Ca' Bella, Ca' del Vento, Ca' Littorina, Campana di Ferro, Ca' Nicelli, Ca' Nova, Cascina Molino, Cascina Val Madonna, Croce, Luzzano, Mosca, Pieve, Scazzolino
Rovescala fu donata nel943 daire d'ItaliaUgo eLotario alvescovo di Pavia e successivamente confermata dall'imperatoreOttone I nel972, aggiungendovi il titolo di contea[5]. Fu successivamente infeudata ai discendenti di Bernardo, di stirpe carolingia, conte di Parma e Pavia, che, già conti di Sospiro nel Cremonese, furono in seguito dettiConti di Rovescala, venendo annoverati, con i Langosco, i Gambarana e gli Sparavara, tra l'ampio consortile dei conti palatini di Lomello. Contesa tra Piacentini e Pavesi, Rovescala passò nel1164 sotto il dominio di questi ultimi, che vi nominarono podestà e castellani, ma i conti continuarono a conservarne il possesso effettivo. Capi del partito guelfo e duramente ostili alla crescente influenza viscontea nella Lombardia meridionale, i conti di Rovescala esercitarono per buona parte del XIII e XIV secolo una grande influenza su tutto l'Oltrepò, scontrandosi con i Malaspina di Varzi e i Landi di Piacenza. Banditi nel1315 da Pavia (della quale avevano la cittadinanza) con le altre principali casate guelfe, i conti nel 1358 riottennero i loro beni sequestrati, ma nel 1370 sostennero una dura guerra contro Galeazzo Maria Visconti, che devastò gran parte dei loro possedimenti. Perdonati una prima volta dal signore di Milano, alla sua morte si ribellarono nuovamente al dominio visconteo (1405-07), finché nel1416Filippo Maria Visconti non marciò contro di loro, impadronendosi di Rovescala. Imprigionati e privati dei loro beni, donati dal duca a Giorgio Aicardi, detto Scaramuzza Visconti, i conti si trasferirono aPieve Porto Morone, sulla sinistra del Po, sempre in territorio pavese, ottenendo in seguito, nel1427 e poi nel1456, la reintegrazione dei loro possessi, ma non del castello e della signoria di Rovescala, rimasta alla discendenza di Scaramuzza. Nel1482, morto Gasparino Visconti senza eredi, il ducaGian Galeazzo Maria Sforza vendette per trecento ducati la signoria di Rovescala al nobile piacentino Gerardo Pecorara, concedendogli l'investitura feudale e la separazione del territorio dalla giurisdizione di Pavia e di ogni altra città, quale corpo separato.
Il fatto che i maggiori proprietari terrieri continuassero a essere gli antichi conti, fu causa di una lunghissima serie di controversie legali con i nuovi feudatari, che più volte degenerarono in scontri armati tra gli opposti partigiani. Nel1491 i conti rientrarono temporaneamente in possesso del castello, ma negli anni trenta del Cinquecento i Pecorara riuscirono definitivamente a imporsi quali signori del feudo, grazie anche a una serie di accordi matrimoniali con gli antichi conti, ormai in progressiva decadenza. Retto in condominio da diversi rami della famiglia Pecorara (dal1536 annoverata tra la nobiltà decurionale di Pavia), nel1623 il feudo fu interamente acquistato da Pietro Paolo Pecorara, restando alla sua discendenza fino alla morte, nel1783. In mancanza di eredi diretti, il re di Sardegna Vittorio Amedeo III (nei cui stati l'Oltrepò pavese era pervenuto nel1739) tre anni dopo investì Rovescala al giureconsulto pavese Gerolamo Pecorara, come più prossimo affine, il quale fu anche l'ultimo feudatario.
Lo stemma e il gonfalone sono stati approvati con delibera del consiglio comunale del 18 aprile 2000[6] e concessi con DPR del 10 luglio dello stesso anno.[7]
«Troncato di rosso e di azzurro, allaquercia di verde, ghiandifera di tre di oro, fustata al naturale, attraversante, nodrita in punta, sostenuta a sinistra dal leone d'oro, con la zampa posteriore sinistra poggiata in punta, con entrambe le zampe anteriori poggiate sul tronco della quercia. Ornamenti esteriori da Comune.»
Il gonfalone è un drappo di giallo con la bordatura di azzurro.
Lo stemma comunale si ispira all'antico stemma dei conti di Rovescala presente anche nel volumeStemmi e sigilli comunali della Provincia di Pavia di Pietro Pavesi del 1904 e nelloStemmario delle famiglie nobili di Pavia e del Principato di Carlo Marozzi.Le figure nello scudo fanno riferimento al toponimo che molto probabilmente deriva dal termine latinorobur ("rovere", "quercia") e dal verbo di origine germanicascalen, "scortecciare", con riferimento all'antica pratica di togliere la corteccia alle roveri per ricavarne iltannino, indispensabile nella concia delle pelli, azione rappresentata dal leone che appoggia gli artigli sul tronco dell'albero.[6]