Manzoni e Leopardi | |
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Autore | Giovanni Gentile |
1ª ed. originale | 1928 |
Genere | saggio |
Lingua originale | italiano |
Modifica dati su Wikidata ·Manuale |
Manzoni e Leopardi è una raccolta di saggi e studi letterari del filosofo e pedagogistaGiovanni Gentile, pubblicata nel1928.
In essa, l'autore recupera la lettura svolta daVincenzo Gioberti eFrancesco De Sanctis che faceva diManzoni eLeopardi i precursori sul piano letterario delRisorgimento italiano, avendo costoro dato avvio a quel rinnovamento della coscienza e della morale nazionali, la cui suprema realizzazione era stata per Gentile compiuta dalfascismo.
L'opera è divisibile in due parti, di cui la prima dedicata a Manzoni, la seconda contenente alcuni saggi critici su Leopardi scritti da Gentile in anni diversi.
Di seguito i vari capitoli con l'indicazione dell'anno di composizione; gli ultimi due saggi su Leopardi, scritti posteriormente, furono aggiunti in un'edizione successiva:
L'importanza di Manzoni e Leopardi per il Risorgimento italiano, la loro vitalitàfilosofica,politica ereligiosa, ritenuta di grande attualità nell'Italia del suo tempo, spinse Gentile ad accorpare l'analisi dei due autori in un unico volume.
Il saggio suAlessandro Manzoni fu composto nel1923 in occasione del cinquantenario dalla sua morte, commemorato il23 maggio di quell'anno con una conferenza allaScala di Milano.[1]
In esso, Gentile riprende l'interpretazione diGiuseppe Mazzini eVincenzo Gioberti, che vedevano in Manzoni «non soltanto un poeta», ma «un grande maestro nazionale», comeOmero e comeDante.[2]
Più affine, rispetto a Leopardi, al suoidealismo religioso, di cui vedeva permeato il Risorgimento, Manzoni fu perGentile un filosofo alla portata della gente comune, in tal senso equiparabile aSocrate:
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pp. 8-9)
Manzoni mantiene, agli occhi di Gentile, un atteggiamento concretamente rivolto allaverità, a quel «santo Vero»[3] che il grande scrittore esortava a non tradire mai, il cui «riconoscimento pratico», secondo le parole diRosmini, prevale in lui sul mero «riconoscimento teorico».[4]La «grande tragedia» della vita,[5] pur presente in lui, acquista tuttavia significato, rispetto a Leopardi, nel rapporto intimo conDio.[6]
IlVero manzoniano è lo spirito che permea tutta la sua opera, in particolare iPromessi Sposi, i quali, a differenza di quanto affermavaBenedetto Croce, per Gentile non vanno disgiunti dalla produzione poetica di Manzoni, essendo animati nella loro interezza dalla vita dello spirito divino che si esprime nell'animo dell'uomo.[7]Essi furono così elevati da Gentile al rango di «libro nazionale» al pari dellaDivina Commedia.[8]
Tutta la poesia manzoniana è al contempo un esempio di azione; dalla divergenza rispetto a quella diFoscolo eParini, che pure le aprono la strada, dal suo rifiuto dellamitologia, emerge come essa insegni a «prendere sul serio» la vita:[4]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 21)
Agli occhi di Gentile, infatti, il problemapolitico del riscatto dellaPatria aveva acquistato, grazie a Manzoni, un significatomorale, che a sua volta implicava un contenuto di tiporeligioso, perché la religione «richiede una regola che sia legge assoluta» che sorpassa «infinitamente la sfera della iniziativa individuale».[9]
E fu proprio Manzoni, «il grande liberatore del popolo italiano dal secolare servaggio della letteratura, dell'arte pura, dell'indifferentismo e del dilettantismo, della rettorica e del classicismo vuoto e formale»[10] a indicare a tutti gli italiani, cattolici o no, che «è lafede a creare il coraggio, e che una fede era, perciò, necessaria per liberare l'Italia dalla lunga servitù».[9]
Gentile auspica quindi, con il suo intervento alla Scala, di contribuire a far risorgere lo spirito patriottico, morale e religioso di Manzoni, dopo che esso era caduto «in mano ai pedanti» e «nella più desolata superficialità» una volta raggiunta l'unità d'Italia.[11]
Molto più estesa è la trattazione suGiacomo Leopardi, nonostante la distanza filosofica daGentile, il quale, a differenza diBenedetto Croce, svolse una costante opera di studio su di lui e lo apprezzò intensamente, soprattutto alla luce dell'interpretazione diFrancesco de Sanctis,[12] ritenuto «il maggior critico che Leopardi abbia avuto».[13]
L'influsso di De Sanctis traspare dal modo in cui Gentile sottolinea la contraddizione di Leopardi tra l'aspetto lirico-ascetico della suapoetica, e l'impronta materialistica presente nelle sue riflessioni filosofiche.[12]
Il primo saggio su Leopardi,Studi leopardiani, è una raccolta di tre scritti nei quali Gentile effettua unarecensione delle opere di tre diversi autori. InLa filosofia del Leopardi Gentile contesta la lettura di Pasquale Gatti che attribuiva al poeta recanatese la teorizzazione di un vero e proprio sistema filosofico,[14] mentre Gentile nega con decisione che si possa parlare di una «filosofia leopardiana».
Leopardi è per Gentile innanzitutto «unpoeta, un grande, un divino poeta», e benché sia «incontestabile l'esistenza di una filosofia» in fondo a ogni mente umana, essa va considerata una «filosofia dei poeti», con la quale egli «esprime soltanto un suo stato d'animo».[15]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 36)
L'erronea convinzione di Pasquale Gatti che «nello Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema» ignora le differenze cronologiche con cui quel diario personale fu composto, i cui pensieri, lungi dall'essere «parti integranti d'un sistema logico», coprono un «periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella del Leopardi, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78».[15]
LoZibaldone va studiato non come filosofia a sé stante, bensì per intendere la poesia di Leopardi: esso non contiene che i «detriti della sua poesia», non ancora ravvivati dal canto. «La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell'animo dei poeti stessi; l'animo dei filosofi, invece, scompare nella loro filosofia».[15]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 42)
Le speculazioni leopardiane, del resto, che non nascono da vera passione filosofica, si basano esclusivamente su osservazioni empiriche, non contengono alcunacritica dellaragione, come inMontaigne o inPascal, al quale pur somiglia, né egli volle intendere a fondo il pensiero diPlatone eAristotele; la sua filosofia è semmai il retaggio delloscetticismo, daPirrone in poi.[15]
Concordando quindi su questo punto conBenedetto Croce, il quale toglieva ogni valore filosofico al genio di Leopardi, Gentile tuttavia riconosce che il talento della sua opera sta piuttosto nell'«uomo Leopardi, intero, con l'ansia e il terrore che gli desta lo spettacolo dell'infinito misterioso».[15]
Nella seconda recensione,Una storia del pensiero leopardiano, dedicata a uno studio di Giulio A. Levi,[16] che sostenenva l'unità di una vocazione filosofica, poetica e religiosa, Gentile ribadisce come nello Zibaldone non si trova niente «di più che non fosse» nelle altre opere di Leopardi, e che si può valutare la sua grandezza «facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia», poiché anche ilGioberti, nonostante la sua «profonda simpatia congeniale col Leopardi» non gli risparmiò «critiche profonde e ineluttabili».[17]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 48)
È stato rilevato in questo giudizio di Gentile una certa riluttanza a considerare valida l'esistenza di un collegamento trapoesia efilosofia che, come già inBenedetto Croce, la sua formazioneidealistica tendeva a negare. Per Gentile, più che altro, non può esserci vera filosofia senza quella visionespirituale che al Leopardi ripugnava. Il suopessimismo «è assolutamente inconciliabile col concetto del valore dellospirito».[15]
In Leopardi, secondo Gentile, è tuttavia presente il sentimento dell'umana grandezza, il quale avrebbe potuto fargli riconoscere che «la presunta concretezza dellamateria come tale non è altro che un'astrazione»; si tratta di unsentimento non elevato allacoscienza e che perciò confligge con ilconcetto della nullità dell'uomo di fronte alla natura.
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 54)
Recensendo infine, conLeopardi maestro di vita,[18] un saggio di Bertacchi,[19] giudicato retorico ed eccessivamente ottimista, Gentile si muove verso un'evoluzione della sua interpretazione di Leopardi: rifacendosi ancora a De Sanctis e alla contrapposizione tra «spirito buono» e «natura cattiva», rileva che da quella contrapposizione «trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l'uno né l'altro dei due elementi contraddittorii».[18]
Entrambi traggono alimento da una radice unitaria, nell'ottica della quale diventa lecito attribuire agli scritti di Leopardi, «dolente e desolato pessimista», «un'alta virtùeducativa e consolatrice».[18]
In una prolusione del 1927, rivolta al popolo italiano «raccolto nella coscienza di grandi doveri da assolvere»,[20] Gentile sottolinea nuovamente l'alto valore educativo di Leopardi, il cui «pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiammato nei cuori lafede nella vita, nella virtù e negli ideali che fanno degna e feconda la vita umana degli individui e dei popoli».[20]
Accostando Leopardi a Manzoni, ne riconosce ora una sua dignità filosofica,[21] attribuendogli una filosofia «in senso largo», anche se egli fu poi, viceversa, «un poeta in senso stretto». Leopardi «filosofo non fu, non ebbe un sistema»; «le sue idee non furono fecondate da una sua speciale ispirazione»; e tuttavia la filosofia, «come la poesia, non è privilegio né monopolio dei pochi [...] ma è in fondo allo spirito umano, e quindi nell'animo di tutti».[20]
Nonostante il suosensismo ematerialismo, la filosofia di Leopardi si espande «in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l'eterno e l'infinito»;[20] per questa sua capacità, come rilevava ilDe Sanctis, è in grado di suscitareottimismo e amore per lavita.
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, p. 100)
Egli non si rassegna «alla pura affermazione materialistica, perché la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la negazione del materialismo»; proprio per questa sua «lotta» tra la libertà dellospirito e il pessimismo materialistico della «noia», della «morte», della «nullità», egli non si condanna ad unnichilismo inerte, ma va annoverato tra i personaggi della grande tradizionerisorgimentale italiana.
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, p. 84)
Nel proemio del 1918 a un'edizione delleOperette morali,[22] Gentile intende evidenziarne la profonda unità che le anima, dissentendo stavolta dalla lettura frammentaria del De Sanctis, e contestando l'ordine cronologico con cui venivano tradizionalmente presentate.
Riscattandole anche dal giudizio negativo diCroce, egli le struttura in tre gruppi di sei operette, di cui il prologo, intitolatoStoria del genere umano rappresenta la loro chiave di comprensione.[23] Nelle prime dodici operette prevale una visione nichilista della vita e della natura, mentre le ultime sei «ricostruiscono [...] quello che le prime dodici hanno abbattuto».[23]
Nell'esito finale delle Operette, quali ad esempio ilDialogo di Plotino e Porfirio, Gentile vede il trionfo dell'amore sulla sofferenza e sulla fatalità del destino, il trionfo dell'«affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l'uomo».
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, p. 153)
Per la sua «coscienza dell'umana grandezza e sovranità sulla trista natura» Leopardi viene da Gentile equiparato aPascal quando ricorda che, per il poeta di Recanati, la prova della «grandezza e la potenza dell'umano intelletto, ossia l'altezza e la nobiltà dell'uomo»,[23] è data dal conoscere la propria piccolezza.[23]
Rispondendo ad una recensione critica del filosofoAdolfo Faggi sulleOperette, Gentile puntualizza il rapporto leopardiano tra filosofia e poesia:
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, p. 162)
Chi cerchi in lui il filosofo, troverà «lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre nell'invenzione», e non riuscirà a vedere il poeta, quello cioè che propriamente in lui «è vivo ed eterno e grande».[24]
La vivente unità organica delleOperette è ribadita in una commemorazione tenuta il 29 giugno 1927. Esse per Gentile non sono soltantoprosa, ma scritti dal sublime valorepoetico, in cui ricorre il perenne tema leopardiano del contrasto tra spirito e materia.[25]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 198)
Per Gentile, l'origine del dolore è nelpensiero; «ma il Poeta sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite».[25]
In occasione del centenario della morte di Leopardi, nel 1937 Gentile tenne un discorso pubblicato nell'opuscoloPoesia e filosofia di Giacomo Leopardi,[26] e aggiunto alla raccoltaManzoni e Leopardi in un'edizione successiva del 1960.
Citando di nuovo ilDialogo su Schopenhauer di De Sanctis, egli contrappone il «momentosatanico» di Leopardi, del senso del nulla e della vanità del tutto, alla sua «forza d'unafede», propria del «regno immortale dello spirito», e del «divino che è nell'uomo».[27]
L'ultimo saggio della raccolta è una conferenza di Gentile tenuta al Lyceum di Firenze il 6 aprile 1938 e pubblicata anch'essa nell'opuscoloPoesia e filosofia di Giacomo Leopardi.[26]
In esso Gentile torna a sottolineare lo spirito unitario che anima tutta la produzione del Leopardi. Non ha senso cioè distinguere variefasi del suo pessimismo:[28]
(Giovanni Gentile,Manzoni e Leopardi, pag. 232)
Poesia che è dominata costantemente dall'antitesi tra il «crudomaterialismo» da un lato, e il «misticosentimento» della «vita infinita e divina» della Natura dall'altro. Quello di Leopardi è un sentimento religioso da cui la sua «filosofia inferiore» lo distoglie, ma a cui viene ricondotto da una superiore «ultrafilosofia».[28]
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