Irene Bignardi
La Repubblica
Mandare avanti un casinò è come svaligiare una banca senza poliziotti in giro. Così parlò Sam Ace Rothstein, o, meglio, il suo modello nella realtà, Frank Lefty Rosenthal, ras di Las Vegas, dove il suo impero durò un decennio, dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni ottanta: un piccolo gangster approdato alla capitale del gioco nel 1968 e diventato a poco a poco il ricchissimo e potentissimo direttore di quattro casinò, il marito di una bellissima ragazza con un passato di cali giri, il proprietario di una casa da un milione di dollari (di allora), e luomo celebre in tutto il Nevada per le innovazioni che aveva portato nel mondo del gioco. Ma purtroppo anche lamico di amici non del tutto irreprensibili, afflitto da una pericolosa sete di potere. Morale: una caduta rovinosa, manovrata dai boss mafiosi che erano i padroni occulti di Las Vegas.
Martin Scorsese, che in tutta la sua carriera di regista -compreso lepisodio apparentemente anomalo di Letà dellinnocenza- è sempre stato affascinato dallantropologia delle tribù irregolari, dai meccanismi dellambizione, dai gusto del potere, dallarte della sopraffazione organizzata, ha trovato in Lefty un personaggio che sembra aver vissuto per lui, e in Las Vegas il perfetto laboratorio per le dinamiche della cupidigia. Senza alcuna timidezza per il fatto che Lefty è ancora vivo e vegeto (vive in Florida, a Boca Raton). Anche perché il personaggio, prima di diventare il protagonista del suo film Casinò,si è già ritrovato (consenziente) al centro dellomonimo bel romanzo-inchiesta di Nicholas Pileggi, lautore di Quei bravi ragazzi,a cui il film si è ispirato.
Las Vegas era una città senza memoria. Il posto dove si andava per riprovarci. Era la città americana dove la gente andava dopo un divorzio, dopo una bancarotta, dopo un soggiorno anche breve in galera. Era la destinazione finale per quelli che guidano attraverso mezzo continente in cerca dellunico lavaggio macchine della morale della nazione. Vale la pena di sgomberare il campo dalla sensazione di déjà vu. La Las Vegas di Scorsese non ha nulla a che spartire con quella kitsch di Showgirlsné con quella tutta pathos di Mike Figgis. I casinò, di cui Scorsese racconta letologia con la precisione di un grande reporter, sono il territorio di una nuova tribù di bravi ragazzi, più tirati a lucido e sofisticati, ma non meno feroci, e tuttavia diversissimi da quei pasticcioni che cucinavano spaghetti tra una strage e unesecuzione.
Il morality play di Casinòha per protagonista il dio denaro e per tema linevitabile caduta che comporta la corsa senza regole al potere. Tanto più che a gareggiare sono due amici, Ace, cervello del gruppo e facciata rispettabile del mondo del gioco, e Nicky Santoro, braccio (e pistola), rispettivamente Bob De Niro e Joe Pesci, impegnati in un duetto magistrale di nevrosi ed elettricità. Tra i due, Sharon Stone nel ruolo dellex cali giri Ginger McKenna, moglie delluno pur non amandolo (benché travolta da una pioggia di amore e doro) e amante dellaltro per sfizio (e così imprevedibilmente brava da essere giustamente candidata a un Oscar, che si sarebbero meritati in verità anche il regista, il film, gli interpreti di sesso maschile e parecchi altri contributi).
Dice giustamente Pileggi che i casinò, nel mondo moderno, sono lunico luogo in cui si possono vedere fisicamente grandi quantità di denaro nelle sue forme di carta, metallo, fiches. E Scorsese racconta con tutto il ritmo della sua montatrice Thelma Schoonmacher la complessa gestione di queste montagne di dollari (che finiscono dalle luci dei casinò nelle cucine e nelle botteghe piccolo-borghesi dei vecchi del clan mafioso). Ma Ace ha qualcosa di Gatsby: il denaro, che insegue forsennatamente, è io strumento per conquistare qualcosa di più importante, come il potere e lamore di Ginger, che lo tradirà invece, doppiamente, con lamico.
Su questo antieroe malato di malinconia Scorsese fa un film epico, commentato da una pluralità di voci e di punti di vista che invitano lo spettatore a guardare ma non a farsi prendere emotivamente. E che è coloratissimo, inaspettatamente divertente, qualcuno dirà un po lungo (dura tre ore): un grande ritorno al mondo scorsesiano delle mean streets. Tra i momenti indimenticabili, la soggettiva della cocaina aspirata attraverso una cannuccia: sintesi di un inedito senso dellumorismo che spezia un film travolgente.
Da Irene Bignardi, Il declino dellimpero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996