To be permanent Oblates…
Five of our beloved brothers at the International Scholasticate are preparing themselves to “promise to God and vow chastity, poverty and obedience for life”. The Congregation of Missionary Oblates of Mary Immaculate will be blessed with five new perpetually professed young Oblates on the first of May 2018. The Eucharistic celebration will be held at the Chapel of the General House of the Congregation at Rome. We will share with you their own inspiring God experience/s throughout their vocation journey.
The Candidates are,
1. QESA AUGUSTINE SEBENZILE, LESOTHO
2. MASILO KOALI FRANCIS, LESOTHO
3. YACINTHE VEDELY, HAITI
4. MALCZEWSKI PIOTR, POLAND
5. ZHUVA THEMBO, ZIMBABWE
We humbly request your prayers for them.
“IL PANE DELLA VITA”
Condivisione del Vangelo di San Giovanni (Gv6, 30-35)
Sco. TOTOMALAZA Docellin Antonio,
martedì il 17 aprile 2018.0
Sappiamo bene quando recitiamo la preghiera che Gesù ci ha insegnato, troviamo la parola di chiedere il «pane». Come diciamo: “Dacci oggi nostro pane quotidiano”. Questa preghiera ci conduce a meditare il Vangelo che la chiesa ci propone oggi. Allora, nella nostra vita quotidiana, vogliamo sempre qualcosa da mangiare e da bere per avere la vita, la forza per poter lavorare. Penso che noi abbiamo il pensiero di essere saziato corporalmente con questo pane perché di solito, è importante che la pancia sia piena. Così gli Israeliti lo consideravano come un Cibo corporale. Perciò non credevano che Gesù era il Pane vivo. Perché loro non capivano niente del significato di questo “pane”. Pensavano che questo pane fosse come il cibo che ci nutre e ci sazia il corpo. Ma invece Gesù insegna bene che lui è il “pane” disceso dal cielo che ci dà la vita eterna. Cioè Gesù stesso è il pane di vita.
Malgrado la promessa che Dio aveva fatto loro, i figli di Israele, scoprendo la manna nel deserto, s’erano chiesti l’un l’altro: «Che cos’è?» (Esodo 16:15). La stessa incredulità si mostra nei loro discendenti. Essi discutono su questo strano alimento di cui ha parlato loro Gesù: la sua carne e il suo sangue; cioè il suo corpo dato alla morte.
Un Cristo vivente sulla terra non sarebbe bastato per dare la vita all’anima nostra. Bisogna che crediamo e ci appropriamo della sua morte (in figura, mangiare la sua carne e bere il suo sangue) per avere la vita eterna. Poi, dobbiamo ogni giorno identificarci con Lui nella sua morte. Noi credenti siamo morti con Lui al mondo e al peccato. Gli piace un modello, ma gli è troppo duro riconoscere il proprio stato di condanna di cui la morte di Cristo è una prova evidente.
Invece di interrogare il Signore, molti che avevano professato di essere suoi discepoli se ne vanno scioccati dalle sue parole. Egli non cerca di trattenerli «addolcendo» la verità. Ma sonda il cuore di quelli che restano: «Non ve ne volete andare anche voi?». — «Signore, a chi ce ne andremo noi?», è la bella risposta di Pietro. Possa essere anche la nostra! (v. 68 e 69; leggere Ebrei 10:38 e 39).
Parlando della vita, Gesù è il nostro pane della vita e ci ridona la vita. Come possiamo credere che la sua carne si può mangiare e il suo sangue si può bere. E chiaro che tutto quello venga della fede. Cioè la fede ci spinge a capire tutto ciò che Gesù ha detto. Allora anche noi, siamo il pane della vita che dà la vita agli altri per la nostra testimonianza e la nostra pastorale. Non abbiamo paura di essere testimoni della vita perché abbiamo già ricevuto il pane della vita. La nostra presenza è già qualcosa preziosa verso gli altri. Possiamo dire che il nostro corpo è un pane che dà la vita attraverso il nostro comportamento e il nostro lavoro con i poveri attorno a noi.
Per concludere, l’opera di Dio ci chiede che crediamo in colui che Dio ha mandato. Quindi Gesù esige l’accettazione della sua persona e delle sue parole. Ma l’esistenza di Gesù ci fa comprendere sulla scena la questione della manna. Si manifesta di essere profeta come tipo di Mosè per farci capire le sue opere nel mondo. Allora, non dimenticate che l’uomo non vive soltanto del pane, ma di quanto esce della bocca del Signore (Dt 8,3). Cioè viviamo in Gesù, il nostro pane quotidiano, gli è la Parola di Dio vivente.
Nascita nuova e nascita dall’alto
Moses Owino – Kenya
DIALOGO CON NICODEMO (Gv. 3)
Nicodemo e’ un uomo di buon volonta; e’ disposto ad accettare il punto di vista di Gesu’ e riconoscere almeno che il suo comportamento corrisponde a quello d’un inviato da Dio. E’ un uomo senza pregiudizi e non privo d’inquietudine. Come buon giudeo, coltiva tutta la problematica concernente il regno di Dio. E certamente le domande che rivolse a Gesu’ e le questioni che egli sottopose giravano intorno a questa tema.
Infatti l’espressione ( regno di Dio) e (regno dei cieli) che e’ cosi frequente nei sinoticci, si trova solo in questo passo del vangelo di Giovanni. E perche’ compare qui, se il quarto vangelo di lavora con categorie diverse fra le quali non figura quella del regno? Certamente per l’importanza del problema che Nicodemo sottopose a Gesu’. Egli ha stilizzato la conversazione della quale ci ha conservato solo quegli elementi che gl’interessava mettere in rilievo.
in questo brano, il quarto vangelo ha fatto di Nicodemo una figura funzionale, come fa anche in altre occasioni. Egli entra in scena per offrire il punto d’appoggio dal quale Gesu’ parte per inculcare il suo insegnamento. Le speculazioni guidaiche circa il regno non portano a buoni risultati. Per entrarvi e necessario rinascere. E l’affermazione centrale di questo breve racconto. Nicodemo la intende letteralmente, e questo provoca un’ulteriore domanda di incomprensione.
L’idea, secondo la quale l’uomo deve (rinascere) quando entra in una nuova religione o in un’altra maniera. Oggi diremmo che e’ necessario un cambiamento di mentalita’. Avevano questo significato le parole di Gesu’? evidentamente no. Questa nuova nascita e’ una nascita’ dall’alto. Abbiamo due cose: nascita nuova e nascita dall’alto. Nascita dall’alto o da Dio. Nascita dall’alto che e’ stata resa possibile dal fatto che quello dall’alto e’ venuto sulla terra. Lo aveva gia’ annunziato l’evangelista nel prologo ( 1,12-13). La nascita da ( la carne e il sangue) che comprende tutte le possibilita’ umane e’ del tutto insufficiente e inadeguata al fine dell’appartenza al regno.
Non bastano la speranza, l’attesa o il desiderio del regno: e’ indispensabile la presenza dello Spirito che, attraverso Gesu’, entra in scena come un argente ri-generatore. E l’uomo, per mezzo della fede, deve accetare quello che ora gli e offerto. Questo nuovo ordine di esistenza e’ superiore a tutte le possibilita’ umane. E’ dato all’uomo come dono gratuito da Dio.
Quello che nasce dalla carne e’ carne. La carne indica, naturalment, tutta la persona umana secondo tutte le sue possibilita’. Quello che nasce dallo Spirito e’ Spirito, cioe’: solo quando lo Spirito di Dio tocca L’uomo crea in lui una specie di personalita’ nuova.
Le parole di Gesu’ furono messe in scritto quando il battesimo cristiano era una realita’ largamente vissuta nella chiesa. Gesu’ parla degli elementi essenziali del battesimo. Dell’acqua con tutto il suo simbolismo di purificazione profonda, che elimina il peccato, la maggior contaminazione che soffoca il cuore umano, e dello spirito che da’ efficacia alla’cqua purificatrice in vista della nuova nascita.
Per concludere, affidiamoci totalmente alla parola di Gesu’, Vero Maestro che puo’ soddisfarci la nostra fame di conoscere Dio. E’ revelatore di Dio e anche donatrice di vita’.
Grazie!
MATEUSZ ZYS, POLAND
Reading 1, Numbers 21:4-9
Responsorial Psalm, Psalms 102:2-3, 16-18, 19-21
Gospel, John 8:21-30
Grazie! Eccola – parola chiave di questa condivisione. Rendere grazie a Dio. Entrambe letture di oggi insieme al salmo ci mostrano un bel esempio della vita degli uomini, in cui troviamo la caduta da parte nostra, e la risposta divina, quando Dio ci salva. Lo possiamo dividere in 4 tappe. Ma mentre seguiremo queste tappe, vorrei fermarmi un po’ sul tema della gratitudine, per sottolineare il suo ruolo in ciascuna parte.
Allora prima tappa riguarda la situazione prima della caduta, dove cerchiamo di capire, perché cadiamo. E questo possiamo trovare all’inizio della prima lettura, cito: “Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: <<Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero>>”. Dunque il narratore menziona 3 motivi presenti nell`attegiamento del popolo – la mancanza di forza e di pazienza, lo scoraggiamento e poi il mormorare, cioè parlare contro di Dio e il suo profeta. Mi sembra, che tutte queste cose sappiamo dall’esperienza. Quando Dio è con noi, oppure quando sentiamo la sua presenza, tutto va bene, ma dopo può arrivare un momento, quando c’è buio, quando non vediamo più la sua luce. E particolarmente in quel momento può succedere a noi la stessa cosa, che era accaduta agli Israeliti, cioè lo scoraggiamento, mormorare, mancanza di pazienza. Forse come loro cominciamo a dire, che ci sono tante cose di cui abbiamo bisogno e invece ci mancano. O forse siamo già così abituati a ricevere le grazie da parte di Dio, come la manna dal cielo, che abbiamo smesso di trattarle come un dono. Ma quando cessiamo di ringraziare a Dio, cambiamo il nostro atteggiamento, dicendo che a quei doni abbiamo il diritto. Dio ci ha dato tutte le cose di cui abbiamo bisogno per fare la sua volontà. Però la mancanza di gratitudine causa che non lo capiamo più, non lo vediamo come è veramente e entriamo nel buio delle nostre aspettative e i nostri desideri, arrivando al punto, quando siamo stanchi dei doni di Dio, perché il cibo è troppo leggero e noi siamo già nauseati e non lo vogliamo più. Non è mai troppo tardi per la riflessione, ma se noi perdessimo la gratitudine, la perseveranza e la fedeltà, quella strada ci porterebbe finalmente alla seconda tappa – la caduta.
Lo vediamo nel brano successivo: “Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì”. Quando appaiono i serpenti che possono simbolizzare il pericolo del peccato, la gente esperimenta la sofferenza e la morte. Sarebbe ottimo per noi dire, che tutto questo accade a causa di Dio, che il Dio ha mandato quei serpenti per ucciderci. Ma non è così. Vuol dire che Dio è veramente la prima causa, ma le conseguenze mortali dei nostri peccati accadono come il frutto delle nostre scelte sbagliate. Non è Dio il nostro nemico, che non ci vuole bene, ma semplicemente è il peccato che ci porta alla morte. Ecco, qualcuno potrebbe chiedere adesso, quale è la connessione tra il peccato e la gratitudine? Per vederla dobbiamo prima accettare, che la nostra condizione dopo il peccato è la nostra colpa, non è la colpa di Dio oppure di qualcun altro. Solo se facciamo così, lo diventa possibile, che il Dio misericordioso apra i nostri occhi per farci vedere, che senza Lui non c’è speranza per noi. E negli occhi di Dio il nostro peccato può diventare paradossalmente l’occasione per il nostro ritorno alla strada giusta. Se noi lo capiamo, dovremmo essere grati. Non per il peccato, ma per la misericordia di Dio, che anche dal nostro male può portare qualche bene.
Poi viene la terza tappa, cioè la conversione. La gente grida a Mosè: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Queste parole esprimono la grande dipendenza da Dio. È importante di capire che la conversione non è solo dal peccato, ma, per essere efficace, deve essere a qualcuno, alla persona. La gente viene a Mosè, perché lui era il profeta di Dio, allora il popolo capisce, che deve tornare a Dio. E Dio per tutto questo tempo ci sta aspettando con la mano tesa verso di noi. Lui è sempre pronto a perdonarci. Dunque non si deve spiegare, perché dovremmo ringraziarlo. Lo dovrebbe succedere automaticamente, perché il cuore convertito a Dio è pieno di gratitudine per il suo amato.
E finalmente la quarta tappa – la risposta divina. Il Signore ha detto a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Ecco, abbiamo detto prima, che la conversione deve essere alla persona. E questo serpente ci presenta un tipo del sacrificio di Cristo. Ci sono 2 cose che vale la pena menzionare qua. Prima, il Signore vuole, che Mosè costruisca un serpente, per aiutare la gente morso dal serpente. Quello non è una coincidenza, neanche nel caso di Gesù. Perché Lui è venuto per salvarci dai nostri peccati, e, come dice Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. E seconda cosa, il Signore voleva, che Mosè mettesse il serpente sopra un’asta, allora più alto del livello degli occhi. Vuol dire, che per essere salvato, la persona morsa doveva alzare gli occhi per guardare nel cielo, dove si trovava la salvezza. In vangelo di oggi Gesù dice: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati”. Allora, come per la gente dalla prima lettura, anche per noi la salvezza viene di lassù. Ci viene data gratuitamente. Come dice il salmo: “Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il sospiro del prigioniero, per liberare i condannati a morte”. Lui è diventato la nostra salvezza e questo è un dono più grande di tutti. È un regalo per ciascuno. Come si può non essere grato?
la comunità IRS accoglie un nuovo formatore…
Rev. Fr. Clement Waidyasekara, OMI
The IRS community welcomes Fr. Clement: a new formator. He is from the Oblate province of Colombo, Sri Lanka.
Fr. Clement presents himself
Presentazione di me stesso
Vengo dallo Sri Lanka. Sono nato il 19 febbraio 1946. Mio padre era un medico e mia madre era una casalinga. Mio padre era un buddista ma si è sposato con mia mamma in chiesa come un catolico (cristianamente). Entrambi sono morti. Eravamo 6 nella famiglia: miei genitori, 3 fratelli e una sorella. Mia sorella è più giovane della famiglia. Mio fratello maggiore era morto quando aveva 42 anni.
(Mi piacerebbe condividere alcuni eventi significativi della mia vita
Ho avuto la mia prima educazione, in una scuola gestita dagli Oblati. Questo fatto è stato determinante nella mia decisione ad entrare agli Oblati. Ho fatto la mia filosofia di 3 anni in Sri Lanka nel seminario nazionale. Dopo la filosofia, io con due altri scolastici siamo usciti per fare lo stage (una reggenza) con obiettivo di avere l’esposizione o esperienza con la realtà di vita.
Tre di noi vivevamo in una fattoria come una piccola comunità e lavoravamo in diversi posti. Ho lavorato in una fabbrica, l’altro in un negozio e l’altro nella fattoria. Abbiamo avuto un sacerdote Oblato come nostro mentore e direttore spirituale durante quel periodo. Subito dopo questo tempo di stage (la nostra reggenza) mi è stato chiesto di andare allo scolasticato internazionale a Roma. Così sono venuto a Roma nel 1972. Quella volta Scolasticato è stato appena trasferito da Pinetta Sachetti a qui, casa generalizia.
Il primo anno è stato un anno difficile per me con la lingua, gli studi e shock culturale. Ma tutto è andato bene in mezzo a tutte le sfide. Ho passato 5 anni qui, nello scolasticato, e in quel periodo ho completato primo ciclo (alla Gregoriana) e poi la licenza in teologia morale all’Academia Alfonsiana. Sono ritornato in Sri Lanka nel 1977 e dopo un mese dal mio ritorno sono stato ordinato prete.
Ho lavorato in una missione nel nord est dello Sri Lanka. Dopo un anno di vita sacerdotale, mi sono offerto d’essere il volontario per andare in Pakistan come missionario nel 1979. La delegazione Pakistan è stata fondata nel 1972 dalla provincia dello Sri Lanka (insieme alla provincia di Jaffna e Colombo). La mia missione principale era d’iniziare il lavoro di formazione, partendo dal seminario minore fino al post-noviziato. È stata una grande lotta per reclutare vocazioni (pescare come San Pietro) in un paese a maggioranza musulmana. Mentre ero il superiore dello scolasticato con uno scolastico, insegnavo nel seminario maggiore.
Nel 1983 sono tornato (seconda volta) a Roma per fare i miei studi di dottorato in teologia morale all’Academia Alfonsiana. Dopo aver completato tre anni di studi sono tornato in Pakistan. Nel frattempo sono stato nominato preside di teologia al Seminario nazionale.
Con la collaborazione dei membri dello staff abbiamo apportato nuove modifiche alla formazione teologica. Il seminario maggiore è stato trasformato come un Istituto cattolico nazionale di teologia, dove l’istituto è stato aperto ai laici, religiosi e religiose per studiare teologia. L’Istituto ha tenuto corsi serali/di sera (corso di certificazione) per coloro che desiderano studiare teologia. Tra gli studenti, c’erano medici, infermieri, insegnanti, catechisti e banchieri. Insegnare loro è stata una grande sfida perché ognuno è un esperto nella loro rispettiva professione.
Questo istituto era affiliato al Melbourne College of Divinity, un Collegio Ecumenico in Australia. Questo dà i certificati di baccalaureato agli studenti del Pakistan. Ho avuto 20 anni di esperienza come superiore dello Scolasticato, a causa della mancanza di personale, e alla fine sono stato sostituito da p. Andre Grolour della Provincia di Lacombe, in Canada. Dopo essere stato il Preside accademico per 6 anni e aver servito il Pakistan per 24 anni, sono tornato in Sri Lanka nel 2001.
Subito dopo, sono andato per il sabbatico per la prima volta dopo 24 anni di servizio in Pakistan. Ero in Università Cattolica, Leuven, in Belgio. Durante questo periodo di un anno ho pensato che avrei dovuto contribuire con qualcosa per iscritto alla chiesa del Pakistan con la mia lunga esperienza. Così ho iniziato a scrivere un libro. Uno dei miei amici, un frate francescano, un grande professore di missiologia m’ha accompagnato nel mio lavoro. Alla fine ha detto che è abbastanza buono da trasmettere come tesi di dottorato. L’ho fatto ma ho dovuto prendere un moderatore all’Università Cattolica, a Nijmegen, in Olanda. Ho lavorato su questo per quattro anni (via email) e ho conseguito il dottorato presso la Facoltà di Centro interdisciplinare per lo sviluppo e il cambiamento culturale nel 2007. La mia tesi era sulla Chiesa in Pakistan basata sull’antropologia culturale.
Successivamente, una volta tornato a Sri Lanka, sono stato nominato membro dello staff dello Scolasticato della provincia di Colombo per due anni e poi sono diventato il superiore dello Scolasticato. Durante il quale abbiamo dato l’enfasi all’importanza del lavoro pastorale nella prima formazione. Abbiamo creato un programma di un anno, Asian Institute of Theology, una programma pastorale.
Dopo un anno e mezzo sono stato nominato Provinciale della provincia di Colombo nel anno 2005 con le delegazioni dell’India, Pakistan e Bangladesh. L’India è diventata una Provincia nel 2010 e lo stesso anno la delegazione Giappone-Corea è stata aggiunta alla Provincia di Colombo.
E poi, Ho partecipato al Capitolo generale del 2010 il quale sono stato nominato Consiglio Generale della regione d’Asia-Oceania. Cosi terzo volta a Rome e sono rimasto per 6 anni per fare il mio lavoro.
Infine, lunedì 26 febbraio 2018, sono arrivato a Roma per la quarta volta come membro dello staff dello IRS Scolasticato.
E cosi Eccomi!Questo è il mio viaggio della vita in breve!
La legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge
Jameson PIERRE, OMI, Haiti
Giovanni 5, 1-16
In pieno tempo di Quaresima, la liturgia di oggi ci offre la possibilità di riflettere sul nostro modo di agire e su ciò che deve essere la Legge nel nostro vissuto. Questo episodio giovanneo racconta un miracolo fatto da Gesù. Esso rivela la sua divinità e il suo atteggiamento contrario alla mentalità di quella epoca: una mentalità che chiamava ad un rapporto legalista più che promuovere i rapporti fraterni. Cerchiamo di dedurre 3 punti in questo brano: il primo è la compassione, il secondo: rapporto tra la preghiera e l’agire umano e il terzo è: non avere paura di uscire dallamìmesis.
1. La compassione
L’evangelista paragona due immagini della compassione di Dio: quella della piscina di nome ebraicoBetzatà che letteralmente vuol dire casa della misericordia. La seconda è quella di Gesù che incarna in sé la compassione divina.
Betzatà è un luogo dove incontrava tanti infermi in ricerca di guarigione. Purtroppo, il desiderio non bastava per essere guarito. Bisognava avere la forza o l’aiuto di qualcuno per gettarsi nella piscina. Da questo punto, possiamo vedere la concezione giudaica della salvezza. Colui che bisognava salvarsi doveva fare i passi necessari. Con Gesù, Dio viene a noi per salvarci. La sua missione risiede nel suo venire verso gli uomini. Arrivando, già Gesù lo vede come un uomo disperato in mezzo agli altri che aspettano il movimento dell’acqua. Non c’era più speranza per lui perché per guarire aveva bisogno di muoversi invece di essere guarito per muoversi. Anche oggi, nella nostra vita esperimentiamo a volta dei momenti di desolazione. In questi momenti, dobbiamo sempre sperare contro ogni speranza perché Gesù è sempre con noi. Egli fissa il suo sguardo misericordioso su colui che non ha più speranza. Come dice il ritornello del salmo:Dio è per noi rifugio e fortezza. Colui che ci chiede soltanto il primo passo. Quel passo non è che il desiderio di essere salvato.
2. La preghiera e l’agire umano
Gesù, gli chiede: “vuoi guarire”? Egli rispose: “Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita”. Se osiamo interpretare la sua risposta, possiamo dire: nessuno sente il mio grido, ognuno fa le sue cose, non hanno tempo per aiutarmi perché sono in fretta per andare a compiere il loro servizio rituale. Così, possiamo distinguere due comportamenti errati: i legalisti che non volevano fare niente e quelli che si lasciano portare dal pietismo. Cioè, è il tempo della preghiera e sono privi delle azioni caritative. Queste persone, per ripetere Alberto Maggi, sono delle persone quando voi gli chiedete una mano, loro non possono, perché ce l’hanno giunte per pregare. Altrimenti, quando gli chiedete un favore, un aiuto, loro dicono:guarda, non posso, ma ti ricordo nelle preghiere. Questo era proprio il comportamento dei farisei e i scribi che erano dei legalisti. Ogni tanto entravano in quel luogo cioèBetzatà per pregare, per offrire dei sacrifici ma non vedevano quel paralitico che sta lì da trentotto anni per aiutargli a trovare la guarigione. Invece, entrando Gesù, lo vede e ci dà un esempio della pietà e della preghiera. La preghiera è quell’atto che mette l’uomo in relazione personale al suo Dio. Quell’atto che ci permette di contemplare il volto di Dio nel volto dei nostri vicini specialmente i più bisognosi. Possiamo fare sempre un’offerta di moneta o di panino ad un povero che si trova sulla strada. La domanda è questa: siamo pronti a prendere tempo per ascoltargli? per fargli sentire di essere amato? Fratelli, direi privato dall’azione o dalla misericordia, l’atteggiamento alla preghiera è sbagliato. Essa non deve essere un impedimento alle nostre azioni, piuttosto lo stimolo che ci spinge ad agire in favore dei più piccoli.
3. Non avere paura di uscire dallamìmesis
Alzando sul suo κράβαττος (Krabattos), cioè letto di povertà, i giudei lo dissero: oggi è sabato, perché prendi il tuo letto? Se portiamo questo evento nel nostro tempo, possiamo interpretarlo così:siamo in quaresima, perché ridi? Non si scherza in quaresima. Fratelli, l’estremista conduce l’uomo alla sua rovina. Essa non favorisce il rapporto interumano. Al di là di una concezione fondamentalista del sabato o di quaresima oppure della legge, possiamo vedere in questi una traccia di relazionalità. Il vero senso del sabato o della domenica per noi oggi rimane la relazione interpersonale. Per esempio, il sospeso dell’aperitivo di ogni domenica è un segno di solidarietà verso i poveri. Tuttavia, non avrebbe senso se non condividiamo agli altri quello che dovevamo spendere per noi stessi. Una cattiva comprensione della legge, induce il cuore umano. Qualche volta, agiamo senza prendere il vero senso della Legge o la interpretiamo letteralmente quando essa è in nostro favore. Oggi, questo vangelo ci porta a fare una retrospezione nella nostra vita. È il tempo di vedere se c’è un collegamento tra quello che facciamo e quello che sentiamo. L’uomo non è sempre un essere che obbedisce alle norme, ma è ancora più colui che agisce secondo la sua umanità. Perché la legge è dentro di lui e non esiste a scapito o danno di un altro.
L’obbedienza è prima di tutto un luogo di discernimento. Obbedisco non perché entro in unamìmesis, una struttura, ma perché consapevolmente, vedo in quella decisione la volontà di Dio come ha detto Padre Amadeo.
Fratelli, in questo tempo di quaresima, prendiamo tempo per uscire dai condizionamenti per lasciare parlare il nostro cuore. La legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Viviamo questo tempo di quaresima in una sincerità del cuore. realizziamolo concretamente nelle nostre attività quotidiane.
Preghiamo Dio affinché questo tempo sia veramente per noi, un tempo di conversione pensando a tutti coloro che soffrono della guerra e dell’esclusione sociale. Che Dio faccia dei nostri cuori, il vero centro delle nostre azioni affinché la legge sia per tutti noi l’espressione della nostra volontà personale.
Jameson PIERRE, omi.
Fino a sette volte?
Il vangelo di Matteo 18, 21-35
TALASI FRANCISMOKETE OMI, LESOTHO
Il Vangelo di oggi ci parla della necessità del perdono. Non è facile perdonare, perché certi magoni continuano a bruciare il cuore. Ci sono persone che dicono: “Perdono, ma non dimentico!” Rancore, tensioni, opinioni diverse, affronti, offese, provocazioni, tutto questo rende difficile il perdono e la riconciliazione.
Matteo è l’evangelista che, più degli altri, dedica attenzione al tema del perdono. Per questo al capitolo 18 presenta Gesù che indica la necessità del confronto con il fratello che ha peccato, che ha commesso una colpa, e la necessità di ricomporre il dissidio all’interno della comunità .La Parabola del servo spietato si trova nel vangelo di Matteo, e cerca di mettere in evidenza che, come il Padre perdona gli uomini, così anch’essi devono perdonare gli uni gli altri. In questa parabola Gesù non suggerisce solo di perdonare infinite volte, ma semplicemente di comprendere e giustificare con sincerità, sull’esempio del Padre che sempre perdona.
“Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. Pietro ha capito che è necessario perdonare, ma pensa che tale obbligo abbia un limite. Il numero “sette” indica pienezza, perfezione. In pratica, Pietro domanda: devo perdonare proprio tante volte al mio fratello (= il membro della comunità cristiana)? Rispondendo, Gesù precisa: “…fino a settanta volte sette”. Cioè: non tante volte, ma un numero illimitato di volte, sempre. Chi non si ritrova nella domanda di Pietro e nella sua logica di fondo? Vale a dire, tutta l’attenzione viene ristretta al rapporto tra me e colui che mi è debitore. E così mi appare senza senso il sopportare e perdonare il torto ricevuto. Raccontando la parabola, Gesù invece sposta l’attenzione sulla relazione tra Dio e me, che verso Dio sono debitore e che da Lui ho ottenuto misericordia.
Qui noi troviamo, in parallelo, l’azione di Dio e l’azione dell’uomo, all’origine sta l’azione di Dio, è Dio che per primo perdona e trasforma, usa misericordia e rende l’uomo capace di misericordia: l’origine di tutto è la misericordia di Dio, il suo amore paterno. Ma non è un colpo di spugna, il perdono di Dio non è mai un far finta che il peccato non ci sia, ma è un reale intervento per risolvere il problema: il perdono di Dio davvero trasforma la persona, la cambia dal di dentro e la abilita a fare qualcosa che non sarebbe in grado di fare da solo.
Perdonare gratuitamente il peccato a chi si pente sinceramente dimostrando, così, una benevolenza nei confronti dei peccatori assolutamente disinteressata. Per questa meravigliosa esperienza del perdono divino ogni uomo deve imporsi di perdonare i propri fratelli e perfino amare i propri nemici, in quanto egli, per primo, ha usufruito del perdono divino; è questa una delle caratteristiche più belle del cristianesimo. Gesù è venuto nel mondo per rivelare, con le sue opere e la sua vita, l’amore misericordioso del Padre. L’esperienza del perdono di Dio ci deve portare a nostra volta a perdonare le offese che possiamo ricevere dal nostro prossimo. Gesù paragona il debito che abbiamo verso Dio a una somma di diecimila talenti e quello che il nostro prossimo può avere verso di noi a un talento, per sottolineare l’enorme differenza tra la grandezza del perdono di Dio e il nostro.
L’amore che comprende il perdono è impegnativo, ma è sempre frutto della contemplazione del mistero di Dio che è misericordioso con tutti e del mistero del cuore di Cristo. L’amore è sempre frutto del regno di Dio, della potenza di Dio che rovescia la potenza del peccato. L’amore fino al perdono ci fa scoprire le energie nuove che Dio immette in questo mondo carico di peccato, la santità che Dio mette dentro di noi.
L’amore di Dio verso gli uomini è così gratuito che non possiamo pretendere di averne diritto: è talmente assoluto che non possiamo mai dire che ci venga a mancare. L’amore umano, al contrario, è così limitato e chiuso dal nostro egoismo, si spinge così raramente oltre la stretta giustizia o fuori della severità moraleggiante, che noi immaginiamo facilmente un Dio vendicatore ed una religione basata sul timore. Chi di noi sa ancora che la “grazia” che egli chiede a Dio significa “tenerezza” di Dio e “pietà” per il peccatore? L’uomo d’oggi si sente ancora amato? Ha ancora bisogno della misericordia?
La comunità cristiana, e ogni cristiano in particolare, deve saper esprimere nella vita concreta il dono del perdono misericordioso di Dio attuandolo verso i fratelli e sorelle. Nelle Scritture troviamo sempre un’insistenza sul perdono da dare:nel Padre nostro il perdono di Dio è condizionato al nostro perdono: “Perdonaci i nostri peccati poiché noi perdoniamo ai nostri debitori”. Dopo l’insegnamento del Padre nostro Matteo aggiunge: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”
perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti peggiori della mia vita?”
Condivisione della fede 06 febbraio 2018 San Paolo Miki e compagni, martiri
ANDRE KULLA OMI (GERMANY)
Cari fratelli e sorelle,
oggi celebriamo la memoria di un gruppo di martiri dal Giappone del XVI secolo. Non so se voi pensate qualche volta la stessa cosa che capita a me pensare aprendo il breviario la mattina per vedere se c’è qualcosa di particolare: Ah, un’altra memoria di martiri, morti in un’epoca lontana in un paese lontano. Uomini santi, certo, ma che centra con la mia vita? E poi prego il breviario senza lasciarmi coinvolgere della storia e del destino di questi testimoni di Cristo.
Invece oggi, mi sono fermato e sono andato a vedere, chi erano questi martiri del Giappone e cosa possono dire alla mia vita come missionario Oblato di Maria Immacolata nel 2018 e vi voglio prendere per mano per poter mostrarvi la mia scoperta inaspettata:
I martiri erano ventisei, nove sacerdoti, missionari europei e sacerdoti giapponesi e diciassette laici, tutti morti a causa della loro fede, messi in croce come Colui per il quale loro davano la vita. Sentiamo le parole commoventi di Paolo Miki poco prima della sua morte:
L’unica ragione per la quale vengo ucciso, è perché ho proclamato l’insegnamento di Cristo. Ringrazio Dio che questa è la ragione per uccidermi. Sono convinto di dire la verità prima di morire. So che mi credete e voglio dirvi di nuovo: chiedete a Cristo di diventare felici. Obbedisco a Cristo. Secondo l’esempio di Cristo, perdono i miei persecutori. Io non li odio. Chiedo a Dio pietà per tutti e spero che il mio sangue cada sui miei prossimi come una pioggia fruttuosa.
Cosa ci dice allora la morte di questi testimoni di Cristo? Rimango colpito dal fatto che era un gruppo di missionari, sacerdoti e laici di diverse nazioni, missionari e indigeni insieme. E penso alle nostre realtà: Oblati, cioè consacrati, insieme a laici danno testimonianza per Cristo. Cercano di obbedire solo a Lui e cercano di seguire il Suo esempio. Questi martiri sono morti in croce. La croce di Cristo è un segno che ci identifica come oblati. Non per caso riceviamo una croce grande nell’oblazione perpetua. Ecco quello che dice la Costituzione 63:
La croce Oblata, ricevuta nel giorno della professione perpetua, ci ricorderà costantemente l’amore del Salvatore, che desidera attirare a sé tuti gli uomini e ci invia come suoi collaboratori.
Siamo allora chiamati a essere testimoni dell’amore di Cristo come lo sono stati i martiri del Giappone. Anche vivendo in un contesto che non porta il pericolo di essere uccisi per la nostra fede, affrontiamo tante difficoltà nella nostra vita quotidiana che non ci rendono testimoni e profeti in questo mondo. Penso ai nostri dubbi, le nostre piccole sofferenze personali, la vergogna, il pensiero cosa gli altri potrebbero pensare di me, le difficoltà con i voti, con i superiori o i confratelli, i problemi a scuola, con gli amici o nella famiglia.
Ecco il nostro piccolo martirio della quotidianità. Ed ecco come l’esempio dei martiri di Giappone ci può dare la forza e il coraggio di affidarci al Signore con un cuore aperto e generoso, come l’hanno fatto loro fino a salire loro stessi sulla croce. Un altro martire, il pastore protestante tedesco Dietrich Bonhoefer, lo esprime così: «Dio non salva dalla croce, ma nella croce». Guardiamo quindi Gesù Crocifisso e affidiamoci al Suo amore senza limite, a Colui che è fonte e mèta della nostra vita come oblati.
Vorrei concludere con una piccola storia:
Questa notte ho fatto un sogno,
ho sognato che camminavo sulla sabbia
accompagnato dal Signore,
e sullo schermo della notte erano proiettati
tutti i giorni della mia vita.
Ho guardato indietro e ho visto che
per ogni giorno della mia vita,
apparivano orme sulla sabbia:
una mia e una del Signore.
Così sono andato avanti, finché tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora mi fermai guardando indietro, notando che in certi posti c’era solo un’orma…
Questi posti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita;
i giorni di maggior angustia,
maggiore paura e maggior dolore…
Ho domandato allora:
“Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita,
ed io ho accettato di vivere con te, ma perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti peggiori della mia vita?”
Ed il Signore rispose:
“Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te durante tutto il tuo cammino e che non ti avrei lasciato solo neppure un attimo.
E non ti ho lasciato…
I giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia,
sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio”.
An experience of a great event: International congress for religious, 2017.
“Come and see!”
Vocational pastoral and consecrated life – Horizons and hopes
An experience of a great event
Starting the year of oblate vocations I want to share with you an experience of a great event, an opportunity given to me at the beginning of Advent, only one week before the solemnity of Immaculate Conception.
The Congregation for the institutes of consecrated life and the societies of apostolic life had organized a big international congress for religious, working in the campus of vocational pastoral from the first to the third of December at the Regina Apostolorum University in Rome. The main idea was to give religious people working with young people the opportunity to listen to each other and to brainstorm about new horizons and hopes for their work with regard to the upcoming synod of bishops next year which will have the theme: “the youth, faith and vocational discernment.” So more than 750 consecrated woman and men took the opportunity given by the Vatican to join this great event with the programmatic title: “Come and see! Vocational pastoral and consecrated life – Horizons and hopes”. Apart from me, three oblates were also participating, two from Italy and one from Poland, all of them working for vocations in their units.
But what was a scholastic of the International Scholasticate doing there? That is a legitimate question! As I am studying consecrated life since two months at the Theological Institute Claretianum here in Rome, I was asked by the authority of the University to take part in this special event together with another young religious man from the Philippines and a young Bolivian sister. As young consecrated people we had a very simple but important task: Listening attentively, summarizing the main points and then giving an overview about new horizons and hopes. That was quite a serious job! So we had two days of listening to the Prefect and his Secretary, former Superior Generals, priest and sisters working in vocational pastoral from all over the world, discussions, summarizing, sleeping a little less and on Sunday we had to present our results to the whole assembly. Climbing the stage our knees were shaking a little, of course we do not get to every day talk in front of more than 750 people. But everything went well and we were happy to receive an applause from the assembly!
I just want to share with you some of the main points that we highlighted during our talk which could be a stimulus to us as Oblates starting a year of vocations. Obviously our results are neither complete nor the only thing to say about vocation and how we can help young people today to find it. We just put everything that seemed important to us for a future pastoral work for vocations.
Here some of our results:
- Vocational pastoral has to lead young people to a personal encounter with Christ
- We have to create personal relationships with young people, listen to them, accompany them, love them
- We have to go where they are to understand who they are
- We have to be rooted in the Word of God and we don’t have to forget that the gospel of the vocation is demanding
- Our community life has to be a reflex of the Trinitarian life, that means creating fraternal communities, for that it’s necessary to humanize our community life
- The importance of welcoming cultural and spiritual differences
- Living with hope and joy
- Walking in the footsteps of Christ
- Living our own vocation with passion
- Showing the beauty of our religious vocation
- Unify vocational pastoral and youth pastoral
- Reinforce pastoral for families
- Collaboration of charisms and inter-congregationally
- Change mentality (metanoia) and vision
- Open ourselves to an attitude of trust
- Challenge the young people and let us be challenged by them
- Young people have a huge thirst of God
- Our charisms testify and charm
We have an immense hope that there will be a future for religious life in all our countries and we believe that God is still calling. May we be his collaborators!
brother André Kulla omi
Year of Oblate Vocations!
Choose your Facebook Frame!!!
The Oblate vocation year was inaugurated on 8th of December 2017. We have planned many spiritual and pastoral activities relating to this year. We are also taking our effort to reach the world thorough the social media to share our charisma. The vocation year Facebook frame is one of the new efforts of such. Now you can add ‘Oblate Vocation Facebook Frame’ to your facebook profile. As these frames are in many different languages you can select the language you want to use. The languages are: English, Italian, French, Spanish, Polish, German, Vietnamees, Sinhala, Tamil, Bengali, Chinees, Tai, Korian and Malgasy. (And will be more)…
We are translating to other languages also. Let’s change it in to your language also… please send us the text in your language via Messanger, Facebook to ‘IRS Oblates’.
The way to add a frame to your Face Book Profile:
- Go to the time line, take the mouse pointer on to your profile picture
- Click on Update Profile Picture
- Click on add frame
- Then in the search Bar type “OMI Vocation (language)” – eg. OMI Vocation English
- select the frame and click on use as profile picture (below the Picture)
- done!
Thank you very much for using the OMI FB Frame!