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Mappa con gli anni dell'ottenimento dell'indipendenza per le ex colonie inglesi e francesi nelXX secolo
Ladecolonizzazione è un processo con cui un territorio sottoposto a dominazionecoloniale ottiene l’indipendenza dal Paese ex colonizzatore e/o viene consegnato al suostato nazionale già indipendente. In un significato più ampio si intende anche il processo attraverso cui un ex Stato coloniale (che ha formalmente ottenuto l’indipendenza politica) tende a raggiungere un’autonomia maggiore liberandosi delle residue ingerenze politiche ed economiche del paese ex colonizzatore[1].
L'ultima fase di decolonizzazione iniziò colsecondo dopoguerra e si protrasse fino a poco dopo la fine dellaguerra fredda[note 1]. Durante questa fase avvenne la scomparsa della quasi totalità degliimperi coloniali col progressivo ottenimento dell'indipendenza da parte di quasi tutte le loro colonie in ogni continente.
La prima fase di decolonizzazione dei possedimenti coloniali europei si ebbe tra XVIII e XIX secolo e coinvolse esclusivamente ilcontinente americano, partendo dagliStati Uniti d'America (la cuirivoluzione fu poi d'ispirazione ai rivoluzionarilatinoamericani) edHaiti che ottennero l'indipendenza dagli imperibritannico efrancese, fino alla quasi interezza dell'America Latina con leguerre d'indipendenza ispanoamericane e laguerra d'indipendenza brasiliana che causarono la secessione della maggior parte dei territori degli imperispagnolo eportoghese dell'epoca. Quasi tutte le rivoluzioni separatiste di questo periodo furono scatenate dai coloni bianchi di origine europea che abitavano nelle colonie, quella di Haiti invece è stata l'unica eccezione dove la rivoluzione iniziò invece come rivoltaantischiavista deglischiavi neri e non dei coloni di origine europea. In questa fase di decolonizzazione tutte le potenze coloniali si opposero con la forza ai tentativi di secessione delle proprie colonie mentre talvolta supportavano le ribellioni separatiste negli imperi coloniali rivali.
L'isola diHispaniola divisa tra una parte occidentale sotto dominiofrancese ed una orientale appartenente allaSpagna
Sul finire del XVIII secolo l'isola diHispaniola, situata nell'arcipelago delleAntille nell'America centralecaraibica, era divisa in una parte orientale, appartenente allaSpagna, ed una occidentale appartenente allaFrancia (colonia diSaint-Domingue), in entrambe si praticava la coltivazione dipiantagioni (soprattutto dizucchero,cotone,indaco ecaffè) lavorate daschiavi neri portati dall'Africa. Nellametà francese la composizione razziale era circa 500.000 neri (schiavi), 28.000mulatti e neri liberi, a fronte di 30.000 coloni bianchi. Nonostante l'avvento dellarivoluzione francese ispirata dai valoriilluministi di uguaglianza tra gli uomini, la quale portò alla pubblicazione nel 1789 delladichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, nelle colonie francesi laschiavitù e le discriminazioni razziali non vennero abolite. Il primo scontro nacque tra imulatti (insieme ai neri liberi) che chiedevano un'estensione verso di loro dei diritti dei bianchi, i quali però si opponevano a ciò. Ma è nell'agosto 1791 che la crisi assunse dimensioni enormi con la rivolta degli schiavi neri che causò nell'intera Isola scontri e massacri da entrambe le parti in lotta. Gli insorti vennero guidati daToussaint Louverture e furono supportati militarmente daSpagna eRegno Unito[2].
Nel marzo 1792 l'assemblea nazionale francese, per cercare di risolvere la questione, approvò l'estensione dell'eguaglianza giuridica aimulatti, ma tale provvedimento fu tardivo in quanto ormai il problema principale non erano più imulatti, bensì i ribelli neri che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione nellacolonia. Il commissario franceseLéger-Félicité Sonthonax fu mandato sull'isola per riprenderne il controllo e nell'agosto 1793, per far cessare la rivolta, proclamò l'abolizione della schiavitù e tale decisione fu ratificata nel febbraio 1794 dallaconvenzione nazionale francese. Dopo il provvedimento abolizionista, il leader degli insortiLouverture giurò fedeltà allaFrancia e si mosse contro le truppe spagnole e inglesi sull'isola[3].
Nel 1798Louverture divenne l'effettivo leader della colonia diSaint-Domingue ma quando nel 1801 promulgò una costituzione autonomista, l'allora governo francese con a capoNapoleone Bonaparte decise di mandare delle truppe a riprendere possesso della colonia; nel 1802 fu ristabilita la schiavitù.Louverture fu arrestato e portato inFrancia ma la spedizione militare non ebbe successo e nel 1803 le truppe si ritirarono, nel 1804 i ribelli proclamarono l'indipendenza dalla Francia e l'evento fu subito seguito da unmassacro della popolazione bianca da parte degli ex insorti; la schiavitù tuttavia fu abolita solo nel 1848[3].
Allaconferenza del Cairo del 1921 gli inglesi offrirono il trono dell'Iraq aFaysal I (il quale guidò larivolta araba anti-ottomana del 1916-1918)[7] e coltrattato anglo-iracheno del 1922 stabilirono delle condizioni per esercitare un potere indiretto sull'Iraq, quali la presenza di un alto commissario, l'assegnazione di consiglieri nel governo, il diritto inglese ad assistere l'esercito ed a mantenere una propria presenza militare nel Paese. Iltrattato del 1922 sarebbe dovuto durare 20 anni ma tale scadenza fu accorciata a 10 con un protocollo del 1923. Nel 1925 fu promulgata la costituzione irachena che definiva lo stato unamonarchia parlamentare e con i trattati anglo-irachenidel 1926 edel 1927 la presa inglese sul Paese diminuì. Coltrattato del 1930 veniva siglata un'alleanza di 25 anni tra Iraq eRegno Unito, fu previsto che inpolitica estera ambo le parti si sarebbero dovute consultare sulle questioni potenzialmente contrarie agli interessi comuni dei due e non si sarebbero potute adottare politiche in contrasto con l'alleanza, la presenza militare inglese nel Paese fu ridotta ma agli inglesi restava il diritto di passaggio delle truppe sul suolo iracheno, veniva previsto anche che il Regno Unito avrebbe riconosciuto la piena indipendenza dell'Iraq solo quando sarebbe entrato nellaSocietà delle Nazioni, evento che avvenne nell'ottobre 1932 e che segnò la fine delmandato britannico ed il formale ottenimento dell'indipendenza per ilRegno dell'Iraq[8].
Laseconda guerra mondiale ebbe un ruolo fondamentale nel processo di decolonizzazione in quanto le conseguenze della guerra portarono a una situazione in cui la maggior parte dei territori degli imperi coloniali europei ottenne l'indipendenza. Ciò che lo rese un evento fondamentale per la decolonizzazione fu innanzitutto il fatto che le potenze coloniali sfruttarono intensamente risorse umane e materiali delle colonie al fine di sostenere il proprio sforzo bellico ma senza concedergli niente in cambio. La guerra favorì quindi la diffusione di sentimenti nazionalisti e la radicalizzazione delle loro rivendicazioni nei confronti dei Paesi dominatori. Inoltre le potenze coloniali europee si trovarono economicamente e militarmente fortemente indebolite dalla guerra[9].
L'Unione Sovietica sostenne una retorica ideologica che legavaanticolonialismo edanticapitalismo facendo leva sul fatto che gli stati coloniali europei fossero tutti capitalisti e filo-americani, dando inoltre una chiave di lettura razziale allalotta di classe facendo riferimento alle disuguaglianze giuridiche ed economiche delle colonie tra nativi e discendenti bianchi deicoloni europei (in favore di quest'ultimi). L'URSS supportò sul piano politico, economico e militare (fornendo armamenti, addestramento e aiuti di vario tipo) i movimenti di liberazione anti-coloniali ad essa ideologicamente affini, con l'obiettivo di danneggiare gli interessi degli Stati coloniali occidentali e di far ottenere l'indipendenza a Paesi che avrebbero adottato forme di governosocialista gradite all'URSS e con una politica estera filo-sovietica ed anti-americana. Oltre all'Unione Sovietica, anche altri Paesi comunisti in giro per il mondo supportarono i movimenti anti-coloniali, comeCuba, i membriPatto di Varsavia più laJugoslavia inEuropa orientale,Corea del Nord eRepubblica Popolare Cinese inAsia. Lacrisi sino-sovietica segnò un grave inasprimento dei rapporti traURSS eCina comunista a partire dal 61', ciò causò talvolta tra le varie conseguenze nella politica estera dei due Paesi, quella del supportare ognuno dei diversi movimenti anti-coloniali e rivoluzionari anche in rivalità e lotta tra loro, sia durante la fase di decolonizzazione, come nellaguerra d'indipendenza dell'Angola[note 2], che durante leguerre civili che spesso scoppiarono durante e immediatamente dopo l'indipendenza, come nellaguerra civile in Rhodesia[note 3]; tale linea fu evidente anche durante guerre convenzionali tra i Paesi recentemente decolonizzati come laguerra dell'Ogaden traSomalia edEtiopia[note 4].
GliStati Uniti, prendendo anch'essi atto delle enormi difficoltà (esacerbate dai sovietici) degli europei a mantenere il controllo delle loro colonie, analogamente all'URSS appoggiarono anche loro il processo di decolonizzazione in funzione dei propri interessi geopolitici, supportando l'indipendenza di Paesi con forme di governo e politica estera affini alblocco occidentale. GliUSA sostennero questa linea facendo pressione sui governi europei affinché concedessero pacificamente l'indipendenza alle proprie colonie prima che i sovietici riuscissero a fargliela ottenere con la forza dando supporto amovimenti di liberazione comunisti che avrebbero dato vita a governi anti-occidentali. Tuttavia vi furono delle eccezioni, per pragmatismoanti-comunista gli USA sostennero laFrancia nella lotta contro i movimenti di liberazione comunisti sostenuti dalblocco orientale nellaguerra d'Indocina, inoltre vi sono sospetti che gliUSA abbiano aiutato l'organisation armée secrète tramite l'operazione Gladio durante laguerra d'Algeria.
La decolonizzazione può essere suddivisa in tre fasi principali: la prima ebbe inizio negli anni Quaranta e vide la decolonizzazione delsubcontinente indiano e di gran parte del Sud-Est asiatico; la seconda fase è identificabile negli anni Cinquanta, quando l'indipendenza fu conquistata dagli stati dell'Africa settentrionale; la terza e ultima fase ebbe inizio negli anni Sessanta quando la decolonizzazione si verificò con particolare rapidità e intensità, nell'Africa subsahariana.
L'ONU svolse un ruolo fondamentale nella storia della decolonizzazione, che può essere considerato sproporzionato rispetto alle clausole delloStatuto delle Nazioni Unite, adottato a San Francisco il 26 giugno del 1945, i cui principi in materia coloniale erano molto moderati e restrittivi.[10] La Carta del 1945 riconosceva l'esistenza di territori “non-self-governing” (non autonomi). Gli ex-mandati divennero territori sotto “tutela” (concetto simile a quello del “mandato”) attribuendo ai governi coloniali il carattere di amministratori fiduciari temporanei; la novità stava nel fatto che il Consiglio di tutela dell'ONU aveva il diritto di ispezione, per accertare i progressi compiuti verso l'indipendenza.[11]La Libia e la Somalia italiane furono poste sotto questo statuto, mentre gli ex possedimenti giapponesi e specialmente la Corea rappresentarono un caso a parte. Per quanto riguarda i territori “non-self-governing”, la Carta delle Nazioni Unite obbligava le potenze coloniali a “promuovere il progresso delle loro popolazioni” e a tenere aggiornata l'ONU. La Francia, ottenne inoltre che fosse vietato all'ONU “ogni intervento negli affari di esclusiva competenza nazionale degli stati”: si trattava del famoso “articolo 2, paragrafo 7” della Carta, di cui la Francia avrebbe fatto largo uso (e che era già presente nel patto della Società delle Nazioni).[12]
Il ruolo dell'ONU nel processo di decolonizzazione fu inizialmente marginale, soprattutto per quanto riguarda la prima ondata di decolonizzazioni; ma dal momento in cui le ex-colonie divennero un numero sempre maggiore all'interno dell'ONU, con una conseguente influenza sempre maggiore nelle decisioni dell'Organizzazione, in quanto da 23 membri afroasiatici del 1955 divennero 46 nel 1960 e 70 (più della metà) alla fine del 1971. Le ex-colonie poterono esprimersi, ancor prima di diventare la maggioranza, il 14 dicembre del 1960 quando, con il sostegno dei paesi dell'Est, fu adottata una dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai popoli e ai paesi coloniali.[13] Questa dichiarazione (risoluzione 1514 - XV del 14 dicembre 1960), conosciuta come laDichiarazione sulla decolonizzazione, proclamò che il colonialismo doveva essere portato a termine rapidamente e incondizionatamente. La Dichiarazione, che inizialmente era solo una risoluzione dell'Assemblea Generale, diventò un Comitato, composto da 17 membri (24, nel 1962). Nacque così il Comitato di decolonizzazione dell'ONU[14] con il compito di monitorare l'attuazione della Dichiarazione e formulare raccomandazioni sulla sua applicazione. Il testo della Dichiarazione, afferma che la sottomissione dei popoli, il loro dominio e il loro sfruttamento costituisce una negazione dei diritti umani fondamentali in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite e impedisce la promozione della pace nel mondo e la cooperazione. Il Comitato di decolonizzazione dell'ONU, è un organo non previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, ma dotato di una struttura permanente, con sottocomitati, una segreteria e missioni con relazioni “ad hoc”[13].
Le ex colonie si sono “servite” del sistemaONU, creando strutture nuove attente ai loro problemi. Tra le creazioni più importanti volute dai paesi decolonizzati, oltre al comitato per la decolonizzazione, troviamo infatti l'UNCTAD (congresso delle nazioni unite sul commercio e lo sviluppo), l'UNDP (programma delle nazioni unite per lo sviluppo) e l'UNIDO (l'organizzazione delle nazioni unite per lo sviluppo industriale). I paesi decolonizzati, inoltre, dominarono i dibattiti dell'assemblea generale e il voto delle risoluzioni e si accaparrarono alcuni organi specializzati come l'ILO e l'UNESCO, dai quali, nel 1984, Gran Bretagna e Stati Uniti si sono ritirati, stanchi delle rituali diatribe contro le malefatte dell'imperialismo occidentale.[15]
Dopo aver conquistato l'indipendenza e dopo aver smaltito l'euforia per averla ritrovata o appena ottenuta, rimaneva in molte ex-colonie la necessità di costruire uno stato, ossia di definire una strategia di sviluppo e di acquisizione di legittimità internazionale. Tutto ciò risultava più facile a tutti quei paesi che avevano già alle spalle una storia nazionale; tutti gli altri, soprattutto i giovani stati africani, finirono spesso per essere influenzati dall'ex potenza coloniale.[16] Quello che non mancava a nessun paese, però, erano i simboli fondatori della sovranità: all'indomani dell'indipendenza ogni stato aveva una propria bandiera, un inno nazionale, un motto, delle giornate commemorative e una lingua nazionale (quest'ultima risultò essere in molti casi una decisione delicata). Vennero inoltre nella maggior parte dei casi rivisti anche i toponimi, non solo riguardanti i nomi degli stati, ma anche quelli delle città, delle vie e delle piazze; con l'obiettivo di creare una nuova identità,differente (almeno in apparenza) da quella di colonia.[17]
Questo sfoggio dei simboli di rottura fu attenuato dall'adesione ufficiale ai valori democratici, che aveva implicato la lotta per l'indipendenza. Salvo eccezioni, la pluralità delle opinioni e dei partiti, il suffragio universale e la separazione dei poteri vennero garantiti da costituzioni ispirate dall'ex potenza coloniale: di tipo parlamentare per gli ex possedimenti britannici e, semi-presidenziale per le ex colonie francesi. Sfortunatamente, tranne qualche raro caso (tra cui l'India), i regimi costituzionali generati dalla decolonizzazione ripiegarono sull'autocrazia, senza nessuna garanzia di stabilità politica. Questa situazione fu causata da diversi fattori, alcuni ereditati dall'epoca coloniale, altri legati alle strutture etniche e sociali dei paesi in questione: il sentimento nazionale non era accompagnato da una tradizione statale preesistente, l'arbitrarietà dei confini (tracciati dai colonizzatori) portò a una debole coesione degli stati multietnici o multi-religiosi, le masse rurali e urbane scarsamente alfabetizzate erano controllate da una borghesia avida di potere.[18]Tra i nuovi leader, pochi furono quelli che riuscirono ad affrontare nel modo giusto i problemi imposti dall'indipendenza. Nonostante quelle che potevano essere le buone intenzioni e le loro esperienze di ciascuno dei nuovi leader, essi si trovarono ad affrontare enormi difficoltà, tra cui quella di creare un sentimento di unità nazionale e assicurare un miglioramento economico del paese. Questi compiti erano spesso al di sopra della loro portata, così che i risultati furono spesso deludenti e al di sotto delle aspettative dei diversi segmenti di popolazione.
Il risultato di un'indipendenza frettolosa e in molti casi immatura portò alla maggior parte dei paesi decolonizzati: disordini, oppressioni, colpi di stato e dittature militari, repressioni di minoranze etniche e religiose; con il conseguente aumento della povertà e della disoccupazione urbana. Nei nuovi stati le economie risultarono deludenti, con la conseguente rovina delle infrastrutture. Ci furono ovviamente delle eccezioni come l'India, dove un certo livello di democrazia (ma non certamente l'economia) venne attuata, mentreSingapore,Taiwan,Hong Kong e inizialmente ancheCorea del Nord furono la prova di economie che funzionavano in modo eccellente a discapito però, della politica.[19]I problemi economici nelle ex colonie erano spesso dovuti alla precedente trasformazione della loro economia, quando ancora colonie, la madrepatria impose loro la produzione di materie prime (agricole o minerarie) ad essa necessarie a discapito dei prodotti di prima necessità. All'indomani della decolonizzazione il risultato fu che la crescita economica veniva anteposta allo sviluppo economico e, nell'intento di generare nuove risorse finanziarie per lo stato, s'incoraggiava l'aumento della produzione “coloniale”, anziché la diversificazione economica o, cosa ancora più urgente, la garanzia di raccolti sufficienti a soddisfare le esigenze del consumo interno.[20] L'esportazione dei loro prodotti a basso costo e l'importazione dei prodotti di prima necessità a prezzi molto alti fece sì che il debito pubblico di questi paesi lievitasse e diventassero sempre più dipendenti dal resto del mondo.
Tra le varie ipotesi per spiegare il mancato miglioramento dei risultati economici dopo l'indipendenza c'è ilneocolonialismo[21], che vede il capitale straniero utilizzato per lo sfruttamento, anziché per il progresso, delle parti meno sviluppate del mondo.
La decolonizzazione formalmente durò una trentina d'anni, dall'immediato dopoguerra (1945) all'indipendenza delle colonie portoghesi (1974). Tuttavia durante gli anni '70 e '80 ci furono ancora molte altre dichiarazioni d'indipendenza, che passarono per lo più inosservate e che non è agevole considerare facenti parte del processo di decolonizzazione. In molti casi, infatti, si trattò dei cosiddetti “coriandoli d'impero”, divenuti microstati, che non avevano una vera e propria indipendenza e che finirono per integrarsi in sistemi più ampi. Si possono individuare tre zone distinte che videro sviluppare questo fenomeno: iCaraibi, l'Oceano Indiano e ilPacifico meridionale.[22]
La riscoperta delle culture caraibiche, con la conseguente rinascita di una coscienza nazionalista, ha portato gli ex possedimenti caraibici olandesi e inglesi a reclamare la propria indipendenza. I possedimenti britannici più numerosi andavano dall'America centrale (Belize) a quella meridionale (Guyana): la prima divenne indipendente nel 1981 mentre l'altra nel 1966. Gli anni successivi videro diverse indipendenze:Barbados (1966),Bahamas (1973),Grenada (1974),Suriname (1975),Dominica (1978),Saint Lucia (1979),Saint Vincent e Grenadine (1980),Antigua e Barbuda (1981),Saint Kitts e Nevis (1983).[22]
I possedimenti dell'Oceano Indiano videro l'indipendenza a partire dal 1968, quando furono decolonizzate l'isola diMauritius e leMaldive; nel 1975 fu la volta dell'arcipelago delleComore (tranneMayotte) e nel 1976 delleSeychelles.[23]
Il processo di decolonizzazione, tuttavia non può ancora essere ritenuto completato, perché stati come la Francia rinviano ancora oggi la concessione dell'indipendenza completa ai loro restanti possedimenti,[24] e in diversi casi l'indipendenza viene democraticamente rifiutata dagli abitanti deiterritori d'oltremare francesi, come è accaduto nei referendum del 2018 e del 2020 inNuova Caledonia,[25] o nel referendum del 2010 inGuyana francese[26].|titolo=L'ONU continua a segnalare ancora qualche decina di isole e territori rimasti sotto la sovranità straniera: oltre al caso deiDipartimenti d'oltremare}} e deiTerritori d'oltremare francesi (DOM-TOM) e a quello deiCaraibi olandesi, ilRegno Unito fa ancora sventolare laUnion Jack su una quindicina di territori dipendenti, tra cui leisole Falkland (dove dopo laguerra in un referendum il 96% dei votanti scelse di restare nel Regno Unito[27]),Bermuda (dove in un referendum del 1995 il 73,6% dei votanti si espresse per restare nel Regno Unito[28]),Anguilla,Gibilterra,Sant'Elena, leisole della Georgia del Sud, mentre tra i possedimenti statunitensi, oltre a quelli nell'Oceano Pacifico, tra i quali vi sono le isoleHawaii, che nel 1959 vennero annesse cinquantesimo stato dell'Unione, è ancora da definire lo stato diPorto Rico,[29] che nel 2012, dopo un referendum approvato dal 61% degli elettori, ha iniziato l'iter per divenire il51º stato degli USA.[30]
Luigi Bruti Liberati,Storia dell'impero britannico 1785-1999: Ascesa e declino del colosso che ha impresso la sua impronta sulla globalizzazione,Bompiani, 2022,ISBN978-8830105850.
Bernard Droz,Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2007
Raymond F. Betts,La decolonizzazione, Bologna, Il mulino, 2007