeria fornitadi ogni ben di Dio, sempre affollata: mi sembra si chiamasse Bocconi.Altronegozio che attirava la mia attenzione era quello di biciclette e di variarticoli sportivi, di proprietà di Valentino Maganza, sito all'angolo di ViaSanta Barbara, vicino al bar di mio zio Salvatore.A questo punto,la strada si allargava e ricordo c'era il Ristorante Bella Napoli e una seried’edifici moderni, in cui avevano le loro sedi le istituzioni religiose epolitiche più rappresentative della Colonia, mentre il lato destro era occupatoquasi totalmente da negozi e bar al piano terra e da abitazioni al primo.Lungoil corso, c'era un lungo palazzo con porticato, sede del Convento delle Suore diIvrea o di San Francesco, in cui andavano a scuola le mie cugine, ( come siconveniva per le famiglie della buona borghesia), e c'era pure la Sede delVescovato, l'Unione Militare, la libreria del sig. Guido Vitale, il negozio diarticoli sportivi del sig. Mario Pappalardo e un grande negozio di carnemacellata del sig. Giulio Viciani, vicino al negozio di generi alimentari delsig. Epifani.

Unricordo preciso, legato a questa piazza, è rappresentato da un mezzo corazzatoinglese, un carro armato Mark 2, catturato dagli italiani nei primi mesi diguerra, sul fronte egiziano ed esposto per lungo tempo, come trofeo, allacuriosità del popolo e di noi ragazzi che tutti attorno, soddisfatti e fieri,tastavamo le pareti d'acciaio, forate e completamente ricoperte da una patina disabbia rossiccia.A destra,girando dal Corso, c'era l'albergo ristorante Italia e il Bar delsig. Malvicini. Certamente il barpiu’ snob tra i tanti della città, con il largo marciapiedi antistante semprepieno di tavolini all'ombra di larghi ombrelloni bianchi, dove un giorno mio zioDiego sorprese, scandalizzato, le sue figlie e le mie sorelle che sorbivanol'aperitivo, sedute attorno al tavolinetto, con le sigarette in bocca e le gambeaccavallate. Vergogna !!!!. disse e dopo averle indotte ad alzarsi, se ne andò sdegnato,per quell'atteggiamento poco usuale nelle nostre famiglie.

Sull'altro latodella piazza a destra, c'erano il Palazzo del Littorio, il Palazzo del Governo,il Palazzo Sichemberg e il Circolo dei Commercianti. A sinistra invece, c'era il bar pasticceria Savoia, il Tribunale, il fioraioCrocivera, la C.I.T., la Cassa di Risparmio della Cirenaica, dove lavorava unnostro inquilino il Dott. Luigi Beccali, e altri fabbricati sedi di Banche,Agenzie di viaggio e Consolati esteri.Sulquarto lato, a chiusura della piazza, si erigeva imponente l'alta mole delTeatro Municipale Berenice, con la sua ampia scalinata e l'alto porticato dimarmo, in cui ricordo prima della guerra, fu esposta al pubblico su un palchettoin legno, la prima autovettura di piccola cilindrata, prodotta dalla Fiat, lamitica Topolino.Dalla Piazzadel Re, girando a destra si andava verso il Municipio, percorrendo la Via Roma,una moderna strada con palazzoni, alti e in parte porticati.         Gliedifici più rappresentativi, per le loro linee architettoniche, erano ilPalazzo della Banca d'Italia a sinistra e il grande Palazzo delle Poste, adangolo con la Via S. Francesco d'Assisi, vicino al quale c'era il Mercatocoperto di recente costruzione, che aveva occupato il vecchio Cimitero arabo,quindi, un po’ defilato sulla destra, c'era il Mercato coperto del pesce.Percorsa l'ampia Via Roma, la stradasi restringeva notevolmente perché entravamo nel quartiere arabo della città.In questastrada, chiamata Via Generale Briccola, rammodernata di recente con grandipalazzi porticati, c'erano i negozi più forniti di Bengasi, gestiti in massimaparte da ricchi ebrei e da commercianti indiani, che ostentavano le loromercanzie, le loro stoffe di seta cinese, gli avori, i tappeti, e quanto dimeglio si poteva trovare in commercio allora proveniente dalle Indie.Ricordoalcuni nomi di grandi empori, primo tra tutti quello di Angelo Aprile, poiquelli di Cardinale e Belleli, Franz Fiorentino, Cosimo Scarpaci, dei fratelliLegziel, e il negozio di argenteria di Fortunato Costa.

LaVia Generale Briccola, finiva in un’ampia piazza, dove aveva sede ilMunicipio. Una costruzione, che occupava tutto il lato sinistro della piazza,contornata da altri edifici coloniali, con bassi porticati bianchi in cui inativi seduti su sgangherate sedie attorno ai tavolinetti di ferro,sorseggiavano il caffè alla menta con le arachidi o fumavano nei loro narghilè.Ricordo chec'era un fornitissimo bar di proprietà del sig. Parlato e la tabaccheria piùantica di Bengasi, la n. 1, gestita dal fratello Giovanni Parlato, la farmaciadel Dott. Rinaldi, la torrefazione di caffè del sig. Giovanni Costa ed infineil gran bazar "Cirenaica" del sig. Giacomo Papouchado.Difronte c'era la Moschea el Chebir, con il suo snello minareto che svettava in alto, in cui il Muezzin,la sera, intonava la sua dolce cantilena di preghiere.A destra dellamoschea, iniziava una stradina stretta e coperta come una galleria, chediventava ancora più impercorribile per le mille cose che erano espostedisordinatamente a terra e per il gran numero di nativi che gesticolando,t’invitavano ossequiosi a comprare le loro cose, toccandoti con le mani gliabiti. Era il Suk el Dlam con i suoi mille negozietti piccoli e stracolmi dimercanzie: stoffe di cotone o di seta vivacemente colorata, barracani, spezie,(il pepatissimo filfil), tappeti, oggetti di cuoio, ceste di datteri neri,droghe, profumi inebrianti e tinture rosse e densamente profumate, l'"henna",con la quale le donne arabe si tingevano le mani e il viso, e poi tanti dolci. Dolci di mandorla, il gustoso "halgum",la "halua" e mille, millecose buone ancora. Il gran mondo arabo, nell'espressione più genuina.  Addentrandocioltre questo stretto percorso, e percorrendo altre stradine del quartiere arabo,si raggiungeva, passando dalla Piazza dell'Erba, la Via Osman Bahchek e da qui si raggiungeva la zona dei Fondugh e, in Viale Regina, ilComando Truppe della Colonia, allora retto dal Generale Nasi.Questo poligonostradale, racchiudeva la gran parte della città vecchia, che si estendevaancora, con cento strette e contorte stradine, verso nord, nella zona dei Sabri. Percorrendo il Viale Regina, a sinistra della Via Sciuechat, s’incontravadopo la Piazza Fondugh , il grande arco d’ingresso allo Stadio comunale, teatro d’epiche partite acalcio, di parate militari con le truppe di colore cammellate e di spettacoliequestri offerti dai cavalieri berberi durante le visite del Re e del Duce aBengasi. In Viale Regina, c'era il panificio del sig. Salvatore Breccia e c'era un altroesercizio commerciale gestito da unmio parente, lo zio Pietrino Gulino e da sua moglie, sorella di mio padre dinome Teresa ( ma chiamata "Zia Trisina" dai parenti), unitamente aifigli, Titta, Giovanni e Angela.IlViale, terminava con la Porta Sabri, l'antica porta d’accesso alla città,subito dopo il nuovo grande Fondugh.Ai lati di taleporta, c'era a sinistra una grand’area recintata con muri altissimi,comprendente gli edifici dell'Ospedale Coloniale.Grandipadiglioni di stile coloniale, in cui avevano sede i vari reparti, sempreaffollati d’ammalati.In quel luogo,nel 1939, unitamente a mia sorella Sina, (che fece poi da balia al nascituro),sono andato a fare visita ad una mia parente, moglie del Maresciallo FrancescoArena, di nome "Ciccina" che aveva partorito prematuramente il figlioprimogenito, Enzo. Questi era così piccolino, così paonazzo che io, impressionato da quell’insolitavisione, mentre gli facevano il bagnetto, sono svenuto, accasciandomi per terra,tra lo sgomento dei parenti.

Adestra di Porta Sabri c'era il Lazzaretto, davanti al quale sostavano spesso conaspetto trasandato e malaticcio, vecchie meretrici arabe, le cosiddette "mabruke", anziani beduini ammantati nei loro laceri barracanidi lana, assaliti da nugoli di mosche, e vicino a loro, piccoli, scalzi, bambiniarabi, con l'eterno moccolo giallo pendente dal naso sempre incrostato e sporco.Fuori porta,invece, aveva inizio una grande estensione di terreni pieni di verdi rigogliosepalme, tra la strada che conduceva a Tocra e una spiaggia splendida, sul mare.Era il palmeto dei Sabri, dove, dopo i primi bombardamenti, abbiamo trovatotemporaneo rifugio in alcune case arabe.Piùin la, a destra della strada, c'erano le fornaci di calce dei sigg. Giardinella,dove io mi recavo per prendere lezioni private di latino, da Lucia.Lucia era la figlia maggiore diGiuseppe Giardinella e di sua moglie, la "sig.ra Peppina" che assiemea Sarino, Iolanda, Emilio, Aldo e Gilda, vivevano in una moderna casa a duepiani, in Via Zarrugh Raed, poco lontano da casa nostra. In quella casa io sonocresciuto come un figlio, assieme agli  altri, dopo l'immatura scomparsadel sig. Giardinella, avvenuta nel 1934. E ricordo ancora oggi, con commozione,che la piccola Gilda, che allora aveva quattro anni, chiamava familiarmente econ affetto, i miei genitori, "papà Nenè" e "mammaGrazietta".Eraun'abitazione bella e spaziosa ad un piano, tutta bianca, con una sola portad’ingresso. All'interno c'era un ampio spiazzo quadrato porticato, con tantecamere tutt'attorno. Queste, prendevano luce dalle porte e da strette finestre protette da fittegriglie di legno, le "musciarabieh"e le belle donne arabe circolavano liberamente senza il velo sul viso,com’erano costrette a fare quando uscivano per strada. Ricordo i pranzi luculliani che erano preparati in questa casa perfesteggiare la fine del digiuno, imposto dalla loro religione, per il "Ramadan".

Altropercorso che io facevo spesso, in bicicletta, era il periplo della Sebcka, unvasto spiazzo di terreno lagunarecollegato con il mare del porto grande, che serviva da idroscalo perl'idrovolante di Italo Balbo. Partivo sempre da Via San Francesco d'Assisi e quindi, percorrevo il VialeGiacomo De Martino, passando davanti alle scuole elementari Giosuè Carducci,poi più avanti, a destra c'era la fabbrica d’alcolici della ditta Xuereb, chericordo, produceva tra l'altro, una squisita "anisette",e poi c'era, verso la Sebcha , una clinica privata di proprietà del Dott. Prosdocimo: mi sembra sichiamasse la Quisisana. A metà strada c'erano tante case unifamiliari con graziosi giardinettifioriti, ben tenuti e recintati tutt'attorno, con alte cancellate di ferrobattuto. Dietro queste ville a sinistra, c'era il grande Palazzo della G.I.L., un edificio di colore oscuro, imponente, con unaenorme piazza antistante, dove noi, Giovani Italiani del Littorio: balilla,avanguardisti, piccole italiane etc, etc, incolonnati e coperti per tre,marciavamo impettiti e felici !!!, (contrariamente a quello che per tantissimianni hanno detto  molti italiani.) Più avanti ancora, a destra, iniziavano gli stabilimenti industriali tra iquali, ricordo, quello della Ditta Igino Palla e di Adolfo D'Andrea, con tantibarconi in ferro affondati, semisommersi dall'acqua, proprio dove aveva inizioil ponte in ferro che conduceva alla Giuliana. Ponte che fu parzialmente demolito durante la guerra, per lasciare ammarareagevolmente gli idrovolanti Savoia Marchetti, che avevano la loro base nellaSebcha. Alla spiaggia della Giuliana sono legati i ricordi più belli della miafanciullezza.Infatti, tutte le estati, iotrascorrevo le vacanze al mare, sempre ospite di mio zio Diego che aveva unabella villetta lungo la strada prospiciente la spiaggia o dei sigg. Giardinella,e percorrevo giornalmente la lunga striscia di sabbia finissima, passando eripassando e a volte soffermandomi a guardare le cabine dello stabilimentobalneare del sig. Carlo Trevisani, il ristorante a mare dei Malvicini , La Sirena e gli altri chalet in legno, colorati vivacemente, con i terrazzini recintati ecoperti di stuoie di palme, sempre affollati di allegra gioventù in costume dabagno. Lo chalet del Governatore, e quello degli Ufficiali, invece erano semprepresidiati da giovani militari in divisa bianca, candida, con la pistagna delcolletto rigido, che vigilavano le terrazze a mare, gremite di muscolosigiovanotti e giovani damigelle con costume castigato, all'ombra di bianchiombrelloni.Assieme ai mieisoliti amici, giocavamo al "chiodo",lanciandolo roteante in aria per farlo infiggere con la punta nella sabbiabagnata del bagnasciuga, a Jo-Jo, a tamburello, con le cinque pietruzze dalanciare in aria, e sopratutto ci divertivamo un mondo con le altalene.  Queste,collocate lungo la spiaggia, erano realizzate con travi di legno alte circacinque metri, con una coppia di sedili autonomi appesi ad un'asse di ferro e sucui noi ci dondolavamo allegramente e velocemente, sfidandoci a chi andasse piùin alto dell'altro. C’era pure l'altalena, ad un solo sedile, e su questo,spesso, ci mettevamo in due persone contrapposte, spingendolo con i piedi, unavolta ciascuno, abbassandoci sulle ginocchia.

Oltrequesti gioiosi ricordi, però, c'è un altro, macabro questa volta!Un pomeriggio dell'anno 1935, mentre ero intento a pescare sugli scogli, vicino alMonumento a Mario Bianco, primo soldato italiano morto a Bengasi il 19 Ottobredel 1911, durante lo sbarco delle truppe italiane per l'occupazione dellaCirenaica, ho rinvenuto nascosto parzialmente dalle alghe, il cadavere di unuomo, nudo, con le orbite degli occhi e altre parti molli del corpo mancanti epieno di minuti crostacei appiccicati su gran parte della pelle.Unavisione raccapricciante!Allontanatomi velocemente, diedil'allarme ad alcuni militari che erano in servizio, nella zona e che accompagnaisul posto. Mi dissero che sitrattava, sicuramente, del corpo di un marittimo imbarcato sulla nave da carico"Attilio", che molti giorni prima, salpata da Bengasi, era statasorpresa al largo da una violenta mareggiata. La nave, virando per ritornare inporto, si era rovesciata su un fianco, affondando, a causa dello spostamento delcarico di grano, trasportato sciolto nelle stive.Non ci furonosuperstiti!.

  Continuando il periplo della Sebcha, girando a sinistra, dopo il ponte, primadi arrivare alla spiaggia della Giuliana, si passava davanti al CimiteroItaliano e dopo le Saline, c'era l'aeroporto, sempre affollato, dall'iniziodella guerra da aerei da combattimento e di giovani piloti con il casco di pellemorbida in testa. All'aeroporto A. De Bernardis della Benina è legato un altro caro episodiodella mia gioventù. Io, allora avevo tredici anni, e frequentavo la casad’alcuni miei parenti e in casa loro, in Via Suliman Tebel, ho avuto ilpiacere di incontrare uno di questi giovani ufficiali piloti, un ragazzo di 22anni di nome Menotti Ippolito, che era il fidanzato della primogenita. Con interesse, affascinato dal suo portamento alto e signorile e dalla suadivisa bianca, con l'aquila d'oro appesa sul petto, stavo sempre ad ascoltarlo,quando mi parlava del suo aereo da caccia e del suo mondo.E in seguito,suggestionato, volli tentare anch'io di apprendere le prime nozioni dipilotaggio e acquistai i tre volumi pubblicati dal Ministerodell'Aeronautica:"Nozioni teoriche per gli allievi piloti". EdizioneS.A. Poligrafica Italiana, Anno 1940, che ancora conservo gelosamente.  Purtroppo,Menotti, "nell'adempimento del dovereverso la Patria", il 16.01.1942, lasciò vedova mia cugina, con un batuffolo rosa ditre mesi in braccio, di nome Ines, e io, profugo in Italia, non ho avuto, dopo,l'opportunità di realizzare la mia aspirazione. Verso sud ho fatto qualche gita familiare al Guarscia, un'oasi di verde intensosita a circa 10 Km. dalla città, dove andavamo a fare qualche pic-nic fra igiardini del villaggio agricolo italiano, il Lunedì di Pasqua. Nel 1937, invece, sono andato a Derna, la "Perla della Cirenaica",com’era chiamata per la presenza di un'oasi meravigliosa e piena di giardinioltre alle solite palme di datteri. Una breve vacanza fatta dalle nostre famiglie, assieme ad altri amici, il sig.Russo e signora e il sig. LaCognata, a bordo di nostre autovetture e delle due auto, una Bianchi e un'AlfaRomeo che la coppia di sposi formata dai miei fratelli con i figli di mio zio,avevano portato in Libia dal loro viaggio di nozze in Italia. Una vacanza meravigliosa, della quale ricordo la lunga strada asfaltata chepercorreva l'altipiano, passando tra campi rigogliosi pieni d’alberi in fiore,tra i Villaggi Luigi Razza e Beda Littoria e le case coloniche che i"Ventimila" contadini italiani, l'anno dopo, nell'ottobre del 1938,avrebbero abitato per cercare di dissodare e rendere fertili quelle distesesteppose che si perdevano a vista d'occhio verso le lontane oasi di Cufra. Prima di arrivare a Derna, ci siamo fermati a pranzare a Cirene per potervisitare le rovine greco-romane e per andare ad Apollonia, che vedevamo sullanostra sinistra. Resti di anfiteatri con colonne abbattute , tombe, strade sconnesse con basoledi pietra calcarea sbrecciata e solcata dalle ruote in ferro dei carri, conciuffi di sterpaglie secche negli interstizi e sparsi un po’ d'ovunque suglialtri reperti archeologici che erano in uno stato di completo apparenteabbandono. Qualcuno della comitiva, indicava e illustrava quelle rovine, che unitamente aquelle intraviste lungo la Via Balbia, a Lepts Magna, durante la fuga versoTripoli, desidererei rivedere oggi, con più competenza, assieme a mio figlioEmanuele, anche lui architetto. Ritornando a Bengasi, siamo entrati in città dalla Berka, percorrendo il VialeVittorio Veneto e la Via Stazione , passando davanti alla Caserma Moccagatta, alla Caserma degli allievi Zaptiè,(i famosi carabinieri libici a cavallo), alla fabbrica della "BirraCirene" e al Deposito Foraggi dell'esercito coloniale.Anche a questo luogo è legato unricordo della mia infanzia, pieno di vivide luci rosse. Una notte, il Deposito Foraggi di cui sopra, che era stato realizzato in una vastissima buca sotto il livello stradale, alla Berka, fu dato allefiamme da alcuni beduini ribelli, seguaci di Omhar El Mukhtar.   Fiammealtissime che si vedevano distintamente sopra le terrazze dei palazzi, dallequali, sgomenti, le osservavamo, intimoriti delle altissime lingue di fuoco chesalivano al cielo crepitando intensamente. Uno scenario dantesco, mai vistoprima, da noi ragazzi. Altro percorso a me abituale era quello del lungomare Benito Mussolini, cherappresentava per noi ragazzini, il campo di gara per memorabili sfide inbicicletta. Dalla linea di partenza, sita vicino la Dogana , e segnata a terra col gesso, tra i due alti obelischi marmorei, sormontatidalla Lupa di Roma e dal Leone di San. Marco, si arrivava al traguardo, davantialla Cattedrale. Per gli adulti,invece, quel marmoreo Lungomare, rappresentava il luogo in cui il pomeriggio,potevano passeggiare a piedi o mollemente seduti, sulle tipiche carrozzellearabe, trainate da ronzini malandati e con il cupolone di cerata nera abbassato,per vedere ed essere visti. Carrozzelle scoperte, condotte di solito da arabi, con il classico turbantebianco-sporco in testa e la sigaretta arrotolata, tenuta all'angolo della bocca.Con le redini in una mano e con l'altra mulinando nell'aria, la schioccantefrusta, la "zotta", chefiniva la sua veloce corsa sulle gambe del povero cavallo. Qualche volta, purtroppo, questo schiocco l'ho sentito ed assaggiato anch'io,sulle mie gambe imberbi, quando ero scoperto dal cocchiere mentre eroaccoccolato sull'assale posteriore della carrozza e mi lasciavo trasportare daclandestino, assieme ai clienti, lungo la strada. Sul lungomare si affacciavano alcuni grossi palazzoni moderni e lacaratteristica sagoma del Palazzo del Governatore, con il suo alto e biancotorrione quadrato che sembrava un minareto. Quella larga, sontuosa, strada voluta dal Governatore De Bono, svoltava adestra dopo circa quattrocento metri, proprio all'altezza della Cattedrale e poisempre alberata da palme rigogliose, passava davanti al "Grande AlbergoBerenice" e si congiungeva con il Viale Giacomo De Martino, costeggiando ilporto piccolo, con il suo molo sempre pieno d’imbarcazioni da diporto.LaCattedraleera una massiccia costruzione con due grandi cupole rivestite di rame e con un'ampia scalinata di marmo che la rendeva più possente, "una copia mal riuscita del S.Antonio di Padova" come giustamente la definisce la sig.ra Paola Hoffmann.Erail luogo dove, la domenica, si dava convegno l'alta borghesia, i funzionari delGoverno coloniale con le famiglie al completo, agghindate afesta, i rappresentanti del Governo militare, il prefetto Vellani e il vescovoMonsignor Candido Moro, per assistere ostentatamente alla Santa Messa, al suonodella Marcia Reale. A fianco alla Cattedrale c'era ilbel Palazzo dell'Episcopato, nei cui locali, di pomeriggio ci riunivamo perpartecipare alle lezioni di catechismo e sopratutto, per sfidarci ininterminabili partite a Calcio Balilla, o bigliardino come lo avrebbero chiamatooggi..In quell'albergo,nel 1936, abbiamo festeggiato le doppie nozze tra i miei fratelli germani,Giovanni e Sina Giudice, con Rosa e Giovanni Nicosia, figli di mio zio Diego.(Ho capito, così, solo dopo tanti anni, perché io ero tanto coccolato in casadi mio zio Diego. Ero il falso scopo, allora, delle continue visite reciprochedei fidanzatini). Una cerimonia grandiosa, come si addiceva allora, alla categoria deicommercianti affermati. Un pranzo nuziale, a cui partecipò tutto l’entouragedel clan Nicosia, seduto attorno ad un lunghissimo tavolo disposto ad U, dove fuimmortalato dal fotografo, Cav. Gaetano Nascia, con numerose foto checonserviamo ancora.

Poi nel 1938,la conquista dell'Etiopia sconvolse la nostra vita familiare. I miei fratelli,Giovanni con la moglie Rosa e Pino, che erano in Africa Orientale, sitrasferirono ad Asmara e fecero fortuna con un emporio di materiale edile. La ferramenta FERRA.FRA.GIU. consentì loro di espandere la propria attivitàanche ad Addis Abeba, ma un triste destino aspettava il maggiore dei mieifratelli, Giovanni. Il 16.10.1939, a Addis Abeba, nella capitale dell'Impero (!!), una, comunissima infiammazione dell' appendice intestinale, non diagnosticatain tempo, dal suo medico di fiducia, il cognato Michele Trigilio, si trasformòin pochissime ore in peritonite e mia cognata Rosa restò vedova, con la piccolaGraziella, di 11 mesi, orfana di padre. Nelle famiglie Giudice-Nicosia c'è stata sempre una triste fatalità!. Neimomenti di maggiore necessità, gli uomini più rappresentativi della famiglia,venivano improvvisamente a mancare. Prima, Angelo Giudice, padre di mio fratello germano Giovanni, che morìdurante la guerra 1916/1918, poi questi nel 1939, all'apice della sua scalataimprenditoriale ed infine mio zio Diego, nel 1941, quando profughi da pochigiorni a Ferla, in Sicilia, le nostre famiglie erano alla disperata ricerca diun’attività per rifarsi una vita, dopo aver abbandonato tutti i nostri averiin Africa.

La vita aBengasi, per noi Italiani, scorreva felice e con tanta soddisfazione, lavorandosodo e guadagnando bene, sino a quando scoppiò la guerra. Poi tutto cominciò adiventare difficile, con il passare del tempo. La scarsità dei rifornimenti cominciò a preoccuparci, e il commercio iniziòa risentirne anche se, dicevano, doveva trattarsi di una guerra lampo, cheavremmo sicuramente vinto. Infatti,così sembrò inizialmente, con la veloce avanzata delle nostre truppe, versoAlessandria d'Egitto e Marsa Matrùk. Ma prima la morte di Italo Balbo, sul cielo di Tobruk, (abbattuto sivociferava, "casualmente",dalla nostra contraerea), dopo, l'affondamento della nostra nave da guerra SanGiorgio e quindi i bombardamenti che iniziarono a distruggere la nostra città,ci fecero allarmare moltissimo. Noi ragazzi, però, nati nel clima di "Credere, Obbedire eCombattere", e ignari della sorte che ci sarebbe toccata, ci entusiasmavamoa sentire i bollettini di guerra, che magnificavano la fulminea avanzata versoil Cairo. Avevano richiamato alle armi come artigliere, anche mio padre, che sotto ilpeso dei suoi cinquantuno anni, era stato costretto a vestire la divisa militaredella M.V.S.N., (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) del regime e adaggregarsi ad un presidio della contraerea, alla Giuliana. E così, io facevo il tifo per lui, la sera, salendo sul terrazzo, appena sisentiva l'ululato lugubre delle sirene, che ci avvertivano delle incursioni diaerei nemici. Armato di una bagnarola di lamierino di ferro zincato che tenevo alta sulla miatesta, con le due mani serrate sui larghi manici, per proteggermi dalle schegge,(così credevo), stavo ad osservare il cielo, atteggiandomi a "piccola vedetta ……….libica", con l'elmetto in testa comeil "Feroce Saladino", di buona memoria giovanile.

All'avvicinarsidi quel suono tipico e caratteristico che facevano i motori degli aerei inglesi(Uaan--Uaan--Uaan), che riconoscevo subito a distanza, la volta celeste siilluminava d'incanto, scrutata da decine di fotoelettriche che sciabolavanol'aria, alla ricerca del nemico. Quando l’aereo era inquadrato da una di esse,tutte le altre collocate attorno alla città, si dirigevano sull'obbiettivoformando come una grande piramide di fasci di luce. E cominciava "lospettacolo", che con grande infantile incoscienza ogni sera andavo adassistere !!. Un inferno di fuoco!. Si udivano le mitragliere pesanti, che sparavano continuamente proiettilitraccianti, che rapidamente salivano in cielo rincorrendosi luminosi, e poi amano a mano affievolendosi, ricadevano a parabola verso terra. Si udiva ilrumore dei cannoncini a tiro rapido, che anch'essi facevano la loro parte. Edinfine, c'erano i cannoni della contraerea che facevano un chiasso infernale, maintervallato, illuminando l'aria con vivide fiammate azzurrine. In cielo, lenuvolette grigio-bianche lasciate dagli scoppi, venivano illuminate dallefotoelettriche che inseguivano inutilmente un puntino grigio-nero che siallontanava indisturbato. Erano gli aerei ricognitori nemici, troppo ad alta quota per essere colpiti,dicevamo tra noi, forse inconsciamente, per giustificarci dell'inutilesbarramento di fuoco fatto della nostra contraerea. Ma una sera avvenne qualcosa di diverso. Improvvisamente apparve in cielo, nella posizione indicata dallefotoelettriche, una palla di fuoco e io cominciai a saltare e gridare con gioia:Colpito !!, Colpito !!, e aspettavocon orgoglio di vedere cadere quell'aereo nemico abbattuto dalla "contraerea di mio padre". Però quella palla luminosa non scendeva velocemente, ma si dondolavadolcemente in cielo. Sembrava che si dirigesse sulla mia testa, e cosìimpressionato, scappai nel sottoscala a raccontare l'accaduto. Mi fu detto che si trattava di un "bengala". Un aggeggio di guerra che serviva al nemico per illuminare a giorno gliobiettivi, per fotografarli o per meglio individuarli durante il bombardamento. Che ne sapevo io di bengala e bengala!!! Per me allora, lettore di Emilio Salgari, il Bengala era la patria di Sandokane delle sue tigri di Mompracem, e così risalii in terrazza in tempo per vederlospegnere e sbriciolarsi, alla fine, in una cascata di scintille. Poi, la seradel 15 settembre 1940, qualcosa cambiò nel mio scenario notturnod’osservazione. Il classico rumore degli aerei inglesi d'alta quota, non eraquello usuale.Dovevano esserein molti, gli aerei che si avvicinavano a Bengasi e l'attività della contraereasi fece più frenetica e anche le fotoelettriche sembravano impazzite.

All'improvviso,ecco, il primo tremendo scoppio, che sembrò bloccarmi il respiro, facendotremare il pavimento della terrazza sotto i miei piedi. Poi un secondo, un terzo, un altro ancora e non ebbi il coraggio dicontinuare a contarli, perché in un attimo scappai giù nelle scale, scendendoa precipizio e saltando i gradini a quattro a quattro, orientandomi nel buio,seguendo il corrimano, per arrivare il più presto possibile nel sottoscala,dove mi attendevano terrorizzati i miei familiari. Quella sera, dopo il segnale di cessato pericolo, siamo andati a dormire vestiti, sicuri che da lì a poco gli aerei nemici sarebbero ritornati.Ma anche se non ci furono altri allarmi, dormimmo poco. Infatti, il Viale Regina era percorso continuamente da automezzi deivigili del fuoco, da camion militari e da autoambulanze che facevano la spolatra l'Ospedale e le zone della città che erano state colpite, specialmente conil porto dove era stata affondata una nave da trasporto piena di militari,facendo una strage. I cadaveri o quello che restava di essi, venivano trasportati sui camionavvolti in lenzuola, accatastati alla rinfusa, tanto erano numerosi. Il giorno dopo, appena alzato, feci colazione e con noncuranza, inosservato, miallontanai da casa: volevo andare avedere le zone bombardate e mi diressi verso il porto. Le strade, nella zona, erano tutte intasate di detriti d’edifici colpitidalle bombe. Mi avvicinai con la fida bicicletta al Teatro Municipale Berenice e potei osservare più da vicino gli effetti devastanti della guerra.Strade piene di grandi buche con alberi divelti o tranciati dalle schegge,serrande metalliche squarciate, infissi divelti e senza vetri, sparsi tutt'intorno.Edifici diroccati, altri incendiati dagli spezzoni incendiari e poi, macchie disangue, sangue, sangue un pò dovunque. Una scena apocalittica, allora, per un ragazzo di 14 anni, alla sua primaesperienza del genere. Oggi anche i bambini sanno cos'è la guerra, martellati dalla televisione, conscene di distruzione e di morte, in Bosnia, in Cecenia, nel mondo intero. Ma allora non c'era la televisione e le scene di guerra, li vedevamo alcinema, prima del film, con il "Cine Giornale Luce", in bianco e nero,e così facevano meno impressione. Vederle per la prima volta al naturale, con quell'odore di morte è statoterribile !. Quella visione mi fece subito indietreggiare. Sentii piegarmi legambe, alla vista di tutto quel sangue, e così scappai via di corsa verso casa. Trovai i miei familiari riuniti in negozio a parlottare. Discutevano preoccupati, di quello che era accaduto la sera prima e di ciò chepoteva accadere successivamente.Le caserme del Comando Truppe, difronte casa nostra, quella sera, erano state risparmiate ma ancora per quantotempo, si chiedevano i miei? E cosìfu presa una decisione collegiale, da tutte le famiglie del clan Nicosia e daaltri parenti che vivevano nel nostro ambiente: non era prudente restare in città,quella notte, vicino a probabili obiettivi di guerra.Ma dove eraopportuno sfollare ?.Occorrevatrovare una sistemazione sicura, non lontano dalla città, affinché gli adulti,potessero di giorno continuare le loro attività lavorative, e raggiungerci, lasera, alla chiusura degli esercizi commerciali.

Cimisero a disposizione uno stanzone, disadorno, in cui sistemammo i materassi perterra, allineati a stretto contatto uno con l'altro, lungo le due pareti, inmodo da formare due grandi lettoni.Al centro dellastanza, un separé, realizzato con una corda, alla quale erano state fissate conle mollette, alcune lenzuola, salvava la pudicizia: maschi a destra e femmine asinistra !!, tutti accorpati edivisi per nuclei familiari.Sembravaun campo di concentramento.Ilbombardamento sulla città, per i membri della famiglia che non erano mai salitiprima con me sulla terrazza, quellanotte, rappresentò uno spettacolo di guerra da non perdere.  E così restammo per molto tempo, con il naso per aria a fare congetture,sulle zone che venivano colpite dal nemico, seguendo tranquilli sotto le altepalme, le luci delle fotoelettriche che inseguivano gli aeri nemici.Ilgiornodopo ci siamo dati da fare permigliorare i nostri alloggiamenti, e i nostri genitori, ritornati dalla cittàcon i mezzi e gli attrezzi necessari, si misero a costruire con tavole di legnoe lamiera ondulata, un’ ampiabaracca, adiacente e intercomunicante, con il precedente alloggio. Furono, così,approntati i servizi igienici alla turca e la cucina con zona pranzoincorporata!Siamo rimastinel palmeto dei Sabri circa quattro mesi, come in un villaggio turisticod’oggi, in allegra compagnia, specialmente per noi più piccoli.

Allora,era opinione generale che doveva trattarsi di "unaguerra lampo", come avevano fatto in Europa i tedeschi.Ed infatti, laguerra, sembrava riguardare altre città, in Egitto, lontano da noi: Marsa Matruk, Sollum, Sidi El Barrani, Giarabub e tranquilli noiseguivamo le cronache di guerra ignari di quello che di li a qualche mese cisarebbe capitato. Ma gli eventi incalzavano e le notizie che sentivamo eleggevamo sul giornale locale "Cirenaica Nuova" cominciarono adiventare preoccupanti.Glisviluppi delle battaglie in corso su El Alàmein e sul fronte libico, liapprendevamo, di giorno, dalla voce di Mario Appelius, nei bollettini di guerraitaliani e dopo di nascosto, la notte, quando chiusi in casa al buio, cisintonizzavamo su Radio Londra e aspettavamo di sentire i quattro colpi ditamburo della quinta sinfonia di Beethoven: "Ta-Ta-Ta---Taan" e subito, dopo la voce suadente e familiare del Colonnello Stevens, cifaceva intuire che il bollettino di guerra ascoltato prima, dalla radio delregime, era totalmente falso.E ogni giornoche passava, il fronte di guerra si avvicinava sempre più a Bengasi!

Anovembre, intanto, mia zia Grazia con le figlie, Rosa con Graziellina, Nellina eil piccolo Diego, figlio di Sina, erano partiti per l'Italia. Gli altri dellafamiglia, il 17 Gennaio 1941, caricate sulle autovetture la maggior parte dellecose indispensabili, partirono a gruppi, me compreso, alla volta di Tripoli.

ASirte, non trovammo posto nell'albergo omonimo e ci dovemmo accontentare didormire, accomodati alla meglio, su poltrone e divani. Il giorno doporiprendemmo il cammino, passando per Lepts-Magna, le cui rovine scorgevamo dalontano, e così, sfiniti, arrivammo a Tripoli, ospiti di amici che cialloggiarono.Ci fermammo lìsino alla fine di febbraio del 1941.Durantequel soggiorno, assistetti ad un triste evento: l'affondamento di un idrovolante Savoia Marchetti, della Croce Rossa,all’interno del porto. Mi trovavo sul molo assieme ad altri amici e stavo osservando la manovrad'ammaraggio dell'aereo che era già a pelo d'acqua, quando improvvisamente, unpiccolo peschereccio, sbucato fuori tra due navi ancorate al molo, non accorgendosi della manovra in corso, gli tagliò la strada.Il pilota resosi conto all'ultimo momento della presenza dell'ostacolo,richiamò disperatamente a se la cloche, dando gas ai motori, che rombandospasmodicamente tentavano di far riprendere quota all'aereo, ma questo, in fasedi stallo, si piegò sul fianco destro e scivolò d'ala verso l'acqua, in cuicominciò ad immergersi. Furono attimi di sgomento e di terrore per tutti noi. Immediatamente iniziaronoi soccorsi e così furono portati in salvo alcune persone. Altre purtroppoperirono, annegate.

ATripoli, intanto il tempo passava e i bollettini di guerra con le notizie dallaCirenaica erano sempre più preoccupanti.Tobruk, lanostra roccaforte, il 22 gennaio 1941, era stata occupata, e il GeneraleGraziani succeduto ad Italo Balbo, ordinò la ritirata dei nostri militari datutta la Cirenaica , chiedendo l'aiuto dei tedeschi che avrebbero inviato in Libia il famosoGenerale Rommel con la " Deutsches Afrika Korp" forte dei suoi carriarmati pesanti, Tigre e delle squadriglie di aerei Stukas !.Laguerra si avvicinava inesorabilmente a Tripoli e così, cominciammo a meditareche era più opportuno espatriare definitivamente dalla Libia, ma purtroppoquesto proposito non era facile realizzarlo. I servizi di linea dell'AlaLittoria, la progenitrice dell'Alitalia d’oggi, erano insufficienti e cosìcercammo disperatamente altri mezzi di fortuna.Finalmente apiccoli gruppi, chi su navi da trasporto militari, chi in aereo, riuscimmo arientrare in Patria. Mia sorella Sina con il figlio Angelo e la domesticaGraziella, partirono in aereo il 10 febbraio del ‘41. Mia madre e mio padre,in idrovolante, con le mie sorelle, Rosa ed Agata per Marsala.Algruppo formato da me, da mio zio Filippo Giudice e moglie, dal fratello di MariaBurrafato, Pinuzzo Giudice e dalla famiglia di mio zio Salvatore al completo,toccò in sorte la motonave "Conte Rosso", che una sera di pleniluniopartì da Tripoli, verso l'Italia, assieme alla nave Conte Verde ed altre naviancora, cariche di profughi, scortate da mezzi navali della marina militare.Ci sistemammoalla meglio, sdraiati sul pavimento, coprendoci con le poche cose chec’eravamo portate appreso. Temevamo di essere attaccati dal nemico e nondormimmo molto la notte, anche per il freddo. Ma per fortuna non avvenne nulla.

Ilgiorno dopo, scrutavamo il cielo in apprensione, confortati dalla presenza aifianchi del convoglio, dei mezzi navali veloci che ci scortavano e degli aereiche volteggiavano sulle nostre teste. Infatti, durante il viaggio successivo diritorno, la nave Conte Verde, venne affondata dagli aerosiluranti inglesi contutto il suo carico di guerra.Il 02 Marzo1941, arrivammo finalmente a Napoli, stanchi,sporchi, ma salvi!.

Così,iniziava la mia vita in Patria, da profugo, prima a Ferla sino al 04 aprile1941, (quando improvvisamente morì mio zio Diego), poi a Vittoria sino al 1946e quindi ad Agira, dove ero nato, il 20.01.1927. Ho tentato di ritornare a Bengasi, e nel 1969, c'ero quasi riuscito. Avevamopreparato i passaporti, per raggiungere da turisti mio cognato Giovanni, che pernostalgia e per opportunità era rientrato a Tripoli con la moglie e i figli:Diego, Angelo e Graziella che intanto era nata a Vittoria. Ma per mia sfortuna,(o fortuna) non siamo riusciti a partire perché il 1 Settembre del 1969 ci fuil “colpo di stato” del ColonnelloGheddafi e il cambio di governo in Libia. Dal 1969, sono passati altriventicinque anni e il sogno di rivedere Bengasi, che ritengo sia vivo in tuttigli "Italiani di Libia" non si è ancora realizzato, e chissà se sirealizzerà mai, almeno, per quelli della mia età! Mi auguro soltanto che un domani possano aprirsi le frontiere, almeno,per i nostri figli, affinché questi, visitando e conoscendo la Libia , possano comprendere il sentimento e l’amore che abbiamo avuto noi anziani,verso quella terra che abbiamo amato tanto. Oggi vivo a Palermo, con la famiglia, nonno felice e "priatu"(soddisfatto) di due splendidi nipotini, con la segreta speranza di potere ungiorno ritornare con loro a Bengasi, per rivedere ancora una volta i luoghilegati alla mia fanciullezza, felice e spensierata. Sono trascorsi da allora 54 anni.Però horivisto Bengasi!

Ed allora dico:arrivederci Bengasi!

AngeloNicosia

 

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L  I  B  Y  A

 

Dalla Guerra Italo - Turca (28.9.1911 ÷ 18.10.1912)

all’Indipendenza (24.12.1951)

(vista da un bengasinoitaliano: J.A.Musmarra,)

                                         

 

 

INTRODUZIONE

 

 

 “Durante gliultimi secoli, le imprese coloniali dei popoli europei furono numerose in tuttoil mondo: una nazione, approfittando della propria forza, invadeva le terre diun altro popolo più debole e s’impossessava dei loro averi, che saccheggiava.Nessuno metteva in dubbio tale stato di cose perché si trattava di qualcosa chetutti praticavano dalla notte dei tempi e tutti: colonizzatori e colonizzatiaccettavano o si rassegnavano a questa cruda realtà, come se fosse una fatalitàinevitabile, contestuale alla storia.

La scoperta e la conquista dell’America da parte deglieuropei introducono, però, un’importante variante.

Per la prima volta e per ragioni religiose, ilcolonizzatore interroga se stesso sulla correttezza dell’Impresacolonizzatrice e a seguito di forti dibattiti di Giuristi e Teologi si arma diragioni umane e divine per giustificare le sue conquiste. Da allora in poi esenza tralasciare, quello che sempre fu, vale a dire un atto di forza e dirapina, la colonizzazione si attribuisce un merito a se stessa, per una“Missione Evangelizzatrice e Civilizzatrice” verso i popoli: togliere dallostato che loro ritenevano animale, quelle genti che vivevano come selvaggi eumanizzarli, grazie al cristianesimo e alla cultura occidentale che li ispirava.

Affinché quest’obiettivo possa avere qualche apparenzadi realtà, è imprescindibile stabilire, come un fatto indiscutibile escientifico, che il colonizzato non abbia i conoscimenti e le luciindispensabili per giudicare da se stesso ciò che più gli convenga.datoche si tratta di un essere invalido e primitivo i cui interessi e convenienzesono meglio conosciute dalla potenza coloniale una forma di autoritá benevola..secondo me dovresti toglierlo!

 Eppure nel XIX° secolo, le varie imprese colonialieuropee, sia in Africa sia in Asia, quasi trascurano questo desiderio di giustificazionereligiosa e morale, e invadono e occupano numerosi territori che cominciano asfruttare immediatamente, senza altra spiegazione che la necessità diprovvedersi di materie prime.

 

“Quando Hitler, nel suo libro Mein Kampf, spiegache nel programma del Partito Nazional Socialista, figura in un postopreminente, l’acquisizione con le buone o con le cattive maniere, dellecolonie per istallare gli eccendenti demografici del popolo tedesco, non faaltro che scrivere su una carta ció che quasi tutte le grandi potenze europeestavano facendo, naturalmente senza dirlo con tanta chiarezza, dal secolo XV”,così scrisse Mario Vargas LLosa: Famoso scrittore di famainternazionale, analista e politico del Perù.)

       ( “La Nación.” 09/ENERO /2009. Buenos Aires )

 

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Con questa premessa moltoeloquente, e tenendo in conto che nella storia del colonialismo europeo erano inprima linea fondamentalmente: Francia ed Inghilterra, fino al XX° secolo,quello che scrisse Hitler era del tutto conseguente con le politiche ormai più che utilizzate dai “Signori della Democrazia e della Libertà” inEuropa.

Questo è il contesto, su comesi deve analizzare oggi, l’occupazione da parte dell’ Italia della Cirenaica e della Tripolitania, nel 1911.Occupazione, è bene dirlo, che è stata compiuta con il tacito consenso dellemaggiori potenze europee, dell’epoca poiché queste terre erano già coloniedel vasto Impero Ottomano.

E’ quindi allo scopo di essereil più imparziale possibile, è opportuno regredire nel tempo e analizzare ifatti e i metodi usati, secondo le mentalità imperanti allora, non oggi.

Se non si analizzasse in questomodo e criticassimo i fatti di altre epoche con la mentalità moderna, sicadrebbe in un gravissimo errore e tutto sarebbe considerato assurdo.

Così, come fu nel passato, iturchi occuparono immensi territori.

E poi dopo gli arabi, ifrancesi, gli inglesi, i portoghesi, gli olandesi, i belgi, ecc, tutti feceroesattamente, la stessa cosa! 

I “casus belli”giustificativi per queste occupazioni, in sostanza furono sempre create dagliinvasori. Sia nel passato e sia nel recente presente: Nessuno invita gliinvasori!!!

Però, come non giustificarel’Italia ad avere pure lei le Colonie, se averle in quell’epoca eraun’aspirazione di qualsiasi nazione e sopratutto quando nel proprio territorionazionale c’era troppa gente e mancava la terra su cui lavorare, ragion percui, entrava in funzione automaticamente, la valvola di sfogo chiamata:Emigrazione all’Estero.,

Naturalmente era più facile“occupare” un territorio straniero e farlo diventare nazionale. Sirisolvevano così i problemi interni dei paesi super popolati.

  Questo era in fondo il “colonialismo”. Un braccio allungato delterritorio nazionale!!!

DopotuttolaCirenaica elaTripolitania, cioè l’attuale Libia, erano state quasi abbandonatedall’Amministrazione turca, tanto che i loro territori nell’enormeestensione avevano pochissimi abitanti che vivevano in uno stato prevalentementetribale, e inoltre, poiché erano tanto vicini all’Italia, rappresentavano unavera occasione per fare pure noi ciò, che avevano già fatto le altre potenzeeuropee: stendere un braccio e. colonizzarle!!.

Se l’Italia, non avesseoccupatola Libia, questa, sarebbe stata sicuramente occupata dalla Francia per ingrandire le suecolonie in Africa: Tunisia e Algeria oppure dall’Inghilterra: Egitto e Sudan.

 Peri turchi inoltre quella “Cassa di sabbia” (come volgarmente era chiamata),non era una Colonia importante, a dedurre da quanto poco là fecero nel lungo tempo in cui ci rimasero.

 Nondimentichiamoci inoltre che gli arabi, lasciarono parte delle loro terred’origine (Oriente occidentale) e occuparono fra l’altro tutto ciò che sitrovava sulla costa mediterranea dell’Africa: Egitto Cirenaica TripolitaniaTunisia Algeria Marocco ed inoltre attraversarono lo stretto di Gibilterra eoccuparono anchela Spagna,la Sicilia ecc. ecc. 

Chi li aveva invitati?  Nessuno!!!!

Cosicché “chi é senzapeccato, getti la prima pietra” si suol dire. Quindi fare i puritani oggiquando si ha un passato sporco, come minimo fa sorridere.

Per questo motivo condannareoggi l’Italia come nazione imperialista in senso dispregiativo noncorrisponde, sarebbe solo un assurdo storico, infatti, non esiste in Europa onel mondo, un paese che non lo sia stato prima dell’Italia.

 

Gli arabi che oggi nascono ecrescono in Libia, sono pure loro figli o discendenti di altri popoli invasoried, in questo caso dei loro progenitori, di etnia araba.

Apparentementetutte le differenti origini degli abitanti dellaLibia sembrano essersi ridotti in due grandi gruppi: quelli delleZoneinterne e quelli delleZone costiere, cosa questa che lo stesso OmarAl Muktar affermò e per cui disse che a quest’ultimi (quelli delle “cittàe zone costiere”) “ li odiava “, stante che lui era un Beduinodell’interno. (Leggere a tal proposito il “Giudizio a Omar al Muktar”).(Google/Omar al Muktar/Wikipedia: The FreeEncyclopedia,/ External links,/ Secrete proceedings in the Benghazi Trial.)

 

 

RESISTENZA DEIBEDUINI

 

La gran resistenza deibeduini(GENTEDELL’INTERNO) contro gli occupanti italiani,fu secondo me, un’ostilità sbagliata, completamente errata, perchéfondamentalmente di carattere “religioso” cosí come lo stesso massimooppositore: Omar al Muktar ripetette varie volte di fronte al Tribunale che logiudicò.

Fu una battaglia cruenta e unalunga guerra fatta d’imboscate, torture ecc. perché i beduini, e non gliarabi, consideravano gli italiani come se fossero nemici dell’Islamismo,percependoli come nuovi crociati, ragion per cui ci dichiararono perfino “la Guerra Santa

 

Di indipendenza non si parlòmai, né v’erano aspirazioni nazionaliste in quell’epoca a parte di unpossibile Emirato a Giarabub.

 Igrandi movimenti nazionalisti e di indipendenza sopra tutto in Africa enell’Oriente occidentale, sorsero dopola Seconda Guerra Mondiale e nel caso della Libia, l’Indipendenza fu data dalla ONU, di frontealla possibilità di restituirela Tripolitania all’Italia (proposta americana) e rendere indipendentela Cirenaica (proposta inglese).

E tutto ciò fu per non dividerein duela Libia.

Non fu per eventuali lotteindipendentiste contro la dominazione militare inglese.

Perfino quando il Magreb,influenzato da Nasser, cominciò con i movimenti rivoluzionari per ottenerel’Indipendenza incitando il suo popolo a lottare contro i Francesi (TunisiaAlgeria.) contro gli Spagnoli (Marrocco) ecc. ecc, in Libia e con sorpresa,esisteva una tranquillità incomprensibile, neanche allora si parlava diIndipendenza. Né gli inglesi inCirenaica, né i francesi nella Tripolitania ebbero problemi con i nativi.

Fu l’ONU che si oppose, a chela Libia fosse divisa in due parti, cosa che mi sembrò ben fatta.

Però torniamo indietro, aglianni appena posteriori al 1911-12.                  Evidentemente i beduini, mali informati “ad hoc” dai turchi,credettero che gli italiani andavano in Cirenaica e Tripolitania come nuovi“Crociati”.

Fu l’Italia che attribuì ilnome: LIBIA alle due regioni congiunte di Cirenaica e Tripolitania, (che era,infatti, l’antica denominazione romana) e pure fu l’Italia che inoltre definìesattamente le sue frontiere, che ancora oggi sono vigenti e che prima nonesistevano!

L’opposizione beduina control’Italia fu, ripeto, sbagliata nel suo fondamento.La Chiesa non aveva nulla a che vedere con quell’occupazione, sebbene le brillasserogli occhi facendo speculazioni sul futuro.

Le truppe italiane sbarcate aTripoli non erano truppe VATICANE, ma ITALIANE.

 

 

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PERCHE L’ITALIA TOLSE AI TURCHI LA “LIBIA” ?

 

Quest’innocente domandina è mal formulata, infattidovrebbe dirsi: Perché l’Italia occupò le “COLONIE” turche: Cirenaicae Tripolitania dato che, ripeto,fu l’Italia ad unificarle e a chiamarle “LIBIA”.

In questo caso vi saranno varie risposte, apparentementetutte “logiche”.

Parlando di Libia ci stiamo riferendo a queste regionisenza frontiere definite fra Tunisia ed Egitto che facevano parte dell’exImpero Ottomano. (Turchia)

Quella chiamata guerra Italo-Turca, fu per problemi fraTurchia e Italia. Non vi fu una guerra contro i “libici”, ma contro i“turchi”. Inoltre i turchi in Libia, erano tanto invasori quanto, dopo, losaranno gli italiani che li cacciarono via da questa “Cassa di sabbia”.

 

Per questo, finita la guerra (1912), il Trattato di Pacesi firmó fra Turchia e Italia; giacchèla LIBIA, come Paese o Colonia, non esisteva!I natividella Cirenaica e della Tripolitania generalmente di origine “araba” avevanopure contrastato, prima, e continuamente, contro i turchi, i quali mediante lapena di morte per decapitazione o la forca risolvevano questi problemi coinativi, cosa questa che d’altra parte era abbastanza comune persino in tutti ipaesi auto-denominati “civilizzati” e fondamentalmente nei domini turchi.

In Cirenaica e Tripolitania succedeva lo stesso, laseverità dei turchi aveva originato un clima di repulsione agli stessi moltomarcato e il beduino Omar Al Muktar aveva lottato pure contro di loro.

Però, non per ottenere un’Indipendenza, dal punto divista nazionalista, ma per il modo di trattare dei turchi verso gli indigeni.

Intorno al “Castello Turco” di Tripoli era comunevedere sovente, al mattino, sopra dei pali teste di libici decapitati dallasuperficiale giustizia ottomana.

Per tal motivo vi era in Italia una credenza generalizzatache i libici avrebbero ricevuto gli italiani come liberatori di questoinsopportabile giogo.

Si diceva persino che i libici li avrebbero ricevuti conrossi tappeti stesi ai loro piedi. Era evidente che queste informazioniprovenivano dagli arabi delle città costiere, già familiarizzati con gliitaliani, per i loro continui contatti commerciali e pescherecci.

 

Eppure è opportuno riconoscere che fra i libici vi erauna parte che appoggiava i turchi, (i beduini) infatti, fra essere una coloniadi un paese musulmano o di un paese “infedele”, sceglievano di rimanerecoloni d’un paese musulmano, soprattutto, coloro che erano fondamentalistifanatici o appartenevano a qualche setta religiosa: in particolare i“Senussiti” dell’interno!

Questi si trovavano nella posizione che diceva che: erameglio un cattivo conosciuto che un buono da conoscere.

Fu così che i senussiti, (Setta religiosaultraconservatrice) logicamente appoggiati fortemente dai turchi, che giàavevano quasi promesso al Gran Senusso Mohamed Idriss ( il cui nonno avevafondato la “Confraternitá religiosasenussita” a Giarabub) la possibile creazione di un Emirato o uno statosenussita, nella stessa Oasi di Giarabub, si trasformaron in grandi nemici degliitaliani

 

Il Capo operativo di questa setta fuOmar Al Muktar, maestro nell’insegnamento del Corano,oriundo di Janzour (paesello all’Est della Cirenaica da non confondere conl’altro Janzour, vicino a Tripoli, citta’ molto famosa e con molta storia) epertanto beduino cirenaico e rappresentante di Idriss.

I turchi con i nativi solo avevano in comune una cosa:la Religione.

In questo caso e contrariamente a quanto si supponeva,l’unità religiosa fra turchi e beduini di Giarabub pesò molto di più che ledifferenti origini di etnie, razze, abitudini ecc. ecc, pur non avendo neancheun minimo passato remoto comune comparabile agli infiniti vincoli di questaTerra con Roma, alla quale, nella sua epoca, le apportò un Imperatore:SeptimiusSeverus,nato a Leptis Magna,oltrea varie legioni “libiche” in Europa. 

 

Inoltre, i pochi chilometri di mare che la separavanodall’Italia (meno di 500), sono molto eloquenti ed incontrastabili, così comelo erano i ripetuti contatti e le relazioni fra le due sponde durante secoli esecoli.

E per completare, sapendo che da sempre, poco ha influitonelle relazioni fra i paesi una comune religione, l’Italia, era completamentesicura chela Libia non avrebbe avuto una possibile reazione locale di carattere religioso

L’esempio più chiaro l’ha dato sempre la stessaEuropa che, avendo in sostanza una stessa religione:la Cristiana, é stata continuamente campo d’interminabili guerre e battaglie fra i suoipaesi.

Cosa che d’altra parte é successo e succede pure nelmondo islamico fra Sciiti e Sunniti ecc ecc.

 

Però nel caso della Libia questa differenza di religione,intelligentemente manipolata dai turchi, pesò e molto, a dedurlo da come furonoaccolti gli italiani, dai nativi “arabi” o “arabo-parlanti”.

E’ chiaro che dicendo “arabo-parlanti”s’includono i berberi delle oasi, i beduini, e le popolazioni delle tribùdell’interno sempre più primitive e più scontrose od intrattabili, moltodifferenti da quelli delle zone costiere o marittime, come logica conseguenzadiretta del contatto umano continuo con gente dell’estero, con la quale sonopiù familiarizzati e per questo motivo più trattabili

 

Analizzare i motivi della Guerra Italo Turca dopo quasi100 anni non sarà necessario, dato che il lettore interessato al caso ha a suadisposizione una bibliografia copiosa, eccellente ed amplia, sul tema.

Quello che è sicuro è che il Regno d’Italia, si trovòindotto in quest’avventura coloniale e quasi spinto ad essa, contandoanticipatamente sull’appoggio di Francia, Inghilterra, Germania, Russia epersino della Chiesa romana ecc, dato che la presenza di una colonia turca inquesta posizione strategica sul Mediterraneo, era per lo meno poco comoda.

L’apertura del Canale di Suez aveva valorizzatoenormemente la posizione strategica mediterranea della Libia.

Peró, agli inglesi non piaceva l’idea di avere unafrontiera in comune conla Francia e lo stesso, dicasi, per i francesi nei riguardi degli inglesi.

Per questo motivo la soluzione chela Libia fosse italiana era gradita a queste due potenti nazioni. Un sandwich perfettocom’è stato per l’Uruguay fra il Brasile e l’Argentina.

Inoltre era conosciuto il malessere dei libici delle città,per gli abusi dei turchi e, la guerriglia contro loro, era di dominio pubblico.

 

Tutto ciò convinse l’Italia ad attraversare ilMediterraneo aprendo così una fonte di lavoro per gli italiani per frenare, inquesto modo, l’emigrazione degli stessi, verso le due Americhe.

 

All’inizio dell’ostilità fra Turchia e Italia, iberberi, beduini ecc. dell’interno dimenticarono la loro opposizione verso iturchi, anzi al contrario, si unirono a questi creando così una lotta armata diguerriglia, fatta di attentati, assassinii, torture e mutilazioni, versoqualsiasi italiano, sia civile o militare, che fosse capitato nelle loro mani.

Non vi furono “prigionieri italiani” nella guerra del1911, perché dopo averli presi, venivano torturavano e poi li ammazzavanotutti!!!

Poco dopo sbarcati, gli italiani come ho giàdetto, si trovarono in un ambiente inaspettatamente ostile e molto benmanipolato dai turchi, adesso amicidei nativi.

Gli arabi delle città furono minacciati esottomessi dai beduini e persino dovettero pagare loro “tributi”.

E la guerra, che avrebbe dovuto esser breve erelativamente facile, costò, prima che si trasformasse in una vera “Pace”:venti anni di lotte e migliaia di morti fra i due contendenti.

La guerra conla Turchia finì presto: il 18 Ottobre 1912. Però la guerriglia armatacomandata dal beduinoOmarAlMuktar della tribù Mnifa,nato a Janzour nel 1862 (un Villaggio nel Gebel cirenaico), capo dei senussiti emolto vicino al pretendente ad un possibile trono:Sidi Mohamed Idriss Al Mahdi Al Senussi (residente permanente inTurchia ), durò circa 20 anni, e terminò solo con la sua morte, nel 1931).

 

Per conoscere meglio ció che successe dopo iquindici giorni dello sbarco degli italiani a Tripoli, in Sciara Sciat, nel 1911é meglio leggere testualmente ció che v’é nelladocumentata “STORIA d’ITALIA”,

 

www.cronologia.leonardo.ite soffermarsi all’anno 1911.

 

 

“Il 26 novembre 1911, sotto la direzione delgenerale CANEVA e al comando del generale De Chaurandla IIIa divisione l'11° bersaglieri, due squadroni di cavalleria e parecchiaartiglieria si spinsero avanti per rioccupare le posizioni che in seguito allabattaglia di un mese prima erano state abbandonate. Tutti gli obiettivi furonoraggiunti nonostante la tenace resistenza del nemico che lasciò nelle maniitaliane dieci cannoni e 400 feriti prigionieri e sul campo numerosi morti. Sicalcola che i turchi e gli arabi abbiano avuto circa 3000 uomini fuoricombattimento; gli Italiani 16 morti e 109 feriti.

Nella moschea e nel villaggio diHenni e nelcimitero diChui gli italiani poterono costatare l'inaudita ferocia delnemico e i corrispondenti esteri guardando i soldati barbaramente mutilati nellegiornate del 23 e 26 ottobre denunziarono al mondo civile le barbarie degliarabi e dei turchi della cui sorte esso si era fino allora preoccupato elagnato.

Uno di questi corrispondenti, quello del “Journal",così scriveva: "Ho visto in una sola moschea diciassette italianicrocefissi con i corpi ridotti allo stato di cenci sanguinolenti e informi; ma icui volti serbano ancora le tracce di un'infernale agonia. Si è passata per ilcollo di questi disgraziati una lunga canna e le braccia riposano su questacanna. Sono stati poi inchiodati al muro e morirono a fuoco lento fra sofferenzeinenarrabili. Dipingervi il quadro orrendo di queste carni decomposte chependono pietosamente sulla muraglia insanguinata, è impossibile. In un angoloun altro corpo è crocefisso ma siccome era quello di un ufficiale si sonoraffinate le sue sofferenze. Gli si cucirono gli occhi. Tutti i cadaveri beninteso erano mutilati evirati in modo indescrivibile e i corpi apparivano gonfiecome informe carogne. Ma non è tutto! Nel cimitero di Chui che serviva dirifugio ai turchi e donde tiravano da lontano potemmo vedere un altrospettacolo. Sotto la porta stessa di fronte alle trincee italiane cinque soldatierano stati sepolti fino alle spalle; le teste emergevano dalla sabbia nera delloro sangue: teste orribili avedersi; vi sileggevano tutte le torture della fame e della sete. Devo ancora parlarvi ditutti gli altri orrori, devo descrivere tutti quegli altri corpi che sono statitrovati sparsi nei palmeti fra i cadaveri degli indigeni? Lo spettacolo èindescrivibile. È un calvario spaventoso del quale ho seguito le fasi con lelacrime agli occhi, pieno d'immensa pietà pensando alle madri di queidisgraziati figliuoli".

E GASTONE LEROUG, corrispondente delMatinscrisse:I piccoli bersaglieri caduti il 23 ottobre non morirono solamenteda eroi ma anche da martiri. Non trovo parole adatte per esprimere l'orroreprovato oggi quando in un cimitero abbandonato abbiamo scoperto questi miseriavanzi. Nel villaggio di Henni e nel cimitero arabo era stato operato un veromacello: degli ottanta infelici fatti prigionieri i cui cadaveri si trovavano lìè certo che almeno la metà erano caduti vivi nelle mani degli arabi e chetutti sono stati portati in questo luogo cintato da mura dove gli arabi erano alriparo dal piombo italiano. Allora è avvenuta la più terribile e ignobilecarneficina che si possa immaginare. Si sono loro tagliati i piedi, strappate lemani, evirati e poi sono stati crocefissi. Un bersagliere ha la bocca squarciatafino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli tratti, un terzo hainfine le palpebre cucite con lo spago da sacco. Quando si pensi che due oreprima di cadere questi eroi avevano diviso amichevolmente il rancio con gliarabi che dovevano torturarli, non si può non provare un indicibile senso distupore e di orrore.”

 

Fonticitazioni e testi

Prof. PAOLO GIUDICI - Storiad'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
ALBERTO CONSIGLIO - V.E. III il Re silenzioso. (8 puntate su Oggi 1950)
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano
MACK SMITH Storia del Mondo Moderno - Storia Cambridge X vol.
MONDADORI . Le grandi famiglie d'Europa - I Savoia. 1972
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1990 -De Agostini
+ALTRI TESTI VARI, DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

 

Nella battaglia diSciara Sciat participó pure il

Regg. XXI° d’Artiglieria italiano.

Questo Reggimento fu negli anni ‘30trasferito a Bengasi, alla Berca (Fuheiat) e participerá nel 1941 allaconquista di Sidi El Barrani e Marsa Matruk (Egitto), agli ordini del GenMaletti.

In questo Regg.to Il Primo “Gruppo” difuoco era comandato dal Serg. Carmelo.A.Musmarra, (mio fratello)

 

 

 

 

L’inizio di tale guerriglia e la marcata repressioneitaliana si possono far coincidere con il molto deplorabile genocidio di SciaraSciat, realizzato dai turchi e dai beduini, con i quasi ottanta prigionieriitaliani catturati nella battaglia omonima, che, nella sua prima fase, fufavorevole ai turchi beduini e dopo immediatamente agli italiani.

 

Come risposta aquanto successo a Sciara Sciat, dopo pochi giorni arrivò in Libia unasquadriglia di aerei seguita poi da dirigibili.

 Il giorno 1Novembre del 1911 fu eseguito il primo bombardamento aereo nella storiadell’umanità con un aereo BLERIOT guidato del Tenente GIULIO GAVOTTI chegettava con la mano, dalla cabina di volo, bombe di2 Kg. sulla cavalleria turca e beduina e fu cosí grande il caos ed il panico nelquale caddero i turco-beduini di fronte a questa “nuova arma” sconosciuta,che gli arabi si dispersero per trovare rifugio nelle oasi dove proteggersi.

La prima conseguenza di Sciara Sciat non si feceaspettare.

 

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1911

 

Dalle costatazionisul genocidio di Sciara Sciat ed al vedersi di fronte a orde selvagge primitive,gli italiani dovettero necessariamente adottare misure di sicurezza e dicontrollo, estremamente severe per mantenere l’ordine interno.

 

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1912

 

Qualsiasi beduino che fosse stato trovato armato nelle sueOasi, case o qualsiasi altro posto, sarebbe stato giudicato dalla Giustiziamilitare con la pena di morte, mediante la forca.

Le misure furono esemplari e includevano anche icollaboratori dei beduini, fossero familiari o amici.

I ribelli che avessero commesso reati minori, furonoinviati nelle Isole Tremiti o all’isola di Ustica, in Italia, posti questidove furono sempre confinati gli oppositori politici romani, italiani, ecc

Nel1911furono confinati alle Tremiti, circa milletrecentolibici,che si opponevano all'occupazione coloniale italiana.

A distanza di un anno, circa un terzo diquesti erano già morti.

L'arcipelago però continuò a svolgere la sua funzione diconfino anche per gli italiani, ospitando tra l'altro anche il futuroPresidentedella RepubblicaSandroPertini eAmerigoDumini. Nel1932l'arcipelago divenne comune autonomo, con la denominazione diComune di IsoleTremiti. Oggi è un posto per il Turismo Internazionale.

 

Solamente così si riuscì parzialmente a mantenere unpoco di sicurezza, non solo per i militari, ma anche per i civili italiani,stranieri ed arabi delle città, tanto più perché, nel Maggio del 1914,l’Italia entrò in guerra contro l’Austria ed i problemi libici passarono insecondo piano, mantenendosi colà, solo piccole guarnigioni militari, nellepostazioni costiere strategiche.

 

TERMINA LA 1° GUERRA MONDIALE

 

Solo una volta finitala Guerra con l’Austria (4.Nov.1919), l’Italia cominciò a preoccuparsi ed occuparsidella Libia. Durante tutti questi anni i beduini, in sostanza, spadroneggiavanonei territori all’interno e sotto il comando diOmar Al Muktar, commettevano continuamente assalti criminosi,strazianti torture, incendi e sabotaggi frenando moltissimo le costruzioni distrade, istallazioni elettriche, costruzioni civili e potuarie, case ecc.

Mi preme raccontavi adesso, un episodio familiare,capitatoci in quel tempo: Il marito di una mia cugina che, dopo aver aperto unnegozio di moda femminile in Via Torino a Bengasi chiamato “Città diFirenze”, mentre con la sua impresa costruiva la strada da Bengasi a Benina,fu sorpreso assieme ad altri lavoratori, dai ribelli beduini e fu torturato educciso. Lo distesero al suolo e dopo avergli buttato sopra la pancia della bracedi carbone, gli fecero bollire addosso, il loro te, usandolo come un fornelloumano.

 

Terminatala Prima Guerra Mondiale, l’Italia per qualche tempo si dedicò a risolvere i suoi problemiinterni, economici, sociali, politici ecc. per poi occuparsi della Libia e dellasua tranquillità interna.

Vi furono vari cambi di Governatori, i quali cercarono diarrivare ad un accordo coi senussiti cirenaici e finalmente si firmò un atto molto importante:

“IlTrattato di Regima”, che in praticanon servì a nulla poiché i beduini non lo rispettarono mai. Ebbero concesso un’amministrazione autonoma, sempre sotto sovranitàitaliana, delle quattro più importanti oasi dell’interno:Giarabub,Cufra, Augila, Gialo ed una bandiera propria regionale, (tutta verde, ilcolore che simbolizzala Religione Islamica), che loro potevano usare sempre accompagnata da quella italiana, (cosa che nonfecero mai).

 

 

TRATTATO DI REGIMA.

 

Il testo dell'accordo con Mohammed Idris era statopredisposto il 21 ottobre 1920. Il giorno successivo, Sforza inviava il seguentetelegramma a Imperiali (Ambasciatore italiano a Londra)

«RegioGoverno è venuto a un'intesa colSaiedIdrisel-Senussi per perfezionare in rapporto con la situazione presentedella Cirenaica il noto modus vivendi conSaied Idris stesso, rimanendo ben inteso nei limiti dell'accordosegreto del 31 luglio 1916 concluso fra Italia ed Inghilterra. Restando appuntonei detti limiti il Governo per propria delegazione, affida alSaiedIdris l'amministrazione autonoma di alcune oasi dell'interno, in modo e formache resti chiaramente integra ora e sempre la sovranità dell'Italia su tuttala Cirenaica così come è internazionalmente stabilita».      (Sforza aImperiali Roma 23 ottobre 1920 h. 24.00 ibidem)

Il25 ottobre1920 l'Accordo era firmato aRegima,località da cui prendeva il nome. L'Ambasciatore italiano a Parigi, BoninLongare, inviava il 26 ottobre al Ministro degli Esteri francese, Pichon, unAide-Mémoire informandolo che: «Le Gouvernement Italien [...] a confié àSaid Idris l'Administration autonome de quelques oasis de l'intérieur dans desconditions dont il résulte clairement au présent et à l'avenir que lasouveraineté de l'Italie sur toutela Cyrenaïque demeure telle qu'elle est établie par les actes internationaux en vigueur».(Aide-Mémoiredi Bonin Longare a Pichon Parigi 26 ottobre 1920 ibidem)

Isenussiti firmarono l’accordo di Regima, peró dopo non lo rispettarono inassoluto ed allora, la situazionemutava negli anni successivi in seguito al sorgere di difficoltà con il Senusso,circa l'attuazione dell'Accordo di Regima. Il 29 aprile 1923, infine il Ministrod'Italia al Cairo Aldrovandi Marescotti, inviava al nuovo Ministro delleColonie, Federzoni il seguente telegramma:

“Ho inviato al Senusso seguentecomunicazione: "All'Emiro Saied Mohamed Idris el Senussi. Heliopolis. Hol'onore di comunicarvi che il Governo italiano ha dovuto prendere inconsiderazione la sistematica violazione da parte vostra degli accordi giàintervenuti tra il Governo italiano e voi. Tale violazione è giunta al puntoche voi avete stretto segreta intesa con i ribelli della Tripolitania ed aveteusurpato la sovranità italiana in entrambe le Colonie libiche accettandoemirato su di esse. Debbo pertanto dichiararvi d'ordine del mio Governo che ilGoverno del Re denunzia gli accordi intervenuti tra il Governo italiano e voi.Firmato: Aldrovandi, Inviato Straordinario e Ministro Plenipo-tenziario di SuaMaestà il Re d'Italia."».(Aldrovandi Marescotti a Federzoni Il Cairo29 aprile 1923 h. 11.00 ASE P 1919-30 1397)”

Tuttaquesta corrispondenza ha solo lo scopo di dimostrare che l’Italia offrí aisennussiti, varie opportunità, accordi, e concessioni, mai rispettati poi daloro.

In vista dell’inutilità di fare accordi con loro,l’Italia finalmente mandò come Governatore della Libia il Generale RodolfoGraziani il quale riuscì ad isolare i senussiti tagliando loro ogni possibilitàdi ricevere continuamente rifornimenti ed armi dalla frontiera, primainesistente, con l’Egitto. Egli evidenziò la frontiera dal mare mediterraneo,fino a Giarabub con del filo spinato e fece pattugliare con gli aerei talefrontiera per evitare il passaggio di carovane con merci di contrabbando,cammelli, armi, e munizioni oltre a uomini peri senussiti.

Santa medicina!! Isenussiti rimasero isolati e i loro assalti si ridussero drasticamente.

La lotta frontale contro i ribelli senussiti non poteva piùevitarsi.

 

 

FINISCE FINALMENTELA GUERRIGLIA SENUSSITA

 

Con Graziani e la sua strategia, i ribelli dovetteroridurre le loro attività ad assalti sporadici e meno frequenti però non perquesto meno mortali, finché il giorno 11 settembre1931 in una battaglia vicino all’oasi di ZONTA, i ribelli con Omar Al Muktar in testa ( 73 anni d’etá) furono sconfitti e questi fu catturato,ferito ad una spalla.

Uno Zaptie, (carabiniere indigeno, aggregato alle truppeitaliane) lo riconobbe Omart Al Muktar fra i prigionieri beduini catturati, e lo indicó all’ufficiale italiano.

 

 

IL PROCESSO DI OMAR AL MUKTAR

 

Durante il processo, Omar AlMuktar disse al Giudice che lo interrogava:

“GLI ABITANTI DELLE CITTA’, MI ODIANO, PERCHE’ IO PORTO LORO MALA SORTEED IO POI, LI ODIO, PERCHE’ LORO NON AIUTANOLA CAUSA DELLA LORO RELIGIONE, PERLA QUALE SOLAMENTE IO, LOTTO.”

 “IOED I MIEI UOMINI, SIAMO DECISI A MORIRE PERLA NOSTRA RELIGIONE.”

 “IONON MI PENTO DI CIO’ CHE ABBIA FATTO, PERCHE’ QUESTA È STATALA VOLONTA’ DI DIO.”

Il Giudice, rispose a Omar AlMuktar: Lei ha detto: “DIO MI HA ABBANDONATO“. E seLUI non lo salvò, adesso èla Giustizia umana che lo giudica.”

 

E’ evidente che per Omar AlMuktar, gli italiani erano gli “infedeli” per eccellenza. Lui lottò per una“Causa religiosa”, non per altri motivi politici o sociali.  

Lui era un ferventefondamentalista religioso islamico e maestro nella diffusione del Corano evedeva in ogni soldato italiano un Crociato, un avversario della religioneislamica e questo, secondo me, fu un fatale errore.

Egli non lottò perl’Indipendenza della Cirenaica o della Tripolitania ma affinché l’Islamismonon scomparisse da queste regioni, cosa questa che l’Italia né pensò néavrebbe potuto pensarlo, in nessun momento.

 

Tutto era lontano daquello che avvenne il 18.03.1937 quando gli ULAMA, riuniti a Gerusalemme assiemead altri islamici, decisero di donare a Benito Mussolini, a Tripoli, una“Spada dell’Islam”, proclamandoloinoltre “Difensore dell’Islam” e dicendogli le seguenti parole:

 “Vibranoaccanto ai nostri, in questo momento, gli animi dei musulmani di tutte le spondedel Mediterraneo, che pieni di ammirazione e speranza vedono in te, il grandeuomo di Stato che guida con le mani ferme il nostro destino.”

Questo cambio radicale diopinione posteriore, dimostra quanto si erano sbagliati i beduini e comel’Italia non era antislamica .

Errare humanum est!

Quando Omar fu processato, molto coraggiosamente, confermòi suoi crimini e la sua responsabilità nei massacri, tutti fatti per difenderela religione islamica.

E le sue ultime parole, con il Corano in mano, furono:

 

“Da Dio veniamo e a Dio torniamo”

 

Omar Al Muktar fu impiccato il 16 di Settembre 1931all’alba.

 

 

Ad essa assistette, tra gli altri, una mia zia che avevauna panetteria nella Piazza principale di Soluck: Pasqualina Valastro, nata adAlessandria d’Egitto.

Un’immediata e molto anelata Pace seguirono dopo.

 

Un’epoca di fraternità si sparse per tuttala Libia fra italiani ed arabi e nei seguenti nove anni di Pace gli italiani feceronotevoli costruzioni civili e monumentali:la Litoranea, una strada asfaltata che univala Tunisia con l’Egitto (1300 km), il Monumento marmoreo ai Fratelli PHYLENI (Cartaginesi), aeroporti, scuole,costruzione di dozzine di moderni villaggi colonici adiacenti alla Litoranea,centrali elettriche, porti ed aeroporti, ferrovie locali e fu altresìpromulgata una importante legge per gli arabi residenti: quella detta in lingualocale del SUA’ SUA’ che significava: Uguaglianza fra libici ed italiani.

Inoltre, in quell’epoca, fu l’Italia che scoprì, ilPetrolio in Libia.

Non posso omettere di ricordare, forse perché é unanotizia a me più cara, dato che riguarda la mia professione di “IngegnerePetrolifero”, (specializzato in prospezione geofisica del Petrolio), che pocoprima della seconda guerra mondiale, l’allora Governatore della Libia,Maresciallo Italo Balbo, aveva mandato a chiamare il brillante Conte,Professore, Geologo italiano:ArditoDesio, per fare una prospezione geologica-geofisica ad Agedabia, in cerca diacqua (come spesso succede, così come e´ successo in Argentina il 13.12.1907)e lui in forma molto segreta, riuscì a perforare a più di 2.000 metri,(quando, le massime profonditá di perforazioni, ottenute nell’ epoca, neipaesi petroliferi, non arrivavano a 1.000 metri), estraendo campioni di sabbieimpregnate di insperatoPetrolio:(Corriere della Sera, 16/Gennaio/2000, pag21, terza pagina); e mio fratello,sottufficiale di Artiglieria del 21 Regg. a Bengasi, custodí un tempo, ilGiacimento acquifero-petrolifero.

 

Questo notevole sviluppo, fu sospeso solo nel 1940all’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Come conseguenza della perdita della Libia da partedell’Italia, essa rimase fino al 1951 come Protettorato inglese e francesesotto l’autorità dell’ONU

 

In seguito i libici, giá emancipati, potetteroriorganizzarsi e avere l’Indipendenza che fu concessa loro dall’ONU come“RegnoUnito di Libia” sotto l’egida diMohamedIdriss Al Senussi, unica autorità con precedenti storici condivisi con i nativi che avevano obbedito ad Omar Al Muktar: l’exbraccio armato della Senussia, dando così origine alla nascita del : 

 

 

 DEL REGNO UNITO DI LIBIA

24-dicembre-1951

 

 

Questo potrebbe, esser stato o non, il primo passostrategico per arrivare poi, eventualmente, a una moderna Repubblica.

 

 

Quanto segue posteriormente é quasi storia recente esorpassa i limiti da me proposti per questa breve rievocazionestorico-sentimentale, fatta da un italiano nato a Bengasi, che nutre per questacittà un amore analogo a quello del “Primo Amore” nella vita di qualsiasiessere umano.

 

 

BANDIERE SUCCESSIVELIBICHE

 

 


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