Romano Bilenchi (1909 – 1989), scrittore italiano.
Giovanni aveva quasi terminato di costruire la fabbrica, superando anche quanto si era prefisso di murare in quell'anno, secondo le sue possibilità. Avrebbe in seguito innalzato il palazzo in mezzo ai capannoni e ai magazzini e, perché il palazzo fosse grande e dominasse tutti gli altri edifici, aveva lasciato libero, nel posto più adatto, un vasto piazzale sterrato su cui aveva già fatto tracciare le fondamenta. Poi sarebbe andato ad abitare là con i suoi, tra le macchine, un po' fuori della città.
Quella sera però, fermatosi nel piazzale, al colmo del suo entusiasmo per il lavoro compiuto, si sentì a un tratto desolato. La sua felicità svaniva. Cercò, ma invano, la causa di quell'improvviso turbamento. Se dentro di sé inseguiva le possibilità di essere felice le riscopriva tutte: i capannoni per gli impianti delle macchine, i magazzini per riporre la merce sorgevano allineati, bianchi di fresca calcina con le finestre e le porte verdi, ai quattro lati del piazzale in mezzo a cui sarebbe nato il palazzo; una parte delle macchine era già alla stazione; e nonostante le grosse spese un buon libretto era ancora intatto alla banca. Quelli erano i mezzi per raggiungere altra felicità e altra agiatezza. Ma i muri bianchi e nuovi, cresciuti sotto i suoi occhi amorevoli, avevano perduto ogni intesa con lui e più egli li guardava più l'improvvisa tristezza che lo aveva assalito si faceva acuta. Si ricordò che durante i lavori di scavo ossa di morti erano venute fuori dappertutto. Era anticamente in quello stesso luogo un convento di frati, crollato con grande rovina. Giovanni pensò che quella terra gli avrebbe portato disgrazia e n'ebbe paura. A poter tornare indietro non si sarebbe fermato nel piazzale; ora una forza strana gli impediva di muoversi. Era cessato il lavoro degli operai e dai magazzini non veniva ormai alcun rumore. Il crepuscolo toglieva i contorni agli edifici; e cominciava a fare fresco.
Lo invitarono a dare la consegna dei registri nella fabbrica dei Belli, i quali insieme con lo zio avevano deciso di prendere l'officina e tenere lo Zani impiegato. Marco vi andò in compagnia di Andrea. A un tratto Marco disse: «Voglio lo stipendio di questo mese». Gli altri lo guardarono ironicamente. Uno dei Belli gli si precipitò contro gridando: «L'avesse fatto a me quello che ha fatto allo Zani...». Ma non finì la frase perché Marco lo respinse con violenza. E fissando lo zio, sbiancato nel volto, gli disse: «Siete in cinque contro uno e tu, porco, ricordati ciò che ti disse mio padre sul letto di morte. Ma per te ho questa» ed estrasse la pistola. Andrea si scagliò su Marco e lo trascinò fuori. Sulla piattaforma di asfalto che serviva per il carico delle merci, si fermarono. Marco si sentiva esausto. Le lampadine gettavano sull'asfalto nero cerchi di luce che a Marco sembravano macchie di sangue.
«Perché non me l'hai fatto ammazzare?» disse a Andrea. «Ma gli sparerò quando passerà di qui.»
Andrea cercava di calmarlo. «Pensi a sua madre» disse.
«Mi ci ha messo lei in questo pasticcio.»
«Pensi alla sua fidanzata. È tanto giovane e ricomincerà da capo. Magari nella sua piccola città, che è piccola sì, ma ricca e piena di industrie. Un giorno verrò a trovarla. Conosco il Gigli e andremo a salutarlo.»
Si trovarono lontani dall'officina: ridevano e facevano progetti per andare insieme a lavorare altrove.
Marco aveva un amico che si chiamava Paolo. Marco era figlio di Antonio, un medico che abitava in un villino alla periferia della città di S... a pochi metri dalle casupole degli operai, sovrastate dalle enormi moli delle vetrerie, delle ferriere e delle segherie, costruite con mattoni rossi, e dalle alte ciminiere che alle dodici del mattino e alle sei del pomeriggio lanciavano i loro urli lugubri e improvvisi fino in aperta campagna. Anche il villino di Antonio era di mattoni rossi con la porta e le finestre riquadrate di travertino bianco, e dava su una piazza non ancora lastricata, con il fondo di terra gialla battuta e pietre ammassate nel mezzo e agli angoli. I lavori sarebbero cominciati tra poco tempo. Villini uguali a quello di Antonio sorgevano ai lati della piazza e ne attendevano altri.
Antonio era socialista, come lo era stato, negli ultimi anni della vita, suo padre, un piccolo industriale. Frequentava il circolo degli operai e, benché non avesse accettato alcuna carica, svolgeva attività politica soprattutto nel periodo delle elezioni. Ricco di suo, onesto e serio, appassionato della professione, non prendeva mai denari quando si recava a visitare gli operai e le famiglie povere. Regalava loro medicine e vestiario. Amato da tutti, godeva anche il rispetto dei proprietari delle ville della pianura: lo stimavano il migliore medico della città e si rivolgevano a lui quando si ammalavano. Lo invitavano con piacere a discutere di politica e, conoscendo la sua passione per la caccia, volevano che partecipasse sempre alle loro battute alla lepre e al cinghiale.
All'improvviso Marco ricordò la domanda che gli aveva rivolto Giuseppe dopo i combattimenti contro i tedeschi e la liberazione di M...: «Quanti morti avete avuto?», e la sua risposta che ora sillabava lentamente: «Ma perché ci debbono essere sempre dei morti?». E rivide il rapido sguardo ironico e insieme doloroso dell'amico.
Vita dei gappisti
Quellamattina mi ero alzato per il consuetolavoro consistente nellalotta amorte contro l'oppressione nazi-fascista, recandomi ad un appuntamento col compagno Cesare, allora dirigente del GAP. Dopo aver parlato delle questioni riguardanti la situazione e dopo aver fatto in breve una esposizione del mio lavoro di assestamento e della messa in efficienza del GAP, Cesare mi diede lo scontrino di posteggio della bicicletta più sei o sette pallottole «9 corto» di cui avevo bisogno e che egli aveva in tasca. Mi recai al ponte alla Carraia dove inforcando la bicicletta mi diressi a casa per mangiare qualcosa, ma quando fui in piazza Santo Spirito incontrai il compagno Salvatore che, fermandomi, mi mise al corrente che in via Santa Maria avevano sparato sullo squadrista tristemente noto sotto il nome di Pollastra. (Bruno Fanciullacci; citato in Romano Bilenchi,Cronache degli anni neri, Editori Riuniti, Roma 1984.)
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