Rosetta Loy (1931 – 2022), scrittrice italiana.
Se vado indietro nel tempo e penso come la parola «ebreo» è entrata nella mia vita, mi vedo seduta su una seggiolina azzurra nella camera dei bambini. Una camera con una carta da parati a fiori di pesco scarabocchiata in più punti; è primavera inoltrata e la lunga finestra che dà sul balcone di pietra è spalancata. Posso guardare nell'appartamento al di là della strada dove dai vetri aperti le tede dondolano all'aria. In quella casa c'è una festa, si vedono le persone andare e venire. In quella casa da poco è nato un bambino, quella festa è per lui. «Un battesimo?» chiedo. No, mi dice la donna che è seduta accanto a me su un'altra seggiolina dove il suo corpo rimane avvolto come una palla, certo che no, ripete: lei è Annemarie, la mia Fräulein. Sono ebrei aggiunge accennando con il mento al di là della finestra, loro i bambini non li battezzano, li circoncidono. Ha detto «beschneiden» con una smorfia di disgusto.
Il Pidrèn
La casa la fece costruire il Gran Masten alla fine del Settecento quando divenne unparticulare, qualcuno che aveva terra di suo, buoi, mucche, galline e conigli, e tante moggia da avere bisogno di altre braccia. Aveva fretta e non si preoccupò troppo delle fondamenta anche se la casa con la sua facciata giallina rimase nel tempo ancorata alla terra, la lunga sequenza di stanze una appresso all'altra. Una costruzione a due piani più il granaio dalle finestre schiacciate a diretto contatto col tetto. Il viottolo di mattoni la collegava al viale che piegava giù verso il cancello mentre il fienile e le stalle si allungavano di fianco fino ad arrivare alla strada dove si apriva il grande portale di assi. Come si chiamasse quella strada allora era difficile saperlo; la casa era l'ultima del paese e quando in seguito ne venne costruita un'altra questa ebbe l'obbligo del muro cieco per la parte che affacciava sul giardino. Nessuno ha mai saputo il vero nome del Gran Masten perché i registri parrocchiali andarono bruciati durante la prima campagna napoleonica. Certo era uno che si era arricchito tra l'andare e venire dei soldati, con il foraggio per i cavalli e il grano nascosto e rivenduto tre volte tanto. Con il vino per far ubriacre francesi e austriaci, russi, bavaresi, alsaziani, durante quelle interminabili guerre che avevano colorato come un gioco di travasi la mappa dell'Europa centrale. Di lui si sa solo che lavorando dall'alba al tramonto, senza soste mai, in pochi anni raddoppiò le moggia di terra e che aveva gambe così lunghe da oltrepassare i fossi senza saltare. Prese moglie tardi e dei tanti figli venuti al mondo gliene restarono grandi soltanto due: Pietro e Giuseppe.
Si racconta che Luìs e Gavriel rimasti soli non parlassero mai. Sedevano di fronte al fuoco, vecchi e asciutti, chiusi in un cerchio invalicabile di silenzio. Il tramestio dei topi sempre più numerosi, il rumore della pioggia e dei tuoni o lo sbattere di una farfalla notturna ai vetri, annegavano al di là di quel silenzio senza superare mai il limite di guardia. Nemmeno il violino di Giai, se ancora avesse suonato, avrebbe potuto. Solo alla fine, quando la fiamma aveva bruciato l'ultimo pezzo di legno (meli che non producevano più frutti, rami secchi del noce e poi, in seguito, anche il pero davanti alla sala), Gavriel, il maggiore, si alzava: -Andumma a drommi, diceva. -Andumma, - rispondeva Luìs raddrizzando la sua gamba diventata pura cartilagine. E quelle parole, le uniche possibili, deflagravano nella casa e la percorrevano come un vento nell'oscurità delle stanze. Sollevavano la polvere dai mobili, e la casa intera scricchiolava come un vascello in rada.
Io sono morta tre volte. La prima è stata a cinque anni quando mi hanno addormentata col cloroformio per rimettere in ordine nella mia pancia.[1]
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