

L'emigrazione italiana è unfenomeno emigratorio su larga scala finalizzato all'espatrio che interessa lapopolazione italiana, che ha riguardato dapprima l'Italia settentrionale e poi, dopo il 1880, anche ilMezzogiorno d'Italia[1], conoscendo peraltro anche consistenti movimenti interni, compresi cioè all'interno deiconfini geografici del Paese.
Sono stati tre i periodi durante i quali l'Italia ha conosciuto un cospicuo fenomeno emigratorio destinato all'espatrio. Il primo periodo, conosciuto comegrande emigrazione, ha avuto inizio nel 1861 dopo l'unità d'Italia ed è terminato neglianni venti delXX secolo con l'ascesa del fascismo. Il secondo periodo di forte emigrazione all'estero, conosciuto comemigrazione europea, è avvenuto tra la fine dellaseconda guerra mondiale (1945) e glianni settanta delXX secolo. Tra il 1861 e il 1985 hanno lasciato il Paese, senza farvi più ritorno, circa 18 725 000 italiani[2]. I loro discendenti, che sono chiamati "oriundi italiani", possono essere in possesso, oltre che della cittadinanza del Paese di nascita, anche dellacittadinanza italiana dopo averne fatto richiesta, ma sono pochi i richiedenti che risiedono fuori Italia. Gli oriundi italiani ammontano nel mondo a un numero compreso tra i 60 e gli 80 milioni[3].
Una terza ondata emigratoria destinata all'espatrio, che è cominciata all'inizio delXXI secolo e che è conosciuta comenuova emigrazione, è causata dalle difficoltà che hanno avuto origine nellagrande recessione,crisi economica mondiale che è iniziata nel 2007. Questo terzo fenomeno emigratorio, che ha una consistenza numerica inferiore rispetto ai due precedenti, interessa principalmente i giovani, spesso laureati, tant'è che viene definito come una "fuga di cervelli". Secondo l'anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE), il numero di cittadini italiani che risiedono fuori dall'Italia è passato dai 3 106 251 del 2006 ai 6 381 536 del 2024, con un incremento pari all'105,44%[4].


Tra il 1861 e il 1985 gli italiani che hanno lasciato il proprio Paese sono stati circa 29 milioni: di questi, circa 10 275 000 sono successivamente tornati in Italia (35%), mentre circa 18 250 000 si sono definitivamente stabiliti all'estero (65%) senza farvi più ritorno[2]. Nell'arco di poco più di un secolo è emigrato un numero consistente di italiani, soprattutto considerando la popolazione residente nella Penisola al momento dellaproclamazione del Regno d'Italia (1861) che era, considerando i confini attuali (cioè anche conLazio eTriveneto), pari a circa 26 milioni di italiani[5] (la popolazione italiana raggiunse poi, nel 1981, i 56 milioni di abitanti[6]). Si trattò di un esodo che toccò tutte leregioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 l'emigrazione italiana interessò prevalentemente l'Italia settentrionale, con tre regioni che fornirono da sole più del 47% dell'intero contingente migratorio: ilVeneto (17,9%), ilFriuli-Venezia Giulia (16,1%) e ilPiemonte (13,5%)[7]. Nei due decenni successivi il primato migratorio passò all'Italia meridionale, con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto daCalabria,Campania,Puglia eSicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia[8].
La causa principale dell'emigrazione italiana fu la povertà, dovuta alla mancanza di terra da lavorare, specialmente nell'Italia meridionale[9]. Altre motivazioni furono problemi politici interni, tra cui l'avversione dello Stato italiano verso glianarchici, tant'è che molti di essi decisero di emigrare[10], e l'insicurezza causata dallacriminalità organizzata. Altre difficoltà sorgevano daicontrattiagricoli in uso nelXIX secolo, specialmente nel nord-est e nel sud, che non erano convenienti per gli agricoltori, molti dei quali furono spinti a lasciare l'Italia in cerca di condizioni migliori[11].
Altra decisiva causa che si aggiunse a quelle sopracitate fu la sovrappopolazione, soprattutto nell'Italia meridionale, che ebbe origine dal miglioramento delle condizioni socioeconomiche del Paese, avvenuto nei primi decenni dopo l'unificazione nazionale (1861). Le famiglie dell'Italia meridionale iniziarono infatti ad avere accesso (per la prima volta) agli ospedali, a migliori condizioni igieniche e a un più costante approvvigionamento di cibo[12].

Ciò portò a unacrescita demografica che spinse le nuove generazioni, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, a emigrare all'estero, soprattutto nelleAmeriche. Contemporaneamente, ilcapitale industriale si diffuse, dalla sua precedente ed esclusiva concentrazione nelle città dell'Europa settentrionale e nelRegno Unito, anche nelle Americhe e nellepiantagioni e nelleminiere dellecolonie europee inAfrica e inAsia[13]. Questa diffusione di capitali creò milioni di posti di lavoro non qualificati in tutto il mondo: ciò invogliò milioni di italiani a lasciare il proprio Paese in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori[14].
Si può suddividere l'emigrazione italiana in tre fasi temporali: la cosiddettagrande emigrazione, che avvenne tra la fine delXIX secolo e glianni trenta delXX secolo (dove fu preponderante l'emigrazione verso leAmeriche)[8], l'emigrazione europea, che ha avuto inizio neglianni cinquanta e che è terminata neglianni settanta del XX secolo[15], e lanuova emigrazione, che è iniziata all'inizio delXXI secolo a causa della gravecrisi economica del 2007-2008. Nel 2011, a livello mondiale, erano 4 636 647 gli italiani residenti all'estero[4], a cui va sommato un numero compreso tra i 60 e gli 80 milioni di discendenti degli emigrati, chiamati "oriundi italiani", che hanno lasciato il loro Paese tra il XIX e il XX secolo senza farvi più ritorno[3]. Questi oriundi possono essere in possesso, oltre che della cittadinanza del Paese di nascita, anche dellacittadinanza italiana.
Il quadro complessivo del fenomeno è il seguente[2]:
| Numero di emigrati italiani per decennio e per nazione di destinazione | |||||||||
| Anni | Altri Paesi | Totale | |||||||
|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
| 1861-1870 | 288.000 | 44.000 | 38.000 | - | - | - | - | 91.000 | 461.000 |
| 1871-1880 | 347.000 | 105.000 | 132.000 | 26.000 | 86.000 | 37.000 | 460 | 265.000 | 1.458.000 |
| 1881-1890 | 374.000 | 86.000 | 71.000 | 251.000 | 391.000 | 215.000 | 1.590 | 302.000 | 2.680.000 |
| 1891-1900 | 259.000 | 230.000 | 189.000 | 520.000 | 367.000 | 580.000 | 3.440 | 390.000 | 4.935.000 |
| 1901-1910 | 572.000 | 591.000 | 655.000 | 2.394.000 | 734.000 | 303.000 | 7.540 | 388.000 | 5.633.000 |
| 1911-1920 | 664.000 | 285.000 | 433.000 | 1.650.000 | 315.000 | 125.000 | 7.480 | 429.000 | 3.908.480 |
| 1921-1930 | 1.010.000 | 11.490 | 157.000 | 450.000 | 535.000 | 76.000 | 33.000 | 298.000 | 2.570.490 |
| 1931-1940 | 741.000 | 7.900 | 258.000 | 170.000 | 190.000 | 15.000 | 6.950 | 362.000 | 1.851.850 |
| 1946-1950 | 175.000 | 2.155 | 330.000 | 158.000 | 278.000 | 45.915 | 87.265 | 219.000 | 1.297.335 |
| 1951-1960 | 491.000 | 1.140.000 | 1.420.000 | 297.000 | 24.800 | 22.200 | 163.000 | 381.000 | 3.939.000 |
| 1961-1970 | 898.000 | 541.000 | 593.000 | 208.000 | 9.800 | 5.570 | 61.280 | 316.000 | 2.632.650 |
| 1971-1980 | 492.000 | 310.000 | 243.000 | 61.500 | 8.310 | 6.380 | 18.980 | 178.000 | 1.318.170 |
| 1981-1985 | 20.000 | 105.000 | 85.000 | 16.000 | 4.000 | 2.200 | 6.000 | 63.000 | 301.200 |
| Partiti | 6.322.000 | 3.458.000 | 4.604.000 | 6.201.000 | 2.941.000 | 1.432.000 | 396.000 | 3.682.000 | 29.036.000 |
| Tornati | 2.972.000 | 1.045.000 | 2.058.000 | 721.000 | 750.000 | 162.000 | 92.000 | 2.475.000 | 10.275.000 |
| Rimasti | 3.350.000 | 2.413.000 | 2.546.000 | 5.480.000 | 2.191.000 | 1.270.000 | 304.000 | 1.207.000 | 18.761.000 |
| Totale partiti: 29.036.000 ·Totale tornati: 10.275.000 ·Totale rimasti: 18.761.000 | |||||||||

Una delle comunità storiche di emigrati italiani sono gliitalo-levantini, che da secoli sono radicati nella modernaTurchia, specialmente aIstanbul (l'anticaCostantinopoli) e aSmirne. Gli italo-levantini, che sono insediati nelMediterraneo orientale dai tempi dellecrociate e dellerepubbliche marinare italiane, sono una piccola comunità di discendenti dei colonigenovesi eveneziani (e in minor partepisani efiorentini) che si sono trasferiti neifondachi orientali delle repubbliche marinare, principalmente per il commercio e per il controllo del traffico marittimo tra la penisola italiana e l'Asia. Le loro principali caratteristiche sono quelle di avere mantenuto lafede cattolica in un Paese prevalentementemusulmano, di continuare a parlare l'italiano tra loro (pur esprimendosi anche inturco,greco efrancese nei rapporti sociali) e di non essersi fusi (con matrimoni misti) con le locali popolazioni turche. Nei decenni intorno allaprima e allaseconda guerra mondiale vennero definiti "levantini", ovvero "italiani dellevante"[16]. Al 2017 sono presenti, in Turchia, circa 4 000 italo-levantini.
Gliitalo-libanesi sono una comunità insediata inLibano che è composta da alcune migliaia di persone. Durante ilMedioevo le repubbliche marinare crearono piccole colonie commerciali nel moderno Libano, le più importante delle quali furono lecolonie genovesi diBeirut,Tripoli eBiblo[17]: qui si stanziarono molti coloni genovesi, che a volte si fusero con le popolazioni locali. In tempi più recenti gli italiani sono emigrati in Libano in piccoli gruppi, specialmente alla fine dell'Ottocento e negli anni intorno alla prima e alla seconda guerra mondiale. La maggior parte di loro ha scelto di stabilirsi aBeirut, per via del suo stile di vitaeuropeo. Al 2017 la comunità di italo-libanesi è composta di circa 4 300 persone.
Gliitaliani di Odessa sono menzionati per la prima volta in documenti delDuecento, quando sul territorio della futuraOdessa,città dell'Ucraina meridionale sulMar Nero, fu collocato l'ancoraggio dellenavi commerciali genovesi, che venne chiamato "Ginestra", forse dal nome della pianta diginestra, molto diffusa nellesteppe del Mar Nero. L'affluenza degliitaliani nel sud dell'Ucraina crebbe particolarmente con la fondazione diOdessa, che avvenne nel 1794. Tutto ciò fu facilitato dal fatto che alla guida dell'appena fondata capitale del bacino del Mar Nero ci fosse un napoletano di origine spagnola,Giuseppe De Ribas, in carica fino al 1797. Nel 1797 si contavano a Odessa circa 800 italiani, pari al 10% della popolazione totale: si trattava per lo più di commercianti e di marinai napoletani, genovesi e livornesi, a cui poi si aggiunsero artisti, tecnici, artigiani, farmacisti e insegnanti[18]. LaRivoluzione del 1917 fece partire molti di loro verso l'Italia, o per altre città dell'Europa. Inepoca sovietica di italiani di Odessa ne rimasero solo poche decine, la maggior parte dei quali non conosceva più la propria lingua. Con il tempo si sono fusi con la popolazione locale, perdendo le connotazioni etniche di origine.

Gliitaliani di Crimea sono unaminoranza etnica residente nellapenisola omonima, il cui nucleo più consistente si trova nella città diKerč'. Il primo flusso migratorio italiano giunse a Kerč' all'inizio dell'Ottocento. Nel 1820 in città abitavano circa trenta famiglie italiane provenienti da varie regioni. Il porto di Kerč' era regolarmente frequentato da navi italiane ed era stato aperto anche un consolato delRegno di Sardegna. Fra il 1820 e la fine del secolo giunsero in Crimea, nel territorio di Kerč', emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi diTrani,Bisceglie eMolfetta, allettati dalla promessa di buoni guadagni, dalla fertilità delle terre e dalla pescosità dei mari. Gli italiani si diffusero anche aFeodosia (l'anticacolonia genovese diCaffa),Simferopoli,Odessa,Mariupol e in alcuni altri porti russi e ucraini delMar Nero, soprattutto aNovorossijsk eBatumi. Secondo ilComitato statale ucraino per le nazionalità, nel 1897 gli italiani sarebbero stati l'1,8% della popolazione dellaprovincia di Kerč, percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone[19]. Con l'avvento dell'Unione Sovietica, alcune famiglie fuggirono in Italia viaCostantinopoli, mentre gli altri furono perseguitati con l'accusa di simpatizzare per ilfascismo. A metà degli anni venti del Novecento gli emigrati italiani antifascisti rifugiati inUnione Sovietica furono inviati a Kerč per "rieducare" la minoranza italiana. A seguito di ciò, nel censimento del 1933, la percentuale degli italiani risultava scesa all'1,3% della popolazione della provincia di Kerč. Infine, tra il 1935 e il 1938, lepurghe staliniane fecero sparire nel nulla molti italiani di Crimea, arrestati con l'accusa formale dispionaggio a favore del fascismo e di praticare attività controrivoluzionarie. Nel 1942, durante laseconda guerra mondiale, a causa dell'avanzamento dellaWehrmacht inUcraina e in Crimea, la minoranza italiana presente sul territorio sovietico finì deportata con l'accusa dicollaborazionismo, seguendo il destino deitedeschi del Volga, già deportata nell'agosto 1941 durante l'operazione Barbarossa. La popolazione degli italiani di Crimea ammonta nel 2017 a circa cinquecento persone, anche se un censimento ufficiale non è mai stato effettuato. La maggior parte di loro risiede a Kerč, dove nel 2008 è stata costituita l'associazione "C.E.R.K.I.O." (Comunità degli Emigrati in Regione di Crimea - Italiani di Origine).

Igenovesi di Gibilterra sono una comunità etnica radicata da secoli aGibilterra: è costituita dai discendenti digenovesi e – più generale – deiliguri che si sono stabiliti in questa città durante l'esistenza della Repubblica di Genova. Questo gruppo etnico è totalmente integrato nella società di Gibilterra e nessuno parla più l'originarialingua ligure. Ancora oggi si trovano con evidenza molte tracce di una comunitàgenovese che si insediò a Gibilterra nelXVI secolo e che ancora ai primi delSettecento componeva quasi la metà della popolazione di Gibilterra. Nella seconda metà dell'Ottocento si radicarono a Gibilterra anche alcunisiciliani, ma la maggior parte della comunità italiana di Gibilterra rimase ligure. La lingua genovese era l'idioma più parlato a Gibilterra nel primo secolo dell'occupazione britannica, ma in seguito a un'epidemia, nel 1804, che spopolò Gibilterra, perse il suo primato per via del ripopolamento da altre aree (specialmente spagnole e portoghesi): alla fine dell'Ottocento la comunità genovese di Gibilterra iniziò a non usare più la propria lingua, preferendo ilLlanito (un misto locale di spagnolo e inglese, che contiene circa 700 parole prese dallalingua ligure)[20]. Il genovese scomparve da Gibilterra alla fine dell'Ottocento[21]. La lingua ligure era parlata ancora da alcuni anziani fino agli anni settanta delNovecento aLa Caleta, un villaggio vicino aCatalan Bay nella parte nord-orientale del promontorio di Gibilterra[22]. Al 2017 la popolazione civile di Gibilterra con cognomi genovesi (o italiani) si aggira intorno al 20% del totale.
Icorfioti italiani sono una popolazione dell'isola greca diCorfù con legame etnico e linguistico con laRepubblica di Venezia. La Repubblica di Venezia dominò Corfù per quasi cinque secoli fino al 1797: in questo lungo periodo molti veneziani si stabilirono sull'isola, costituendone la classe dirigente e mantenendo laloro lingua e lareligione cattolica[23]. Agli inizi del secolo XIX la maggior parte della popolazione di Corfù parlava lalingua italiana come seconda lingua. Nel 1870 il governo greco vietò l'uso della lingua italiana, temendo l'irredentismo italiano. All'epoca abitavano a Corfù anche circa cinquemilaebrei italiani, dettiItalkian, che furono quasi completamente sterminati dai nazisti dopo la resa dell'Italia l'8 settembre 1943. Oltre a questi, erano presenti a Corfù circa tremilacinquecentomaltesi di lingua italiana e di religione cattolica,immigrati a Corfù daMalta nel corso dei secoli. Dopo la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale, il governo ha favorito la totale integrazione nella società greca dei pochi corfioti italiani rimasti: gli ultimi anziani che parlavano ancora ilveneto da mar dei corfioti italiani sono deceduti negli anni ottanta del Novecento[24].
(Risposta di un emigrante italiano ad un ministro italiano, sec. XIX[25][26][27][28], riportata da Costantino Ianni -Homens sem paz, Civilização Brasileira, 1972, ed esposta nelMemoriale dell'immigrato diSan Paolo)

Con l'Unità d'Italia scomparvero, dalle campagne italiane, soprattutto quelle del sud della penisola, queicontrattiagricoli che avevano le proprie origini nelMedioevofeudale e che prevedevano che la terra fosse una proprietà inalienabile degliaristocratici, degliordini religiosi oppure del re. Tuttavia la scomparsa di questo sistema feudale, e la conseguente ridistribuzione della terra, non portò i benefici sperati ai piccoli agricoltori dell'Italia meridionale.
Molti rimasero comunque senza terra, dato che gli appezzamenti diventavano sempre più piccoli, e quindi sempre meno produttivi, poiché la terra veniva costantemente suddivisa tra gli eredi, frazionandosi sempre di più con il passare delle generazioni, con la conseguenza di non essere più in grado di soddisfare i bisogni delle famiglie che la lavoravano[11]. Come già accennato, l'emigrazione dall'Italia meridionale venne preceduta da quella dalla parte settentrionale e centrale della penisola italiana.
Tra il 1861 e laprima guerra mondiale, durante lagrande migrazione, lasciarono l'Italia circa 9 milioni di abitanti, che si diressero principalmente inAmerica meridionale esettentrionale (in particolareArgentina,Stati Uniti eBrasile, tutti Paesi con grandi estensioni di terre non sfruttate e quindi con necessità di manodopera)[29] e inEuropa, in particolare inFrancia. Nel 1876 venne effettuata la prima statistica sull'emigrazione a cura dellaDirezione Generale di Statistica.

A partire dalla fine del XIX secolo vi fu anche una consistente emigrazione verso l'Africa, che riguardò principalmente l'Egitto, laTunisia e ilMarocco, ma che nel secolo XX interessò pure l'Unione Sudafricana e lecolonie italiane dellaLibia e dell'Eritrea[30]. Negli Stati Uniti si caratterizzò prevalentemente come un'emigrazione di lungo periodo, spesso priva di progetti concreti di ritorno in Italia, mentre in Brasile, Argentina e Uruguay fu sia stabile che temporanea (la cosiddettaemigración golondrina[31]). A dare avvio alla possibilità di emigrazione verso le Americhe fu il progresso in campo navale della seconda metà dell'Ottocento, grazie al quale si iniziò a costruire navi a scafo metallico, sempre più capienti, che ridusse sia il costo (prima improponibile per un emigrante di povere condizioni) sia la pericolosità del viaggio. L'emigrazione verso il Brasile fu favorita a partire dal 1888, quando fuabolita la schiavitù, evento che agevolò l'accoglienza di manodopera d'immigrazione.
Due terzi dei migranti che lasciarono l'Italia tra il 1870 e il 1914 erano uomini senza una specializzazione lavorativa precisa. Prima del 1896, la metà dei migranti era costituita da contadini[13]. Con l'incremento del numero di emigranti italiani all'estero, aumentarono anche le loro rimesse, che incoraggiarono un'ulteriore emigrazione, anche a fronte di fattori che avrebbero dovuto far diminuire la necessità di lasciare il Paese, come ad esempio l'aumento dei salari in Italia. I primi emigranti che lasciarono l'Italia rimandavano in patria parte del denaro guadagnato, che veniva poi utilizzato dai parenti e dagli amici per i biglietti necessari per emigrare. Questo fece nascere un flusso migratorio costante, dal momento che il miglioramento delle condizioni di vita in Italia richiese decenni prima di avere i suoi effetti, ovvero convincere chi era nel dubbio a non lasciare il Paese. Il flusso di emigranti italiani fu anche causato da eventi drammatici, come le conseguenze dellaprima guerra mondiale, che sconvolsero il Paese anche a conflitto terminato, soprattutto la sua economia.
Come risposta, i Paesi che accoglievano i migranti italiani misero in atto iniziative, anche legislative, atte a frenare il fenomeno. Esempi di tali restrizioni furono, negli Stati Uniti, l'Emergency Quota Act del 1921 e l'Immigration Act del 1924. Anche l'Italia fascista mise in atto iniziative, negli anni venti e trenta, per frenare l'emigrazione[32]. Molti piccoli paesi (in particolare quelli a tradizione contadina) subirono infatti un forte fenomeno di spopolamento. Esemplificativo è il caso del comune diPadula, piccolo centro nelsalernitano, che tra il 1881 e il 1901 vide, nell'arco di vent'anni, il dimezzamento della sua popolazione[33].

L'emigrazione non ha influenzato nello stesso modo tutte le regioni italiane. Nella seconda fase dell'emigrazione (quella dal 1900 alla prima guerra mondiale), poco meno della metà degli emigranti proveniva dal sud e la maggior parte di essi veniva dalle zone rurali, da dove venivano allontanati dall'inefficiente gestione della terra, dall'insicurezza dovuta alcrimine organizzato e dalle malattie (soprattuttopellagra ecolera). Lamezzadria, forma di contratto agricolo che prevedeva la compartecipazione delle famiglie di contadini alle rendite grazie all'ottenimento di una quota ragionevole dei profitti, era più diffusa nell'Italia centrale: questo è uno dei motivi per cui tale area della penisola italiana fu quella che meno conobbe il fenomeno emigratorio.
Al sud invece mancavano gli imprenditori, con i proprietari terrieri che erano spesso assenti dalle loro aziende agricole poiché vivevano stabilmente in città lasciando la gestione dei loro fondi a soprastanti, che non erano stimolati dai proprietari a far rendere al massimo le tenute agricole. Sebbene la superficie di terra posseduta fosse, per gliaristocratici, la misura tangibile della loro ricchezza, l'agricoltura era vista, da un punto di vista sociale, con disprezzo. I possidenti terrieri generalmente non investivano in attrezzature agricole e – più generale – nel miglioramento delle tecniche produttive, ma inobbligazioni statali a basso rischio[11].

L'emigrazione dalle città era rara, con l'unica eccezione rappresentata daNapoli[11]. Con l'Unità d'Italia molte città, ad esclusione diRoma, passarono dall'essere la capitale del proprio regno a rappresentare una delle tante città italianecapoluogo di provincia. La conseguente perdita di posti di lavoro nell'ambito burocratico portò all'aumento della disoccupazione. La situazione cambiò in parte agli inizi del 1880: le epidemie dicolera iniziarono a colpire anche le città, causando l'emigrazione di molti italiani.
Nei primi anni dopo l'Unità d'Italia l'emigrazione non era controllata dallo Stato. Gli emigranti erano spesso nelle mani di agenti di emigrazione il cui obiettivo era fare profitto per sé stessi senza curarsi più di tanto degli interessi degli emigranti. Questi agenti venivano chiamati "padroni"[13]. I loro abusi portarono in Italia alla prima legge sull'emigrazione, approvata nel 1888, il cui obiettivo era quello di mettere sotto controllo statale gli organismi di emigrazione[34].
Il 31 gennaio 1901 fu creato ilcommissariato dell'emigrazione, che concedeva le licenze alle imbarcazioni, applicava costi fissi per i biglietti, manteneva l'ordine nei porti di imbarco, ispezionava gli emigranti in partenza, individuava ostelli e strutture di accoglienza e stipulava accordi con i Paesi di destinazione del flusso migratorio per aiutare coloro che arrivano. Il commissariato aveva quindi la funzione di prendersi cura degli emigranti prima della partenza e dopo il loro arrivo, di rapportarsi con le leggi che discriminavano i lavoratori stranieri (come laAlien Contract Labor Law negli Stati Uniti) e di sospendere, per un certo periodo, l'emigrazione in Brasile, dove molti emigranti erano diventati dei veri e propri schiavi nelle grandipiantagioni di caffè (come già accennato, era recente l'abolizione della schiavitù in questo Paese sudamericano)[34]. In questo contesto venne emanato ildecreto Prinetti, che impediva la "schiavizzazione", nella sostanza, dell'emigrato italiano[35].
Il commissariato aveva anche il compito di gestire le rimesse inviate dagli emigrati dagli Stati Uniti in Italia, che si erano trasformate in un flusso costante di denaro che ammontava, secondo alcuni studi, a circa il 5% delprodotto nazionale lordo italiano[36]. Nel 1903 il commissariato decretò anche quali sarebbero stati i porti di imbarco destinati agli emigranti:Palermo,Napoli eGenova. In precedenza anche ilporto di Venezia fu utilizzato per tale scopo: il commissariato decise poi di depennarlo dalla lista[37].

Come conseguenza della massiccia emigrazione dalla penisola, iniziarono a nascere moltipregiudizi contro gli italiani (fenomeno che è all'antitesi dell'italofilia, che invece è l'ammirazione, la stima e l'amore verso gliitaliani e l'Italia). Questo fenomeno didiscriminazioneetnica contro gli italiani e l'Italia è attestato ancora oggi soprattutto nei Paesi delNordamerica (Stati Uniti eCanada), dell'Europa centro-settentrionale (Germania,Svezia,Austria,Svizzera,Belgio,Francia eRegno Unito) e neiBalcani (Slovenia e una parte dellaCroazia). Altre cause di questa avversione nei confronti degli italiani sono stati eventi storici, soprattutto di natura bellica, oppure l'ostilità nazionalistica ed etnica, come nel caso di Slovenia e Croazia, che è legata all'irredentismo italiano in quelle terre, ovvero l'irredentismo italiano in Istria e l'irredentismo italiano in Dalmazia.
Degni di nota, tra gli episodi di violenza contro gli italiani perpetrati nel mondo, sono illinciaggio di New Orleans (1891), durante il quale vennerolinciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati di aver ucciso il capo della polizia urbana della città statunitense[38], e ilmassacro di Aigues-Mortes, avvenuto nell'agosto del 1893, che fu scatenato da un conflitto tra operai francesi e italiani (soprattuttopiemontesi, ma anchelombardi,liguri,toscani) impiegati nellesaline di Peccais, e che si trasformò in un vero e proprio eccidio, con un numero di morti ancora non accertato e un centinaio di feriti tra i lavoratori italiani. La tensione che ne seguì fece sfiorare la guerra tra i due Paesi[39][40]. Degno di menzione è anche il processo aglianarchici italianiSacco e Vanzetti, avvenuto aBoston nel 1927, durante il quale il pregiudizio contro gliimmigrati italiani emerse con chiarezza e contribuì alla loro condanna a morte[41] insieme alle idee politiche che propugnavano i due[42].
Lo scoppio dellaprima guerra mondiale rese pericolosi gli spostamenti navali transoceanici e quindi l'emigrazione italiana – e più in generale quella europea – verso le Americhe si arrestò completamente. Terminata la guerra, il fenomeno migratorio riprese con vigore, visto che le condizioni delle varie economie nazionali nell'immediato dopoguerra furono estremamente problematiche.

Le testate giornalistiche straniere, per scoraggiare nuovi arrivi, pubblicavano periodicamente articoli assai aggressivi contro gli emigranti italiani, che erano poco diversi da quelli divulgati quarant'anni prima (ad esempio, il 18 dicembre 1880 ilThe New York Times pubblicò uneditoriale dal titolo "Emigranti indesiderati", che era carico di invettive contro l'emigrazione italiana, definita: " immigrazione promiscua [di] feccia sporca, sventurata, pigra, criminale dei bassifondi italiani"). Similmente aggressivo fu un articolo del 17 aprile 1921 sullo stesso quotidiano, che era intitolato "Gli italiani arrivano a grandi numeri " e che aveva unocchiello che recitava "Il numero di immigrati sarà limitato solo dalla capacità delle navi" (c'era infatti un numero circoscritto di navi disponibili a causa delle perdite di natanti avvenute in tempo di guerra): l'articolo poi spiegava, con toni polemici, l'eccessivo numero di potenziali emigranti che stavano affollando le banchine del porto di Genova. Il pezzo giornalistico continuava con "[...] lo straniero che cammina attraverso una città come Napoli può facilmente rendersi conto del problema con cui il governo ha a che fare: le strade secondarie sono letteralmente brulicanti di bambini che si scorrazzano per le vie e sui marciapiedi sporchi e felici. [...] La periferia di Napoli [...] brulica di bambini che, per numero, può essere paragonato solo a quelli che si trovano aDelhi,Agra e in altre città delleIndie orientali [...]".

Nel 1920 partirono dai porti italiani 614.000 emigranti, metà dei quali si trasferirono negli Stati Uniti. Le estreme difficoltà economiche dell'Italia del primo dopoguerra, e le gravi tensioni interne[43], portarono anche - a partire dallapresa del potere delfascismo nel 1922 - ad un nuova fase dell'emigrazione italiana, contraddistinta da elementi nuovi: a differenza dei decenni precedenti (quando emigravano quasi esclusivamente adulti in età lavorativa), stavolta era presente, ad esempio, un marcato aumento del numero di interefamiglie che si trasferivano all'estero, comprese donne, bambini e ragazzi.
Nonostante il generale rallentamento nel flusso di emigranti dall'Italia, voluto dal regime per contenere lo spopolamento dei piccoli borghi, durante i primi cinque anni dell'epoca fascista 1,5 milioni di persone lasciarono l'Italia[44].

Il legame degli emigrati con la madre patria continuò a essere molto forte anche dopo la loro partenza. Il loro contributo alla costruzione delVittoriano (1885-1935), che venne elargito grazie a una sottoscrizione popolare organizzata durante la sua fase di edificazione, è tangibile su una parte del monumento dedicato a reVittorio Emanuele II di Savoia: sui due bracieri che ardono perennemente all'Altare della Patria a fianco della tomba delMilite Ignoto, è collocata una targa il cui testo recita "Gli italiani all'estero alla Madre Patria" in ricordo alle donazioni fatte dagli emigrati italiani tra la fine del XIX secolo e l'inizio XX secolo[45]. Il significatoallegorico delle fiamme che ardono perennemente è legata alla lorosimbologia, che è antica di secoli, dato che affonda le sue origini nell'antichità classica, in particolar modo nelculto dei morti[46]. Un fuoco che brucia eternamente simboleggia che il ricordo, in questo caso del sacrificio del Milite Ignoto e dell'amor patrio ad esso collegato, è perennemente vivo negli italiani, anche in quelli che sono lontani dal loro Paese, e non svanirà mai[46].

L'emigrazione italiana della seconda metà delXX secolo ebbe invece come destinazione soprattutto le nazioni europee in crescita economica. A partire daglianni quaranta il flusso emigratorio italiano si diresse principalmente inSvizzera e inBelgio, mentre dal decennio successivo, tra le mete predilette, si aggiunsero laFrancia e laGermania[47][48][49]. Questi Paesi erano considerati da molti, al momento della partenza, come una meta temporanea – spesso solo per alcuni mesi – nella quale lavorare e guadagnare per costruire poi un futuro migliore in Italia. Questo fenomeno si verificò soprattutto a partire daglianni settanta delNovecento, periodo che fu contraddistinto dal ritorno in patria di molti emigrati italiani.

Lo Stato italiano firmò nel 1955 un patto di emigrazione con la Germania con il quale si garantiva il reciproco impegno in materia di movimenti migratori e che portò quasi tre milioni di italiani a varcare la frontiera in cerca di lavoro. Al 2017 sono presenti in Germania circa 700.000oriundi italiani, mentre in Svizzera questo numero raggiunge circa i 500.000 cittadini. Sono prevalentemente di originesiciliana,calabrese,abruzzese epugliese, ma ancheveneta edemiliana, molti dei quali hanno doppio passaporto e quindi lapossibilità di voto in entrambe le nazioni. In Belgio e Svizzera le comunità italiane restano le più numerose rappresentanze straniere, e nonostante molti facciano rientro in Italia dopo il pensionamento, spesso i figli e i nipoti rimangono nelle nazioni di nascita, dove hanno ormai messo radici.

Un importante fenomeno di aggregazione che si riscontra in Europa, come anche negli altri Paesi e continenti che sono stati meta dei flussi migratori di italiani, è quello dell'associazionismo di emigrazione. IlMinistero degli esteri calcola che siano presenti all'estero oltre diecimila associazioni costituite dagli emigrati italiani nel corso di oltre un secolo. Associazioni dimutuo soccorso, culturali, di assistenza e di servizio che hanno costituito un fondamentale punto di riferimento per le collettività emigrate nel difficile percorso di integrazione nei Paesi di arrivo. Le maggiori reti associative di varia ispirazione ideale sono oggi riunite nella CNE (Consulta Nazionale dell'Emigrazione). Una delle maggiori reti associative presenti al mondo, assieme a quelle delmondo cattolico, è quello dellaFederazione italiana dei lavoratori emigrati e famiglie.

Tra la fine delXX secolo e l'inizio del successivo si è molto attenuato il flusso di emigrati italiani nel mondo. Tuttavia, in seguito agli effetti della gravecrisi economica che ha avuto inizio nel 2007, dalla fine deglianni duemiladieci è ripartito un flusso continuo di espatri, numericamente inferiore ai due precedenti, che interessa principalmente i giovani, spesso laureati, tant'è che viene definito come una "fuga di cervelli".
In particolare tale flusso è principalmente diretto verso laGermania, dove sono giunti, solo nel 2012, oltre 35.000 italiani, ma anche verso altri Paesi come ilRegno Unito, laFrancia, laSvizzera, ilCanada, l'Australia, gliStati Uniti d'America e iPaesi sudamericani. Si tratta di un flusso annuo che, stando ai dati dell'anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE) del 2012, si aggira intorno alle 78.000 persone con un aumento di circa 20.000 rispetto al 2011, anche se si stima che il numero effettivo delle persone che sono emigrate sia notevolmente superiore (tra il doppio e le tre volte), in quanto molti connazionali cancellano la loro residenza in Italia con molto ritardo rispetto alla loro partenza effettiva.
Il fenomeno della cosiddetta "nuova emigrazione"[50] causata dalla grave crisi economica riguarda peraltro tutti i Paesi del sudEuropa comeSpagna,Portogallo eGrecia (oltre all'Irlanda e allaFrancia) che registrano analoghe, se non maggiori, tendenze emigratorie. È opinione diffusa che i luoghi dove non si registrino mutamenti strutturali nelle politiche economico-sociali siano quelli più soggetti all'aumento di questo flusso emigratorio. Per quanto riguarda l'Italia è anche significativo il fatto che tali flussi non riguardino più soltanto le regioni del meridione italiano, ma anche quelle del nord, comeLombardia edEmilia-Romagna.
Si tratta di nuovo tipo di emigrazione, molto diversa da quella storica. Non è quindi riconducibile, per tipologia, ai flussi migratori dei secoli scorsi. Secondo le statistiche disponibili, la comunità dei cittadiniitaliani residenti all'estero ammonta a 4.600.000 persone (dati del 2015). È quindi ridotta di molto, da un punto di vista percentuale, dai 9.200.000 dei primianni venti (quando era circa un quinto dell'intera popolazione italiana)[51].
Il "Rapporto Italiani nel Mondo 2011" realizzato della Fondazione Migrantes, che fa capo allaCEI, ha precisato che:
(Rapporto della CEI sulla "Nuova emigrazione")
Nel 2008 circa 60.000 italiani hanno cambiato cittadinanza; essi provengono per lo più dalNord Italia (74%) e hanno prediletto, come patria di adozione, la Germania (il 12% del totale degli emigrati)[54]. Tra glianni '10 e glianni '20 delXXI secolo si è raggiunto un picco di partenze medio annuo di oltre 120.000 emigranti all'anno[55][56]: 99.000 nel 2022, 114.000 nel 2023 e 156.000 nel 2024[57].
Uno studio italo-inglese del 2023 ha messo in luce come i dati reali siano tre volte superiori a quelli ufficiali, e che pertanto il volume di emigrazione giovanile deglianni 2020 sia paragonabile a quello deldecennio 1950[58].
Per il calcolo del numero dei cittadini italiani residenti all'estero ci si affida al numero degli iscritti all'anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE).
L'evoluzione negli anni del numero degli iscritti all'AIRE (in migliaia) è la seguente[59]:[60]


Ai tempi delcolonialismo italiano la presenza di emigrati italiani inAfrica era consistente, per poi andare via via scemando dopo la sconfitta dell'Italia nellaseconda guerra mondiale, che portò alla perdita di tutti i territori coloniali. NelCorno d'Africa, in particolare, l'insediamento di italiani fu cospicuo. Nell'Eritrea italiana la presenza diitalo-eritrei passò dai 4.000 dello scoppio della prima guerra mondiale (1915) ai 100.000 dell'inizio della seconda guerra mondiale (1940) (con 49.000 italiani che vivevano nella capitale, adAsmara, costituendone il 10% della popolazione)[61]. Al 2017 in Eritrea sono rimaste poche centinaia di italiani. Analogamente ci fu una tangibile presenza di italiani anche inEtiopia, che fu colonia italiana per sei anni (1936-1941). In questo periodo gliitalo-etiopici raggiunsero la cifra di 300.000, di cui 38.000 vivevano nella capitale,Addis Abeba. Al 2017 ne sono rimasti poche decine.
Nel 1940, nellaLibia italiana, la presenza di coloni italiani ammontava a 150.000 unità, che rappresentavano il 18% della popolazione totale[62]. Gliitalo-libici risiedevano principalmente nelle città, come aTripoli (di cui costituivano il 37% della popolazione totale) e aBengasi (31%). Il loro numero iniziò a diminuire dopo il 1946, a seconda guerra mondiale terminata, dopo che la Libia diventòcolonia britannica. La maggior parte degli italiani fu espulsa successivamente, nel 1970, dopo l'instaurazione del regime diMuʿammar Gheddafi[63]. Diverse centinaia di italo-libici tornarono nel Paese africano nelXXI secolo, dopo laprima guerra civile libica, che destituì Gheddafi. L'escursus storico della presenza in Libia di emigrati italiani, e dei loro discendenti, è la seguente:
| Presenza di emigrati italiani in Libia | ||||
|---|---|---|---|---|
| Anno | Italiani | Percentuale | Popolazione totale | Fonti |
| 1936 | 112.600 | 13,26% | 848.600 | Enciclopedia Geografica Mondiale K-Z, De Agostini, 1996 |
| 1939 | 108.419 | 12,37% | 876.563 | Guida Breve d'Italia Vol.III, C.T.I., 1939 (Censimento Ufficiale) |
| 1962 | 35.000 | 2,1% | 1.681.739 | Enciclopedia Motta, Vol.VIII, Motta Editore, 1969 |
| 1982 | 1.500 | 0,05% | 2.856.000 | Atlante Geografico Universale, Fabbri Editori, 1988 |
| 2004 | 22.530 | 0,4% | 5.631.585 | L'Aménagement Linguistique dans le Monde(archiviato dall'url originale il 26 aprile 2009). |

NellaSomalia italiana la presenza di coloni italiani raggiunse, nel 1940, le 50.000 unità, che costituivano il 5% della popolazione totale[64][65]. Gliitalo-somali risiedevano principalmente nelle più importanti città della parte centrale e meridionale del territorio della colonia italiana (10.000 nella solaMogadiscio, capitale della Somalia). Altre importanti aree di insediamento includevanoGiohar, che fu fondata dal ducaLuigi Amedeo di Savoia-Aosta. Al 2017 sono presenti in Somalia, complice laguerra civile somala, solo quattro italo-somali.
Cospicua fu la presenza di emigrati italiani anche in territori che non sono mai stati colonie italiane, come l'Egitto: nel 1940 gliitalo-egiziani raggiunsero la cifra di 55.000, costituendo la seconda comunità di immigrati in questo Paese africano. Al 2017 gli italo-egiziani ammontano ad alcune migliaia. Degni di nota, sempre in Africa, sono anche gliitalo-marocchini e gliitalo-algerini, anch'essi presenti in territori che non sono mai stati colonie italiane. Una presenza limitata di italiani si è registrata nellecolonie portoghesi africane durante gli eventi legati alla seconda guerra mondiale. IlPortogallo facilitò questaimmigrazione per aumentare l'insediamento di europei nelle proprie colonie, nelle quali i portoghesi erano un'esigua minoranza[66]. Con il tempo la presenza italiana nelle colonie portoghesi è scomparsa, gradualmente assimilata dalla comunità portoghese.
Sebbene gli italiani non siano emigrati inSudafrica in gran numero, quelli che sono giunti in questo Paese hanno lasciato una traccia tangibile. Prima della seconda guerra mondiale ne giunsero pochi. I primi consistenti arrivi si registrarono durante la seconda guerra mondiale, quando giunsero nel 1941 aDurban comeprigionieri di guerra catturati dai britannici nell'Africa Orientale Italiana[67]. Dato che nelle carceri militari ebbero un buon trattamento, terminata la guerra, molti di loro decisero di restare in Sudafrica, fondando così la comunità degliitalo-sudafricani. Su un totale di 100.000 prigionieri, rimasero in Sudafrica qualche migliaio di italiani: al 2017 sono 85.000 gli italo-sudafricani. Alcuni di essi hanno avuto modo di influenzare l'architettura di numerosi edifici dell'area delNatal e delTransvaal, visto che molti di loro sono diventati apprezzati architetti.
Nel 1926, inTunisia, erano presenti 90.000 italiani a fronte di 70.000 francesi: ciò era inusuale, visto che laTunisia era protettorato francese (l'immigrazione italiana era infatti dovuta alla vicinanza del Paese africano alle coste italiane)[68]. Al 2017 gliitalo-tunisini si sono ridotti a poche migliaia.

I primi italiani diretti nelleAmeriche s'insediarono nei territori dell'Impero spagnolo già nelCinquecento. Erano principalmenteliguri dellaRepubblica di Genova, che lavoravano in attività e commerci legati alla navigazione marittima transoceanica. Il flusso nella regione delRío de la Plata crebbe neglianni trenta dell'Ottocento, quando nelle città diBuenos Aires eMontevideo sorsero delle vere consistenti colonie italiane. Dopo l'Unità d'Italia (1861) vi fu una notevoleemigrazione dall'Italia verso l'Uruguay, che raggiunse il suo apice negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando arrivarono oltre 110.000 emigranti italiani. Nel1976 gli uruguaiani con discendenza italiana erano oltre un milione e trecentomila (cioè quasi il 40% del totale della popolazione totale, includendo gliitalo-argentini residenti in Uruguay)[69].
La simbolica data d'inizio dell'emigrazione italiana nelleAmeriche è considerato il 28 giugno1854 quando, dopo ventisei giorni di viaggio daPalermo, giunse nelporto di New York il piroscafoSicilia. Per la prima volta raggiungeva le coste statunitensi una nave a vapore battente la bandiera di uno stato della penisola italiana, in questo caso ilRegno delle Due Sicilie[70]. Due anni prima era stata fondata aGenova laCompagnia Transatlantica di Navigazione a Vapore con ilNuovo Mondo, il cui principale azionista era reVittorio Emanuele II di Savoia. Il suddetto sodalizio commissionò ai cantieri navali diBlackwall i grandipiroscafi gemelliGenova eTorino, varati rispettivamente il 12 aprile ed il 21 maggio1856, entrambi destinati al collegamento marittimo tra l'Italia e le Americhe[71].

L'emigrazione nelle Americhe fu di cospicue dimensioni a partire dalla seconda metà dell'Ottocento e fino ai primi decenni delNovecento. Quasi si esaurì durante ilfascismo, ma ebbe una piccola ripresa subito dopo la fine dellaseconda guerra mondiale. L'emigrazione italiana di massa nelle Americhe terminò negli anni sessanta del Novecento, dopo ilmiracolo economico italiano, anche se continuò fino agli anni ottanta del Novecento inCanada[72] eStati Uniti d'America. Le nazioni dove più si diressero gli emigranti italiani furono gli Stati Uniti d'America, ilBrasile e l'Argentina. In questi tre Stati al 2017 vi sono circa 64,15 milioni dioriundi italiani. Una quota importante di italiani si trasferì, come già accennato, inUruguay, dove i loro discendenti nel 1976 ammontavano a circa 1.300.000 (oltre il 40% della popolazione dello Stato sudamericano)[69]. Quote consistenti di emigranti italiani si diressero anche inVenezuela, Canada,Cile,Colombia,Perù,Messico,Paraguay,Cuba eCosta Rica.
L'emigrazione italiana in Argentina costituì, insieme alla cultura spagnola, la spina dorsale della società di questo Stato sudamericano. I primi gruppi di italiani iniziarono a emigrare in Argentina già nella seconda metà delXVII secolo[73]. Il flusso di immigrazione italiana in Argentina divenne un fenomeno di massa tra il 1880 e il 1920, quando l'Italia era colpita da disordini sociali ed economici interni. La cultura argentina ha legami significativi con quella italiana in termini di lingua, costumi e tradizioni[74]. Si stima che una percentuale compresa tra il 50 e il 60% della popolazione (pari a circa 20 milioni di argentini) abbia una discendenza italiana completa o parziale[75][76]. Secondo ilMinistero dell'interno italiano, nella Repubblica Argentina, vivono, inclusi gli argentini con doppia cittadinanza, 527.570italo-argentini[77].

Gliitalo-brasiliani sono il maggior gruppo etnico con discendenza italiana, completa o parziale, che si trova al di fuori dell'Italia.San Paolo, in particolare, è la città dove è più presente, al mondo, la più popolosa comunità con ascendenza italiana. Gli Stati federati brasiliani dove è più cospicuo l'insediamento di discendenti di italiani sono, oltre a San Paolo,Minas Gerais eRio Grande do Sul[78]: la più alta percentuale è presente nello stato sud-orientale diEspírito Santo (60-75%)[79][80]. Piccole città del sud del Brasile, comeNova Veneza, hanno il 95% della popolazione con discendenza italiana[81].
Tra il 1870 e il 1914 quattro milioni di italiani fecero domanda, poi accolta, per emigrare in Canada. Il flusso più consistente è cominciato all'inizio delXX secolo, quando oltre centomila italiani, principalmente dall'Italia meridionale, si trasferirono in Canada. Negli anni delsecondo dopoguerra, e fino aglianni settanta del XX secolo, il Canada conobbe un secondo picco emigratorio, principalmente dalsud e dalnord-est dell'Italia, e anche con la presenza di sfollati dell'esodo giuliano dalmata. Quasi un milione di discendenti di italiani risiedono nella provincia dell'Ontario, che rende questa area una delle zone con maggiore concentrazione diitalo-canadesi. Le città canadesi con maggiore insediamento di discendenti di emigrati italiani sonoHamilton, nell'Ontario, con ben 24.000 residenti aventi legami con la sola città siciliana diRacalmuto[82],Vaughan, che si trova vicino a Toronto, e la città diKing, appena a nord di Vaughan, dove più del 30% della popolazione totale ha ascendenze italiane[83][84].
A partire dalla fine delXIX secolo, e fino aglianni trenta delXX secolo, gli Stati Uniti d'America sono diventati una delle destinazioni principali degli emigrati italiani, con la maggior parte di essi che si sono insediati, perlomeno inizialmente, nell'area metropolitana di New York. Altre importanti comunitàitalo-americane si sono poi sviluppate, grazie a spostamenti interni, aBoston,Filadelfia,Chicago,Cleveland,Detroit,Saint Louis,Pittsburgh,Baltimora,San Francisco eNew Orleans. Gli emigranti italiani negli Stati Uniti provenivano principalmente dalle regioni meridionali d'Italia, in particolareCampania,Puglia,Basilicata,Calabria eSicilia. Gli italo-americani, che sono noti per vivere in una comunità etnica affiatata e orgogliosa delle proprie origini, hanno avuto una grande influenza nello sviluppo della moderna cultura americana, in particolare nella regione nord-orientale del Paese. Tali peculiarità sono state spesso rappresentate nel cinema e nella televisione statunitensi, con i personaggi che recitano con uno spiccato accento italo-americano. Sebbene molti non parlino correntemente l'italiano, secondo un censimento degli Stati Uniti del 2000, oltre 1 milione di essi parla l'italiano a casa come seconda lingua[85].New York City resta ancora la città dove è presente la più cospicua popolazione di origine italiana dell'America settentrionale, con il quartiere diStaten Island che ospita almeno 400.000 persone che rivendicano ascendenze italiane complete o parziali. Degni di nota, negli Stati Uniti, per la loro consistenza numerica, sono gliitaliani dello Utah, gliitaliani di Filadelfia e gliitaliani di New Orleans. Sebbene l'immigrazione italiana nel Nord America abbia avuto come caratteristiche principali una provenienza prettamente meridionale e la tendenza a formare varie "Little Italies" all'interno di grandi realtà urbane ben consolidate, esistono rare eccezioni, comeTontitown, nell'Arkansas, città interamente fondata da coloni veneti alla fine delXIX secolo.
Un'altra comunità italiana molto cospicua è inVenezuela, che si è sviluppata soprattutto dopo laseconda guerra mondiale. Sono circa 1 milione le persone con almeno un antenato italiano, corrispondente al 3% della popolazione totale. Gliitalo-venezuelani hanno ottenuto risultati significativi nella moderna società del Venezuela. L'ambasciata italiana calcola che un quarto delle industrie venezuelane non collegate alsettore petrolifero siano direttamente o indirettamente possedute e/o gestite da italo-venezuelani.

L'emigrazione italiana inFrancia è avvenuta, in diversi cicli migratori, dalla fine del XIX secolo ad oggi[86]. La prima fase dell'immigrazione italiana nella Francia moderna (che avvenne tra il XVIII secolo e l'inizio del XX secolo) interessò prevalentemente l'Italia settentrionale (soprattuttoPiemonte eVeneto) equella centrale (Marche eUmbria): questi emigrati erano diretti principalmente inProvenza, che è la regione francese al confine con l'Italia[86]. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che iniziò l'emigrazione in Francia di un consistente numero di immigrati provenienti dal sud dell'Italia, che si stabilì nelle aree industrializzate francesi, come laLorena e le città diParigi eLione[86]. Si stima che siano 5 milioni gliitalo-francesi[86].

In Svizzera gli emigranti italiani (da non confondere con la popolazioneautoctona diitalofoni inCanton Ticino e nelGrigioni italiano) iniziarono a raggiungere il Paese a partire dalla fine del XIX secolo, la maggior parte dei quali tornò in Italia dopo l'ascesa del fascismo (1922)[87]. Il futuro capo supremo del fascismoBenito Mussolini emigrò in Svizzera nel 1902, dove aderì almovimento socialista[88]. Una nuova ondata migratoria è iniziata dopo il 1945, favorita dalle leggi sull'immigrazione allora vigenti in Svizzera[89]. Al 2017 gliitalo-svizzeri ammontano a circa 500.000 unità.
Le città inglesi diBedford eHoddesdon ospitano una consistente comunità diitalo-britannici. Un numero significativo di italiani arrivò a Bedford negli anni cinquanta del XX secolo per via della forte richiesta di manodopera, durante il boom edilizio del secondo dopoguerra dovuto alla ricostruzione post bellica: l'azienda che ne fece più richiesta fu laLondon Brick Company, che produce ancora oggi mattoni. Di conseguenza Bedford è diventata la città britannica con la più alta concentrazione di famiglie di origine italiana nelRegno Unito, e la terza in Europa con il più alto numero di immigrati italiani, visto che circa 20.000 abitanti, su un totale di 100.000, hanno ascendenze italiane[90]. A Hoddesdon molti italiani, per lo più siciliani, emigrarono negli anni cinquanta del Novecento in cerca di lavoro. Qui la comunità italo-britannica, vista la sua consistenza, ha avuto anche un significativo impatto sociale[91].

Altra comunità italiana degna di nota sono gliitalo-tedeschi. Neglianni novanta dell'Ottocento la Germania si trasformò da Paese diemigrazione a paese diimmigrazione. A partire da questo periodo si espansero i flussi migratori dall'Italia (provenienti in massima parte daFriuli,Lombardia,Veneto edEmilia-Romagna), e con essi aumentarono la consistenza numerica delle comunità italiane. Si passò infatti dai 4.000 italiani del 1871 agli oltre 120.000 censiti nel 1910. L'immigrazione italiana in Germania riprese dopo la salita al potere delnazismo (1933). Questa volta però non si trattò di una migrazione volontaria, ma di un reclutamento forzato di lavoratori italiani, in base ad un accordo stipulato nel 1937 traAdolf Hitler eBenito Mussolini, per soddisfare la necessità di reperire manodopera a basso costo per le fabbriche tedesche, in cambio della fornitura di carbone all'Italia. Il 20 dicembre 1955 fu firmato un accordo bilaterale tra l'Italia e laGermania Ovest per il reclutamento e il collocamento della manodopera italiana nelle aziende tedesche. A partire da quella data si verificò un boom di flussi migratori verso la Germania Ovest, che furono molto più cospicui di quelli che si erano verificati tra la fineXIX secolo e l'inizio delXX secolo. Si calcola che dal 1956 al 1976 furono oltre 4 milioni gli italiani che fecero ingresso in Germania Ovest, 3,5 milioni dei quali rientrarono poi in Italia. Al 2017 gli italo-tedeschi sono circa 850.000.
Gli italiani giunsero per la prima volta inAustralia nei decenni immediatamente successivi all'Unità d'Italia (1861). L'ondata più significativa avvenne dopo la fine dellaseconda guerra mondiale (1945), in particolare dal 1950 al 1965. Gliitalo-australiani hanno avuto un impatto significativo sulla cultura, sulla società e sull'economia dell'Australia, sebbene abbiano attraversato periodi di discriminazione[92]. Il censimento australiano del 2006 ha registrato 199.124 persone nate in Italia, e l'ascendenza italiana è la quinta più comune in Australia, con 852.418 italo-australiani. Gli italo-australiani, rispetto agli altri Paesi, hanno conosciuto un basso tasso di migrazione di ritorno verso l'Italia, probabilmente legato alla distanza tra i due Paesi.
A differenza dell'Australia, laNuova Zelanda non ha mai conosciuto un consistente fenomeno immigratorio dall'Italia. Diverse centinaia di italiani, per lo più pescatori, emigrarono in Nuova Zelanda a partire dal 1890. Al 2011 si contano circa 3.500italo-neozelandesi.
NelXIX secolo e nelXX secolo quasi 30 milioni di italiani hanno lasciato l'Italia con destinazioni principali leAmeriche, l'Australia e l'Europa occidentale.[93] Si stima che il numero dei loro discendenti, che sono chiamati "oriundi italiani", sia compreso tra i 60 e gli 80 milioni[3][94] Sono diffusi in differenti nazioni del mondo: le comunità più numerose sono inBrasile,Argentina, eStati Uniti d'America. Si consideri che unoriundo può avere anche solo un antenato lontano nato in Italia, quindi la maggioranza degli oriundi ha solo il cognome italiano (e spesso neanche quello) ma non lacittadinanza italiana. In molti Paesi, specialmente del Sud America, le stime sono molto approssimative poiché non esiste alcun tipo di censimento sulle proprie origini (come accade invece negli Stati Uniti o in Canada).

Gli oriundi italiani costituiscono una popolazione di proporzioni assai cospicue. Solo inArgentina, secondo una stima[95], vi sarebbero decine di milioni di oriundi italiani[96] e non meno nutrite sono le comunità negliStati Uniti d'America e inBrasile, altre principali destinazioni del citato flusso migratorio a cavallo del Novecento. In molti altri Paesi europei le comunità italiane sono diffusamente distribuite, ma almeno nell'area Schengen la caduta di molte barriere nazionalistiche rende assai meno stringente il problema dei rapporti con la madrepatria. I concetti di multietnicità enaturalizzazione nel calcio hanno interessato l'intero mondo, tanto che aiMondiali 2014 - nelle rose delle 32Nazionali partecipanti - si contavano 83 oriundi[97].
InItalia, nazione in cui il fenomeno dell'emigrazione verso l'estero (soprattutto a cavallo fra il XIX e il XX secolo) si è sviluppato in proporzioni ingenti, il recupero del rapporto con le comunità di origine italiana formatesi nel mondo gode di crescente attenzione. Cominciano a essere emanate norme, particolarmente in ambiti regionali, che prevedono assistenza non più e non solo per coloro che sono nati in Italia e che espatriarono, ma anche per i loro discendenti (appunto gli oriundi), affinché si possa consolidare il legame identitario culturale d'origine. Ne è un esempio lalegge della regioneVeneto n°2 del 9 gennaio 2003[98], nella quale si dispongono diverse azioni in favore dell'emigrato, del coniuge superstite e deidiscendenti fino alla terza generazione, al fine di «garantire il mantenimento della identità veneta e migliorare la conoscenza della cultura di origine».

Il termine "oriundo" è diffusamente usato per indicare un atleta, specialmente giocatore dicalcio,rugby,calcio a 5,hockey su ghiaccio esu pista epallacanestro di nazionalità straniera ma di origine italiana, equiparato nella normativa sportiva aicittadini della penisola e perciò ammesso a far parte dellasquadra nazionale azzurra; è il caso dei calciatoriAnfilogino Guarisi,Atilio Demaría,Luis Monti,Enrique Guaita eRaimundo Orsi campioni del mondo con laNazionale nel1934, diMichele Andreolo campione del mondo nel1938 e diMauro Germán Camoranesi, campione del mondo nel2006, e di diversi altri calciatori a partire dagli anni 1930 fino a oggi.

Uno degli eventi più sentiti dagli oriundi italiani nelleAmeriche è ilColumbus Day (it. "Giorno di Colombo"), ricorrenza celebrata in molti Paesi per commemorare il giorno dell'arrivo diCristoforo Colombo nelNuovo Mondo il 12 ottobre 1492. Feste simili come laGiornata Nazionale di Cristoforo Colombo inItalia[99], ilDía de las Culturas (it. "Giorno delle culture") inCosta Rica, ilDiscovery Day (it. "Giorno della scoperta") nelleBahamas, ilDía de la Hispanidad (it. "Giorno della Ispanità") inSpagna e ilDía de la Resistencia Indígena (it. "Giorno della resistenza indigena") inVenezuela celebrano lo stesso evento. IlColumbus Day è stato commemorato per la prima volta da italiani aSan Francisco nel 1869, seguendo le molte celebrazioni legate all'Italia che venivano organizzate aNew York. Gliitaloamericani sentono molto questa festività e sono particolarmente orgogliosi del fatto che sia stato Cristoforo Colombo, un navigatore italiano, il primo europeo a scoprire il continente americano.
| Nazione | Oriundi | Comunità | Note |
|---|---|---|---|
| 27 200 000(circa 13% pop. totale) | italo-brasiliani(categoria) | [100][101] | |
| 25 000 000(circa 62% pop. totale) | italo-argentini(categoria) | [93][102] | |
| 17 250 000(circa 6% pop. totale) | italoamericani(categoria) | [103] | |
| 4 000 000(circa 6% pop. totale) | italo-francesi(categoria) | [93][104] | |
| 2 000 000(circa 4,3% pop. totale) | italo-colombiani(categoria) | [105] | |
| 1 445 335(circa 4% pop. totale) | italo-canadesi(categoria) | [106] | |
| 1 400 000(circa 3% pop. totale) | italo-peruviani(categoria) | [107] | |
| 1 200 000(circa 35% pop. totale) | italo-uruguaiani(categoria) | [69][93] | |
| 1 000 000(circa 3% pop. totale) | Italo-venezuelani(categoria) | [108] | |
| 916 000(circa 4% pop. totale) | italo-australiani(categoria) | [109] | |
| 850 000(<1% pop. totale) | italo-messicani(categoria) | ||
| 700 000(<1% pop. totale) | italo-tedeschi(categoria) | [94] | |
| 527 817(circa 7% pop. totale) | italo-svizzeri(categoria) | [94] | |
| 500 000(<1% pop. totale) | italo-britannici(categoria) | ||
| 290 000(circa 2,6% pop. totale) | italo-belgi(categoria) | [110] | |
| 150 000(<1% pop. totale) | Italo-cileni(categoria) | [111] | |
| 100 000(circa 1,4% pop. totale) | Italo-paraguaiani(categoria) |
Va precisato che queste stime si riferiscono agli oriundi, e quindi non tengono conto degli italiani residenti all'estero, che sono invece censiti dall'anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE)[112].
Altre comunità di oriundi italiani degne di nota sono gliitalo-tunisini, gliitalo-egiziani, gliitalo-marocchini, gliitalo-algerini, gliitalo-sudafricani, gliitalo-boliviani, gliitalo-dominicani, gliitalo-portoricani, gliitalo-austriaci, gliitalo-bosniaci, gliitalo-greci, gliitalo-islandesi, gliitalo-levantini, gliitalo-lussemburghesi, gliitalo-romeni, gliitalo-sammarinesi, gliitalo-svedesi, gliitalo-libanesi, gliitalo-neozelandesi, gliitalo-libici, gliitalo-eritrei, gliitalo-etiopici e gliitalo-somali.


La primaemigrazione interna, cioè compresa all'interno deiconfini geografici dell'Italia, avvenne tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà delNovecento. Fu quella che interessò il trasferimento di migranti stagionali dai territori "irredenti", ovvero non ancora annessi alla madre patria (Trentino-Alto Adige eVenezia Giulia), verso il vicinoRegno d'Italia. Gli uomini in genere lavoravano come "segantini" (cioè impiegati nella sega a mano dei tronchi), "moléti" (arrotini) e salumai; le donne emigravano invece per lavorare nelle città come badanti o come personale di servizio nelle famiglie abbienti. Tale emigrazione era usualmente stagionale (soprattutto per gli uomini) e caratterizzava il periodo invernale durante il quale i contadini non potevano lavorare la terra. Questo contesto migratorio di fine Ottocento fu studiato dal sacerdote trentino egiudicariese don Lorenzo Guetti[113], padre della cooperazione trentina, che in un suo articolo scriveva: "Se non ci fosse l'Italia, noi giudicariesi, dovremmo crepare dalla fame"[114].
Un'altra emigrazione interna, che interessò i medesimi territori, ma in un contesto storico completamente diverso, fu l'esodo giuliano dalmata, noto anche come "esodo istriano", che consistette nelladiaspora forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e dilingua italiana che si verificò a partire dalla fine dellaseconda guerra mondiale (1945), e negli anni successivi, dai territori delRegno d'Italia prima occupati dall'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del marescialloJosip Broz Tito e successivamente annessi dallaJugoslavia. Il fenomeno, susseguente agli eccidi noti comemassacri delle foibe, coinvolse in generale tutti coloro che diffidavano del nuovo governo jugoslavo e fu particolarmente rilevante inIstria e nelQuarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine. Nell'esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia con iltrattato di Parigi e anche laDalmazia, dove vivevano idalmati italiani.
Si stima che l'esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250.000 e i 350.000 italiani. I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dalGiorno del ricordo, solennità civile nazionale italiana celebrata il10 febbraio di ogni anno. In questo contesto avvenne anche l'esodo dei cantierini monfalconesi, ovvero dei circa 2.500 lavoratori delFriuli-Venezia Giulia che a cavallo tra il 1946 e il 1948 emigrarono in Jugoslavia per offrire le proprie competenze professionali presso icantieri navali di Fiume edi Pola, da poco ceduti dall'Italia alla Jugoslavia in seguito al trattato di Parigi. Molti profughi giuliani e dalmati si stabilirono oltre il nuovo confine, nel territorio rimasto italiano, soprattutto a Trieste e nel Nord-Est. Altri emigrarono inEuropa e decine di migliaia nel resto del mondo. InAmerica gli esuli si stabilirono prevalentemente inStati Uniti,Canada,Argentina,Venezuela eBrasile; inAustralia si concentrarono maggiormente nelle città più grandi,Sydney eMelbourne. Ovunque siano andati, gli esuli hanno organizzato associazioni che si sono dedicate alla conservazione della propria identità culturale, pubblicando numerosi testi sui fatti luttuosi del periodo bellico e post-bellico.
Ci fu anche un'emigrazione storica diitalofoni dallaFrancia all'Italia. LaCorsica passò dallaRepubblica di Genova alla Francia nel 1770, mentre laSavoia e l'area intorno aNizza passarono dalRegno di Sardegna alla Francia nel 1860: in entrambi i casi si ebbe un fenomeno difrancesizzazione, con conseguente emigrazione di italofoni verso l'Italia e la quasi totale scomparsa dellalingua italiana da queste zone. Per quanto riguarda Nizza, il fenomeno emigratorio verso l'Italia è conosciuto come "esodo nizzardo".

L'emigrazione interna ai confini nazionali italiani continuò, seppur numericamente limitata ma questa volta estesa a tutta Italia, durante l'epoca fascista, ovvero dagli anni venti agli anni quaranta del Novecento, questa volta[115]. Il regime guidato daBenito Mussolini era però contrario a questi movimenti migratori, tant'è che mise in atto dei provvedimenti legislativi che ostacolarono, ma non fermarono, questi spostamenti[115]. Un esempio fu una legge del 1939 che consentiva il trasferimento in un altrocomune italiano solo nel caso in cui il migrante fosse stato in possesso di uncontratto di lavoro di un'azienda che aveva sede nella municipalità di destinazione[116]. All'epoca i flussi migratori interni interessavano anche i trasferimenti dalle campagne alle città, movimenti che sono definiti, più propriamente, "mobilità" interna: per "emigrazione" si intendono infatti i flussi da unaregione italiana all'altra[115].

Con lacaduta del fascismo (1943) e la fine dellaseconda guerra mondiale (1945) iniziò un imponente flusso migratorio interno che interessò il trasferimento di emigranti da una regione italiana all'altra. Questa emigrazione interna venne sostenuta e fatta costantemente crescere dallacrescita economica che l'Italia conobbe tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del XX secolo (il cosiddetto "boom economico")[115]. Dato che questa crescita dell'economia riguardava perlopiù l'Italia nord-occidentale, che fu coinvolta dalla nascita di molte attività industriali, i fenomeni migratori interessarono i contadini delTriveneto e dell'Italia meridionale, che iniziarono a trasferirsi in grandi numeri nelle zone più industrializzate del Paese[115]. Anche altre aree dell'Italia settentrionale furono interessate da fenomeni di emigrazione: un esempio sono le zonerurali diMantova eCremona. Le mete di questi emigranti lombardi furono principalmenteMilano,Torino,Varese,Como,Lecco e laBrianza[116].La popolazione rurale delle aree sopraccennate iniziò a emigrare nei grandi centri industriali del nord-ovest, soprattutto nel cosiddetto "triangolo industriale, ovvero nell'area compresa fra le città diTorino,Milano eGenova[115][117]. Anche alcune città dell'Italia centrale emeridionale (comeRoma, che fu oggetto di immigrazione per via delle assunzioni lavorative in campo amministrativo e nelsettore terziario) conobbero un cospicuo flussoimmigratorio[115]. A questi movimenti migratori si affiancarono altri flussi di intensità minore, come i trasferimenti dalle campagne alle città minori e gli spostamenti dalle zone montagnose alle pianure[115].

I motivi principali che fecero nascere questo imponente flusso migratorio erano legati alle condizioni di vita nei luoghi di origine degli emigranti (che erano assai dure), all'assenza dilavoro stabile[116][117], all'alto tasso dipovertà, alla scarsa fertilità di molte zone agricole, alla frammentazione delle proprietà terriere (fenomeno dovuto al fatto che la terra venisse costantemente suddivisa tra gli eredi, frazionandosi sempre di più con il passare delle generazioni, con la conseguenza di non essere più in grado di soddisfare i bisogni delle famiglie che la lavoravano[11]), che caratterizzava soprattutto l'Italia meridionale, e all'insicurezza causata dallacriminalità organizzata[116]. A ciò si aggiunse il divario economico tra l'Italia settentrionale e quella meridionale, che si ampliò durante il boom economico: ciò fu un ulteriore stimolo, per gli italiani del sud, a emigrare verso il nord del Paese[116]. Le motivazioni furono quindi le medesime di quelle che spinsero milioni di italiani a emigrare all'estero[117].
Il picco dei movimenti migratori interni fu toccato a metà deglianni sessanta del XX secolo[115], tra il 1955 e il 1963[117]. In cinque anni, dal 1958 al 1963, si trasferirono dall'Italia meridionale un milione trecentomila persone[117]. Le registrazioni agli uffici anagrafici delle città del triangolo industriale triplicarono, passando dai 69.000 nuovi arrivi del 1958 alle 183.000 nuove iscrizioni del 1963 e ai 200.000 nuovi trasferimenti del 1964[117]. La città diTorino, che conobbe un cospicuo fenomeno immigratorio, registrò 64.745 nuovi arrivi nel 1960, 84.426 nel 1961 e 79.742 nel 1962[117]. Il flusso migratorio fu così ingente che leFerrovie dello Stato istituirono un apposito convoglio, detto "Treno del Sole", che partiva daPalermo e arrivava aTorino dopo aver attraversato tutta la penisola italiana[116].

Poi iniziò la lenta decrescita, con i flussi migratori dal Veneto che, già alla fine degli anni sessanta del XX secolo, si arrestarono[115] per via delle migliori condizioni di vita che si iniziavano ad avere in questi luoghi[117]. Le migrazioni dall'Italia meridionale, sebbene rallentate, non si esaurirono[115], facendo aumentare la loro percentuale rispetto alle migrazioni interne totali: se tra il 1952 e il 1957 esse rappresentavano il 17% del totale, le migrazioni dal sud del Paese passarono a costituire, tra il 1958 e il 1963, il 30% del totale[117].
L'ultimo picco di trasferimenti dal sud al nord dell'Italia si ebbe tra il 1968 e il 1970[117]. A Torino nel 1969 vennero registrati 60.000 arrivi, metà dei quali provenivano dall'Italia meridionale, mentre in Lombardia, nello stesso anno, giunsero 70.000 immigrati[117]. A Torino questo picco migratorio fu acuito dallaFIAT, che fece un'importante campagna di assunzioni: solo nell'azienda torinese vennero assunti, in questi anni, 15.000 migranti provenienti dal sud[117]. Questi numeri fecero sorgere molti problemi nel capoluogo torinese, su tutti quello degli alloggi[117]. Tale costante flusso di persone fece crescere la popolazione di Torino da 719.000 abitanti del 1951 a 1.168.000 del 1971, creando non pochi disagi sociali[117]. Dopo il 1970 ci fu una forte contrazione degli arrivi, da cui conseguì l'arresto quasi totale dell'emigrazione interna, che avvenne durante lacrisi energetica del 1973[115]. Questo azzeramento dei trasferimenti fu accompagnato dal flusso migratorio inverso: molti dei migranti tornarono nei loro luoghi di origine[115].
Complessivamente gli italiani che si trasferirono dall'Italia meridionale a quella settentrionale furono quattro milioni[115]. Anche il flusso migratorio dalle campagne alle grandi città conobbe una contrazione per poi arrestarsi negli anni ottanta del XX secolo[115]. Parallelamente, crebbero invece i movimenti migratori verso le città medie e quelli destinati ai borghi di piccole dimensioni[115].
Neglianni novanta del XX secolo i flussi migratori dal sud al nord del Paese sono ricominciati con una certa consistenza, fermo restando che il loro tenore non è paragonabile a quello registrato neglianni sessanta[115]. Il fenomeno è stato registrato dall'istitutoSvimez ("Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno"). I flussi migratori continuano a provenire dalle regioni dell'Italia meridionale, con le destinazioni prevalenti che sono il nord-est del Paese e l'Italia centrale. Le regioni più attive nel ricevere immigrati interni sono laLombardia orientale, ilVeneto, l'Emilia-Romagna, laToscana e l'Umbria.





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