Chi può sapere se ilvivere non siamorire | e se il morire non sia vivere?[2]
Chi trascura diimparare nella giovinezza perde il passato ed è morto per il futuro.[3]
[Medea rivolgendosi alla Corifea]Fra quante creature han senso e spirito, | noi donne siam di tutte le piú misere. | Che, con profluvii di ricchezze prima | dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo | — male dell'altro anche peggiore despota | del nostro corpo. E il rischio grande è questo: | se sarà tristo o buon: ché separarsene | non reca onore alle consorti, né | repudïar si può lo sposo. E, giunta | quindi a nuovi costumi, a nuove leggi, | indovina dovrebbe esser: ché appreso | in casa non ha già come piacere | possa allo sposo. E quando, a gran fatica, | vi siamo giunte, se lo sposo vive | di buon grado con noi, se non sopporta | il giogo a forza, invidïata vita | la nostra! Ma se no, meglio è morire. | Quando in casa si cruccia, un uomo può | uscir di casa, e presso un coetaneo, | presso un amico, cercar tregua al tedio: | noi, di necessità, sempre allo stesso | uomo dobbiamo essere intente. Dicono | che passa in casa, e scevra dai pericoli | la nostra vita, e invece essi combattono; | ed hanno torto: ch'io lo scudo in guerra | imbracciare vorrei prima tre volte, | che partorire anche una sola. Ma | ciò ch'io dico per me, male s'addice | a te: la patria hai tu, la casa tua, | agi di vita, consorzio d'amici: | io sola sono, senza patria, e oltraggio | mio marito mi fa, che me rapiva | da una barbara terra; e non ho madre, | non fratello o parente, a cui rivolgere | possa l'approdo in questa mia sciagura. | Ora io vorrei da te questo impetrare: | se qualche via, se qualche astuzia io posso | escogitare, onde allo sposo infligga | del mal ch'esso mi fa la giusta pena, | tu non parlar: ché in tutti gli altri eventi, | piena è ladonna di paure, e vile | contro la forza, e quando vede un ferro; | ma quando, invece, offesa è nel suo talamo, | cuore non c'è del suo piú sanguinario.[4]
Gli uominitimidi non fanno neppur numero nei combattimenti, e quantunque presenti, sono assenti.[5]
Non conviene sdegnarsi con lecose, | Che de' nostri dolori non han cura; | Ma ben farà chi riscontrando in esse, | Per ventura, ben seppe maneggiarle.[10]
Non è facile fermare un sasso quando è uscito dalla mano, né undiscorso quando è uscito dalla bocca.[11]
Apollo: Addio, casa d'Admeto, in cui dovei piegarmi, io Nume, a servil mensa! Giove causa ne fu, che, il vampo della folgore vibrato in petto al mio figliuolo Asclepio, l'uccise. Ond'io, del divin fuoco i fabbri, i Ciclopi, a vendetta, sterminai; e, per punirmi, mi costrinse il padre a servire un mortale. E a questo suolo giunto, i bovi a un estranio pasturai, e la sua casa fino a questo di protessi: ché in un uom pio m'imbattei, nel figliuol di Fèrete.
[Euripide,Alcesti, traduzione di Ettore Romagnoli.]
[Agone verbale: Admeto e Ferete di fronte]Admeto: Vivi pure più a lungo di Zeus, così sia! Ferete: Imprechi contro il genitore che non ti ha fatto nulla? Admeto: Vedo che desideri tanto vivere a lungo! Ferete: Come?! non sei tu che stai sotterrando costei al tuo posto? Admeto: Sciagurato! questa è la prova della tua vigliaccheria! Ferete: Non è morta per causa mia! Questo non puoi dirlo! Admeto: AH! se avrai bisogno di me un giorno! Ferete: Procurati parecchie mogli, così saranno in più a morire! Admeto: è tua questa vergogna! sei tu che non hai voluto morire! Ferete: Il piacere di portarmi alla tomba non l'hai avuto. Admeto: Morirai comunque un giorno e ingloriosamente! Ferete: M'importa poco la mala fama dopo morto! (vv. 700 sgg., traduzione di Michela Mariani)
Chi deve morire è già morto. E un morto non è più niente. (527; citato inValerio Massimo Manfredi,Idi di marzo, Mondadori, 2008)
Solo a parole [...] i vecchi invocano la morte, deprecando l'età avanzata e la lunghezza della vita: se la morte si presenta da vicino, nessuno vuole morire, e la vecchiaia per loro non è più un peso.
Coro: Sono molte le sorti che il Destino ci prepara e spesso gliDèi compiono eventi inattesi: ciò che si riteneva possibile non accade e ciò che nessuno s'aspetta il Dio lo dona. Così quest'incredibile storia è terminata.
DIONISO: Suol di Tebe, a te giungo. Io sonDioniso, generato da Giove, e da Semèle figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo del folgore la fiamma. Ora, mutate le sembianze celesti in forma umana, di Dirce all'acqua, ai flutti ismenî vengo. Dell'arsa madre a questa reggia presso veggo la tomba: le rovine veggo della sua casa, ove il celeste fuoco fumiga, vivo ancor, della vendetta d'Era contro mia madre eterno segno.
[Euripide,Baccanti, traduzione di Ettore Romagnoli.]
Glidei ci creano tante sorprese: l'atteso non si compie, e all'inatteso un dio apre la via.
Il tempo è breve; chi insegue l'immenso perde l'attimo presente.
[I Corifea]Or quando nella tènebra | notturna il pie' mio candido | agiterò nelbacchico tripudio, | la cervice crollando all'ètra rorido, | come cerbiatta che del prato allegrasi | fra le verdi delizie, | poi che la truce caccia | ha sfuggita, e l'insidia | delle ben tese reti? Col suo sibilo | il cacciatore l'impeto | dei cani aizza invan sulla sua traccia: | ch'essa, pari ad un turbine, | via per i prati lanciasi | lunghesso il fiume; e nelle solitudini | ove uom non giunge, posa, | e tra i virgulti della selva ombrosa. || Che è saggezza? E qual fu mai dai Superi | dono piú insigne agli uomini largito, | che la man dei nemici | tener sulle cervici? | E quanto è bello a noi sempre è gradito.[16]
Parla da saggio ad un ignorante ed egli dirà che hai poco senno. (480)
AGAMENNONE: O vecchio, vien qui, presso questo padiglione. VECCHIO: Son qui. Che novelli pensieri, Agamènnone, volgi? AGAMENNONE: T'affretti? VECCHIO: M'affretto. è la mia tarda età molto insonne, e ben lieve sui cigli mi pesa. AGAMENNONE: Che stella è quella che in cielo veleggia? VECCHIO: è Sirio, che, presso alla Plèiade settemplice, in mezzo alla volta del cielo, s'affretta. AGAMENNONE: Non s'ode né voce d'uccello né d'onde sciacquío. Su l'Eurípo i venti son muti.
Proprio il tuo silenzio dimostra che sei d'accordo. (1142)
Αυτό δε τό σιγάν ομολογούντος εστί σου.
IfigeniaSe d'Orfeo la facondia, o padre, avessi, | da convincer col canto, in guisa che | mi seguisser le pietre, e i cuor potessi | coi detti miei commuovere, a quest'arte | m'appiglierei; ma quella ch'io conosco | adesso offrire ti potrò: le lagrime. | Alle ginocchia tue questo mio corpo che costei generò, depongo, quasi | ramo d'ulivo supplice, perché | tu non m'uccida innanzi tempo. È dolce | veder la luce; e tu non mi costringere | a veder quello che sotterra giace. | Prima io te chiamai padre, e tu me figlia: | alle ginocchia tue prima io le tenere | membra appendevo, a te soavi gioie | diedi, e n'ebbi ricambio. E tu dicevi: | «O figlia, dunque, te vedrò felice | vivere in casa d'uno sposo, florido, | come conviene alla mia figlia?». Ed io, | appesa al viso tuo, che adesso stringo, | così dicevo: «Ed io che ti dirò? | Vecchio t'accoglierò nel caro asilo | della mia casa, o padre, e a te compenso | delle cure darò che tu spendesti | per allevarmi». — Ora, io memoria serbo | di quei detti, ma tu ne sei dimentico, | e uccidere mi vuoi. Deh, no! Per Pèlope | io ti scongiuro, e per tuo padre Atrèo, | per questa madre che mi partorí, | ed or patisce queste nuove doglie. | Dell'adulterio d'Alessandro e d'Elena | che colpa ho io? Come esser può che Paride | per la rovina mia giungesse, o padre? | Guardami, l'occhio su me volgi, abbracciami, | sí che di te, morendo, io serbi almeno | tale ricordo, se pei detti miei | convincer non ti vuoi.[...] Ma solo un punto aggiungerò, che vinca | ogni argomento. Agli uomini dolcissima | è questa luce, e non l'eterna tènebra, | e folle è chi desidera la morte. (Romagnoli 1929pp. 171-172)
Agamennone[Degli onori]È fallace decoro; e il potere, | sebben dolce, ad averlo t'accora. | Uno sbaglio talor verso i Numi | la tua vita sconvolge; talora | la cruccian gli umori | degli uomini, tristi e discordi. (Romagnoli 1929,p. 99)
AgamennoneOh quanto giova esser del volgo! Piangere | posson senza riguardo, e ciò che vogliono | liberamente dir; ma per me, nobile, | tutto ciò sconverrebbe. Al viver nostro | dà le norme il decoro; e della turba | siamo gli schiavi. (Romagnoli 1929,p. 120)
IfigeniaOdi or quello che deciso ho, pensando, o madre mia. | Fu decisa la mia morte: affrontarla in modo io penso | ch'alta fama io ne riscuota, posto in bando ogni vil senso. | Ed insiem con me considera, madre, tu, se dico bene: | tutta quanta la grande Ellade su me l'occhio fisso tiene, | in me sta che i legni salpino, sia la Frigia posta a sacco, | ed i barbari in futuro non c'infliggano lo smacco | di rapir donne da l'Ellade fortunata, quando avranno | per la femmina che Paride seducea, pagato il danno. | Otterrò ciò con la mia morte, celebre sarà | il mio nome: ed avrò l'Ellade vendicata a libertà. | E neppur conviene ch'io di soverchio ami la vita: | ché, non sol per me, per l'Ellade tutta tu m'hai partorita. | Mille e mille uomini pronti sono già, nell'armi chiusi, | mille e mille i remi stringono, a vendetta dei soprusi, | che patiron, sui nemici pronti a far prova del braccio, | a morire per la patria; e sola io sarò d'impaccio? | Con qual mai giusto discorso rintuzzar tali argomenti? | Ora, ad altro: non è giusto che il Pelíde si cimenti | a cagione d'una donna, con gli Achei tutti, e soccomba: | piú di mille e mille donne val che un uom schivi la tomba. | E seArtèmide il mio corpo come vittima chiedea, | dovrò forse io, che mortale nacqui, oppormi ad una Dea? | È impossibile. Per l'Ellade cader vittima acconsento. | Io sia spenta, e Troia cada: mio perenne monumento | sarà questo, questo gloria, questo figli, questo imène. | Che gliEllèni sian da barbari sopraffatti, non conviene: | genti schiave sono quelle, sono libere l'Ellène.[AClitennestra] (Romagnoli 1929,p. 183)
Elettra: Niuna parola v'è tanto terribile, nessuna traversía, nessuna doglia suscitata dai Numi, onde non debba reggere il peso la natura umana. Tantalo infatti, il fortunato – oltraggio non faccio al suo tristo destino – il figlio, come dicon, di Giove, in aria sta sempre sospeso, e temer deve il sasso che gli pende sul capo, e questa pena sconta, dicon, perché della celeste mensa, ei mortale, ebbe l'onore, e freno alla lingua non pose: vizio turpe quanto altro mai. Costui generò Pèlope, e da Pèlope Atreo nacque, per cui la Parca, quando gli tessea lo stame, ladiscordia filò, ché con Tieste venisse a lotta, col fratello suo.
Non c'è nulla di migliore di un amico vero, non la ricchezza, non il potere: perché la folla è un contraccambio che non vale un amico nobile.
È nei momenti difficili che gli amici devono essere utili ai loro amici; quando la sorte è favorevole, che bisogno c'è di amici? Basta il dio, se vuole aiutarci.
Gli amici che nella sfortuna non si dimostrano tali sono amici solo di nome, e non di fatto.
Le donne sono sempre coinvolte nelle vicende degli uomini, col risultato di peggiorarle.
L'esitazione, fra amici, è un gran male.
Noi siamo servi degli dèi, qualsiasi cosa gli dèi siano.
ANDROMACA: O di Tebe città, gemma dell'Asia, donde un giorno venni io, con molta pompa di doni nuziali, al regio tetto di Priamo re, legittima consorte d'Ettore! E allor segno d'invidia fu Andromaca, ora sventurata è come niun'altra donna: ché per man d'Achille spento cader vidi lo sposo, e il figlio Astïanatte, ch'io gli generai, scaraventato giú dai muri eccelsi, poi che gli Ellèni la pianura presa ebber di Troia.
[Euripide,Andromaca, traduzione di Ettore Romagnoli.]
SILENO: Passo un mondo di guai, Bacco, per te, e n'ho passati ai miei verdi anni. Prima, quando Giunone il senno ti rapí, e tu lasciasti le montane Ninfe nutrici tue. Poi, nella cruda mischia contro i Giganti. Alla tua destra, piede contro piede, io pugnavo; e con la lancia forai lo scudo a Encèlado, e l'uccisi.
[Euripide,Ciclope, traduzione di Ettore Romagnoli.]
OMBRA DIPOLIDORO: I recessi dei morti, e della tenebra le porte abbandonate, ove lontano dagli altri Numi Ade soggiorna, io giungo qui: Polidòro io son, d'Ecuba figlio, che nacque da Cissèo: mio padre fu Prìamo, che, quando su la frigia rocca la minaccia incombé che sotto l'aste cadesse degli Achei, dal suol di Troia lontano mi mandò, di Polinèstore alla magion, dell'ospite di Troia, che il pian ferace piú d'ogni altro semina del Chersoneso, e quelle genti amiche di corsïeri, con la forza regge.
ELENA: Del Nilo queste le virginee belle fluenti sono, che feconda, invece della diva rugiada, i campi, quando si discioglie la neve, al pian d'Egitto. Era Pròteo signor di questa terra, quando vivea, che l'isola di Faro abitava, e monarca era d'Egitto; ed una delle Ninfe, abitatrici di questo mare, sposa ebbe, che il talamo d'èaco abbandonò, Psamàte;
AUTURGO: O d'Argo antica terra, e voi, dell'ìnaco acque fluenti, onde partí con mille navi, recando guerra al suol di Troia, Agamènnone re! Qui, spento Príamo dell'ilíaco suol signore, e l'inclita città presa di Dàrdano, tornò di nuovo ad Argo, e molte sovra i culmini dei templi consacrò spoglie di barbari.
[Euripide,Elettra, traduzione di Ettore Romagnoli.]
IOLAO: Antica mia convinzïone è questa: che l'uom dabbene vive per il prossimo, ma colui che proclive al lucro ha l'anima, alla città disutile, scontroso è da trattare, e solo a sé giovevole. Non per sentita dire io ben lo so: ch'io, per senso d'onore, e per rispetto ai vincoli di sangue, accanto ad Ercole, quand'egli ancora vivo era, affrontai tante fatiche; e in Argo avrei potuto viver tranquillo.
[Euripide,Eraclidi, traduzione di Ettore Romagnoli.]
ANFITRIONE: Chi non conosce Anfitrïóne d'Argo, ch'ebbe al talamo suo Giove partecipe, cui die' la vita Alcèo, figlio di Pèrseo, e che d'Ercole fu padre? Io son quello. E in Tebe venni a soggiornare, dove la terrigena spiga degli Sparti un giorno crebbe, della cui progenie Marte ben pochi lasciò salvi; e questi per i figli dei figli popolarono di Cadmo la città.
[Euripide,Ercole, traduzione di Ettore Romagnoli.]
GIOCASTA: O tu che in ciel solchi la via degli astri, o tu che muovi sopra il cocchio d'oro, o Sol che sovra rapide puledre rechi attorno la fiamma, oh, come infausto sopra Tebe quel dí scagliasti i raggi, quando, lasciata la fenicia terra cinta dal mare, a questo suolo giunse Cadmo, che sposa ebbe Armonia, di Cípride la figlia, e Polidòro generò, da cui si narra che nascesse Làbdaco, e da Làbdaco Laio.
[Euripide,Fenicie, traduzione di Ettore Romagnoli.]
IFIGENIA: Pèlope il tantalíde, a Pisa giunto con veloci cavalle, ebbe consorte la figlia d'Enomào. Nacque da Pèlope Atrèo: furon d'Atrèo figli Agamènnone e Menelao. Del primo e della figlia di Tíndaro io son figlia, Ifigenía, che presso ai gorghi cui mulina l'èuripo, e insiem con le frequenti aure sconvolge il cerulëo mar, sacrificata fui da mio padre – ei sel credé – per Elena, nelle famose alpestri gole d'Aulide, d'Artèmide su l'ara.
ERMETE:Atlante, quei che su le bronzee spalle sostiene il ciel, dei Numi antichi albergo, da una Dea generò Maia, che a Giove me procreò, ministro ai Numi, Ermète. E a Delfi or giungo, dove l'umbilico de la terra fissò Febo, e ai mortali pel presente e il futuro auspíci canta. Ché fra gli Elleni sorge una città non ignobile, ed ha nome da Pàllade dall'asta d'oro, dove Febo a nozze forzò Creúsa, figlia d'Erettèo, dove sorgon le rupi a Borea volte, cui de l'Èllade i prenci eccelse chiamano;
AFRODITE: Diva sono io fra gli uomini possente, e fra i Numi del cielo: io sono Cípride: chiaro è il mio nome. Della gente ch'abita fra il ponto Eusíno ed i confini Atlàntici, e la luce del sol contempla, quanti hanno rispetto al poter mio, li onoro; ma quelli atterro che superbo cuore nutrono contro me: ché sin tra i Numi è questa passïon, che degli omaggi s'allegran dei mortali: io mostrerò presto la verità di tal sentenza.
[Euripide,Ippolito, traduzione di Ettore Romagnoli.]
NUTRICE: Deh, mai varcate non avesse a volo le Simplègadi azzurre il legno d'Argo, verso il suolo dei Colchi, e mai non fosse nei valloni del Pelio il pin caduto sotto la scure, e al remo non si fossero strette le mani degli eroi gagliardi, che, per mercé di Pelia, a cercar vennero ilvello d'oro!
CORIFEO: Muova d'Ettore alcuno alla tenda delle guardie del sire, che insonni stanno a veglia, se udir le novelle ei vuol delle scolte, che la quarta notturna vigilia per tutto l'esercito fanno. Alza il capo, sul cúbito lèvati, il sopore dagli occhi terribili discaccia, dal letto di foglie sorgi, Ettore, udir tu mi devi.
[Pseudo-Euripide,Reso, traduzione di Ettore Romagnoli.]
ETRA: Demètra, tu che l'are occupi in questa terra d'Eleusi, e voi, che, della Diva ministri, i templi custodite, a me e al figlio mio Tesèo rida fortuna, alla città d'Atene, al suol di Pítteo. Quivi cresciuta io sono, Etra, sua figlia; ed egli sposa al figlio di Pandíone, a Egèo mi die': ché cosí volle Febo
[Euripide,Supplici, traduzione di Ettore Romagnoli.]
POSIDONE: Qui giunsi dell'Egèo dai salsi bàratri, dove, danzando, le Nerèidi volgono il bellissimo piede: io son Posídone. Poiché, da quando Febo ed io le pietre levammo a fil di squadra, onde le torri sursero, in questo suolo, aTroia intorno, mai dal cuor mio l'amor non fu bandito per la città dei Frigi. Essa conversa in fumo è adesso: ché le argive cuspidi l'hanno distrutta e saccheggiata. Epèo di Parnasso, il focese, costruí, per consiglio d'Atèna, ungran cavallo, pieno i fianchi d'armati, e lo sospinse, simulacro funesto, entro le torri.
[Euripide,Troiane, traduzione di Ettore Romagnoli.]
Molti uomini, a causa del riso, producono gioie illusorie: ma io odio i buffoni che per mancanza dei saggi hanno bocche senza freno, e non vanno verso armonia d'uomini, ma nel riso degne case abitano, e dalle navigazioni giungon salvi a casa (frammento 492)
È dolorosissima l'odiosa stirpe femminile: ché quelle corrotte a quelle non abbattute hanno accomunato infamia e biasimo, e le malvagie alle non malvagie: peraltro, quanto alle nozze, non sembrano ragionar sanamente verso gli uomini. (frammento 493)
Niente è piùmaligno di una donna maligna, e neanche di una donna nobile nulla giunge ad una vetta minore: ma le due nature sono diverse. (frammento 494)
L'avete punita: e infatti lì giaccion malate le cose delle donne; essi per i ragazzi o per la discendenza non morirono ritenendola malvagia: inoltre, quest'ingiustizia a molte cadde addosso e continua ad avanzare, sicché la virtù svanisce. (frammento 497)
A parte mia madre, io odio tutto il genere femminile! (frammento 498)
Dunque invano verso le donne il biasimo maschile punge, vano scoccar di freccia, e parla male: che esse siano inferiori ai maschi, lo dico io. (frammento 499)
Qualsiasi giovane ha un padre scorbutico ed odioso in casa, acquista grandi mali. (frammento 500)
Quanti s'occupano di nozze che non furono fissate faticano invano: bisogna che per un marito colei che è migliore ed irreprensibile venga in casa. (frammento 501)
Quanti si sposano o per la razza di grandi nozze o per molti soldi, non sanno cosa sia sposarsi: ché i poteri della donna in casa schiavizzano l'uomo, e non ce n'è uno libero. Ricchezza importata nelle nozze femminili è senza guadagno: ché i divorzi non son facili. (frammento 502)
Di giusti letti, di giuste nozze con saggezza godere per i mortali è l'ottimo. (frammento 503)
Figliolo, per certi uomini che hanno una vita breve essa è conforto, per altri un malo carico. (frammento 504)
Qualsiasi mortale sopporti bene le cose che accadono, mi sembra esser il migliore in saggezza. (frammento 505)
Vi sembra giusto far balzare i peccati verso gli dei con ali, e poi nei fogli del libro di Zeus scrivere queste cose, e Zeus che li vede punire i mortali? Né il gran cielo di Zeus che scrive i peccati dei mortali basterebbe, né chi osservi di mandare a ciascuno la punizione: ma Giustizia è più vicino se volete vedere. (frammento 506)
Perché non lasci che i morti sian morti e raccogli dolori troppo rapidi? (frammento 507)
C'è un antico proverbio: hanno potere le azioni dei più giovani, mentre dei più vecchi lo hanno i voleri. (frammento 508)
E che altro? È voce ed ombra uom vecchio. (frammento 509)
Ahimè, quant'è giovane e stolto l'uomo! (frammento 510)
Ché il nome di schiavo illustre non muore, e molti dei liberi sono minori. (frammento 511)
Quello è tanto illustre cittadino, quanto malo uomo. (frammento 512)
Forse non avrebbe osato uccidere i vendicatori. (frammento 513)
Or te io canterò, figlio di Clinia. Bella è vittoria, ma ancor più bello – cosa che non toccò ad altri Elleni – correr col carro primo, poi secondo ed anche terzo, ed uscirne invitto per ben due volte e farsi incoronare d'olivo e farsi proclamare a voce da un araldo. (frammento 3)
Egli scende negli abissi del cuore umano, lo analizza, lo notomizza, ce lodiscuopre nel suo turbamento, nelle sue lotte e passioni: in una parola, Euripide introduce nell'arte greca l'elemento del pathos. (Emanuel Löwy)
Euripide dà forma ai personaggi, e nello stesso tempo li decostruisce: di fronte alla sua anatomia essi non hanno più niente di nascosto. Se Sofocle aveva detto di Eschilo ch'egli faceva il giusto pur senza averne coscienza, Euripide avrebbe dovuto dire di lui ch'egli faceva quel che non bisognava fare, poiché non ne aveva coscienza. (Friedrich Nietzsche)
Euripide è il primo drammaturgo che segue consapevolmente un'estetica. Di proposito egli cerca ciò che è perfettamente comprensibile: i suoi eroi sono nei fatti quel che sono quando parlano. Essi si esprimono totalmente attraverso le parole, là dove invece i personaggi diEschilo e diSofocle sono assai più profondi e più pieni rispetto alle parole che dicono: propriamente essi balbettano su di sé. (Friedrich Nietzsche)
Euripide segna il passaggio dalla tragedia alla filosofia, dall'arte alla speculazione, dal tormento dell'elaborazione estetica a quello del concetto. (Francesco Piccolo)
↑Citato in Guerrino Oliva,Saggezza antica e moderna, Ponte nuovo, Bologna, 1981, p. 90.
↑DaMedea, inLe tragedie:Medea – Alcesti – Le Fenicie, traduzione diEttore Romagnoli, con incisioni di Adolfo De Carolis, Zanichelli, Bologna, 1928,pp. 30-32.
↑DaMeleagro. Citato in Niccolò Persichetti,Dizionario di pensieri e sentenze di autori antichi e moderni d'ogni nazione, 3 voll., Fratelli Rechiedei, Milano, 1877-1878, vol. III, 1878,p. 172.
↑Citato inPlutarco,De sollertia animalium, traduzione e note di Pietro Li Causi, cap. 22, in Aa. Vv.,L'anima degli animali, Einaudi, Torino, 2015, p. 258 (cfr. nota a p. 485: «Così citato, il verso non rimanda ad alcuna delle tragedie note di Euripide [...]. Si potrebbe comunque fare allusione aIon, 159»).ISBN 978-88-06-21101-1
↑Riportato anche nei cosiddettiMonostici di Menandro (307 J.).