
IPlaciti cassinesi, conosciuti anche come "Placiti Campani", sono quattro testimonianze giurate (registrate tra il960 e il963) sull'appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini diCapua,Sessa Aurunca eTeano; rappresentano i primi documenti di unvolgare d'Italia (campano) scritti in un linguaggio che vuol essere ufficiale e dotto. Sono considerati i primi documenti involgare italiano medioevale, tra i quali ilPlacito di Capua, conservato all'Archivio della badia diMontecassino.[1]
Il primo placito capuano riguardava una contesa sui confini di proprietà tra ilmonastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale, Rodelgrimo d'Aquino. Con questo documento tre testimoni, dinanzi al giudice Arechisi, deposero a favore deiBenedettini, indicando con un dito i confini del luogo che era stato illecitamente occupato da un contadino dopo la distruzione dell'abbazia nell'883 da parte deisaraceni.
La formula del Placito Capuano fu inserita nella stessa sentenza, scritta in latino, e ripetuta per quattro volte.
Si tratta di un gruppo compatto di quattropergamene di argomento simile, formate da quattroplaciti, precisamente tre placiti e un "memoratorio" (redatto aTeano), sulla proprietà di alcune terre appartenenti agli stessi luoghi (Capua,Teano eSessa).
I placiti riguardano beni di tre monasteri che dipendono daMontecassino e sono stati pronunciati nei principatilongobardi diCapua e diBenevento.All'infuori delle prime tre carte di Teano, il "memoratorio", il tipo è costante nelle sue formule.
Dapprima il giudice comunica alle parti il testo della formula, in seguito tre testimoni devono pronunciarla separatamente. In questo modo la formula viene ripetuta, in tre documenti, quattro volte.
I quattro passi in volgare sono:
(Capua, marzo 960 d.C.)
(Sessa, marzo 963 d.C)
(Teano, luglio 963 d. C)
(Teano, ottobre 963 d. C.)
Questa formula corrisponde ad altre formule simili ma scritte inlatino e ritrovate aLucca nel822 e aSan Vincenzo al Volturno nel936, nel954 e nel976. I testi riguardano l'istituto giuridico dell'usucapione.
Dal momento che i testimoni erano tuttichierici o notai si presume che sarebbero stati in grado di pronunciare la formula in latino e se questo non è stato, evidentemente costoro avevano ritenuto opportuno far conoscere il contenuto a tutti quelli che erano presenti al giudizio.
La stessa cosa era avvenuta, anche se in modo più solenne, aStrasburgo dove il 14 febbraio842 si tennero iGiuramenti di Strasburgo per concordare l'alleanza tra due dei figli di Ludovico il Pio. In questa occasione per farsi comprendere dai soldati francesi,Ludovico il Germanico aveva giurato inromana lingua (francese) eCarlo il Calvo, per farsi capire dai soldati tedeschi, inteudisca lingua (tedesco), mentre i generali prestavano il giuramento nelle rispettive lingue. In tal modo ciascuno giurava nella lingua dell'altro rendendo comprensibile il proprio giuramento al popolo che evidentemente non solo non parlava più il latino ma non avrebbe neppure compreso la lingua dell'alleato. La testimonianza di questo evento ci è data dallo storicoNitardo, nipote di Carlo Magno e cugino dei due sovrani, nelle sueHistoriae.
Nei tre casi dei placiti cassinesi le parole che i testimoni devono giurare sono state preparate dal giudice e in seguito il notaio sottolineava la conformità delle dichiarazioni. Con questo vi è la certezza che questi documenti non sono la riduzione scritta di frasi pronunciateex abrupto, ma che essi sono la testimonianza dei primi documenti di unlinguaggio cancelleresco scritto con una struttura sintattica complessa.
Per quanto riguarda igenitivi dei nomi propri contenuti nel documento si riconosce inparte Sancti Benedicti, rimasto in latino anche perché collegata alla religione cattolica, a cui appartenevano le uniche persone a conoscenza del latino, l'appartenenza a quel filone che sfocia nel tipo moderno Piazza San Benedetto, mentre i genitivi che dipendono dal verbo "essere" (Pergoldi foro,sancte Marie è) si spiegano con l'uso cancelleresco di trasportare queste forme dal dibattito orale in latino al dibattito in volgare, per poi adoperarle anche in formule scritte intenzionalmente in volgare.
Le formetebe ebobe sono residui didativi.
La formasao si spiega come formazione derivante da un lato dalle forme di 2° e 3° persona,sai dal latinosapis esae dal latinosapit e dall'altra dai presenti comeao,dao,stao che erano posseduti daidialetti campani intorno all'anno1000, dal momento che si ritrovano in testi semilatini, come ilCodice diplomatico Cavense, che riportanoabo ‘ho’ edabo ‘do’. Al riguardo sono però sorti dei dubbi per il fatto che i dialetti meridionali odierni presentano il tiposaccio, continuatore del latinosapio, ma alla fine gli studiosi hanno confermato che ogni errore è escluso per il fatto che si tratta di carte originali e che la forma viene adoperata dodici volte.
Sono state presentate così due soluzioni:
Un'altra forma dei placiti oggetto di studio è statako (Capua), con la variantecco (sao, cco, Sessa) che denota un residuo del latinoquod che più tardi è confluito, insieme conca (continuatore diquam e forse diquia) e conche oched, dal latinoquid, in un'unica formache.
Documenti simili divennero sempre più frequenti, documentando il diffondersi e rafforzarsi progressivo delvolgare e l'intenzione di usarlo con scopi o con caratteri differenti da quelli finora usati.
Tuttavia illatino, grazie al carattere conservatore dellaChiesa, restò ancora, per tutto ilDuecento e oltre,lingua della cultura e occorsero parecchi secoli perché il volgare italiano, divenuto ormai lingua letteraria e culturale, raggiungesse tutti i settori del sapere.
I pregiudizi linguistici favorivano il latino soprattutto inItalia, dove le scuole religiosemedievali, lo utilizzavano come lingua obbligatoria in cui impartire le lezioni. Sul ritardo nello sviluppo dell'italiano pesò dunque il prestigio della lingua diVirgilio (o piuttosto di una sua versione più volgarizzata) ma anche il latino in cui fu scritta la celebreVulgata diSan Gerolamo, padre della Chiesa (e protettore dei traduttori) che, in epoca tardo-imperiale, tradusse dalgreco (divenuto poi quasi sconosciuto nell'Europa medievale) iVangeli.
Il ritardo nello sviluppo dell'italiano, tra l'altro non poco sfavorito dalla mancanza di unità politica nella penisola e dalle faide dei signori che la dominavano, finì per consolidare quei tratti arcaici che furono invece ampiamente superati dalle lingue europee, tratti che fanno però della lingua italiana di oggi uno degli idiomi più fedeli al latino. Quando poi illetteratoPietro Bembo stese i tratti del primo italiano standard, adottò un simile atteggiamento conservatore, preferendo non ispirarsi al fiorentino della sua epoca (ilRinascimento) ma a quello di due secoli prima (Petrarca, in parte aDante e aBoccaccio). Un atteggiamento ben più intransigente degli stessi intellettuali fiorentini ma che prevalse non solo per la potenza e il prestigio del personaggio ma per la sua influenza sull'attività del grandeeditoreAldo Manuzio, veneziano al pari del Bembo.
Non solo, ma modellò stilisticamente la prosa non su modelli italiani, ma direttamente sullo stileciceroniano. Bembo riteneva anche che se una lingua era perfetta non aveva bisogno di cambiare col tempo, e tale doveva essere l'italiano se intendeva essere degno di quel nome. La resistenza all'introduzione di termini non letterari finì però per creare ostacoli a chi utilizzava e apprendeva l'italiano per scopi tecnico-scientifici, provocando controversie che, dopo avere infuocato ilRisorgimento, si sarebbero trascinate fino ai giorni nostri.
Giacomo Leopardi,Alessandro Manzoni e molti altri avevano lamentato il divario tra italiano scritto e parlato dichiarando di sentirsi più a proprio agio usando lalingua francese. Fu grazie ai primi governi dell'Italia Unita e col diffondersi dell'istruzione gratuita che i tabù puristi vennero infranti mentre la circolazione di funzionari pubblici e soldati di diverse regioni per la penisola imposero l'accettazione di quei tecnicismi e colloquialismi osteggiati daipuristi.
IPlaciti sopravvissero alle vicissitudini subite dal monastero di Montecassino che li ha ospitati per secoli. NelSettecento vennero portati alla luce dal gaetanoErasmo Gattola (1662-1734)[2], eminente storico e archivista del monastero.
In un passaggio del romanzoIl nome della rosa,Umberto Eco ha citato testualmente iPlaciti capuani[3].
Altri progetti
| Placiti | |
|---|---|
| Placiti cassinesi (Capua -Sessa Aurunca -primo di Teano -secondo di Teano) ·Placito Feretrano ·Placito di Marturi ·Placito del Risano |
| Letteratura italiana delle origini | |
|---|---|
| Prime testimonianze del passaggio dallatino alvolgare. | |
| Placiti cassinesi ·Indovinello veronese ·Ritmo bellunese ·Glossario di Monza ·Iscrizione della catacomba di Commodilla ·Postilla Amiatina ·Iscrizione di san Clemente e Sisinnio ·Manoscritto di Würzburg Attività mercantili e volgari italiani (Conto navale pisano ·Recordacione) | |
| Storia della letteratura italiana ·Lingua italiana ·Latino volgare ·Canzoniere Vaticano latino 3793 ·Museo nazionale dell'italiano |
| Controllo di autorità | Thesaurus BNCF21417 |
|---|