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The Project Gutenberg eBook ofLa Palingenesi di Roma

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Title: La Palingenesi di Roma

(da Livio a Machiavelli)

Author: Guglielmo Ferrero

Leo Ferrero

Release date: February 1, 2025 [eBook #75269]

Language: Italian

Original publication: Milano: Corbaccio, 1924

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PALINGENESI DI ROMA ***

LA PALINGENESI DI ROMA

CULTURA
CONTEMPORANEA

BIBLIOTECA
DI
LETTERATURA, STORIA E FILOSOFIA

DIRETTA DA
GEROLAMO LAZZERI

Vol. II

EDIZIONI “CORBACCIO„
MILANO - MCMXXIV

Proprietà Artistico Letteraria delloStudio Editoriale “Corbaccio„

Copyright by G. e L. Ferrero

(Printed in Italy)


GUGLIELMO e LEO FERRERO

La Palingenesi di Roma

(DA LIVIO A MACHIAVELLI)

Con un’appendice su:Che cos’è la Storia?

MCMXXIV

EDIZIONI “CORBACCIO„

MILANO


INDICE


LA PALINGENESI DI ROMA

[1]

AL LETTORE

Questo volumetto è destinato a far parte di unaCollezione, che si pubblica nell’America Settentrionale,per cura di un comitato di professori delleUniversità; e che si propone d’illustrare gli influssidella civiltà antica sulla moderna.

Occupato in altri lavori, mi son fatto aiutare, perla compilazione di questo, da un giovane collaboratore,che è nell’età delle grandi e proficue letture.

L’appendice è per intero opera mia.

Firenze, 5 maggio 1924.

G. F.

[3]

LA CREAZIONE

[5]

I.L’ANNALISTICA DEI PRIMI SECOLI.

NelDe Oratore di Cicerone Antonio domanda, aun certo punto, se per scriver di storia sia anche necessarioessere un buon oratore, e Catulo gli risponde:

«È necessario, se si scrive alla maniera dei Greci,ma secondo la nostra non c’è nessuna ragione di fardell’eloquenza: basta non essere falsi».

«Non disprezzare i nostri» replica Antonio. «Anchei Greci scrissero in principio come Catone, comeFabio Pittore, come Pisone. La storia non era altroche una fabbrica d’annali; e per questo, cioè perconservare le pubbliche memorie, dalle origini diRoma fino al pontificato di Mucio, il Pontefice massimoraccoglieva tutti gli avvenimenti dei singolianni, li scriveva nell’albo e poneva dinanzi alla suacasa la tavola, perchè il popolo potesse consultarla.Son quelli che si chiamano anche oggi annali massimi.E molti seguirono questo stile lasciando senz’ornarlosoltanto il ricordo dei tempi, degli uomini, dei[6]luoghi e delle imprese. Perciò come i Greci hannoFerecide, Ellanico, e Acusilas, così noi abbiamo Catone,Pisone e Fabio Pittore, che non sanno comeornare un’orazione (da poco infatti è stata importatapresso di noi quest’arte); e purchè si capisca quelloche dicono, credono che bisogna soltanto ricercarela brevità»[1].

Questo passo ci dimostra che si conoscevano aRoma due modi di scrivere la storia: uno più antico,e più schiettamente romano, più rigidamenteufficiale, che non si elevava fino al racconto, ma sicontentava di notare gli eventi, in uno stile diremmoquasi scheletrico se non stenografico; l’altro più recente,di origine greca, che apparteneva all’eloquenza,intesa non nel senso stretto, come arte delparlare in pubblico, ma nel suo senso largo, comearte del buon comporre e del narrare ornato.

Così infatti Cicerone, un po’ più innanzi, ritrattalo storico oratore:

«Non vedete che la storia è uno dei compiti maggioridell’oratore, quello che richiede maggiore ricchezzae varietà di stile... Chi ignora che la primalegge della storia è di non tacere mai il falso e didire sempre il vero, evitando il sospetto di parzialità?Questi fondamenti sono noti a tutti: i materialison le cose e le parole. L’esposizione dei fattirichiede l’ordine dei tempi, la descrizione dei luoghi,e poichè negli avvenimenti importanti e degni[7]di memoria ci si aspetta prima di conoscerne il disegno,poi l’esecuzione e il risultato, lo scrittore deveprima enunciare la sua opinione sul disegno, e poinarrando l’esecuzione dichiarare non solo ciò che èstato detto o fatto, ma anche in che modo; e quantoal risultato, elencarne le cause tutte, o il caso o leprudenze o le temerità dei personaggi; infine non soloraccontare le imprese, ma se essi eccellono perfama o per nome, studiarne la vita e l’indole. Lostile e il genere del discorso deve essere «fusum atquetractum», scorrevole con una certa misuratadolcezza; senza quella asprezza e quelle punte maligneproprie dell’eloquenza forense»[2].

È facile riconoscere nelmunus oratoris di Cicerone,quella che noi chiamiamo la storia artistica,ascritta alla famiglia dei più nobili generi letterarî,e contrapposta per questo, allora come ora, alla nudae asciutta cronaca dei fatti positivi, sollecita solodi raccontare con una certa minuzia. La storia artisticaentrò tardi in Roma, dove per lunghi secoli larude annalistica aveva signoreggiato senza rivali,d’accordo con la tenace diffidenza dell’aristocraziaper tutte le forme dell’intellettualismo greco. Il maggiornumero degli storici più antichi, di cui la tradizioneci ha trasmesso i nomi, appartiene all’annalistica.Ma se la storiografia artistica entrò così tardia Roma, quando Roma, maturata ormai al dominioda una lunga esperienza di guerre, di contese politiche,[8]di rivoluzioni, sede di un pensiero politico e diuna direzione morale di valore universale, era già ilcentro e il cervello di un vasto impero; quando cientrò finalmente, in questa atmosfera satura di unacosì grande esperienza storica, generò tre grandissimiscrittori — Sallustio, Tito Livio, Tacito — che noidobbiamo studiare, perchè in essi e per essi lo spiritodi Roma ha sopravvissuto alla rovina della civiltà antica,come un elemento creatore dei tempi nuovi, dicui noi siamo i figli, forse degeneri e parricidi. Quelche noi dobbiamo agli storici romani, lo dobbiamoa Sallustio, a Tito Livio ed a Tacito.

[9]

II.SALLUSTIO.

Di Sallustio, purtroppo, l’opera principale, leHistoriae,è perduta. Le due opere minori che ci restano,la Giugurtina e la Catilinaria, figlie della passionepiù volubile e passeggera, la passione di parte,non sono storie, sia pure più o meno imparziali; mapiuttosto veementi libelli politici, nei quali l’amicoe l’ammiratore di Cesare, sfoga i suoi tenaci rancoricontro la consorteria di Silla, contro il Senato,o contro la vecchia nobiltà che aveva avversato cosìfieramente il conquistatore delle Gallie. Le due monografiesono state scritte con scopi precisi: la Giugurtinaper dimostrare che il Senato era stato corrottoda Giugurta nel famoso affare della Numidia,il che, poco verosimile in sè, risulta falso dalla stessanarrazione di Sallustio[3]; la Catilinaria per dimostrareche la celebre congiura era stata macchinatadagli avanzi del partito di Silla: ritorsione inparte vera, ma non immune da esagerazione, contro[10]quelli che l’imputavano a Cesare e ai suoi amici.

Su due opere minori soltanto, di polemica più chedi vera storia, dobbiamo giudicare Sallustio; ma poichèsono innanzi tutto due opere d’arte, senza meravigliaponiamo, nella storia della storiografia romana,Sallustio come il primo storico romano, di cui ciresti qualche opera, che sia stato sin dall’antichitàe giustamente considerato un grande scrittore. Lasuabrevità ora lodata, ora biasimata, già celebrepresso gli antichi, tanto che fu ricordata tra gli altrida Seneca («obscura brevitas») e da Quintiliano(«vitanda illa Sallustiana brevitas»), e la suaabitudine di collezionare arcaismi, adoprandoli a fareuna tessitura preziosa e ricercata di prosa, in cuisi sente il compiacimento dell’autore, che, quando sirileggeva, doveva divertirsi a certi effetti di simmetriae alle trovate architettoniche delle frasi ben composte,lascia trasparire una preoccupazione stilistica,che è del tutto nuova, e riesce bene, se non cade nell’artificio.

«Sallustio — scrive un francese, che aveva profondoil senso della bellezza letteraria[4] — non cercatanto di far conoscere i fatti, quanto di ostentare ilsuo ingegno, e ambisce più la lode che l’istruzionedel lettore. Si diverte ogni momento a trovaredelle antitesi riuscite, delle frasi simmetriche, dellemetafore e delle rassomiglianze. Quando i congiuratistanno per essere condannati a morte, ferma il[11]racconto e comincia a paragonare Cesare con Catone,contrapponendo a una a una le loro qualità, amembro a membro i periodi, con una straordinariaveracità e profondità di vedute; tanto che sarebbeuno scrittore ammirabile se non cercasse troppo difarsi ammirare. Le frasi corrono con gran velocità,a una a una, non più raggruppate in battaglioni compatti,e lo spirito è lanciato come su una china. Masi sente la maniera, perchè la tecnica è invariata:quando incontra un assedio, una battaglia, una spedizione,un’azione qualsiasi, Sallustio scocca unagrandine di frasine concise, ugualmente costrutte».

Ma che forza, non ostante questo difetto! «Il suostile cammina con una certa indifferenza sdegnosa; èstringato come quello di Tacito, pur essendo menofaticoso; è ricco come quello di Livio, ma è anchepiù sobrio. «En arrivant au bout d’une phrase, onest parfois frappé comme d’un coup subit; ce sontdeux mots simples qui, par un rapprochement nouveau,ont pris un sens accablant»[5]. Metafore audaci,nascoste in un verbo, illuminano tutta un’idea.E poi una lunga e furiosa passione chiusa in una parola,una mescolanza di famigliarità, di poesia, dieloquenza, e sopratutto quegli sbalzi bruschi e potentid’invenzione originale che piacciono più dellaperfezione liscia: il dono della creazione».

Ma Sallustio non è soltanto un grande stilista; èanche un moralista ed un filosofo, il quale nella storia[12]vuol ritrovare i segreti della fortuna, i piani deldestino, le profonde lezioni della vita; tanto che lasua narrazione, sorretta da una concezione generaledel mondo, come da una intelaiatura, mira a un altofine morale. Siamo usciti con lui dalla scarna annalisticaper entrare nel pieno splendore del genere oratorio.Senonchè ci siamo entrati un po’ bruscamente.Non è possibile non avvertire in Sallustio — ed è unodei suoi difetti maggiori, pur non essendo un difettoscevro di grandezza e nobiltà — una sproporzionetra il fine e i mezzi, tra l’intelaiatura e la tela: fineed intelaiatura troppo grandi per i mezzi e per latela troppo piccoli.

«Io credo che poichè ho deciso di vivere lontanodagli affari pubblici — scrive nella prefazione dellaGiugurtina — questa mia grande ed utile fatica saràchiamata pigrizia da coloro ai quali pare somma attivitàandare mendicando il favore della plebe coibanchetti. E se essi penseranno in che tempo entrainelle magistrature, e che uomini ne siano stati esclusi,e siano arrivati al Senato, conchiuderanno certamenteche io per ragione e non per pigriziaho cambiato parere, e che alla Repubblica verràmaggior bene dal mio riposo che dalla attivitàdi costoro. Perciò io ho spesso udito che Q. Massimoe P. Scipione ed altri uomini illustri, eran soliti direche quando guardavano le immagini dei loro maggiori,l’animo loro si accendeva di grande coraggio».Chi non potrebbe lodare questo fine nobilissimo?Ma per assolverlo, non basta raccontare in forma elegante[13]e bella una guerricciola memorabile, inveceche per la gloria delle armi, per gli odî e i puntiglidelle fazioni, che senza scrupoli ferirono, pur di ferirsil’un l’altra, financo il corpo della Repubblica.

Con la storia di Catilina, Sallustio assunse il compitodi mostrare che nei tempi antichi «in pace e inguerra si coltivavano i buoni costumi: e massima erala concordia, minima l’avidità; e il diritto e il beneeran forti più per la loro natura che per le leggi; e lebrighe, le discordie e gli odî si riservavano ai nemici,mentre i cittadini coi cittadini gareggiavano divirtù. Magnifici nell’onorare gli dei, parchi in casa,fedeli cogli amici. Con due arti, il coraggio in guerrae l’equità in pace, governavano sè medesimi e la repubblica.»[6]Poi «il destino incominciò ad incrudeliree rivoltò tutte le cose»[7]. Ritroviamo qui — afar da cornice al quadro — quella dottrina dellacorruzione dei costumi, opposta alla nostra fede nelprogresso indefinito del genere umano, ma famigliareinvece al pensiero antico. Senonchè la cornice ètroppo vasta per il piccolo quadro in cui è dipintoil tumulto, più clamoroso che pericoloso, suscitato,nella repubblica, da Catilina. Cosicchè non possiamodar torto a Quintiliano quando dice che «Sallustionella Catilinaria e nella Giugurtina ci conduceall’una ed all’altra guerra, con dei proemi che sembranonon aver che fare con il soggetto», e dobbiamoriconoscere che le sue dissertazioni qualche volta[14]sono un po’ lunghe e gonfie, le sue digressioni taloraappiccicaticce e fuori di posto. Se leHistoriae si fosseroconservate, non avrebbero, forse, rivelato cosìingenuamente questi difetti, perchè in quella vastastoria di tutta un’età, la cornice poteva essere adeguataal quadro. Ma sia colpa del caso, che ci hafatto conoscere soltanto il Sallustio minore, o difettoinerente alla mente dello scrittore, cui mancasse unpo’ quella virtù così difficile che è l’equilibrio, pertrovare uno storico in cui la cornice ed il quadro, lavisione della vita ed il soggetto, la materia e la formasi proporzionino, dobbiamo giungere a Tito Livio.

[15]

III.TITO LIVIO.

Tito Livio, famigliare di Augusto, e così grato nellacasa del principe, che a lui fu affidata l’educazionedel futuro imperatore Claudio, figlio di Druso, nonebbe ambizioni politiche, non coprì cariche, e visseda privato, studiando e scrivendo; fu insieme a Virgilioe ad Orazio, il terzo dei tre grandi restauratori,che aiutarono, con la penna, Augusto a ricomporreil mondo romano, disfatto dalle guerre civili. Livionacque da una famiglia cospicua. Scrisse, come ènoto, dialoghi, trattati filosofici, ed una immensa storiadi Roma, dalle origini ai tempi suoi, nella qualevolle trasfigurare la rudezza dell’annalistica tradizionale,adornandola e vivificandola con il colore, il caloree la pienezza fluente della oratoria greca.

Gli storici moderni sono stati severi con Livio, enon possono approvare il metodo con cui trattò lesue fonti, capriccioso, arbitrario, ed un po’ negligente,almeno alla stregua del nostro zelo nel cercare laverità. Senonchè Livio non vuol cercarla, così come[16]noi l’intendiamo, arrivando alla conoscenza esatta deifatti, proprio come sono accaduti. Egli vuole dimostrarecon la sua storia (e dimostrarla con la rappresentazioneviva più che con la rigorosa argomentazione,con il colore più che con l’esattezza, prediligendoil dramma che sembra alla storia che vuoleessere vera) una dottrina generale, una visione dellavita in cui gli spiriti più alti del tempo credevanoe nella quale tutta la storia di Roma entra come unquadro nella cornice: che la ricchezza e la potenzanon sono beni ma pericoli; che Roma si è corrottae guasta a mano a mano che il suo impero è ingrandito;che le generazioni non possono camminare versola perfezione se non a ritroso della corrente deltempo. È la dottrina della corruzione, quella già mescolata,senza grazia e naturalezza, alla storia di Sallustio,ma ripresa e sviluppata con la grandiosa coerenzanecessaria, per dare a un corpo robusto un’animasostanziale.

«Io vorrei — scrive Livio nel proemio — che ciascunotra sè considerasse ansiosamente con l’animo,che vita, che costumi fossero i loro (quelli degli antichi),con quali uomini e con quali arti in pace edin guerra sia stato fatto e ingrandito l’impero. E comeindebolendosi a poco a poco ogni disciplina, primai costumi quasi tralignassero e poi rovinando sempredi più precipitassero fino a questi tempi,in cui non possiamo sopportare nè i nostri vizinè i nostri rimedi. E questo è nella conoscenzadelle cose sopratutto salutare e fruttifero, che tu studi[17]gli ammaestramenti di tutti gli esempi posti nelleillustri memorie; e di lì impari ciò che devi imitareper te e per la repubblica, e ciò che devi evitare perchèbrutto negli inizi e nei risultati... O l’amore dellamia opera mi illude, o non fu mai una repubblicapiù grande, o più saggia, o più ricca di esempi, ovecosì tardi entrassero l’avidità ed il lusso, ove tanto ecosì largamente fosse onorata la povertà e la parsimonia,e tale che quanto meno i suoi cittadini possedevanotanto meno desideravano».

Posto questo proposito, si spiega come, resistendoalla fretta dei suoi lettori, impazienti di arrivare allastoria recente, Livio incominci la sua opera rammentandominutamente le origini favolose di Roma, sebbene,anzi appunto perchè le sa favolose, «Io credo — diceegli ancora nel proemio — che i primi principîe le cose vicine a quei tempi non divertirannola maggior parte dei miei lettori, parendo loro mill’annidi giungere a queste ultime novità, per cuistanno morendo le forze di quello che fu il più gagliardopopolo del mondo. Ma io voglio invece anchequesto come premio della mia fatica, che mentrecon tutto l’ardore andrò ripetendo quelle primecose antiche, allontanerò il mio pensiero dai malidi questa età; e sarò libero da quella preoccupazione,che se non può distogliere dal vero l’animo dichi vive, può però renderlo travagliato. Non è miaintenzione nè confermare nè rifiutare quel che siraccontò sui tempi della fondazione di Roma, sebbene[18]le favole vaghe ci abbondino più che le notiziesicure».

Non c’è dunque da meravigliarsi se Livio non si èscervellato, come gli storici moderni, per scoprirequella briciola di vero che poteva nascondersi sottoi miti della fondazione di Roma. In quel mondo lontanoe solatio, come quello di una leggenda, Liviosi riposa delle miserie e delle tragedie contemporanee,che sono tristi, perchè vere; si diverte a giuocarecon quegli eroi vestiti di corazze lustrate, e chehan l’aria, attardandosi fra Torquato e Bruto, di pensarecon tristezza al momento della separazione. Eglinon cerca d’infonder in quei personaggi una vita reale,che possa romper l’incanto di quel dolce e quietoartifizio; ma li toglie di peso dalla leggenda, contutto l’ingenuo ingrandimento proprio del mito, cheammette solo santi o ribaldi; e se per un verso lidipinge così lontani dai moderni, che non è possibileavere neppur un’illusione di vita, dall’altra li vestecol linguaggio e i costumi del suo tempo, come i pittoridel quattrocento infilavano agli eroi della Bibbiail giustacuore e le calze lunghe. Così, quei soldatisono oratori espertissimi, che hanno certo letto ilibri di Cicerone sull’arte del dire, e improvvisanoben composte orazioni, feconde in gradevoli simmetrieogni volta che capita, e se non capita spontaneamente,lo storico pensa a facilitare l’avvento, unabuona occasione — e ognuno capisce che di solennitàpolitiche, religiose o militari ce n’erano fin chese ne voleva. La narrazione cammina sempre sull’orlo[19]della parodia; ma Livio, che è un grande artista,non cade, e procedendo sereno, misurato, lontanodall’amarezza di Sallustio, il quale ricorda gliantichi con irritante pomposità e li adopra, perchèsono ormai intangibili e lontano, a maltrattare inutilmentei moderni, ha invece l’aria di dire che nonimporta accertare le virtù degli avi, ma che bisognastimarli in ogni modo così, perchè ogni nazione hadiritto di avere dei padri semi-divini. «Si concedeall’antichità il permesso di mescolare le cose umanecon le divine, per rendere più venerabili i principîdelle città. E se è lecito ad un popolo consacrar lesue origini attribuendole agli dei, la Gloria del popoloRomano nella guerra è così grande, che se eglidice essere Marte il genitore suo e del suo fondatore,le genti umane devono sopportare pazientemente anchequesto, come sopportarono d’essere signoreggiateda Roma»[8].

Ma questa età dell’oro non dura; non può durarea lungo. La storia di Livio è stata scritta per dimostrarela tesi, che Roma s’è corrotta ingrandendo. Alprologo degli eroi tien dietro l’età in cui gli uomini,ridotti alle giuste proporzioni, peggiorano a manoa mano che la storia progredisce. Dovremmo quindientrare nella realtà; ma ci entriamo solo sino ad uncerto punto, perchè anche là dove la storia di Livionon è più favolosa, i suoi personaggi fanno talvoltapensare a quei Romani che David dipinse nel «Rattodelle Sabine».

[20]

Le figure del quadro infatti, disposte una dietrol’altra, vestite scrupolosamente con le corazze e glischinieri, sono ordinate, senza che i piani si componganoo fondano in file parallele; le facce hanno unaricercata impersonalità, che rivela l’imitazione dellestatue greche; così come nella carne dei corpi, cheè stata dipinta con un modello di marmo e vuol arrivarea quell’effetto medesimo di plastica polita.

In Livio si ritrova la stessa stilizzata ricerca delgenerico. Così che componendo, a grandi tratti, ilcarattere della professione e della carica, egli vi introducepoi volta a volta i suoi uomini e fa che essine rivestano, con le insegne esterne, anche le dotimorali e intellettuali, come, entrando in una stanzaove un gioco di sole sulle persiane l’abbia bagnatatutta di luce verde, la gente è colorata di verde. Cosìabbiamo il tipo del generale, il tipo del senatore, iltipo del tribuno, mentre la classificazione dei buonie dei cattivi, più larga, comprende tutte l’altre classificazioniminori. Ma che differenza c’è fra ManlioTorquato e Paolo Emilio, il primo agli inizi e il secondoal termine della storia; se rispetto a ogni circostanzasi comportano allo stesso modo, come se seguisseroun protocollo?

Noi non possiamo dire se questa attitudine a generalizzareil tipo, piuttosto che ad individuare i singoli,fosse comune a tutta l’opera di Livio, o nonpiuttosto si ritrovasse soltanto nella parte più anticadella sua storia, quella a cui appartengono i librigiunti fino a noi e che tratta i tempi in cui gli stampi[21]della tradizione e del costume erano più forti egli uomini fatti tutti secondo pochi modelli. Forse,se potessimo leggere i libri, in cui si raccontavano itempi di Silla e di Cesare — pieni di rivoluzioni, epiù ricchi di tempre singolari — vedremmo in quelliun maggior rilievo di uomini meno simbolici. Manei libri che possediamo i personaggi sono come liabbiamo descritti. E poichè gli avvenimenti procedonoin modo già prestabilito dagli Dei, la storia appariscequasi una enumerazione di battaglie e di lottepolitiche, sommate le une alle altre in ordine ditempo come una montagna di pietre, e tutte così simili,che non si distinguono a colpo. Non sembra chel’intelligenza degli uomini possa influire su questocorso preordinato dagli eventi: caso mai, contano dipiù le virtù e lo zelo religioso, che gli Dei ricompensanocon la vittoria. Dobbiamo dunque concludereche Livio è uno storico freddo e senz’anima?

No, Livio è uno storico vivo, anche se i suoi eroispesso non sono tali, perchè con quella sua attitudinea descrivere il tipo più che il singolo, riescecome nessuno a far muovere le folle. Per questo, senon è riuscito a vivificare i grandi Romani, è riuscitoinvece a rappresentare il popolo romano. Il vero protagonistadella sua storia è il popolo romano: personaggioenorme, che occupa tutta la scena, e non sicompone di tanti singoli ben distinti, così da esserela somma dei loro caratteri comuni; ma appare comeun ente nel tempo stesso umano e sovrumano, da cuiloro caratteri particolari, come uomini che attingono[22]acqua ad una fontana. In questa potentissima personificazionedel popolo romano sta il fascino incomparabiledella Storia di Livio; perchè questa personificazioneè riuscita ad essere nel tempo stesso diun alto ideale e di un’efficace verità.

Il popolo romano, in Livio, si presenta da principiocome una generalizzazione di Appio Claudio;sprezzante le fatiche, giorno e notte corazzato perogni battaglia, indifferente alla morte e valoroso inguerra, semplice di costumi, laborioso in pace, ambiziosodi gloria, scrupoloso di verità, ligio alla fededata, ossequiente dinnanzi alla Giustizia che lo governaper mezzo di tante leggi, devoto alle Divinità,che ne ricompensano lo zelo facendolo oggetto di unfavore priviligiato. Religione, patria, lavoro, obbedienzaalle leggi, spirito di sacrificio, sono le virtùche rifulgono in fondo ai secoli dalla sua vita privatae pubblica. La storia non ha mai visto una lucepiù intensa. Lo scrupolo della verità e della giustizia,che fra tutte le qualità dei romani è la più coltivata,ha l’aria di resistere in loro, anche quando lecircostanze offrono, senza pericoli, allettanti transazioni.Bisogna vedere che importanza ha un giuramentofatto al nemico: e con quali tortuose invenzionii Romani cercano di svincolarsi senza disonoreda queste promesse! Uno dei prigionieri di Annibale,quando furon mandati in commissione a Roma,per trattare del riscatto, col giuramento ditornare, appena uscito dal campo ritornò indietro,toccò le palizzate e si riunì ai compagni, sperando[23]di essere con questo libero da ogni impegno.Ma fu rimandato ai Cartaginesi. Anche le cattiveazioni di questo Popolo devono esser compite rispettandorigorosamente la legalità, ossia rendendoomaggio al principio che quella tale azione non deveessere compiuta perchè illecita.

Ora, siccome un popolo di questo stampo non èmai esistito, Livio avrebbe l’aria di dipingere in luiuno di quegli eroi puritani, che vivono solo nelleleggende; così che le gesta di questo popolo immaginarioformerebbero un poema, più che una storia.Senonchè, anche in mezzo al racconto delle età piùantiche e leggendarie, qualche tratto verace fa intravederenell’eroe sovrumano un po’ di triste umanità.Così, sulla bocca del Sannita, si sente forse la vocedello storico, che riconosce nei grandi eroi il fangoper cui si riattaccano gli uomini.

«Voi deste gli ostaggi a Porsenna e col furto liavete ripresi; ricompraste dai Galli le città con l’oro,e sono stati trucidati mentre prendevano l’oro. Ciavete promesso la pace, per ottenere le legioni prigionieree ora la fate vana; e compite sempre ognifrode sotto apparenze di giustizia»[9].

Senonchè anche nella figurazione del popolo romanosi osserva quello che già vedemmo nelle figuredegli eroi; così che essa si fa più umana, di paripasso col procedere della storia. Che la dottrina dellacorruzione, fondamento di tutta la storia di Livio,[24]sia filosoficamente vera, è riprovato per via indirettadalla vivacità di cui si anima la storia di Livio, amano a mano che questa dottrina domina e quasiguida la narrazione. Pur conservando una certa nobiltàideale, il popolo romano si fa vivo a mano amano che i difetti della ricchezza e della potenzaescono dall’ombra dell’antichità incorrotta: l’indisciplina,la cupidigia, l’amore del lusso e dei piaceri, lagola e la sensualità, l’egoismo, l’invidia sopratutto,che distrugge Roma con la guerra intestina delle ambizionie delle cupidige insoddisfatte.

«Qui si tratta della fama dei soldati, anzi universalmentedi tutto il popolo romano»[10], diceServilio rampognando i soldati che si oppongono altrionfo di Lucio Paolo, «perchè il popolo romanonon abbia fama di invidioso ed ingrato contro tuttii suoi più illustri cittadini, e non sembri con questoimitare il popolo Ateniese, solito a perseguitarecon l’invidia i migliori. Abbastanza si peccò controCamillo, il quale almeno fu offeso prima di aver riconquistatola città dai Galli. Abbastanza contro ScipioneAfricano. A Linterno si trova la casa del vincitoredell’Africa; e Linterno ostenta il suo sepolcro.Vergogniamoci se L. Paolo, uguale per gloria a taliuomini, sia loro uguagliato anche per l’ingiurie vostre.Cancelliamo finalmente questa nostra mala fama,sozza e vilipesa presso le altre genti e dannosa pressodi noi.» Chi non riconosce qui l’eterna malignità[25]della democrazia? Così gli idillici rapporti fra il senatoconcepito come un «consesso di Re» e la plebe,sui primordi obbediente carne da macello, semprepronta per il mattatoio delle battaglie, si fannoa poco a poco torbidi e violenti; quella docile moltitudinedi cittadini-eroi diventa tumultuosa, sediziosa;accecata dai propri interessi non vede più quellidella comunità; si lascia trascinare dal più ignobiledei demagoghi e non ascolta le parole dei saggie dei grandi; passa da un accesso di furore oceanicoin cui pretende rivendicazioni — anche giuste — coimezzi più rivoluzionari, ad uno stato di indifferenteincoscienza e di fatalistica sopportazione quando èvessata da un regime sanguinario, ingiusto e terroristico.

E il Senato perde, se si comincia a passeggiare frai rostri e a conversare sotto le colonne, quella regaleapparenza che presentava agli occhi di Cinna. Sivede una moltitudine di patrizi, pieni di pregiudizie di altezzosità, egoisti, che si preoccupano di Roma,per quel che riguarda la loro classe e i loro interessi,ma non hanno nessun pensiero per i Romani,come se Roma e i Romani fossero due cose distinte.E le gelosie e le diffidenze reciproche alterano illoro retto giudizio, e li spingono a operare, in ognioccasione, per secondi fini.

«Si stabilì un patto con gli Ernici, si tolsero dueparti del territorio, e una metà fu data ai Latini, el’altra il Console Cassio voleva dividerla fra la Plebe.Aggiungeva a questo dono alcune terre le quali,[26]essendo pubbliche, egli biasimava che fossero di privati.E questo spaventò molti senatori che ne eranpossessori, e vedevano in pericolo le cose loro. Maerano ancor più inquieti perchè il Console con questelargizioni si acquistava una potenza pericolosaalla libertà.»[11]

Così la grandezza romana, idealizzata tutta insiemecome una meraviglia sovrumana, ci apparisceumanissima nei singoli elementi di bene e di male,che la compongono. Questa è nel tempo stesso lagrande bellezza e la profonda verità dell’opera diLivio, alle quali corrisponde mirabilmente lo stile.Lo stile di Livio è veramente come un fiume immensodalla corrente tranquilla, che scende dal monte sicurodi arrivare alla foce, trasportando una mescolanzadi cose diverse. Nei momenti solenni, o tragici,è maestoso e lento, quasi per trattenere il respiroa chi legge e non accontentarlo nella sua impazienzacon piccole frasi rapide; alle volte perde la suaserenità olimpica, si commuove, si agita come unostagno in cui sia piombato un macigno; ma la chiusadegli avvenimenti è spesso composta con pochefrasi corte e succosissime, che appaiono più potentiche mai, appunto perchè, con grande arte, son collocatedopo un periodare ampio e fertile, in cui le frasitendono la mano una all’altra e si allacciano con rotondascorrevolezza. In tal modo i due ritmi si sostengonoe si analizzano a vicenda: il primo mette[27]in rilievo quella stringatezza del secondo, che, dopoun capitolo di Tacito, non sarebbe neppure avvertita;il secondo drammatizza lo stile per quel variareimprovviso di tono, che sorprende, e ci fa sentirecome il primo ritmo fosse armoniosamente pieno.

[29]

IV.TACITO.

Tra Tacito e Livio abbiamo una fioritura copiosissimadi storici. Citiamo Asinio Pollione, che trattòdelle guerre civili; Pompeo Trogo, che scrisse unastoria universale, epitomata da Giustino; Fenestella,Iginio e Verrio Flacco, contemporanei di Tito Livio.Nel I secolo Cremunzio Cordo che fece l’apologia diBruto e Cassio, Valerio Massimo, Velleio Patercolo,Punico che vivendo accanto a Tiberio, lo comprese,e ne lasciò una vita imparziale, e fu per questo accusatodi adulazione. Delle quali calunnie la responsabilitàpiù grande pesa proprio su Tacito, il terzostorico di Roma.

Vissuto durante il primo secolo dell’impero; campionedi quella nuova aristocrazia, cresciuta nelleprovincie europee e africane dopo Augusto, checon Vespasiano sale al Governo, più semplice, piùaustera, più disciplinata, più innamorata del romanesimoautentico, che la nobiltà dei tempi dei Giulio-Claudî,crebbe studiando nell’ambiente delle[30]scuole di eloquenza; fu pretore, sacerdote quindecenvirale,propretore e finalmente, sotto Traiano, console.La vetta delle ambizioni era stata scalata. Dopolasciò la vita pubblica e scrisse. E il suo soggetto futriste.

«Prendo a scrivere un tempo pieno di vicende, tremendoper battaglie e discordie, per sedizioni, crudeleanche in pace. Quattro principi assassinati: treguerre civili, molte all’esterno, e per lo più mescolate.Imprese prospere in Oriente, avverse in Occidente:sconvolta l’Illiria, le Gallie vacillanti, domatala Brittannia e tosto abbandonata: i Sarmati e gliSvevi risollevati contro di noi... L’Italia afflitta dastragi nuove o rinnovate, dopo una lunga serie di secoli.Città sprofondate o rovinate, nella zona più fertiledella Campania. Roma incendiata, distrutti i templipiù antichi, il Campidoglio stesso arso dai cittadini;profanata la religione, grandi adulterî, marepieno d’esuli, scogli intrisi di sangue... Secolo nonperò così sterile di virtù da non produrre anche deibuoni esempi»...[12] «Ma non mai per più atrocistragi del popolo Romano o per più giusti indizi,si capì che gli Dei avevano a cuore non la nostra sicurezzama il nostro castigo.»[13]

Quanto siamo lontani dalla serenità quasi gioiosa diLivio! La vasta pianura si trasforma in una treggiaiachiusa, seminata di rovi e di lappe pungenti, sgradevoleal piede. Un’afa insopportabile pesa sul viandante,[31]che aspetta ogni tanto invano dal cielo unaventata salubre, e una passata d’acqua dalla nuvolagliaturbolenta. Tacito stesso, ripensando a Tito Livio,ne soffre e lo confessa apertamente.

«Narravano di grandi guerre, di città conquistate,di re vinti e prigionieri, e i litigi dei tribuni e deiconsoli, le leggi agrarie e frumentarie, le lotte delpopolo e del senato. Era un soggetto largo, spazioso,dove si muovevano con libertà. Ma io sono chiusoin una stretta carreggiata, e l’opera mia sarà senzagloria.»[14]

Mentre Tito Livio, come si vede da una citazioneche Seneca trasse dalle opere scomparse, si nutredella sua opera concepita nella gioia, e nella gioiadello scrivere e nell’amore della sua storia moltiplicale sue forze all’immensa fatica, si sente che ilsoggetto è antipatico a Tacito, che le sue previsionisono dolorose, che lo scrivere gli costa sforzo e loattrista. Perchè scrive allora la storia dei tempi chegli erano così odiosi? Egli stesso ce lo dice.

«Noi raccontiamo questo perchè chiunque leggerài casi di quei tempi, da noi scritti o da altri, sappia,benchè si taccia, come si ringraziavano gli Dei, ognivolta che il Principe esiliava od assassinava. E comele insegne della prosperità annunziavano le disgraziepubbliche.»[15]

Nato fra le follie sanguinarie di Nerone, cresciutosotto il governo pauroso di Domiziano, dopo aver[32]temuto e sofferto lunghi anni, ricordando ancora lefavole atroci, che si susurravano nei giardini dei nobilimorituri, quando il silenzio regnava, e non vintaera la paura dei delatori, Tacito volle, stabilita finalmentecon Traiano la pace e la sicurezza, prendersiuna imperitura vendetta, per sè e per tutta la nobiltàa cui apparteneva; volle dirsi «ho patito, maquesti patimenti non saranno inutili». Hanno fattodi lui un repubblicano, ma non è vero nel senso modernodella parola. Per quanto abbia spesso visto latirannia dove non c’era, egli non ha mai pensatoche una rivoluzione contro il regime imperiale fossepossibile e desiderabile nè che fosse necessaria perricostruire la repubblica, che ai suoi occhi era statamaltrattata ma non distrutta. Egli non è il censoredell’impero, ma di alcuni imperatori, di molti vizî,dei costumi contemporanei, della società, come eglila vedeva, nella sua crescente depravazione, del senato,che perdeva ogni giorno un po’ della sua autorità,benchè ne avesse più di quanto sembrava. Tacitoè un moralista, che osserva la depravazione dei suoitempi e ne soffre; ma che invece di curarla, comeLivio, proponendo loro il modello ideale di una etàpiù antica, mitologicamente austera, semplice e riccadelle più eccelse virtù, vuol curare quella cancrenacon la pietra infernale dell’indignazione. La storia èper lui una specie di tribunale del vizio e della colpa,innanzi al quale egli, giustiziere implacabile,cita i suoi tempi in forza del codice non scritto dellapropria coscienza. Egli scrive la storia perchè «pochi[33]uomini distinguono con il loro senno l’onesto dalcriminale; l’utile dal nocivo. E gli esempi degli altriformano, per lo più, la vera scuola»[16]. Perchè «ilcompito principale della storia è di salvare la virtùdall’oblio e di incutere alle azioni e alle parole malvagiela paura della posterità».[17]

Un giustiziere, dunque, il quale vuol scrivere lastoriasine ira et studio, come egli stesso dice, imparzialmente,sui documenti. A Tito Livio questa idea,che la storia potesse o dovesse essere scritta a mentefredda, senza ira e senza amore, non venne mai, poichèscrisse per ingrandire Roma agli occhi della posterità,con l’entusiasmo e l’amore, non dubitandodi abbellire, o di velare, o anche addirittura di alterarela verità, quando poteva nuocere alla reputazionedel suo idolo. Per Tito Livio la gloria di Romanon riconosce nessun obbligo d’imparzialità nellostorico, la sua grandezza sta al di sopra del giudiziodella storia. Per Tacito non più. Anche Tacito è untradizionalista, come Tito Livio, ligio all’ammirazionedegli antichi esempi nazionali; ma nella suaammirazione per l’antichità ormai il momento moralesi distacca dal momento nazionale, e si impone,invece di mescolarsi ad esso, come in Livio. Egli ammiragli antichi, non perchè erano nel tempo stessovirtuosi e schiavi, ma solo perchè erano virtuosi; ecercando, ma non trovando, queste virtù nei suoitempi, non esita a scrivere storie, che ci appaiono le[34]più terribili accuse contro Roma e il suo impero, tramandatea noi dall’antichità.

Livio ingrandisce per contrasto la gloria e l’ammirazionedi Roma, con il male che è costretto a raccontare.Tacito accresce l’orrore per l’impero diRoma anche con i rari esempi di virtù, che inseriscenel lungo racconto dei vizi e delle colpe. Perquanto tradizionalista, come la maggior parte deisenatori del suo tempo, Tacito presente, senza saperlo,il Cristianesimo, e quel prevalere della moralesulla politica, in cui starà la grande rivoluzione cristiana.È già in un certo senso cristiana, e non è piùromana, almeno al modo di Livio, la intrepidità concui questo senatore infama tutto un secolo di storiadell’impero per castigare un certo numero di imperatori,da lui giudicati malvagi.

Ma se il giustiziere voleva scrivere la storiasineira et studio, immolando alla giustizia anche la gloriadi Roma, è poi riuscito ad essere giusto? Noi possiamorispondere risolutamente di no. La storia diTacito è scritta dalla passione, non meno di quelladi Sallustio, anche più di quella di Livio. La suapassione non è, come in Sallustio, il risentimento politicodi un partito perseguitato, ma l’odio di un’epocacontro un’altra epoca; l’odio che i suoi tempi,dopo esser riusciti finalmente a conciliare il governosenatorio ed il principato, sentivano contro i Giulio-Claudi,i quali intorno a questa conciliazione sierano inutilmente affaticati per tanti anni. Tiberioe Claudio avevano fallito più per colpa del[35]Senato che propria, ma la giustizia sommaria dellagenerazione seguente serbava rancore agli imperatori,in quanto erano un bersaglio più vistoso; e Tacitofu la penna illustre che soddisfece, eternandoliin uno stile immortale, con un’arte di scorci potentissima,questi odî. Egli è dunque un giustiziere sospettoso,inquieto, implacabile, che per lo zelo discoprire e bollare il vizio ed il male, lo trova concertezza là dove proprio nessuno avrebbe avuto soltantoil coraggio di sospettarlo. Quanti esempi si potrebberocitare!

Egli riferisce, mostrando di approvarla, la diceriache Augusto «scelse Tiberio a suo successore, nongià per amore o per zelo della repubblica, ma peracquistarsi gloria col paragone di un principe assaipeggiore, poichè ne aveva già intuita l’arroganza ela crudeltà»[18]. In che modo ha conosciuto Tacitoquesto riposto pensare dell’imperatore? E quale altropersonaggio avrebbe egli potuto indicare a successore,associandolo nella suprema autorità? Tacitoci racconta che non volendo Tiberio e Livia uscirein Roma dopo la morte di Germanico «Tiberio el’Augusta tennero Antonia (la madre di Germanico),chiusa in casa, perchè, dato questo esempio, sivedesse che avola, madre e zio erano tormentati dauguale dolore.»[19] Non sarebbe stato più semplicee più umano supporre che restassero tutti e tre incasa per dolore e per rispetto del morto?

[36]

Quando Tacito si è messo in mente che un suopersonaggio è perverso, ogni cattivo pensiero gli èattribuito di autorità, senza che venga chiarito benecon quali informazioni lo storico sia riuscito a documentarsi.Così, quando egli afferma che Tiberio«Germanici mortem inter prospera ducebat» si fondasoltanto sul presupposto, accertato e riconosciuto,che Tiberio sia uno scellerato e che, quindi, gode insegreto di quanto è dolore per gli altri. Quando Tiberioebbe il governo della repubblica «aggiunseMessala Valerio che si rinnovasse ogni anno il giuramentodi fedeltà a Tiberio, dal quale interrogato seavesse proposto ciò per ordine suo, rispose che avevaparlato spontaneamente e che negli affari riguardantila repubblica egli si sarebbe consigliato solo con lasua coscienza, anche correndo il pericolo di dispiacereal principe»[20].

La domanda di Tiberio può spiegarsi come unaprecauzione abbastanza semplice e come un riguardoragionevole usato al Senato. Nè c’è serio motivo didubitare che la risposta di Messala fosse vera. MaTacito vede subito nero e sentenzia: «Mancava soltantoquesto genere di adulazione!» Che contrasto,fra il pessimismo sarcastico, amaro, violento di Tacito,e la serenità grave e composta di Tito Livio!Modesto non per finta, serio e sincero, dominato daalcuni pregiudizi che non cerca nemmeno di sradicare,Livio è corrucciato bonariamente con i suoi[37]tempi, e se ne tiene lontano, senza esagerare nel suosdegno. A furia di viver sognando con quei miticieroi e quei generali favolosi, egli riesce a sopportarecon tanta dolcezza il male del mondo, che non sa piùimmaginare un carattere doppio o un’anima ipocrita,crede per davvero ai discorsi de’ suoi oratori, senzamai permettersi un sorriso ironico, e ha troppacoscienza della sua responsabilità per attribuire, senzascorta di documenti sicuri, qualche pensiero ad unsuo personaggio. Tacito invece non riesce a immaginareuna condotta lineare, e un’anima sincera; i suoipersonaggi procedono sempre per vie tortuose, spintida passioni recondite o da pensieri segreti, cheTacito conosce a fondo come se fosse il loro intimoconfidente. A questo modo scopre spesso doppiezzeed ambiguità dove c’è una tranquilla franchezza. Maegli adopra a dimostrar certe tesi una divertentissimaabilità, interpretando con sottigliezza greca i documenti,mettendo in luce quelli che gli sono utilie nascondendo i contradditori, tal quale un avvocato.

È così riuscito ad imporre ai posteri le figure diTiberio, di Claudio, di Agrippina, per il loro straordinariorisalto, ma le ha falsificate una dopo l’altrasecondo lo stesso preconcetto. Tiberio è il tipo cheincarna meglio quello strano ideale letterario, perchè,essendo la doppiezza in persona, è ricchissimodi sfumature, di contrasti, di dubbi, di raffinate perversità,di morbose inquietudini, cosicchè in qualunquesua azione si possono ritrovare doppi motivi. Condei «si credette»... e dei «si pensò»... Tacito fa passare[38]delle gravi malignità. Ma se si legge attentamenteil suo testo, è facile accorgersi che Tiberio puòcambiare fisionomia con facilità, poichè tutte le azioniambigue sono mutate in perfide e qualunqueopera buona è messa in conto all’ipocrisia. Ora, secondoTacito, per nove anni di seguito Tiberio sarebbestato assiduamente ipocrita; ossia avrebbe compiutobuone azioni, pur con ripugnanza. Per provareche queste opere buone erano fatte ipocritamente econ ripugnanza, Tacito non ci offre che la propriacertezza, e la penetrazione con cui lesse nei pensierisegreti del principe. In verità Tiberio, come tutte lealtre figure, è un personaggio fantastico, inventato edipinto dall’odio, combinando insieme molte deduzionisottili, ingegnose, ma arbitrarie.

Si spiega così come questo giustiziere, che vuolenarrare e giudicare sui documenti, sia così spesso irresolutoe diffidente. Talvolta gli accade di non sapersidecidere tra due notizie contradditorie ma ambedueserie, onde sente il dovere di citare tutte lefonti, che si contraddicono, lasciando la scelta al lettore.Invece, quando si imbatte in voci udite durantela giovinezza, che suonino accusa contro i principie che lusinghino la sua sospettosità, non resiste mai,nonostante le sue dichiarazioni d’imparzialità, allatentazione di riferirle, dando loro il primo posto fral’autorità della storia. «Io stimo indegno della gravitàdi quest’opera l’andare dietro alle favole perstuzzicare i lettori, ma non oso nemmeno sfatare ciò[39]che è stato divulgato e scritto»[21]. Ciò che egli nonosa sfatare sono quasi sempre certe calunnie, che giravanoper Roma divulgate da anonimi in storiescandalose, di cui il pubblico naturalmente era ghiottissimo,tanto è vero che Tacito prega «coloro cheleggeranno quest’opera a non anteporre quelle divulgatissimeed inverosimili storielle così avidamentericercate, alle storie vere — «neque in miraculumcorruptis»[22]. Nè Tacito riferisce soltanto questestorielle, che avrebbe dovuto respingere sdegnosamente;ma pure avvertendo di non dar loro gran peso,le racconta in modo che paiono vere, cosicchèspesso è riuscito ad accreditarle come storiche.

Molte delle favole che si ripetono anche oggi sulconto dei Giulio-Claudi come verità storiche, ci sonostate riferite da Tacito come dicerie dubbie, comemalignità velate, come sarcasmi in sordina, come supposizioni,raccolte perchè le ritrovava spesso sullabocca della gente, ed esposte con un tono pacato, chepiù ancora dell’imparzialità, affetta l’indifferenza.

Ma quale è dunque la segreta ragione di questa potenzasuggestiva? L’aver scritto una storia, i cui protagonistisono degli uomini, e l’aver saputo descriverequesti protagonisti con la forza drammatica cheun odio potente può suscitare in un grande scrittoredi temperamento, oggi si direbbe, romantico.

Noi abbiamo visto che in Tito Livio il vero protagonistaè il popolo, personaggio pieno di vita, ma[40]anonimo e collettivo, immenso e semplice. Tutti glialtri personaggi si uguagliano in alcuni gruppi, confondendole loro linee personali in un’uniformitàgenerica. Tacito invece, sulle rovine del popolo, mortocome personaggio simbolico, costruisce giganteschee isolate figure di uomini, con tanto ardore, che quandoi documenti si ostinano a non rivelargli l’elementoche gli ci vuole, lo inventa. In altre paroleTacito è un poeta tragico, che ha scritto in prosadelle storie, le quali appartengono di pieno dirittoalla grande letteratura dell’immaginazione.

[41]

V.SVETONIO.

Per capir bene la svolta a cui arriva, dopo Tacito,la storiografia, sarà bene che ci rifacciamo un momentoda capo.

Gli annalisti arcaici, che non pensarono all’arte,intesero la storia come uno dei loro tanti doveri civili.Poi, con Sallustio e Livio, il fine artistico si mescolaa quello morale e politico; ma siccome nellavita dell’uomo si considerava solo la parte sociale epubblica, trascurando la privata e vera del tutto, anchela psicologia e la morale si occupano di lui inquanto è cittadino romano, e perciò sono generichee un po’ esteriori. Ma poi a poco a pocol’uomo prevale anche nella storiografia romanasul cittadino, ed ai tempi di Tacito si osservanogià due correnti. Una, quella impersonata da Tacito,il quale, pur conservando la nobiltà di intendimenti,e la dignità stilistica degli antichi, ha già una tesiparticolare da dimostrare, una verità da gridare; eper arrivare ai suoi fini, abbandonando la tradizione[42]della psicologia e della moralecivile, basa la sua storiasulla psicologia e la moralepersonale; — e ridandoall’uomo come uomo una grande importanzane toglie molto all’uomo come cittadino. L’altra èquella di cui egli stesso si lagna, che si può considerarecome l’estrema esagerazione della storia personale:la storia aneddotica, scritta specialmente perdivertire, e questa fa capo a Svetonio.

Svetonio era un uomo di mondo che leggeva molto,osservava molto, conosceva tutte le persone intelligentidella capitale, e che, essendo stato segretario diAdriano — l’imperatore intellettuale ed esteta — ebbela fortuna di poter leggere dei documenti ignotia tutti e seppe sfruttarli con intelligenza. La suavita dei Cesari è l’opera più famosa giunta a noi diquesto genere nuovo. Svetonio non dispone gli avvenimentinell’ordine cronologico, secondo i canoniprestabiliti; non conosce retorica, non si abbandonaa concezioni politiche e considerazioni generali, nèpretende mai di far lezione. Invece, nella sua storiaabbondano gli aneddoti, raccontati con semplicità,senza preoccupazioni di fare effetto o di disegnaregrandi quadri; i documenti originali, specialmentele lettere, quando possono illuminare un personaggio;le facezie e le spiritosaggini che la leggenda glimette in bocca e quelle inventate su di lui. Sono enumeratii monumenti che il personaggio ha costruiti oriparati, i giochi che ha dati al popolo; e non sonodimenticati mai nè i segni che annunziarono la suamorte nè i connotati fisici. C’è sempre un ritratto[43]dell’imperatore dove dall’altezza della statua al coloredegli occhi non è saltato un particolare. Svetonioci confida senza scrupoli che Cesare rialzava i capellisulla testa per nascondere la sua calvizia; cheClaudio sbavava e dondolava il capo parlando; cheDomiziano, bello da giovane, era in vecchiaia afflittoda un ventre enorme, con due gambe magre e tremanti.La morale civica non ha più importanza rispettoa quella privata. Anzi lo stesso scopo morale si perde,per lasciar posto alla curiosità, all’interesse, allanovità; cosicchè Tacito è l’ultimo grande storicoclassico e il primo della nuova corrente anticlassica:altro segno a cui si riconosce l’epoca di transizione.Dopo Svetonio tutti gli infiniti storici che fiorironohanno seguito più o meno il metodo svetoniano. Lacorruzione era penetrata nelle midolla della storiografia,e la malattia non tardò a venire.

Eppure, se pensiamo alle centinaia di storici deiquali ci è stato tramandato il nome, alla scarsezzadi quelli che sono giunti a noi anche con l’opera,e alle lacune dei testi conservati, rispetto al numerodi quelli iscritti, non possiamo non essere profondamentemeravigliati.

Perchè della storiografia, che è forse il genere letterariopiù fecondo della latinità, ci sono rimasti cosìscarsi frammenti? Chi è responsabile di questa immensadistruzione?

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LA DISTRUZIONE

[47]

I.L’IMPERO ROMANO E LA SUA STORIA.

Fra tutti questi frammenti, le Deche di Livio cheformano ancora il frammento più lungo, ci offrono,sui 140 scritti, appena 35 libri. Il fatto è singolare,perchè l’impero Romano, più o meno forte e rispettato,come principio di autorità, se non come governoattivo, continuò con un filo ininterrotto di imperatorilegalmente consacrati ed eletti, ora soltantoin Oriente o in Occidente, ora in Oriente ed inOccidente, sino al 1806. Di solito, quando un regimecontinua a vivere anche solo di nome, non si spegnela curiosità di conoscerne le origini e di studiarnela storia: la storia appunto che, anche nei tempibarbari, è la più spontanea espressione di una società,perchè tutti gli uomini desiderano di tramandareai posteri le loro opere, e di conoscere quelle degliantenati; che è anche la più resistente, perchè è legatadall’interesse al regime costituito in modo chestoria e regime si sostengono a vicenda. Eppurequell’immenso magazzino di documenti e di pensiero[48]che era la letteratura storica latina, andò distrutto:perchè? Perchè, se alcuni vollero ancora conoscerenella statica determinatezza delle cose passatee giudicare certi avvenimenti memorabili, quasi nessunopiù si curò a cominciare dal quarto secolo dell’eravolgare di capire quale era stata l’anima di queisecoli e di quelle storie, e questa a poco a poco sispense nell’indifferenza universale?

La distruzione della storiografia antica è uno deitanti effetti della rivoluzione cristiana. Come avvenne,è quello che cercheremo di chiarire.

[49]

II.L’AURORA DELLA MORALE UMANA.

La morale romana fu sempre una morale civica.L’uomo non contava e non valeva, se non in quantopartecipava alla vita pubblica; le sue virtù personalieran tenute in conto, soltanto se servivano alla comunità.Anche certi vizi, quando riuscivano utili allarepubblica, venivan senz’altro lodati come virtù.

Il Cristianesimo, invece, sostituì alla morale civicala morale personale, in modo che il cristiano rendevadirettamente conto delle sue azioni a Dio, e, comecittadino del mondo, non si curava di chi governasseil suo corpo, non preferiva questo a quel paese, unostraniero a un compatriota. Un barbaro o uno schiavo,se buoni e virtuosi cristiani, valevano ai suoi occhiassai più di un romano o di un senatore, viziosied increduli. La giustizia e la reputazione degli uominilo lasciavano indifferente. Tutte le guerre spargevanoil caro sangue di uomini a lui uguali.

E allora, veniva fatto di concludere, perchè combattere,se bisogna amare i nemici come sè stessi, e[50]tendere la guancia sinistra a chi ci percuote sulladestra?

Se tutte le virtù civiche fortificavano il regno terrestre,a che servivano per le glorie di quello divino?Perchè ammirare il coraggio, quando non serviva chead uccidere e a farsi uccidere, come gladiatori, perun padrone inutile? Perchè conquistare il mondo eimporgli le proprie leggi, se soltanto contavano quelledi Dio, alle quali si deve obbedire non per forzama per amore? Perchè accumular denari arricchendonello stesso tempo lo Stato con la privata avarizia,se tanto le vere ricchezze stanno nel proprio cuoreo nei cieli; se inutile è pensare al domani, poichèDio provvederà ai nostri bisogni, come dà cibo e vestiagli uccelli del cielo? Perchè migliorare la propriacondizione e render sicuro lo Stato, se nella sofferenzasta la vera gioia, e nel patire l’ingiustizia altrui,si prova l’infinito godimento di sentirsi migliore?

Esagererebbe chi attribuisse al Cristianesimo soltantotutto questo capovolgimento della antica morale.Già in seno al paganesimo le grandi filosofieuniversalistiche, come lo stoicismo, avevano incominciatoad opporre la morale umana alla morale civica.Seneca era arrivato ad affermare «homo res sacrahomini» immaginando una città universale ove tuttipotessero abitare — amici e nemici, padroni e servi,patrizi e plebei — senza distinzione di nazionalità,di classe e di diritti politici. Nella stessa storiografianoi abbiamo veduto a Livio, per il quale il grande[51]cittadino è l’uomo perfetto, succedere Tacito, che puressendo tenacemente tradizionalista, giudica gli imperatoried i grandi secondo un criterio di moralepersonale, ossia alla stregua della loro virtù e deiloro vizi privati. Ma nella filosofia e nelle storie paganela nuova morale non si contrappone all’antica:si sovrappone a lei come una conciliazione, un perfezionamento,un addolcimento; il cristianesimo invecetronca ogni transazione, spinge alle ultime conseguenzeil principio che importa soltanto l’adempimentodei doveri verso Dio, dinnanzi a cui tutti gliuomini sono uguali. Ma così facendo, il cristianesimocompiva una rivoluzione immensa, per cui la storiadi Roma, oggetto fino allora di tanta venerazione, diventavaun’orribile e incomprensibile anarchia.

[53]

III.S. AGOSTINO, LA REPUBBLICAE IL POPOLO ROMANO.

In nessuno scrittore questo rivolgimento, per ciòche si attiene alla storia della Chiesa, appare cosìchiaro come in S. Agostino, il quale, nelDe CivitateDei, paragonando appunto la città umana e quelladivina, il Paganesimo e il Cristianesimo, e riferendo,purificate dallo stile ed approfondite dalla rigorosadialettica, le opinioni di tutti i cristiani, e forse anchedi molti non cristiani, suoi contemporanei, alterasenza volerlo tutte le manifestazioni della civiltàantica e riesce a renderle irriconoscibili, quandoaddirittura non le nega appieno.

Si vedano, come esempio, i suoi commenti a Scipione,quando, nelDe Republica di Cicerone, ilgrande generale parla appunto della repubblica. Scipione — osservaS. Agostino — «definisce concisamentela repubblica comela cosa del popolo. Se questadefinizione è vera, la repubblica romana non esistettemai, perchè non fu mai cosa del popolo. Scipione,[54]infatti, afferma che il popolo è una moltitudinedi persone unite da interessi comuni e daun diritto accettato da tutti. Spiega poi nella discussioneciò che intende per diritto, accettato datutti, dimostrando come senza giustizia non possaesistere repubblica, poichè dove non c’è giustizia veranon può esserci diritto... Perciò dove non c’è lavera giustizia non può neanche esserci una societàdi uomini, riuniti dal diritto, e neanche popolo, secondola definizione di Cicerone e di Scipione; e senon c’è popolo non c’è nemmeno la cosa del popolo,ma la cosa di una folla qualunque che non è degnadel nome di popolo. Ora, se la repubblica è la cosadel popolo, dove non c’è giustizia non c’è repubblica.Infatti la giustizia è la virtù che dà ad ognuno ilsuo. E si può chiamare giustizia quella che togliel’uomo al vero Dio e lo affida ai demoni immondi?Questo è forse dare a ciascuno il suo?[23]. Insomma,così conclude a proposito della Repubblica, comeè descritta in Sallustio, la repubblica romana nonè stata mai che un’apparenza: «Omnino nulla erat»[24].E se non esiste la repubblica non esisteneppure il popolo romano, quel glorioso popolo romano,innalzato da Livio a protagonista della suastoria, deità mitologica soprannaturale, superiore allacensura dei singoli cittadini, i quali sparivano inlui. Secondo S. Agostino invece, uno Stato non è cheuna somma di singoli uomini, pei quali il solo problema[55]serio è la salute dell’anima. «Cum moltitudoconstet ex singulis.... Neque enim aliunde beatacivitas, aliunde homo: cum aliud civitas non sit,quam concors hominum multitudo»[25].

Così Livio o Sallustio direbbero: sono morti moltisoldati, è vero; ma Roma è riuscita a soggiogare ilmondo; e che importano questi sacrifici umani, quandoè stata compita un’opera senza pari? S. Agostinoribatte: «Una città potente e vittoriosa ha dato aivinti, non solo le sue leggi, ma anche la sua lingua,per la pace dell’umanità... È vero; ma quante guerreha dovuto scatenare per questa pace; e quantastrage di uomini ed effusione di sangue spargere sullaterra!»[26].

[57]

IV.S. AGOSTINO E LA CORRUZIONE DEI COSTUMI.

Anche S. Agostino parla a lungo della corruzionedei costumi romani, e in modo che ricorda il tonodi Sallustio e di Tito Livio.

«In che tempo la passione di dominare si sarebbespenta in quei cuori superbi, se essa non fosse arrivata,di onore in onore, alla potenza reale? Poichènon sarebbe stato possibile continuare a crescer dionori, se non fosse prevalsa l’ambizione, e l’ambizionenon poteva prevalere che in un popolo corrottodall’avidità e dal lusso. Poichè l’avidità e il lussodi un popolo sono il frutto della prosperità; la qualecon molta prudenza Scipione Nasica stimava esserepericolosa, quando non voleva distruggere la piùgrande, la più forte, la più ricca città nemica di Roma»[27].

«O mentes amentes! Non siete più stolti, ma ammattiti,siete, voi che cercate i teatri, li affollate, li[58]riempite, e fate mille pazzie, mentre l’Oriente piangela vostra rovina, e le più grandi città sono nel luttoe nell’afflizione per voi, sino alle estreme lontananzedel mondo!... Ebbero più forza sui vostri animile seduzioni degli empi demoni, che gli ammaestramentidei saggi. Per questo non volete imputarea voi stessi i mali che fate; e quelli che soffrite li imputateai cristiani. Poichè nei tempi sicuri non voletela tranquillità dello Stato, ma l’impunità del piacere;e siete stati depravati nella prosperità; nè avete saputocorreggervi nella sfortuna. Scipione voleva chefoste atterriti dal nemico, perchè non foste vinti dallalussuria, e voi pure essendo abbattuti dal nemico nonl’avete repressa; avete perduto il frutto della calamità,e siete diventati i più infelici, restando i piùcattivi di tutti i mortali»[28].

Anche qui, come negli storici latini, si attribuiscela rovina dell’impero alla corruzione dei costumi.E su questo punto S. Agostino e gli storici sembranod’accordo. Ma è facile, addentrandosi nel pensierodell’uno e degli altri, accorgersi che l’accordo è apparente.La rovina dell’impero lascia S. Agostino indifferente;ciò che lo inquieta è la corruzione dei sudditi;egli è sdegnato perchè la rovina di Roma nonha corretto i romani, ed anche quest’ultimo ammaestramentoè rimasto inutile; ma ha l’aria di dire che,se la catastrofe generale avesse migliorato i Romani,questa catastrofe sarebbe stata da lui benedetta come[59]una grazia del Signore. In certi passi, infatti, S. Agostinosembra lodare piuttosto i tempi della decadenzache quelli della gloria, perchè gli sembra chegli uomini siano divenuti un poco migliori. Questoad esempio: «Roma, fondata e accresciuta dalle fatichedegli antenati, fu più sozza nella sua potenzache nella sua rovina, poichè nella rovina caddero pietree travi, ma nella corruzione dei romani cadderoi sostegni e le bellezze non dei muri ma dei costumi,quando i loro cuori arsero di passioni più funestedelle fiamme che bruciarono i tetti della città»[29].

Sallustio, invece si spaventa perchè «in Roma sicominciarono ad onorare troppo le ricchezze, e poila gloria e poi la potenza: e allora cominciò a mancareed a impigrire la virtù e si disprezzò come vergognosala povertà e l’innocenza. E così la gioventùromana cadde per le ricchezze nel lusso e nell’avarizia;cominciò ad arraffare e consumare e disprezzarele proprie cose e desiderare quelle altrui». Ma lostorico teme, perchè tutti quei vizi enumerati sonodannosi alla repubblica, perchè con l’ambizione el’arrivismo i migliori rimangono soffocati, con lospreco si consuma il capitale romano, con le ricchezzeè importato l’ozio, con la lussuria la debolezza,con la cupidigia lo sconvolgimento tumultuoso dell’ordinee della pace.

Con questa opposta concezione della vita e dellastoria, gli stessi avvenimenti assumono un aspetto diverso[60]e le stesse opere sembrano eroiche e scellerate,buone e cattive, ispirate da Dio e dal demonio. Ecco,ad esempio, come S. Agostino giudica il ratto delleSabine.

«Per questa naturale tendenza alla giustizia e allabontà, credo, si rapirono le Sabine. Non è forse segnodella massima giustizia e bontà insidiare con lafrode a teatro le figlie degli altri, per prenderle, noncol consenso dei genitori ma con la forza, e come aciascuno capita? Poichè se i Sabini fecero male a rifiutarele figlie domandate, quanto peggio non feceroi Romani a rapirle? Sarebbe stato più giusto portarela guerra a quel popolo quando rifiutò di dare le suefiglie in matrimonio ai suoi vicini, piuttosto che quandovenne a riconquistare le donne rapite»[30]. «Evinsero i Romani per potere estorcere funesti abbraccidalle figlie, con le mani ancora sanguinose dellastrage dei padri. E le figlie non osarono piangere ipadri uccisi, per timore di offendere i mariti; e mentrequelli combattevano esse non sapevano per chiinvocare vittoria»[31].

Livio invece descrive in questo modo il Ratto delleSabine.

«La Repubblica Romana era già così forte che potevaessere uguale in guerra a qualunque delle cittàvicine; ma per la mancanza di donne, quella grandezzaavrebbe solo durato l’età d’un uomo, non essendocisperanza di prole futura in patria, nè di matrimoni[61]coi vicini»[32]. Perchè Roma potesse seguirela via gloriosa tracciata negli astri, Romolo risolse,dopo il rifiuto, di violare per una volta la legge,obbedendo quasi, come Loth, a un comando divino.E spiegò poi «che ciò si era fatto per la superbia deipadri, che avevano negato i connubi ai loro vicini;ma che quelle tuttavia sarebbero legittime spose nelmatrimonio e nella comunità di tutte le fortune diRoma e dei figli, dei quali non vi è per gli uominicosa più cara. Perciò calmassero l’ira e concedesserogli animi a coloro ai quali la fortuna aveva dato icorpi»[33].

E dopo aver vinto i Ceninensi, i Crustumini e gliAntennati che volevano vendicare l’ingiuria, Romoloportò sopra una barella le spoglie del duce nemico,le appese ad una quercia sacra sul Campidoglio, econsacrò un tempio a Giove Feretrio con queste parole:

«O Giove Feretrio, io, Romolo, re vincitore, ti offroqueste armi reali, e ti consacro il tempio che oraho fondato in questa terra, perchè nel tempio sianodeposte le prime spoglie che i posteri, seguendo imiei esempi, toglieranno ai re uccisi in battaglia»[34].

Per S. Agostino il ratto delle Sabine non è cheuna violazione della morale. Per Livio è il momentosacro e solenne da cui comincia la storia di Roma, è[62]l’esecuzione di un ordine venuto dagli dèi, è l’adempimentodi una delle tante imprese predestinate, chedovevano riuscire felicemente, perchè Roma diventassela dominatrice del mondo.

E questi due contrari punti di vista si ritrovanoquando S. Agostino parla del combattimento fra Orazie Curiazi, e dice di Virginia «humanior huiusunius feminae, quam universi popoli Romani, mihifuisse videtur affectus»[35]. Egli non si lascia esaltaredagli argomenti inebrianti degli scrittori latini.

«A che mi si obbiettano qui il nome della gloria,il nome della vittoria? Messi da parte gli intralci diuna folle opinione, guardiamo, pesiamo, giudichiamoa nudo i delitti. E che si dica il conflitto di Alba comesi dice l’adulterio di Troia. Non si troverà mainiente di uguale, niente di peggio. Tullo vuol solamente«levare in armi gli uomini impigriti, e leschiere ormai disavvezze ai trionfi». Per questo vizio,è stato dunque perpetrato il delitto di una guerrafra alleati e parenti!»[36].

[63]

V.S. AGOSTINO, I GRANDI UOMINIE LA STORIA DI ROMA.

I Cristiani non potevano neppure ammettere che igrandi uomini romani discendessero da antenati diorigine divina, mentre l’inventare ed il magnificarequesta origine ultra umana appariva come uno deicompiti fondamentali della storiografia, sin dai primianni, quando i rozzi cronachisti cercavano di dimostrare,con le loro prose scabrose, che il popoloromano era il più grande dei popoli.

Ricordate il proemio di Livio?

«Si concede come licenza, all’antichità, che mescolandole cose umane con le divine, faccia i principîdella città più sacri e venerabili. E quando siconceda ad alcun popolo il diritto di consacrare lesue origini e di attribuirle agli Dei, tanta è la gloriadel popolo Romano nel fare la guerra, che se egliproclama specialmente Marte suo genitore ed edificatore,le genti umane devono sopportare anche questo,così serenamente come sopportano l’imperio diRoma.»

[64]

Ma S. Agostino non sopporta «aequo animo» questaambizione e si scandalizza quando Varrone «pretendeessere utile agli stati, che i grandi uomini, anchese è falso, si credano discendenti degli Dei, perchèin questo modo l’animo umano «velut divinaestirpis fiduciam gerens» con più coraggio imprendegrandi fatti, opera con più veemenza, e appunto perquella sua creduta sicurezza riesce con maggior fortuna».

Ma c’è di più. Siccome molti, nello sconvolgimentodel quarto e del quinto secolo, facevano specialmenteresponsabili i principî cristiani della disgregazionegenerale[37], Sant’Agostino, per dimostrareche in verità si era sempre stati malissimo,non esita a fare un quadro terrificante della storiadi Roma, in cui si passa da un omicidio a una strage,a una rivoluzione, a una carestia, ad una guerradisastrosa, ad un incendio funesto. Quelli che neglistorici antichi sono i grandi secoli di Roma diventanoun’età maledetta, donde il cristiano torce losguardo inorridito.

Non si capisce più come i Romani siano riusciti adattraversare quelle età così calamitose, senza esseretutti distrutti. Lo Stato, oggetto per i Romani e peri grandi storiografi di una venerazione religiosa, diventaper S. Agostino uno scandalo che fa rabbrividirei secoli.

«Ma i cultori e gli adoratori di quei numi, dei[65]quali amano imitare i delitti e i vizi, non cercano affattodi rendere la repubblica meno sozza e vergognosa.Basta che viva, dicono, basta che fiorisca perla forza dell’armi, e per la gloria delle vittorie, oppure — equesto è ancora meglio — che sia sicuraper la pace. Che cosa c’importa del resto? O piuttostoc’importa sopratutto che ciascuno aumenti semprele sue ricchezze, perchè nutrano le quotidianelarghezze, con cui i potenti si assoggettano i piùdeboli; che i poveri adulino i ricchi, per poter mangiare,e che i ricchi, perchè i poveri godano sotto illoro patrocinio di un ozio tranquillo, abusino deipoveri, facendoli clienti e ministri del loro lusso;che i popoli applaudiscano, non a coloro che provvedonoal loro vero bene, ma ai dispensatori di voluttà;che non sia comandato niente di duro, e nonsia proibito niente di impuro; che le leggi impediscanopiuttosto di danneggiare le vigne di un altroche di rovinare la propria vita; che uno sia condottodinanzi ai giudici solo se ha attentato alle sostanze,alla casa, o alla esistenza di un uomo; mache per il resto ciascuno faccia quello che voglia, deisuoi, o con chiunque si presti; che abbondino le prostitute,per tutti quelli che vorranno goderne, maspecialmente per quelli che non ne possono averedi private; che si costruiscano grandiosi e ornatissimipalazzi, che i conviti seguano i conviti; e comeciascuno può e vuole, di giorno e di notte si giochi,si beva, si vomiti e si fornichi; che risuonino d’ogniparte le musiche delle danze; ed echeggino per i[66]teatri i clamori di una gioia disonesta e si esalti ilpubblico a ogni genere di crudelissime o turpissimevoluttà... Chi, domando, se non pazzo, può chiamarequesto stato l’impero romano e non la casa di Sardanapalo?»[38].

Questa critica demolisce ad uno ad uno, con unadialettica implacabile, tutti i miti e i racconti leggendarî,adoprati dagli storici per esaltare nei romanil’ammirazione delle virtù civiche. Un esempiocurioso è quello di Lucrezia, la quale, per essersi uccisadopo il forzato adulterio, volendo provare a tuttiche non vi aveva partecipato segretamente, simboleggia,agli occhi dei romani, la donna esemplare,per la quale l’onore vale più della vita. S. Agostinoinvece non riconosce il sacrificio di Lucrezia e ragionaa lungo, per dimostrare che Lucrezia ha avutotorto in ogni maniera. Egli dice: se Lucrezia è statasempre pura di intenzioni ed ha veramente subitala violenza di Sestio, perchè allora la celebre Lucreziaha ucciso questa casta ed innocente Lucrezia, el’ha castigata ingiustamente della cattiveria altrui?E come mai Sestio, che ha subito soltanto l’esilio, èstato punito meno della sua vittima? Dove è allorala giustizia, se la castità è punita più che il vizio?Ma se Lucrezia ha invece partecipato segretamenteall’adulterio e si è voluta punire della sua colpa, perchègli storici romani la glorificano come la più virtuosadelle donne? Di qui non si scappa: se non è[67]un’omicida, è un’adultera; se non è un’adultera, èun’omicida; nè si può sciogliere questo dilemma: seè un’adultera perchè lodarla? Se è casta perchè quellamorte?[39]. Ora S. Agostino trova la probabileragione del suicidio di Lucrezia, ma la biasima, invecedi ammirarla come gli antichi. «Ha avuto vergognadella violenza altrui commessa su di lei, anchese contro la sua volontà; e romana troppo avidadi gloria, ha temuto che continuando ella a viveresi sospettasse la sua complicità nella violenza che essaaveva in vita subita. Ella volle infliggersi la morte,per testimoniare delle sue buone intenzioni agli occhidegli uomini, che non potevano leggere nella suacoscienza... Non fecero così le donne cristiane, le qualivivono, pure avendo sofferto simile violenza. Manon hanno vendicato su di loro i delitti altrui, e nonhanno aggiunto l’omicidio all’adulterio, e non si sonouccise, arrossendo di sè stesse, perchè i nemici, desiderandole,le hanno stuprate. Ma per le donne cristianela gloria della castità è la testimonianza dellaloro coscienza dinnanzi a sè e dinnanzi a Dio; e nondomandano di più. Infatti anche se agiscono rettamentenon ottengono di più perchè non possono allontanarsidalla autorità della legge divina, malamenteevitando l’offesa dell’umano sospetto»[40].

Ma S. Agostino appare più radicalmente sovvertitore,quando dà col piccone proprio sulla pietraangolare di tutta la creazione pagana della storia:[68]la ragione della grandezza di Roma. PerchèRoma aveva potuto fondare quel vastissimoe fortissimo impero? Rispondeva la coscienza pagana:perchè così avevano voluto gli Dei, che avevanoprotetto i Romani, in considerazione delle loro virtùreligiose e civiche. La storia di Livio è così viva, perchèè tutta animata da questa persuasione. Ma S. Agostinoentra nell’Olimpo, dove avrebbero dovuto risiederegli autori soprannaturali della grandezza di Roma,e ne fa una strage. Egli incomincia a domandare:quali sono gli Dei che hanno prodotto la grandezzadi Roma?

Certo, risponde, i Romani non oseranno attribuireanche la più piccola particella di un’opera cosìgloriosa e così grande «alla Dea Cloacina o alla DeaVolupia, che così è chiamata dalla voluttà, o a Lubentinadalla libidine, o a Vaticano, che presiede aivagiti dei bambini; o a Cunina che veglia sulle lorocune»[41].

E qui si domanda perchè i Romani abbiano inventatoun tale numero di Dei, ciascuno con le suefunzioni particolari e con la proibizione di invadereil campo degli altri. «Non è bastato — egli osserva — affidarea un solo Dio la cura delle campagne,ma si son dati la pianura ed i campi alla Dea Rusina,i gioghi dei monti al Dio Jugatino, i colli allaDea Collatina e le valli a Vallonia. E non hannoneanche trovato una Dea abbastanza vigilante per[69]poter affidare a lei sola le difese delle messi. Ma allasemenza del grano, quando è ancora sotto terra, hannopreposto la Dea Seja, ed al grano quando spigala Dea Segezia, ed al grano raccolto e riparato, perchèlo difendesse, la Dea Tutilina. Perchè non parveloro che Segezia bastasse, dagli erbosi inizi alle aridereste?»[42].

Nota poi come la stessa pianta di grano è affidataalle cure di Proserpina, del Dio Nodato, della DeaVolutina, delle Dee Patelana, Ostilina, Flora, delDio Lacturno, della Dea Matuta e della Dea Runcina,quando, finalmente, è tagliata. Ora, dice S. Agostino,a chi si deve attribuire la grandezza dell’imperoromano, se Roma è stata difesa e sostenuta dauna quantità di piccoli Dei talmente attaccati a unufficio particolare, che sarebbe stato molto imprudenteaffidar loro un compito di ordine generale?

Allora — egli nota, passando agli Dei maggiori — supponiamoche il merito dell’impero risalga a Giove.«Jovis omnia plena» dicono i latini; ma comemai allora è assegnata l’aria inferiore a Giunone el’etere a Giove? Tutto non è dunque pieno di Giove?Oppure essi riempiono l’aria e l’etere, e stannoinsieme in ciascuno dei due elementi? Ma alloraperchè dare l’aria a Giunone e l’etere a Giove? Edopo aver dimostrato negli altri grandi Dei tutti igarbugli, che nascono da queste prime definizionicontradittorie, egli si chiede: «Ma se invece, come[70]dicono i filosofi, non ci fosse che un Dio solo, il qualesi impersona nei diversi Dei secondo le necessitàed i momenti? O allora non sarebbe stato più semplicee prudente adorare un solo Dio? Che parte dilui si disprezzerebbe, venerando Giove stesso?»

E se si teme che si possano adirare quelle partidel Dio che non sono venerate, o sono dimenticate,non è più vero che egli sia l’anima del mondo, lospirito di tutti gli Dei, la vita universale, ma ogniparte di lui ha la sua vita propria, indipendente dallealtre; perchè se no sarebbe assurdo che una partedel Dio fosse offesa, quando, adorando il Dio che lecomprende tutte, ogni parte è anche adorata.

Perchè invece, venerando e deificando, per esempio,alcune delle stelle, non si teme che tutte le infinitestelle non adorate si vendichino di questa oltraggiosadimenticanza? In tutto l’universo gli Dei nonvenerati ed offesi sono innumerabili, e quindi più numerosidegli Dei venerati.

«E prima di tutto mi domando, continua S. Agostino,perchè anche l’Impero non è posto tra gli Dei?E perchè no, se la vittoria è una Dea? E che bisognoc’è più di Giove, se la Vittoria favorisce e volasempre a quelli che vuole far vincere? Con questaDea propizia, anche se Giove sta con le mani inmano, o ha da fare altrove, quanti popoli non sipossono conquistare?»[43].

E così, sempre impostando la vita e la morale romana[71]su quella degli Dei, egli prova che tutti gliDei sono dei burattini, o dei mascalzoni, o dei pazzi,o degli imbecilli. Ma ciò che più urta la sua coscienzadi cristiano è l’impassibilità con cui gli Deicontemplano la corruzione dei romani, senza cercaredi migliorarli.

«Perchè la repubblica non perisse, i suoi Dei custodiavrebbero dovuto dare dei precetti, specialmentesulla vita e sui costumi, a quel popolo che livenerava, e da cui erano venerati con tanti templi,sacerdoti, sacrifici, con tante diverse funzioni sacre,con tante solennità festive e celebrazioni di giorni.Mentre invece i demoni pensavano solo al loro interesse,non curando come i Romani vivessero, cercandoanzi che vivessero malamente, purchè, sottomessidal timore, li onorassero[44].

«E dove era tuttavia quella turba di numi, quando,molto prima che gli antichi costumi si corrompessero,Roma fu presa e bruciata dai Galli? Forse inumi presenti dormivano? Allora tutta l’Urbe fuoccupata dal nemico, e rimaneva solo il colle capitolino;ed anche quello sarebbe stato preso, se leoche, mentre gli Dei dormivano, non avessero vigilato...»[45].

Ma gli Dei, oltre ad essere dormiglioni e vili sonoanche cattivi, perchè cercano di aizzare invece chedi raffrenare le passioni degli uomini. «Quei numiche hanno aiutato Mario, uomo nuovo e non nobile,[72]responsabile delle più sanguinose guerre civili, a diventareconsole sette volte e a morire vecchio, duranteil settimo consolato, in modo che non cadessenelle mani di Silla, futuro vincitore, perchè non lohanno aiutato a non commettere tanta mole di delitti?»[46].

«E quando Silla, i cui tempi furono così crudeliche si rimpiangevano quelli di cui volle essere il vendicatore,mosse il campo verso l’urbe contro Mario,le viscere delle vittime furono tanto favorevoli, secondoLivio, che Postumio aruspice si dichiarò prontoa subire la pena capitale, se Silla coll’aiuto degliDei non avesse compiuto tutto quanto aveva in animo.Dunque gli Dei non avevano abbandonati i templie le are, poichè predicevano gli eventi delle cose,senza darsi la pena di render Silla migliore!»[47].

«Ma se mi rispondono che gli Dei non li aiutarono,faccio notare esser molto grave che essi confessinopoter gli uomini godere, anche senza gli Dei favorevoli,di quella felicità temporale preferita fratutte; e che gli uomini possano anche, come Mario,fruire della salute, della forza, della potenza, deglionori, della dignità e della longevità tutte insieme,contro il volere degli Dei; e che possano, come Regolo,morire poveri e schiavi, tormentati dalle vegliee dalle torture con la protezione degli Dei. E se iRomani ammettono questo, sono anche costretti a[73]confessare che gli Dei non servono a niente e che èinutile venerarli»[48].

Così, a poco a poco, dopo avere numerato tutti ivizi e le ridicolezze dei numi, come un buon avvocatoche vuole screditare i testimoni della parte avversa,S. Agostino conclude affermando che gli Deisono inutili, e che non hanno partecipato all’ingrandimentoe alla fondazione dell’Impero. La discussioneè chiusa con un dilemma insolvibile, a propositodella grandezza e della decadenza degli imperi.

«Insomma, o gli Dei sono infedeli, abbandonano iloro amici e passano al nemico — ciò che non feceCamillo, il quale era solo un uomo, quando, essendostato pagato da Roma con ingratitudine per avereespugnate le città ostili più pericolose, memore dellapatria, dimenticò l’ingiuria e salvò Roma una secondavolta. O questi Dei non sono così potenti comedovrebbero essere, poichè possono esser vinti dall’ingegnoo dalla forza degli uomini. O gli Dei nonsono vinti dagli uomini, ma battagliando fra lorosono vinti da altri Dei, che proteggono altre città:hanno dunque anche loro delle inimicizie reciproche,o le sollevano ciascuno per il proprio partito»[49].

[75]

VI.LA FORTUNA DI ROMA E CRISTO.

Ma allora da che cosa è nata, se non è nata dallaprotezione degli Dei, la grandezza romana? Dal caso,dalla fatalità, o dal destino? No[50]. Siamo così arrivati,con tutte le preparazioni necessarie, sulle sogliedella conclusione cristiana. S. Agostino ci rivela subitoil fine di quel tormentoso sillogizzare:

«Vediamo ora per quali virtù dei Romani, e perquale scopo si degnò di aiutare l’impero ad ingrandirsiil vero Dio, nella cui potestà sono anche i regnidella terra. Appunto per potere discutereabsolutiusdella questione, abbiamo dimostrato nel libro precedentecome, per questo ingrandimento, non abbianocontato nulla quegli Dei venerati con cerimonie cosìridicole, e, al principio di questo libro, come fosseda eliminarsi la versione del fato, perchè qualcuno,stufo del culto degli Dei, non attribuisse la grandezzae la difesa dell’Impero romano a non so quale[76]fato piuttosto che alle potentissime volontà del SommoDio.»[51].

L’Impero romano è stato fondato ed ingrandito daDio, perchè unificando il mondo sotto uguali leggied in un’unica lingua, preparasse la venuta di Cristoe rendesse possibile l’espansione della nuova religione.«La città di Roma fu fondata come un’altraBabilonia e come la figlia della prima, per mezzodella quale piacque a Dio domare l’universo e pacificarloin lungo ed in largo con la comunanza delgoverno e delle leggi. Poichè c’erano allora dei popoliforti ed agguerriti che non cedevano facilmentee che non si potevano vincere se non con gravi pericoli,grandi devastazioni reciproche e orribile travaglio»[52].

Questa è la dottrina cristiana dell’impero e dellasua storia. Senonchè è facile intendere che questadottrina spogliava Roma di tutta la gloria, di cuil’antica storiografia l’aveva illuminata. Roma non havirtù, ma vizi, non enumera glorie, ma orrori: havinto nonostante questi orrori e questi vizi, per voleredi Dio, per combattere vizi ed orrori più grandi.Essa è insomma il minor male dei tempi che furonoprima della redenzione; e il cristianesimo le deve,non ammirazione, ma intelligente compatimento.Così S. Agostino considerò quelle virtù civiche, perglorificar le quali Livio aveva scritto il suo immensopoema, come vizi: primo di tutti l’amor della[77]gloria, il pilone centrale della grandezza romana. «Equesto impero potentissimo, col quale voleva castigarei gravi peccati di molti popoli, Dio lo affidò aquesti uomini, i quali, per amore di onori e di lode,misero nella gloria della patria la propria gloria enon esitarono ad anteporre la salvezza della patriaalla loro salvezza, vincendo il desiderio di denaro emolti altri vizi con un solo vizio: l’amor della gloria»[53].«Poichè chi è saggio capisce subito chel’amor della gloria è un vizio». Vizio tanto maggioreperchè i Romani «non solo non gli resistevano,ma cercavano anzi di eccitarlo, pensando che sarebbestato utile alla repubblica»[54]. Infatti «senzadubbio è meglio resistere a questa passione che cedere»[55].Invece «quella gloria, per amore dellaquale ardevano, non è altro che la buona opinionedegli uomini sopra un uomo. È dunque migliore lavirtù che non si contenta della testimonianza degliuomini, ma esige quella della coscienza. Dice infattil’apostolo: «Nam gloria nostra haec est, testimoniumconscientiae nostrae»[56].

Perciò il sentimento vero che S. Agostino provaper i Romani delle grandi epoche, tanto ammirateda Sallustio, da Livio e da Tacito, è una specie dicompassione, come per i disgraziati condannati acompiere un’opera necessaria ma orrenda, quasi si[78]direbbe per i carnefici della storia. «Essi amaronola gloria ardentissimamente, per la gloria vollerovivere, e per la gloria non esitarono a morire... Stimandovergognoso che la propria patria fosse schiava,e glorioso che dominasse e comandasse, con ognisforzo vollero prima farla libera e poi sovrana».«E così era fra le aspirazioni degli uomini illustriper coraggio, che Bellona, agitando la sua frusta sanguinante,eccitasse i miseri popoli alla guerra, perchèvi potesse risplendere il loro valore... E primaper il desiderio di libertà, poi per quello di dominioe di gloria compirono grandi imprese»[57].

Nè è più benigno per l’altra passione figlia dell’amoredella gloria: l’ambizione di dominare, reginadelle virtù romane, quella che creò e difese l’impero.S. Agostino, infatti, condanna questa qualitàdel popolo romano, accusandolo di essere dominatodalla libidine di dominare, («ipsa ei dominandi libidodominatur»). E non cessa mai in tutta l’opera,ogni volta che l’occasione gli si offre, di scapitozzarequesta colonna della civiltà romana, sentendobene che l’ambizione, essendo fra tutte le virtù antiche,la più civile e la meno personale, contradicevapiù aspramente che ogni altra tutta la moralecristiana.

«Chi potrebbe dire, egli scrive, quante calamitàha suscitato pel genere umano questa passione di dominio?Vinta da questa passione, Roma godeva di[79]aver soggiogata Alba, ed accettava sotto il nome digloria la lode del suo misfatto. Perchè, è detto nellaSacra Scrittura, il peccatore è lodato per i suoi cattividesideri, ed è benedetto chi commette l’iniquità. Matogliamo quel belletto fallace, e questi falsi colori,per esaminare sinceramente le cose come stanno.Non mi vengano a dire: il tale è grande perchè hacombattuto con questo e quest’altro ed ha vinto.Combatte il gladiatore, e la sua crudeltà ha un salariodi lode. Ma per me è meglio essere disprezzatocome un vigliacco, che acquistar la gloria di similecoraggio»[58].

Roma, certo, non avrebbe avuto bisogno di guerreggiarecosì lungamente, se tutti gli uomini fosserostati d’accordo con S. Agostino, quando osservava,che per il mondo era meglio assoggettarsi senzaguerre all’impero Romano: «tanto, dice, per la nostravita mortale, così breve, che importa all’uomomorituro vivere sotto questo o quell’impero, se nonè obbligato da quelli che comandano ad azioni empieod inique?»[59]. Ma ha quasi l’aria di dire chei romani hanno rifiutato questo semplice e profittevolemezzo di conquista — la buona volontà dei conquistati — «perchèsarebbe mancato loro la gloriadel trionfo!».

È facile intendere come con questa dottrina dellavita, tutta la storiografia antica, anche quella di Sallustioe di Livio, non avesse più nessun senso o interesse.[80]Che importavano tutte quelle guerre, quellevittorie, quelle lotte civili, se Dio non c’entrava pernulla, poichè badava solo al risultato, e cioè all’unitàdell’impero, come quella che doveva essere la gigantescaculla del redentore? A che serviva ormaila dottrina della corruzione, se le virtù civiche, cheSallustio e Livio opponevano alla corruzione, eranoanche esse corruzione e male? E neppure la storiadi Tacito, con quella sua sollecitudine della moralepersonale, poteva attrarre il pensiero cristiano. Dinnanzia S. Agostino, il quale trova giusto che i buonied i cattivi godano e soffrano ugualmente, perchè secondola dottrina cristiana saranno puniti e premiaticon equità nella vita oltre mondana, come grossolanadoveva sembrare la giustizia di Tacito, il qualeaveva scritto per punire col suo stilo di storico i cattiviingiustamente felici sulla terra, senza neppuresospettare, che secondo la dottrina cristiana i buonie i cattivi reagiscono diversamente alle disgrazie ealle fortune. Infatti come «sotto lo stesso fuoco l’oroscintilla e la paglia fumiga... e l’olio e la morchianon si mescolano, quando sono espulse dallo stessopeso del frantoio, così una uguale disgrazia, se piombasui buoni li prova, li purifica e li fa splendere,sui cattivi li tormenta, li rovina e li stermina!»[60].

Tutti i sentimenti, tutte le istituzioni, tutte le credenzeromane sono a poco a poco trasformate ed alterate.La saggezza diventa follia, il bene diventa il[81]male, quello che era citato ad esempio è ricordatocome un obbrobrio oltrepassato per la felicità degliuomini.

Così la morte, che era stata stimata il peggiore deimali, fuori che quando era affrontata per la difesadella patria, diventa una mèta, il momento desiderabileper l’acquisto della beatitudine perfetta[61]. Viceversail suicidio, considerato sempre un atto di coraggio,si giudica ora una viltà ed una follia[62], oltrechèun peccato mortale. La sepoltura, cerimoniaconsacrata religiosamente, come la più importante ela più sacra di tutte le funzioni, perchè era legataalla vita ultramondana del morto, ora non è più cheuna dimostrazione di amore, rispetto al defunto, edun dovere igienico rispetto ai rimasti. L’Anima, tanto,è superiore ed indifferente al destino del suo corpoe al lusso della sua tomba[63].

La storiografia antica è stata vittima di questo immensorivolgimento dello spirito del mondo. A pocoa poco, a mano a mano che i secoli passavano, l’indifferenza,l’incomprensione e l’ignoranza stesero unimmenso mantellone di feltro sul passato e la storiaritornò allo stadio primitivo di molti secoli innanzi.A Carlo Magno, che si faceva leggere e rileggere ilDe Civitate Dei, le opere di Sallustio, di Tito Livio edi Tacito non potevano insegnare più nulla, dovevanoanzi riuscire quasi incomprensibili. Importava[82]tutt’al più il ricordo dei nudi fatti della storia diRoma, come l’aveva conservato nei primi secoli laannalistica. Le grandi opere di storia sono distrutte;anche dei grandissimi — di Sallustio, di Livio, diTacito — solo pochi brandelli si salvano; si moltiplicanoinvece le piccole epitomi. E così quella grandeluce intellettuale dell’antichità si ridusse a unapiccola fiammella morente, finchè un rivolgimentodel pensiero umano non la fece divampare di nuovo.È quella che si può chiamare la risurrezione dellastoriografia antica.

[83]

LA RINASCITA

[85]

I.LA STORIA E L’ANTICHITÀNELLA MENTE DEL MACHIAVELLI.

Niccolò Machiavelli, dopo il ritorno dei Medici aFirenze, nel 1513, si era ritirato in villa senza impiegopolitico, e si consolava della sua triste vita, partitafra l’osteria e i lavori dei campi, studiando TitoLivio. Ma ogni tanto faceva una scappata a Firenze,dove trovava un cenacolo di fedeli ammiratori del Savonarola,amici suoi sin dal tempo della repubblica,che si radunavano negli Orti Oricellari, e con essileggeva commovendosi a quella rievocazione di glorierepubblicane, le storie di Tito Livio. In questogruppo il Machiavelli cominciò a commentare inmodo nuovo le decadi ed entrò «in quella via» chenon era «stata per ancora da alcuno pesta».

Perchè, si domanda il Machiavelli, gli uomini ricorronoagli antichi per tutte le arti e per tutte lescienze, e non li studiano quando si tratta di politica?Perchè non si ristudiano con intelligenza lestorie? In verità, essi non sanno «trarne, leggendole,[86]quel senso, nè gustare di loro quel sapore che lehanno in sè»[64].

Siccome gli uomini «nacquero, vissero e morironosempre con un medesimo ordine»[65] «gli è facilcosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevederein ogni repubblica le future, e farvi quei rimediche dagli antichi sono stati usati»[66]. Perciò«ho giudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libridi Tito Livio, che dalla malignità dei tempi nonci sono stati interrotti, quello che io, secondo le antichee moderne cose, giudicherò essere necessarioper maggiore intelligenza di essi»[67].

L’antichità in generale, ed in essa sopratutto TitoLivio, sono adunque assunti a maestri della politicacontemporanea, mentre la politica contemporanea èadoperata per illuminare nei suoi punti oscuri lastoria dell’antichità. Il metodo era doppio ed eranuovo; e diede risultati singolari, che dobbiamo studiare,perchè con il Machiavelli la storia antica rinascedal suo sepolcro e ridiventa una viva forza spiritualedella civiltà moderna.

Gli amici degli Orti Oricellari che primi lo conobbero,sembrano aver più ammirato che non capitoquesto metodo, poichè i commenti liviani del Machiavelliesaltavano in loro soltanto il fervore repubblicano,e, come se fossero stati scritti e detti solo[87]per insegnar l’arte di fondare, ordinare e reggereuna repubblica nei tempi moderni, riempivano queglispiriti ardimentosi, ma angusti, di invidia e nostalgiaper la fortunata sorella di Roma; li accendevanoforse anche incitandoli a restaurare uno statorepubblicano nella Firenze medicea (così forse dueuditori degli Oricellari, Zanobi Buondelmonti e CosimoRucellai, gettandosi in una disgraziata congiuracontro i Medici, pensarono di avere tradotto in praticagli insegnamenti di Niccolò Machiavelli). Ma atorto, perchè il metodo del maestro non era monopoliodella politica repubblicana. L’antichità era vasta,gli storici numerosi, le Deche stesse oceaniche emultiformi. Nel mondo classico era lecito studiarecon uguale profitto le istituzioni tiranniche e le istituzionimonarchiche. E il Machiavelli voleva studiarerepubbliche e monarchie, tanto che ritornando daFirenze, dove aveva commentato Livio negli OrtiOricellari, alla sua campagna, a quell’Albergaccio dicui parla nelle sue lettere, scriveva ilPrincipe, ossiaun trattato sull’arte di fondare e reggere una monarchia,attingendo anche per questo agli esempidell’antichità. «Deve il Principe leggere le istorie edin quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti,vedere come si sono governati nelle guerre»[68].

Non tutti gli storici e non sempre i posteri hannocapito la vera natura di questo eclettismo politicodel Machiavelli. Si ripete spesso che neiDiscorsi il[88]Machiavelli condensò la sua dottrina sul governodelle republiche, e nelPrincipe quella sul governodei principati tirannici, esaltandoli ambedue come iregimi ideali. E poichè le due opere furono scrittepress’a poco nel tempo stesso, questa contemporaneitàgli è stata imputata come atto di mala fede, quasiche scrivendo ilPrincipe, egli avesse rinnegato o traditoiDiscorsi, e viceversa. Ma, innanzi tutto, l’opposizionedelle due opere è arbitraria, perchè non è lecitoassegnare la teoria della repubblica aiDiscorsie quella della tirannia alPrincipe, con quel taglionetto che è d’uso: traIl Principe e iDiscorsi c’è tantacontinuità e coerenza di pensiero, che son quasiun’opera sola. E tu non senti nessun distacco passandodal primo al secondo.

Fin dalle prime pagine deiDiscorsi, il Machiavellidichiara che Repubblica o Tirannia fa lo stesso.Imbevuti delle dottrine politiche del secolo XIX, noinon possiamo più capire questa indifferenza a sceglieredue forme di governo, di cui l’una, secondonoi, deve essere il male, se l’altra è il bene. Ma il Machiavelli,vivendo quattro secoli fa, pensava che tuttigli ordinamenti statali hanno dei difetti e delle qualità.Nella sua teoria della trasformazione dei governi[69],che anticipa quella di Vico, non si fa illusionesulla bontà di nessun ordinamento. Crede però checerte situazioni richiedono questo o quel governo,come più conveniente e adattabile. Esamina così le[89]condizioni degli Stati e i momenti storici in cui possonofondarsi e reggersi delle repubbliche o delle tirannie,e avverte «che colui che vuol fare dove sonoassai gentiluomini una repubblica, non la può farese prima non gli spegne tutti»[70]. E se vuol fareun Principato «dove è assai egualità» trova altriostacoli invincibili. Cosicchè conclude: «costituisca,adunque una repubblica, colui dove è o s’è fatta unagrande equalità; altrimenti farà una cosa senza proporzionee poco durabile»[71]. Poco dopo scrive unlungo capitolo sulle congiure «acciocchè i principiimparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privatipiù timidamente vi si mettino, anzi imparino adessere contenti a vivere sotto quell’impero che dallasorte è stato loro preposto»[72]. E cita questa sentenzadi Tacito: «gli uomini debbono desiderare ibuoni principi e comunque siano fatti tollerarli».

Chi direbbe che questi pensieri sono stralciati daiDiscorsi sulla prima Deca, le cui primizie furono riservateagli ultimi discepoli di Savonarola, e chepassa per un libro repubblicano? E come attribuirea un teorico della repubblica quella poca stima dellemasse che il Machiavelli esprimeva a Francesco Guicciardiniscrivendogli «voi sapete e sallo ciascuno chesa ragionare di questo mondo, che i popoli sono varie sciocchi»?[73]. O quella dottrina svolta pure neiDiscorsi, per cui, se si vuol ricorreggere una repubblica,[90]che non regga più per la corruzione morale e politica,«è necessario venire allo istraordinario, comeè alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi adogni cosa, principe di quella città, e poterne disporrea suo modo»[74].

Il Principato è dunque necessario e quindi legittimoquanto la repubblica. Non c’è nel Machiavelliparzialità per l’uno o per l’altra, o contemporaneaglorificazione di tutti e due. Benchè la divisione nonsia netta, neiDiscorsi si può trovare la teoria dellarepubblica, perchè il protagonista è il popolo, nelPrincipe la teoria del principato, perchè si parla specialmentedei principi. Infatti incomincia dicendo:«Io lascerò dietro il ragionare delle repubbliche,perchè altra volta ne ragionai a lungo»[75], alludendosenza dubbio aiDiscorsi. Ma questa è la divisioneteorica di due diversi ordinamenti, non il cozzodi due dottrine contrarie.

[91]

II.LA RAZIONALIZZAZIONE DELLA POLITICA.

Ammesso che tutte le forme di governopossanoessere legittime, il Machiavelli non poteva non affrontarela questione: come si debbano nella realtàdistinguere i governi legittimi dagli illegittimi. Lostudio degli antichi, massime quello di Tito Livio, loconduce a stabilire la nozione di una legittimità difatto. Il governo legittimo è quello buono, il qualesa compiere bene l’ufficio suo: «tanto è difficile e pericoloso,egli scrive senza reticenze, voler far liberoun popolo che voglia viver servo, quanto è far servoun popolo che voglia viver libero». «Gli uomini nell’operaredebbono considerare le qualità dei tempi eprocedere secondo quelli». Il governo migliore èquello che indovina con più fortuna quali sono imezzi necessari per mantenere l’ordine, aumentare lapotenza e la prosperità. E chi ci riesce ha il plauso,qualunque esso sia, nuovo o antico, monarchico o democratico,aristocratico o religioso, militare o plutocratico.Senonchè, si potrebbe da questo argomentare[92]che il Machiavelli disprezza come superflua la legittimitàformale e legale dei governi, per non ammettereche la legittimità del merito; ma si è inveceun po’ sorpresi, in principio, trovando vicino a delleteorie così ardite, una preoccupazione incessanteanche della legittimazione formale[76]. Egli sa cheun vecchio governo, i cui titoli non siano discussi, èpiù solido di un governo fondato dalla forza, anchese ha meno denari e meno soldati. Egli sa che «nelprincipato nuovo consistono le difficoltà»[77] e osservache «il Principe naturale ha minori cagioni e minorinecessità di offendere»[78]. Ma questa preoccupazionedella legittimità c’è solo perchè la legittimitàè una forza di persuasione che serve più di molticannoni come elemento di stabilità e di potenza.Insomma, passando attraverso Livio e gli scrittori antichi,il Machiavelli arriva quasi di colpo alla razionalizzazionetotale della politica.

Risorgendo dal suo sepolcro, la storia antica riveladopo tanti secoli agli uomini la dottrina dello Statorazionale ed umano. Che rivoluzione fosse questa èfacile immaginare. Era la fine del Medioevo. Lo Statonon è più un pupillo del Pontefice chiamato ad attuarela legge di Dio sulla terra, secondo la dottrinadi S. Agostino; è una creazione umana inventata dallaragione per servire e sfruttare le passioni e gli interessidegli uomini a fini di grandezza e di potenza.

[93]

Nel medioevo la Chiesa governava il mondo, e l’impero,se voleva essere riconosciuto dal popolo, dovevachiedere la benevolenza di Dio. Nelle dottrine delMachiavelli, lo Stato si serve della religione per governarecon più forza. La religione — dice il Machiavelli — è«cosa al tutto necessaria a voler mantenereuna civiltà»[79]. E aggiunge ancora «come laosservanza del culto divino è cagione della grandezzadelle repubbliche, così il dispregio di quella ècagione della rovina di esse. Perchè, dove manca iltimore di Dio, conviene che o quel regno rovini, oche sia sostenuto dal timore del Principe che suppliscaai difetti della religione»[80]. E si duole, luiMachiavelli in odor di ateismo e a cui doveva toccarpiù tardi di esser arso in effige sulle piazze, chel’Italia rovini, perchè la religione è soffocata dallaChiesa. «La quale religione, se nei principî della repubblicacristiana si fosse mantenuta, secondo chedal datore di essa ne fu ordinata, sarebbero gli statie le repubbliche cristiane più unite, e più felici assaiche elle non sono. Nè si può fare altra maggiorecongettura della declinazione di essa, quanto è vederecome quelli popoli che sono più propinqui allaChiesa Romana, capo della religione nostra, hannomeno religione. E chi considerasse i fondamentisuoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso daquelli, giudicherebbe esser propinquo, senza dubbio,o la rovina, o il flagello»[81].

[95]

III.LO STATO SUPERIORE ALLA MORALE.

Lo Stato dunque ha una base razionale e sfruttarazionalmente, il misticismo per dominare. Ma daquesto concetto puramente umano del governo, ilMachiavelli giunge ad una conclusione che in Livionon c’era neppure come germe, alla conclusione chetutto è lecito pel bene dello Stato, perchè non c’ènessuna legge al disopra di lui, tanto che il suo interessestesso diventa la legge.

Il celebre Valentino, divenuto come un simbolo, èper il Machiavelli il modello di Principe che bisognaimitare. «Chi giudica necessario nel suo Principatonuovo assicurarsi degli inimici, guadagnarsiamici, vincere o per forza o per fraude»[82] facciacome il Borgia. Non bisogna dimenticare che gli uominie le cose sono come sono e non come dovrebberoessere: gli uomini malvagi e sciocchi, le cosedifficili. «M’è parso più conveniente andar dietroalla verità effettuale della cosa che all’immaginazione[96]di essa; e molti si sono immaginati repubbliche eprincipati che non si sono mai visti e conosciuti esserein vero, perchè egli è tanto discosto da comesi vive a come si doverria vivere, che colui che lasciaquello che si fa per quello che si doverria fare,impara piuttosto la rovina che la preservazione sua,perchè un uomo che voglia fare in tutte le partiprofessione di buono, conviene che rovini in fratanti che non sono buoni. Onde è necessario ad unprincipe, volendosi mantenere, imparare a poter esserenon buono ed usarlo secondo la necessità»[83].La morale si biforca di nuovo come negli antichi: lacivile è altra dalla personale. Se il principe ha deivizi privati, pazienza. Fuggire assolutamente deve«l’infamia di quelli vizi che gli torrebbono lo Stato»[84];e con questo ha la coscienza tranquilla. Egliè costretto a fare ciò che la politica comanda: «nonpartirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nelmale, necessitato»[85]. Perchè «nelle azioni di tuttigli uomini e massime de’ Principi, dove non è giudizioa chi reclamare, si guarda al fine... I mezzi sarannosempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati»[86].

La famosa frase è detta; ma una resipiscenza stranafa esitare per un attimo l’ardito scrittore. A propositodi Agatocle siracusano, giunto al principato[97]della sua città per mezzo di inaudite efferatezze edi ignobili tradimenti, il Machiavelli scrive: «Nonsi può chiamare ancora virtù ammazzare li suoicittadini, tradir li amici, essere senza fede, senzapietà, senza religione; li quali modi possono fareacquistare imperio, ma non gloria. Perchè se si considerassela virtù di Agatocle nell’entrare e nell’usciredei pericoli e la grandezza dell’animo suo nel superaree sopportare le cose avverse, non si vede perchèegli abbia a esser tenuto inferiore a qualsiasieccellentissimo capitano. Nondimanco la sua efferatacrudeltà ed inumanità, con infinite scelleratezze,non consentono che sia tra li eccellentissimi uominicelebrato»[87].

Il fine non giustifica dunque tutti i mezzi?

Che vuol dire questa improvvisa limitazione?

Fu probabilmente un grido strappato alla coscienzamorale del Machiavelli, subito zittito dalla suainfatuazione politica. Infatti, poco dopo, cercò questilimiti pretesi dalla sua morale. Ma chi scendeun pendio così scosceso non si può fermare. Non trovandoi limiti nella morale, si rivolse alla vita pratica,come se questa potesse offrire una misura dise stessa. E s’accorse che le crudeltà si dividono indue categorie: le crudeltà bene usate e le crudeltàmale usate. «Bene usate si possono chiamare quelle(se del male è lecito dir bene) che si fanno unasol volta per necessità dell’assicurarsi e di poi non[98]vi si insiste dentro, ma si convertiscono in più utilitàdei sudditi che si può; le male usate sono quelle,quali, ancora che da principio siano poche, cresconopiuttosto col tempo che le si spenghino»[88]cosicchè, l’occupatore di uno Stato «deve discorreree far tutte le crudeltà in un tratto per nonavere a ritornarvi ogni dì»[89].

Per dirla più chiaramente: ben usate sono le crudeltàche riescono, mal usate quelle che esasperanosenza risultati.

Quale è, dunque, in politica, il criterio del bene edel male? L’abilità e il successo. Ci pare che la famosafrase «il fine giustifica i mezzi», con cui siesprime la politica machiavellica, possa essere sostituitada quest’altra «il successo giustifica i mezzi».Chi vince ha ragione. Questo hegelianismo precocegiustifica tutte le frodi. «Non può, pertanto, un signorprudente nè debbe osservar la fede quando taleosservanza gli torni contro, e che sono spente le cagioniche lo feciono promettere»[90]. Finchè haforza sforzi. «È cosa veramente molto naturale eordinaria desiderare di acquistare, e sempre quandogli uomini lo fanno che possino, ne saranno laudatie non biasimati, ma quando non possono e voglionofarlo in ogni modo, qui è il biasimo e l’errore»[91].

Nè si creda che questi consigli siano dati soltantoal Principe il quale, perchè si è impadronito[99]dello Stato colla violenza, non può rispettare nessunlimite al di fuori della forza propria ed altrui. Ladottrina del Machiavelli è applicata ad ogni governosenza distinzioni, anche alle repubbliche, se purein misura minore. Tutte queste massime offerte allameditazione dei principi, le ritroviamo nei discorsistessi per illuminare coloro che vogliono fondare odebbono governare delle repubbliche.

IDiscorsi cominciano con questo consiglio, a propositodei luoghi più adatti per fondare una città.«Non potendo gli uomini assicurarsi se non con lapotenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese,e porsi in luoghi fertilissimi, dove potendo perla ubertà del sito ampliare, possa difendersi da chil’assaltasse, e sopprimere qualunque alla grandezzasua si opponesse»[92].

Questo, rispetto agli Stati stranieri, non vuol forsedire: ciascuno fa quello che vuole ed il più forte distruggeil più debole?

La politica interna è retta dagli stessi principî. IlMachiavelli osserva, per esempio: «A coloro che inuna città sono preposti per guardia della sua libertà,non si può dare autorità più utile e necessariaquanto è quella di poter accusare i cittadini al popolo,o a qualunque magistrato o consiglio, quandoche peccassino in alcuna cosa contro allo stato libero»[93].Questa abitudine è utile specialmenteperchè così «si dà via onde sfogare a quelli umori[100]che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, controqualunque cittadino; e quando questi umori nonhanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a modistraordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica»[94].

Qualche volta le accuse sono false, ma non importa,«perchèse ordinariamente un cittadino è oppresso,ancora che gli fosse fatto torto, ne seguita opoco o nessuno disordine in la repubblica».

Così, è giustificato Romolo del suo fratricidio, perchè«uno prudente ordinatore di una repubblica...debbe ingegnarsi d’avere l’autorità solo, nè mai unoingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azioneistraordinaria, che per ordinare un regno o costituireuna repubblica usasse»[95].

Il diritto della forza illegale è riconosciuto persinoai cittadini privati, ma quando, per essere a capodi un esercito, appaiono come dei piccoli sovrani.

Il capitano che torna vittorioso da una guerra — lagran preoccupazione del Rinascimento — ha solodue cose saggie da fare: «O subito dopo la vittorialasci lo esercito e rimettasi nelle mani del suo Principe,guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso»per non insospettire il suo signore, «o, quandoquesto non gli paia di fare, prenda animosamentela parte contraria, e tenga tutti quelli modiper li quali creda che quello acquisto sia suo proprioe non del Principe suo, facendosi benevoli i[101]soldati ed i sudditi; e faccia nuova amicizia coi vicini,occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompai Principi del suo esercito e di quelli che non puòcorrompere si assicuri,e per questi modi cerchi dipunire il suo signore di quella ingratitudine che essogli userebbe»[96].

[103]

IV.LO STATO-DIO IN LIVIO E NEL MACHIAVELLI.

Quella che balza fuori ad un tratto nell’opera delMachiavelli dallo studio degli storici antichi e massimedi Tito Livio è dunque la dottrina dello Stato-Dio,la cui prosperità e potenza è lo scopo supremoal quale ogni altro interesse, anche la religione, èsubordinato. Che Livio sia stato il grande ispiratoredi questa dottrina, non è meraviglia. I suoi annalisono una divinizzazione di Roma come Stato e comeRepubblica, sono la storia di un popolo, arrivato aduna potenza quasi sovrumana, servendo lo Stato comeuna divinità, immolando ogni altro bene, o dirittoe aspirazione al suo bene. In tutto il passato,che egli era in grado di conoscere, il Machiavellinon poteva trovare un modello più alto, più completo,più grandioso di Stato, che trova in sè stessoil suo scopo e la sua perfezione. Ed il modello gliparve così sublime che egli volle centuplicarlo in unnumero infinito di imitazioni spicciole.

Se in Livio questa subordinazione universale allo[104]Stato-Dio poteva essere giustificata dalla grandezzastraordinaria di Roma e dal meraviglioso destinoche l’aspettava, il Machiavelli ne fa la legge di tuttigli stati, grandi e piccoli, gloriosi ed oscuri. Ogni repubblichettaed ogni principato doveva tentare diessere, quanto poteva, una piccola Roma, innamoratasolo di se stessa ed aspirante alla propria divinizzazionese non in cospetto dell’universo e dei posteri,almeno nella piccola cerchia in cui doveva viveree operare.

Senonchè, così facendo, il Machiavelli percorrevacon un balzo formidabile quella che doveva esserela lenta evoluzione di tre secoli; e trascinava nel suobalzo anche Livio.

Senza dubbio, la concezione medioevale dello Statoe della storia che aveva avuto in S. Agostino ilsuo grande filosofo e che poneva in Dio il terminedella perfezione dei singoli uomini come degli Stati,era al principio del secolo XVI molto indebolita. Seno, il Machiavelli sarebbe finito sul rogo.

A poco a poco i tempi si incamminavano di nuovoverso la concezione pagana dello Stato-Dio. Malentamente e non con la furia del Machiavelli, perchèle dottrine e le istituzioni medioevali, per quantoindebolite, erano abbastanza forti da resistere ancoraai più violenti attacchi dottrinali dei dialetticirazionalisti.

D’altra parte, Tito Livio era lo storico della Repubblica;e con il Cinquecento incomincia dappertutto,ma in Italia particolarmente, la decadenza delle[105]repubbliche. Molte repubbliche cadono, e con essasi affievolisce anche l’ammirazione per lo storico delleDeche, il quale ebbe nel Nardi — un antico ammiratoree discepolo del Savonarola, ritirato a Venezia — l’ultimotraduttore.

A poco a poco Livio è considerato come un gonfioe retorico panegirista di una Repubblica immaginaria,scrittore pregevole per lo stile, ma di pocomerito per la sostanza.

[107]

V.LA REAZIONE CONTRO LIVIOE CONTRO IL MACHIAVELLI.

Per queste ragioni una reazione non tardò a scoppiarecontro il Machiavelli e contro Livio: una reazionea cui fu maestro e guida l’altro grande storicolatino, Tacito, che da lui prese il nome di «tacitismo»e che fu uno dei movimenti intellettuali piùimportanti del secolo XVII[97].

Il Tacitismo fu l’infatuazione e la giustificazioneclassica della monarchia, che si veniva consolidandoe rafforzando in Europa, a partire dal secolo XVI.A mano a mano che il medio evo tramonta, ognipensiero, ogni teoria, ogni azione politica dovevaessere legittimata dal consenso di uno scrittore classico.La monarchia non sfuggì a questo destino; volleavere anch’essa il suo maestro, tra i grandi dellaantichità, e scelse Tacito. Un’apparente somiglianzadei tempi fu la ragione di questa scelta. Non aveva[108]Tacito raccontato i primi travagli della monarchiaRomana alle prese con le tradizioni secolari dellarepubblica aristocratica? Le monarchie, che nel secoloXVI e XVII, lottavano contro i residui delle tradizioniteocratiche, repubblicane e feudali del medioevo, credettero di ritrovarsi in quella storia, sebbenemolte somiglianze fossero più apparenti chevere, e frequenti fossero le cose inconciliabili.

Nel 1542 Emilio Ferretti, dedicando un suo commentodi Tacito ad un uomo di Stato, perchè ci trovassenorme di governo, scriveva: «Poterit Corneliilectio nonnihil in isto concusso orbis motu, simillinoeorum temporum, quae ab illo describuntur, adjuvareconsilia tua».

E il Mureto — un altro grande umanista del Cinquecento — osserva:«Primum igitur considerandumest, republicas hodie perquam paucas esse, nullamesse promemodum gentem, quae non ab unius nutuatque arbitrio pendeat, uni pareat, ab uno regatur».

Anzi, il Mureto ammira tanto la politica di Tacitoche non sente più neppure la differenza di moltiumanisti per lo stile tacitiano, ed afferma che ancheTacito scrive bene.

Nella seconda metà del ’500 e prima del ’600 letraduzioni ed i commenti di Tacito si moltiplicano,e vengon raccolte, con cura religiosa, le massimesparse nei suoi libri. Si scrivono ad uso dei prìncipidei «Taciti, con riflessioni politiche e storiche»cioè paralleli coi tempi moderni, consigli politici, vagabondaggistorici. Non solo in Italia, ma in Francia,[109]in Germania, in Olanda, i Tacitisti dilagano, sidividono in tendenze contrarie, distinguono, reagisconomagari, ma Tacito è sempre in bocca a tutti,e molti affermano che è il solo autore grande dellaantichità.

Così, per esempio, il marchese Virgilio Malvezzidice che Tacito può essere molto utile in un’epocadi governi principeschi, come si studiava Tito Livio,quando c’erano le repubbliche. E Raffaele DallaTorre, nel primo capitolo dell’Astrolabio di Stato,polemizza in un dialogo contro Famiano Strada, ilquale affermava col suo traduttore, C. Papini, cheTacito attacca le frange al racconto, e si basa sul verosimilema non sul vero, ha uno stile duro, rotto,troppo pieno di sentenze e di massime. Scipione Ammiratoscrive i famosi «Discorsi sopra Tacito» checorrono il mondo, citati ovunque come un testo fondamentale.In Francia anche il Bodin scende in campoper difendere lo stile di Tacito. «Quis enim nonvidet dictio Taciti quam sit elegans, quam tersa et limata?».Giusto Lipsio scrive in vece che Tacitopotrebbe gareggiare con tutti gli scrittori dell’antichità,se il suo latino fosse puro come quello di Livioe di Sallustio; ma poi si converte. E se in mezzo allafolla innumerevole degli entusiasti, tra cui non bisognadimenticare Amelot de la Houssaye, c’è il piccologruppo di dissidenti, come il Boccalini, con cheardore sorgono a difendere lo scrittore antico i suoimolto più numerosi ammiratori! Teodoro Ryckdefinisce «sogni e chimere politiche» i giudizi su[110]Tacito del collega italiano. Il Rapin raccomanda achi vuole fare lo storico «qu’il ne suppose point defaussetés pour justifier ses conjectures, et pour fairequadrer les choses au tour qu’il leur donne, commeTacite qui jette du poison partout ou comme Paterculusqui repande des fleurs sur tout».

[111]

VI.IL TACITISMO E LA RAGION DI STATO.

Ma quale è la ragione profonda di questa ammirazionedi Tacito, che è più forte anche dei pregiudiziletterari e stilistici a lui spesso avversi? Essa devecercarsi in una specie di falsificazione di Tacito, percui l’opera sua ha servito a dare la conferma e giustificazioneclassica della dottrina politica della Ragiondi Stato, creata dalla monarchia e dalla Chiesa perattenuare la dottrina machiavellica dello Stato-Dio.Secondo questa teoria lo Stato non è unaistituzioneassolutamente umana e razionale, come volevano gliammaestramenti del Machiavelli, ma èanche una istituzioneumana, ha cioè dei fondamenti — non tutti — negliinteressi e nei vizi degli uomini, e pure dovendol’ossequio alla superiore autorità della religione,in certi casi precisi e delimitati che si fissanosull’autorità degli antichi scrittori e specialmente diTacito, ha diritto di violare la legge morale per ilbene pubblico. Questa è la Ragione di Stato.

Tale dottrina cerca, attenuandolo, di conciliare il[112]Machiavelli e tutti gli interessi, le ambizioni e le passioniche spingevano l’Europa verso lo stato razionaleed umano, con le istituzioni e le tradizioni delMedio Evo, che lo volevano strumento d’un idealereligioso. Essendo un’attenuazione del Machiavelli,deriva da lui e gli somiglia, nel tempo stesso che gliè avversa. Accade spesso di trovare nei tacitisti dellefrasi che sono puro Machiavelli. Questa, per esempio,del Lipsio[98]: «Si urbe aut provincia statui meo peropportuna, quam nisi occupo alius faciet cum aeternomeu metu aut damno: non praeveniam? Illi volunt,quibus haec talia semper licita et proba, si cumsuccessu». Gli uomini sono cattivi e pazzi, diceva ilMachiavelli. Per governarli non basta essere leone,bisogna anche essere volpe. E il Lipsio «interquosenim vivimus? nempe argutos, malos: et quiex fraude,fallaciis, mendaciis constare toti videntur (Cic.pro Rosc. Com.). Ipsi Principes, cum quibus nobisres, plerique in hac classe: et quidquid leonem praeferant;«Astutam vapido servant sub pectore vulpem»(Persius Sat.)... «Per frauden et dolum regnaevertuntur notat philosophus (Arist. V. Pol): Tu servariper eadem nefas esse vis? Nec posse Principeminterdum.

«Cum vulpe iunctum pariter vulpinarier»?[99].

E un po’ più in là nel capitolo «Quo modo et quatemusFraudes admittendae» dà una definizione dellaragion di Stato che parrebbe estratta dal Principe.[113]«Fraus universe mihi est, argutum consilium a virtuteaut legibus devium, regis regnique bono»[100].

Eppure, mentre si scrivevano questi pensieri, ilMachiavelli era bruciato in effige, messo all’indice,condannato alla riprovazione universale, esiliato daqualsiasi libro come autore, che si potesse citare. Itacitiani raramente lo nominano, anche quando loconfutano, designandolo con prudenti allusioni. Ipocrisia?Ingiustizia? Si bruciava l’opera di un uomoriprendendone sotto mano le teorie? No. La dottrinadella Ragione di Stato alla quale Tacito dovevaconferire l’autorità degli esempi antichi è elaboratanel cinque e nel seicento sotto l’occhio della Chiesa,ma pure avendo affinità con la dottrina machiavellicadello Stato-Dio, ne differisce sopratutto perchè tentadi risolvere la questione capitale dei limiti, entro cuiè lecito allo Stato violare la legge morale per il benepubblico.

Leggiamo, ad esempio, la pagina in cui Lipsio trattadella frode per ragione di Stato. Egli scrive: «eatriplex; Levis, media, magna. Illam appello quaehaut longe a virtute abit malitiae rore leviter aspersa.In quo genere mihi est Diffidentia et Dissimulatio.

«Mediam quae ab eadem virtute flecit longius etad vitii confinia venit. In qua pono Conciliationemet Deceptionem.

«Tertiam, quae non a virtute solum sed legibusetiam recedit, malitiae jam robustae et perfectae,[114]uti sunt Perfidia et Iniustitia. Illam suadeo, hanc tolero,istam damno»[101].

Quel grido che era sfuggito un momento alla coscienzadel Machiavelli a proposito di Agatocle eche, poi, l’autore stesso aveva rinnegato, quel bisognodi un limite al di fuori del puro interesse che il Machiavelliaveva saputo trovare soltanto nel successo,è qui chiaramente sebbene forse un po’ sommariamenteinciso. Lo Stato ha certe libertà, ma non tutte.

Posto così il problema, si capisce che, in autoripiù profondi del Lipsio, il Machiavelli, le sue dottrine,i tempi in cui aveva vissuto e che le avevano ispirate,apparissero come nefasti e quasi diabolici.

L’Italia era allora travagliata da un’anarchia diprincipi e da quell’esautoramento dei governi, percui s’era incrostata sulla Penisola una muffa di tirannelliprivi di scrupoli, che applicavano fino in fondola teoria dell’Interesse proprio, senza che un limitemorale o un interesse comune frenasse quel reciprocoe continuo distruggersi. Siccome nessun principiodi autorità li faceva legittimi, il Machiavelli osservava:i popoli sono cattivi, i principi birbanti; chinon bada come può a salvare la roba e la pelle,gli prendono la prima e gli fanno la seconda; se nonl’ammazzo io, mi ammazza lui. È quindi consigliabiledi cominciare per il primo. E diceva: «Un Principe,e massime un Principe nuovo, non può osservare tuttequelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti[115]buoni, essendo spesso necessitato per mantenere loStato operare contro alla fede, contro alla carità, controalla umanità, contro alla religione»; e dicevapure: «A un Principe non è necessario avere tuttele soprascritte qualità, ma è ben necessario parered’averle... Deve, adunque, avere un Principe grandecura, che non gli esca mai di bocca una cosa che nonsia piena delle soprascritte cinque qualità e paia, avederlo ed udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità,tutto umanità, tutto religione»[102].

Cosicchè l’interesse dello Stato, di cui era giudiceil governo che lo rappresentava, finiva per giustificareogni abuso.

La dottrina della Ragion di Stato, che si forma nelcinquecento e nel seicento, è — come dice uno deisuoi maestri — il Botero «notizia di mezzi atti a fondare,conservare, ampliare un dominio così fatto».Ma col Botero stesso, col Possevino, col Ribadeneira,la Controriforma affermava altresì che la Ragiondi Stato è necessaria e utile solo quando è legittimatadalla Chiesa. Concessa a qualsiasi governo,in nome d’interessi particolari, senza la Chiesa, laRagion di Stato è un principio pericolosissimo. Conquesta limitazione essa diviene privilegio di pochiregnanti legittimi, e non di tutti i governi per contrariinteressi; cosicchè è sottomessa a un principioal di sopra e al di fuori dell’interesse immediato eindividuale; e gli Stati sono in certo modo regolati[116]nelle loro opere da una legge comune, di cui la Chiesaè depositaria, e non più soltanto dal proprio comodo.Insomma, la Ragion di Stato, pur allargandola sfera in cui l’interesse dello Stato può operare,vuol sempre circoscriverla con precetti e regole dinatura morale e di carattere religioso. Con questadottrina la monarchia assoluta cercava di mettered’accordo le necessità del suo sviluppo, con le tradizionireligiose e morali ancora forti nella società delsedicesimo e diciannovesimo secolo. Ma come e perchèessa ha ricorso, per essere aiutata in questa opera,tra gli scrittori antichi, sopratutto a Tacito?

[117]

VII.IL TACITISMOE LA FALSIFICAZIONE DI TACITO.

Noi abbiamo visto come Tacito reagisca, nella storiografiaromana, per primo contro quella concezioneantica che fa dell’individuo uno strumento delloStato, a cui deve sacrificarsi; e per primo cerchinella storia non gli stati o i popoli, ma gli uomini;e si sforzi di studiare psicologicamente l’anima deisuoi personaggi. L’uomo coi suoi vizi e con le suevirtù, studiati e giudicati quando nascono dentro ilsuo cuore, quando si manifestano nei penetrali dellasua casa o dinanzi alle folle, verso la schiava o versoil senato, in ogni attimo di vita, questo è il suo protagonista.

La sua storia è un drammatico intreccio e un cozzodi uomini ben diversificati e violentemente distinti.Lo Stato è per lui uno di questi uomini, che il casoha posto sul trono: non più. I suoi meriti o le suecolpe verso il servo hanno per Tacito lo stesso valoreche i suoi meriti o le sue colpe verso lo Stato. In lui,[118]come si disse, splende già quell’individualismo cristiano,che volle giudicare l’uomo in quanto è uomoe non in quanto è parte dello Stato, e reagì contro latradizione latina che sacrificava i romani a Roma.

Fra tutti gli scrittori antichi, Tacito appare comeil meno atto a giustificare una dottrina come quelladella ragion di Stato, che, sia pure entro limiti precisi,sacrifica pur sempre l’individuo allo Stato e giustificala violazione della morale per ragioni di pubblicointeresse. Tacito è uno storico moralista, cheperseguita e denuncia i delitti e i vizi dei grandi,senza ammettere mai, senza neppur supporre che sipossa ammettere l’interesse pubblico come scusa ogiustificazione. Per fondare su solenni esempi antichiuna dottrina della Ragion di Stato, lo storico chepoteva e doveva servire era proprio Tito Livio. E infattiil Machiavelli, pensatore profondo, aveva fattotesto di Livio più che di Tacito, benchè molti sostenganoil contrario, per creare quella sua dottrina delloStato-Dio, che era un po’ l’estrema esagerazione anticipatadella Ragione di Stato. Come si spiega alloraquesto scambio singolare?

Tito Livio era troppo repubblicano per servir dimaestro ai sovrani ed ai ministri, in un’età dominatadall’istituto monarchico. Tacito aveva il vantaggio diessere lo storico di Roma in cui più che negli altri ipersonaggi rassomigliavano ai sovrani e ministri secenteschidelle Corti europee. La somiglianza eramolto vaga, perchè la casa di Tiberio e di Claudionon aveva niente a che fare con una corte; ma era[119]tuttavia sempre maggiore di quella che poteva correretra l’Europa del secolo XVII e la Roma dellaseconda guerra punica.

Nel «Discours critique» che precede la traduzionedi Tacito fatta da Amelot de la Houssaye, èriassunto il commento di Filippo Cavriana «Sopra icinque libri di Cornelio Tacito». È citato tra l’altro,questo passo: «Comme Tacite découvre tout ce queles Princes de son temps faisoient, les vertus et lesvices de nos princes donnent réciproquement l’intelligencede tout ce que dit Tacite, de sorte que lesmêmes endroits que l’on trouve obscurs la premièrefois, sont bien entendus la seconde ou la troisième.Au reste les gens qui auront fréquenté la cour, ou lesarmées, pourront expliquer fidelement cet auteursans le secour d’aucun interprète»[103].

Tacito è dunque una specie di guida delle corti,l’autore che si può intendere solo praticandole quotidianamente.Diventato l’autore familiare dei sovranie dei cortigiani, Tacito è stato mutato in un grandemaestro della Ragion di Stato, grazie a una persistentefalsificazione, per cui le acerbe sentenze chein Tacito flagellano il vizio, sono interpretate e commentatecome consigli di un’arcana e profonda saggezza,indicando al sovrano il termine a cui la Ragionedi Stato può condurlo.

Approfittando della serietà e della compostezzache Tacito conserva anche nei momenti in cui si sdegna,[120]non avvertendo o fingendo di non avvertire lacorrodente ironia che talvolta brucia più di un’invettiva — l’ironiasi può anche prendere sul serio — ilseicento interpretò con una esegesi paziente queipassi in cui il corruccio di Tacito, per rivoltare i posterie spargere sui suoi personaggi la cenere dell’infamia,aveva condensato amare, torbide e cieche accuse,come aforismi e precetti un po’ arcani dellaoscura dottrina della Ragion di Stato.

L’esempio più singolare e istruttivo di questa falsificazionesistematica è la metamorfosi che il Tiberiodi Tacito subisce nella mente dei suoi maggioriammiratori del cinque e seicento. Tacito vede in Tiberiouna specie di mostro, di cui egli vuol dipingerel’aspetto fosco, perchè la posterità ne provi orrore elo odî in eterno. Il suo ritratto arcigno e irreale comeun simbolo del male e della perfidia, può star piuttostonel catalogo delle creazioni romantiche che nellalista dei personaggi storici, vissuti per davvero. Adogni modo la pittura, che gli attribuisce delitti e vizîimmaginari, se è falsa, è potente, e i tacitisti del cinquecentoe del seicento trovando, nel loro autore,un principe in cui la dissimulazione, la segretezza, laperfidia, l’ipocrisia, la decisione, si uniscono in unasola fusione; un Principe, che si impadronisce conl’astuzia del governo e fonda una dinastia, cominciandola sua carriera con un fratricidio e due avvelenamenti;un principe che sacrifica il nemicoalla propria vendetta, il potente alla propria diffidenza,il sicario alla propria prudenza; un Principe[121]insomma che essi, se avessero letto Tacito comeera, avrebbero dovuto tenere per uno dei peggioriuomini, che mai abbiano tormentato i loro simili,invece di inorridire se ne rallegrano e lo adottanoappunto come un modello, un maestro diquella oscura Ragion di Stato, che preoccupavatutte le menti. A leggere Tacito gli uomini deltardo Rinascimento hanno gridato: Ma questo è ilValentino, è lo Sforza, è uno dei nostri contemporaneicondottieri! Tiberio ha ucciso il cognato venendoal potere? Non poteva fare altrimenti! Tacitosa benissimo che i principi nuovi si imbattonosempre in difficoltà: Ragion di Stato. Ha ucciso Germanico?Tacito non ignorava il pericolo di un generalevittorioso e popolare: Ragion di Stato. Ha lasciatoperir Pisone? Tutti sanno che un sicario, senon si elimina presto e segretamente, può essere fontedi gravi impicci: Ragion di Stato. E così mentreTacito infama Tiberio per delitti che non ha maicommessi, trasformando persino in avvelenamenti lemorti naturali, per quelli stessi delitti immaginarigli ammiratori di Tacito ne fanno un modello di saggezza!

Perchè, infatti, nessuno leggeva Svetonio, che erapure storico dell’Impero? Il Mureto lo spiega concirconlocuzioni complicate, sostenendo che Tacito,aveva sì, messo a nudo le cattive azioni dei principi,ma aveva coscienza della loro necessità politica, mentreSvetonio, limitandosi a raccontare aneddoti unpo’ canzonatori, che non sopportavano trasfigurazioni,[122]dissolveva, col suo indifferente chiacchiericcio, ilmito imperiale più che con delle imprecazioni e delleinvettive. Ma i tacitisti, che non volevano la dissoluzionema il rinsaldamento dell’Impero si rivolseroall’altro storico, abusando del suo stile un po’ misterioso,per inventare il Tacito campione della Ragiondi Stato.

[123]

VIII.QUEL CHE NOI DOBBIAMOAGLI STORICI ANTICHI.

Tanto Livio che Tacito furono dunque interpretatipiuttosto bizzarramente dall’umanesimo. Ma, siapure attraverso alterazioni, hanno aiutato il pensieroeuropeo a ritrovare il concetto dello Stato umano,che ha una vita e un fine suo, in opposizione all’ideadello Stato teologico, servo di Dio, strumento di unprincipio religioso, che dominò nel medio evo.

Questo concetto dello Stato umano, affermato conanticipazione profeticamente brutale da Machiavelliche si serve di Livio come maestro, è ripreso e adottatoper mezzo di grandi limitazioni e tagli e rattoppie attenuazioni, nel seicento, sotto l’influenza diTacito con la teoria della Ragion di Stato, finchè siinserisce definitivamente nello sviluppo storico dellanostra civiltà. Una volta innestato questo principiosi allargò e fiorì sempre più nel seicento e nelsettecento, prima sottomesso al principio teologicoche era padrone da tanti secoli, poi a poco a pocoalzando la testa, e assumendo maggior importanza, efinalmente, con la Rivoluzione Francese, soverchiandoil principio teologico. La Rivoluzione Francese el’Impero, che amavano le grandi apoteosi, rinnovarono[124]l’antica venerazione per l’affrescatore delle primeglorie di Roma. E le trombe romane squillaronoancora dinnanzi al mondo, per celebrare il trionfodello Stato degli uomini!

Senonchè dallo Stato umano, che vinse lo Statoteologico tra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento,sta svolgendosi ora lo Stato satanico; loStato nemico di Dio e degli uomini, della giustiziae dell’onore, della pace e dell’ordine, della verità edella legalità; lo Stato criminale, predatore, sanguinario,corruttore, neroniano, cinico, sofista — esfrontatamente vano della propria ribalderia, comedi una forza gloriosa. Il melanconico e solitario filosofodell’Albergaccio l’aveva intravisto, in quella suasmania di «andar dietro alla verità effettuale dellacosa»; era stato lì per lì tra abbagliato e inorridito;l’aveva guardato, aveva chiuso gli occhi, aveva guardatodi nuovo. La perversione dei tempi magnificaoggi questa sua, tra inorridita e ammirante, intuizionedello Stato satanico, come una mirabile anticipazionedi un genio profetico: oltraggio indegno allatormentata e nobile figura di quel grande ma ingenuopensatore che, disgustato dai suoi tempi, in qualchemomento di esasperazione, aveva dimenticatoquesto principio elementare di ogni consenso civile:che più forte è la tentazione e maggiore la facilitàdi violare una legge morale, più risolutamente è necessarioaffermare e sostenere l’obbligo universale diosservarla: se no «la verità effettuale della cosa» diventail vestibolo della più selvaggia anarchia.

[125]

APPENDICE

[127]

I.CHE COS’È LA STORIA?

1.

Dopo aver visto come i Romani scrivevano la storia,e con quali occhi e con quale animo i secoli hannoletto le loro storie, scampate al diluvio barbarico,non sarà senza interesse studiare come si intendala storia da certe chiesuole intellettuali moderne, acui non spiacerebbe di potersi vantare maestre di unanuova arte, in confronto al passato. Un’occhiata alla«Teoria e storia della Storiografia» di B. Croce basteràper mostrarci i bei progressi che quest’arte,così cara agli antichi, ha fatto nei secoli del vaporee dell’elettrico!

2.

«Ogni vera storia è storia contemporanea»: conquesto paradosso il Croce apre la sua trattazione. Elo giustifica, argomentando lungamente. «Anche lastoria già formata, — egli scrive — che si dice o sivorrebbe dire storia non contemporanea o passata,[128]se è davvero storia, se cioè ha un senso e non suonacome discorso vuoto, è contemporanea e non differiscepunto dall’altra (la contemporanea). Come dell’altra,condizione di essa è che il fatto del quale sitesse la storia vibri nell’animo dello storico o (peradoperar una parola d’uso nel mestiere storico) sene abbiano dinnanzi, intelligibili, i documenti... E sela storia contemporanea balza direttamente dalla vita,anche direttamente dalla vita sorge quella che sivuol chiamare non contemporanea, perchè è evidenteche solo un interesse della vita presente ci può muoverea indagare un fatto passato» (pag. 4).

Il pensiero è abbastanza chiaro, anche se espressoin forma involuta e imprecisa. Non basta narrare unfatto per dirsi storici; bisogna farlo presente, comese noi ne fossimo spettatori ed attori; se no si ha«vuota narrazione... e perciò priva di verità» (pagina9). «La storia è un presente; la storia, resavuota narrazione, è un passato» (pag. 9).

Ciò detto il Croce procede a distinguere, come giàaveva fatto Cicerone, la cronaca dalla storia. Ma nonoppone l’annalistica alla storia oratoria, venuta dallaGrecia. I moderni son persuasi che anche in questoordine di scritture ne sanno più degli antichi.«La storia — egli scrive — è la storia viva, la cronacala storia morta; la storia, la storia contemporanea,la cronaca, la storia passata» (pag. 10). Indiscopre che le fonti da cui scaturisce la conoscenzastorica sono due: la vita e il pensiero che la risuscitae la eterna. «Il documento e la critica, la vita e il[129]pensiero sono le vere fonti della storia, cioè i dueelementi della sintesi storica...» (pag. 14).

Accettiamo ad occhi chiusi queste dottrine, seguiamodocilmente il suo autore, e vediamo dove si va afinire. Dopo aver definito quale è la natura e qualisono gli elementi o le fonti della storia, il Croce procedea distinguere da questa che è la vera storia, lestorie spurie o «pseudo-storie», come egli le chiama,alla greca. Tra queste pseudo-storie egli annovera lastoria poetica, che definisce così:

«Esempi di tale storia forniscono in copia le biografieaffettuose che si tessono di persone care e venerate;le storie patriottiche... la storia universale,rischiarata dagli ideali dell’idealismo e dell’umanitarismo,e quella narrata da un socialista che ritraggale gesta... del capitalista o l’altra di un antisemita,che mostri dappertutto, nelle sventure o bruttureumane, il giudeo... Nè la storia poetica si esauriscein coteste tonalità fondamentali e generiche dell’amoree dell’odio (dell’odio che è amore e dell’amoreche è odio!) ma passa tra tutte le più intricate formee le più fini gradazioni del sentimento; e così si ottengonostorie poetiche, che sono amorose, malinconiche,nostalgiche, pessimistiche, rassegnate, fidenti,allegre, e quante altre si possano immaginare. Erodotocanta le romanze (!) dell’invidia degli Dei, Liviol’epos della romana virtù; Tacito compone tragediedell’orrendo, drammi elisabettiani in scultoriaprosa latina; e per venire ai moderni e modernissimiDroysen dà forma alla sua aspirazione lirica verso lo[130]Stato forte e accentratore col narrare la storia dellaMacedonia, della Prussia e dell’Ellade; e Grote aquella verso gli statuti della democrazia simboleggiatain Atene; e Mommsen all’altra verso l’impero, simboleggiatain Cesare; e Balbo effonde il suo ardoreper l’indipendenza italiana, adoperando a tal finetutti i ricordi delle pugne italiche, a cominciare nientemenoda quelle degli Itali e Etruschi contro i Pelasgi;e Thierry celebra la borghesia raccontando lastoria del terzo stato» (pagg. 26 e 27).

Che Erodoto, Tito Livio, Tacito, Droysen, Grote,Mommsen, Balbo e Thierry non sieno storici ma falsistorici e poeti, è notizia che giungerà alquanto inaspettataa molti lettori. Se questi otto valentuomini,i quali pure godono di una certa rinomanza nel greggedi Clio, sono dei falsi storici, vorrebbe il Crocedirci il nome e cognome di uno storico vero? Ma lasorpresa cresce quando il Croce cerca di distinguerela storia falsa dalla vera, o, come egli dice, la storiapoetica dalla storiografia. La storia poetica si esplicherebbe«nel surrogare al mancante interesse delpensiero l’interesse del sentimento» (pag. 26); mentreinvece «il valore che regge la storiografia è ilvalore del pensiero. Ma appunto per questa ragioneil principio determinante di essa non può essere ilvalore che si chiama di sentimento e che è vita e nonpensiero; e quando questa vita si esprime e rappresentanon ancora domata dal pensiero, è poesia e nonstoria» (pag. 27).

Il principio, o la fonte, della storiografia o vera[131]storia sarebbe dunque il pensiero e non la vita, laquale è invece il principio della poesia. Ma a carte 14il Croce aveva detto proprio l’opposto. Ricordate?«Il documento e la critica, la vita e il pensiero sonole vere fonti della storia». La vita, che a pag. 14 èfonte della storia, a carte 27 diventa fonte della poesia,e alcunchè di opposto e quasi di ribelle al pensiero,poichè il pensiero la devedomare. Domare èuna di quelle parole equivoche, di cui la filosofia crocianaabbonda con sua molta lode in un’epoca adorantetutte le confusioni; ma per quanto equivocanon può dubitarsi che implichi lo sforzo teso a vincereuna resistenza. Difatti il Croce aggiunge piùoltre: «per convertire la biografia poetica in biografiaveramente storica bisogna reprimere... i nostriamori, le nostre lagrime, e i nostri sdegni...; e il medesimodeve farsi per la storia nazionale e per quelladell’umanità». Mentre nelle prime pagine la storiaè il pensiero che risuscita la vita («la storia mortarivive» è detto a pag. 15), più innanzi la storia è ilpensiero che combatte, che doma, che mutila la vita,recidendo da essa il sentimento.

Sin dalle prime pagine del volume si intravedeche il Croce ha della storia, come di molte altre cose,due concezioni contradditorie; o forse ha una primaconcezione che, strada facendo, si muta nella opposta,illudendosi di esser sempre la medesima. Da principioegli concepisce la storia come un «eterno presente»ossia come la vivificazione di quello che fu,quale fu visto e sentito dai contemporanei. Poi a poco[132]a poco si stacca da questa concezione sinchè, senzaaccorgersene, la nega interamente, cercando di dimostrareche storia e filosofia sono una cosa medesima,ossia la dottrina in azione del progresso, inteso non«come passaggio dal male al bene, quasi da uno statoall’altro, ma come passaggio dal bene al meglio,in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio»(pag. 23).

Confronti il lettore il primo e il quinto capitolo;e subito si accorgerà che questo nega quello, illudendosidi svolgerlo. «La coscienza storica, in quantotale, è coscienza logica e non pratica, e anzi fa suoproprio oggetto l’altra: la storia,che fu già vissuta,è ora in lei pensata, e nel pensieronon hanno piùluogo le antitesi, che si fronteggiavano nella volontàe nel sentimento. Per essa non ci sono fatti buoni efatti cattivi, ma fatti sempre buoni quando sieno intesinel loro intimo e nella loro concretezza; non cisono partiti avversi, ma quel partito più ampio cheabbraccia gli avversi e che per avventura è appuntola considerazione storica... La storia non è mai giustizierama sempre giustificatrice» (pagg. 76 e 77).

E ancora: «il vizio della storia negativa provienedal separare e solidificare e contrapporre le antitesidialettiche del bene e del male... Tutti i fatti e leepoche sono a lor modo produttivi; non solo nessunodi essi è al lume della storia condannabile, matutti sono laudabili e venerabili» (pag. 78).

E sia pure; ma addio, allora, contemporaneità dellastoria! La storia contemporanea consiste appunto[133]nel «solidificare e contrapporre le antitesi dialettichedel bene e del male». Il presente è proprio unmomento del tempo, in cui un certo numero di antitesisi fronteggiano nella volontà e nel sentimento;e se nella storia, scritta dopo qualche secolo, si puòtrovare «quel partito più ampio che abbraccia diversipartiti», chi può esser così ingenuo da cercarquesto partito fra i contemporanei, che vivono appuntoper odiarsi, combattersi e sterminarsi? Intornoa che cosa hanno versato tanti fiumi di sangue gliuomini se non a quelle che il Croce chiama «antitesidialettiche del bene e del male, solidificate»; e chela storia dovrebbe per l’appunto sciogliere? Se gli uominifossero persuasi che tutti hanno ragione e tuttimeritano almeno una menzione onorevole, se non unamedaglia di bronzo nel concorso della storia, si sarebberoforse patrizi e plebei, ricchi e poveri, ereticie ortodossi, cristiani e mussulmani, protestanti ecattolici, aristocratici e democratici, scannati in tantisecoli con tanto furore? E che cosa resterebbe ditutte le «storie contemporanee» che si sono seguite?

3.

Una delle due: o la storia è sempre storia contemporaneae allora deve «separare, contrapporre e solidificarele antitesi dialettiche del bene e del male»[134]perchè ogni presente non è che una di queste antitesiin azione. O deve giustificare tutto e allora nonpuò essere storia contemporanea; anzi la storia contemporaneadeve considerarsi come pseudo storia opoesia. Impigliato in questa contraddizione, da cuinon riesce a districarsi, il pensiero del Croce si lasciasospingere dalla sua stessa confusione a conclusionicosì paradossali e strane, da essere quasi ridicole.Questa, ad esempio: che «la storia non è maistoria della morte sibbene storia della vita»; che«sono da ritenere false... tutte le storie che narranola morte e non la vita dei popoli, degli stati, delleistituzioni, dei costumi, e si contristano, e si angoscianoe lamentano che quel che fu non è più» (pagine79 e 80).

Questa pagina confonde manifestamente il narrarele rovine e il disperarsi per esse. Se un moderno scrivendola storia dell’impero romano si stracciasse, arrivandoai bassi secoli, i capelli, e ululasse inferocitoai barbari e ai cristiani, noi potremmo dirgli di risparmiareil suo tempo e il suo dolore, poichè le suefurie sono vane o ad ogni modo son cosa sua, chenon ci tocca, se pure non ci infastidisce. Ma non perquesto è men vero che l’impero romano, fiorente nelprimo e nel secondo secolo, è stato dal terzo al quintosecolo a poco a poco distrutto dal di fuori e dal didentro; e che o lagrimando o ad occhi asciutti unoscrittore può narrare la storia di questa distruzione:come, quando, e per opera di chi si compiè. Dir chela rovina dell’impero romano è una storia falsa, perchè[135]sulle rovine dell’impero sorsero nuovi stati enuovi popoli e nuove civiltà, sarebbe come dire chel’inquilino di quella tal casa, che oggi hanno portatoal cimitero, non è morto, perchè domani un altroinquilino entrerà nella casa. Nuovi stati sorserosulle rovine dell’impero romano, perchè l’imperoera stato distrutto; e la sua distruzione fu effetto diun lungo seguito di azioni che la storia può narrare,come può narrare il lungo seguito delle azioni chelo crearono.

4.

Andare a caccia di contraddizioni nei libri delCroce è come andar a caccia di farfalle in primavera.Ma in questo libro si trovano contraddizioni anchepiù strane che negli altri libri, forse perchè egli nonè mai riuscito a distinguere bene i due elementi dellastoria che sono il pensiero e il sentimento; ed orali ha confusi immedesimandoli, ora li ha oppostil’uno all’altro arbitrariamente.

«Condizione dello storico è che il fattovibri nell’animodello storico; o (per adoperare le paroled’uso nel mestiere storico) se ne abbiano intelligibilii documenti» — ha scritto, come vedemmo, a carte4. Sembrerebbe dunque che la storia ritornando avibrare nell’animo, diventiintelligibile. Non c’è storicoun po’ esperto, il quale ignori che spesso accadeproprio l’opposto: accade che percapire un avvenimento,[136]ossia per distinguere chiaramente i motiviveri che spinsero i personaggi all’azione e i veri effettiche l’azione generò, è qualche volta necessario,più spesso utile liberarsi dalle passioni contemporanee,ossia mettersi in uno stato di freddezza, per cuil’evento non vibrando più nell’animo dello storico,questi possa osservarlo da tutte le parti, anche daquelle che gli attori appassionati non videro enonpotevano vedere. Per citare un solo esempio: accadespesso nelle grandi lotte umane (guerre, rivoluzioni,ecc.) che la parte la quale riuscì vittoriosa, si fosseper lungo tempo ingannata sulle forze dell’avversario,credendole molto più grandi che non fossero.Uno storico, il quale voglia capire ciò che davvero èaccaduto, deve rendersi conto di questa illusione; madal momento in cui ha scoperta l’illusione l’avvenimentonon puòvibrare più nell’animo dello storicocome vibrò nell’animo degli autori. La passione, chegenerò l’azione, diventando oggetto di fredda analisi,lo storico deve distaccarsene invece di confondersicon essa.

Dopo aver immedesimato sentimento e pensiero,come se nella storia il sentire equivalesse a comprendere,con singolare contraddizione, in un altro punto,il Croce vuol bandire addirittura il sentimento, comeun falsario sistematico, dalla storia, e come se ilsentire un avvenimento volesse dir sempre fraintenderlo.«L’alterazione — egli scrive — continua e intrinsecaa quella storiografia (la poetica) consistenello scegliere e connettere i particolari, che si traggono[137]dalle fonti, secondo un motivonon di pensieroma di sentimento; il che se ben si consideri, è sostanzialmenteun inventarli» (pagg. 28 e 29). E perchè?Da una esagerazione si casca in una esagerazione opposta.Qui il Croce suppone che il sentimento falsisempre la verità e che il pensiero invece non la falsimai; il che è un errore di psicologia manifesto. Ilsentimento falsa la verità quando è pervertito, viziato,in rivolta contro le leggi della natura e della morale;quando odia quel che è bene e ama quel che èmale. Ma quando ama il bene, o odia il male è spessopiù pronto e più profondo nello scoprire il vero delpensiero. Quante volte il cuore precorre la mente neldivinare quello che la mente scoprirà dopo, faticosamente!Di quanti sentimenti altrui ci è difficile renderciconto se non li abbiamo provati, e quante voltel’essere appassionato è condizione per capire l’altruipassione! Viceversa, anche il pensiero spesso s’inganna,o adultera la verità per errore o per malizia. Uncattolico, un protestante, scrivendo la storia della Riforma,con la passione altereranno sfigurandolo coll’odioil nemico, ma ciascuno sarà nel vero nel lodarele cose buone della Chiesa o della Riforma; e l’unoe l’altro capiranno non solo lo stato d’animo dei proprima anche quello degli avversari, meglio e piùfacilmente di un miscredente, per il quale tutte quelledispute teologiche non siano che un fastidioso perditempo.

E del resto se la passione fosse condannata a restarfuori della verità sempre e in eterno, come potremmo[138]noi scriver la storia? Chi conosce un po’ quel cheil Croce chiama il «mestiere storico» (l’arte, io direi) — sache quasi tutti i documenti sono più o menoinquinati dalla passione.

5.

Anche questa dottrina della storia è un guazzabugliodi contraddizioni, in mezzo alle quali il pensierodel Croce cerca di reggersi e di camminare diritto;ma non può, chè non sa dove va, barcolla e adogni passo incespica. La Storia è problema nel tempostesso più semplice e più complesso che il Croce nonpensi.

La Storia è l’applicazione letteraria di una facoltàdello spirito umano, poco o punto studiata sinoradagli psicologi e dai filosofi:l’intuizione. Che cosa èl’intuizione? È quella facoltà per cui noi indoviniamogli stati d’animo dei nostri simili; i loro pensieri,i loro sentimenti, le loro inclinazioni, la loro indole,i loro propositi, le loro virtù, i loro vizi. Nonc’è facoltà più comune e più preziosa di questa. Lavita di tutti gli uomini, umili e grandi, dotti e ignoranti,ricchi e poveri non è, dalla mattina alla sera,che un esercizio ininterrotto di intuizione psicologica.Noi abbiamo sempre bisogno di indovinare quelche pensa, vuole, macchina, in quali disposizioni di[139]animo si trova un certo numero dei nostri similisenza che essi ce lo dicano — sia perchè non vogliono,sia perchè non sanno e non possono.

La natura di questa facoltà è molto misteriosa: ragioneper cui forse gli psicologi non l’hanno puntostudiata fino ad ora. È una facoltà mista, a cui partecipail raziocinio, la memoria, l’associazione, l’immaginazione;e per la quale noi quasi entriamo a untratto negli altri indovinando quel che avviene nellaloro coscienza. È una facoltà innata, perchè tutti nesono provvisti, come di volontà e d’intelligenza; macome di volontà e di intelligenza chi più e chi meno.L’esercizio e l’esperienza la raffinano e la rafforzano.Quel che si dice di solito «imparare a conoscere gliuomini e il mondo» non è che l’esercizio di questafacoltà. Il nascere provvisti di intuizione pronta, agile,sicura, è una fortuna, perchè questa è tra le armiche più servono per riuscire.

6.

La Storia non è che una applicazione letteraria,nobile, profonda di questa facoltà comunissima, dicui tutti gli spiriti son provvisti, perchè è uno deitanti cosidetti «organi di relazione». Chi scrive unastoria, grande o piccola, non fa che intuire ed esporredegli «stati di coscienza» singoli o gregari. I[140]piani, i disegni, le ambizioni, gli odî, gli amori, leillusioni, gli atti e i fatti dei grandi personaggi dellastoria che altro sono se non idee, sentimenti, voleri,propositi, ossia «stati di coscienza»? E che cosa sono,se non stati di coscienza gregari, le inclinazionidello spirito pubblico, le dottrine e le ambizioni, gliodî e le ammirazioni dei partiti, le tradizioni e gliinteressi delle classi sociali, le aspirazioni, gli orgogli,i puntigli, gli interessi dei corpi pubblici — parlamento,magistratura, burocrazia? Che altro è unareligione, se non una cristallizzazione di stati di coscienza,spesso complicatissimi ed oscurissimi?

La storia insomma, come opera d’arte e di pensiero,è unapsicologia in azione, il cinematografo interno — seposso adoperare l’immagine — di singoliuomini e di gruppi: sovrani, capi di religione, generali,diplomatici, demagoghi, partiti, classi, amministrazioni,sette e via dicendo. Il Croce si è invischiatoin tante difficoltà perchè non ha capito questaprima ed elementare verità. Senonchè se lo strumentocon cui noi risuscitiamo questi stati di coscienzaè quella stessa intuizione, di cui ci serviamo ogni giornoper indovinare ciò che i nostri simili pensano evogliono, il nostro compito è molto più difficile, quandosi tratta di scrivere storie. Gli stati di coscienzada cui nascono i grandi avvenimenti storici sono complessi,numerosi, spesso contradditori, spesso legatitra di loro o inestricabilmente aggrovigliati gli uninegli altri, e in continuo movimento. Chi ci vive inmezzo, se non è proprio dotato di straordinaria intelligenza,[141]non vede che frammenti; onde è così difficilescrivere la «storia contemporanea» a cui ilCroce ha voluto per un momento ridurre tutta lastoria, ma inutilmente, perchè dire che ogni storiaè «storia contemporanea» è come dire che l’uomonon capirà mai nulla di ciò che succede. Quando invecela storia è passata nasce un’altra difficoltà: gli«stati di coscienza» sono spariti insieme con gli uomini,e di essi non restano più che segni frammentarie per se stessi morti: i documenti.

I documenti sono il grande rompicapo di tutti iteorici della storia, che non riescono a mettersi d’accordointorno alla loro natura. Ma la oscura questionesi chiarisce semplificandosi, per chi abbia capitoche la storia è intuizione di stati di coscienza,singoli o gregari, di uomini e di generazioni che furono.Fuorchè nei casi in cui il documento è la volutaespressione degli «stati d’animo» di qualche personaggiostorico — tali sono, per esempio, le memoriedegli uomini politici, qualche volta le loro lettere oconfidenze — il documento è quasi sempre il rottame,salvatosi a caso, di unantico mezzo d’azione cheper i posteri diventa il segno di uno o più stati dicoscienza — i propositi, le illusioni, le speranze dell’uomoe del gruppo che se ne serviva. La corrispondenzadiplomatica di un ministro, gli ordini e i bollettinidi un generale, i discorsi di un capo di partesono stati composti non perchè i posteri sapesseropoi quello che è successo, ma per ottenere quello oquell’altro intento, che allora premeva a quel tale o[142]tal’altro uomo d’azione. Ma allo storico servono comemezzo per conoscere ciò che l’uomo d’azione, ilsuo governo o il suo partito, voleva in quel momento;per capire la visione delle cose che lo guidava; i motiviche lo spinsero a quella o a quell’altra azione.

È facile ora capire la strana e contradditoria naturadel documento storico, intorno alla quale tantodisputano i teorici della storia, e che i veri storicicapiscono a fondo senza aver bisogno di discuterla.Tre sono le contraddizioni insite nella natura del documentostorico.

a) La sopravvivenza del documento èaccidentaleperchè dei mezzi d’azione si conservano spesso,per servir come segni degli stati d’animo, quelli chemeno servono a capire «gli stati d’animo»essenzialidai quali l’avvenimento è nato; lo storico deve inveceindovinare questi stati d’animoessenziali.

b) il documento, appunto perchè è il rottame diun mezzo d’azione che non serve più, èuna cosa morta:lo storico deve servirsene per intuire uno statod’animo, che èuna cosa viva;

c) il documento è sempreframmentario; da questodocumento frammentario lo storico deve cercaredi ricavare una intuizione di stati di coscienza quantopiù gli è possibiletotalitaria, indovinando quelloche nel documento non c’è e non ci può essere, perchèil documento è per sua natura un frammento.

Chi tenga presente queste tre contraddizioni insitenel documento, intenderà quanto sia difficile lo scriverla storia e come ai maestri che salgono in cattedra[143]a insegnare la teoria si addica una certa modestianel dare consigli a coloro, che invece di dir come sideve scriver la storia, la scrivono. Intenderà pureche il cercare una conclusione certa, appoggiata sudocumenti inoppugnabili e definitivi, i quali si possanointerpretare in una sola maniera, è quasi semprela pretesa di una presuntuosa leggerezza. Intenderàcome accada che ogni storia si rinnovi quandolo storico muta. Intenderà che un mezzo sicuro edefinitivo di provare vera e giusta la interpretazionedi un documento, ossia di verificare l’intuizione degli«stati di coscienza» che da quel documento pigliale mosse non c’è. Intenderà infine che la storiasi scrive per molti motivi diversi. Si scrive per ricordareil passato. Si scrive per soddisfare la curiosità.Si scrive per divertirsi e per divertire, su per giùcome si scrivono romanzi. Si scrive per glorificare oper infamare una dinastia, un partito, una religione,un popolo, una nazione, un regime politico, una classesociale. Si scrive per affilare le armi ad una lottapolitica, sociale, o ad un conflitto armato tra stati.Si scrive per indagare il mistero dei destini umani,il perchè delle vittorie e delle sconfitte, della grandezzae della decadenza, delle prosperità e dei rovesci.Il Croce dice che questoperchè è introvabile.Non importa: a quanti perchè senza risposta l’uomocerca risposta!

Questa molteplicità di scopi genera molte famigliedi storie e di storici, ciascuna delle quali esercita lasua intuizione in modo diverso. Lo scopo foggia per[144]reazione lo strumento. Alcune tra le distinzioni cheil Croce, brancicando nel buio, tenta di stabilire trastoria e storia nascono da questi diversi scopi. Nonci sono storie positive e storie negative, storie veree storie false, storie poetiche e storie filosofiche. Lastoria è sempre storia — cioè intuizione di «stati dicoscienza»: la scriva Tito Livio, o Tacito, o Svetonio,o il Machiavelli, o il Gibbon, o il Mommsen, oquel tale misterioso storico — chi sarà mai? — nelquale il Croce ravvisa il vero storico. Ma muta secondoche è scritta per uno scopo o per un altro. Cosìquelle che il Croce chiama storie poetiche o pseudo-storiesono storie dominate da una forte passione, opolitica o religiosa o morale, la quale in certi momentipuò falsare, in altri acuire nello storico la visionedella verità. Tacito ha atrocemente calunniato Tiberio,che fu un grande imperatore, e si sacrificò persalvare lo Stato; ma se la sua intuizione ha erratonel raffigurare questo personaggio; e se per ciò lasua storia è in questo punto difettosa, è pur semprestoria composta con gli eterni processi che ogni storicoha adoperato, adopera ed adopererà, perchè nonce ne sono altri. La differenza da storico a storicosta solo nella maestria con cui ciascuno li adopera,e nello scopo che si propone.

[145]

7.

Alla luce di queste considerazioni molte questionisul metodo storico, che da quando la storia si èmessa in mente di essere una scienza, si sono tantoarruffate, si semplificano assai. Non ho tempo quidi dimostrarlo. Ma non posso tacere una conclusioneche è la più importante, perchè vale a sbugiardareinsieme e di colpo tutte le false autorità che pullulanooggi negli studi storici dalla universale confusionee ignoranza. La conclusione è questa: che unaopera di storia può essere giudicata da un criticosoltanto nella sua forma letteraria, come è stata compostae scritta; se è viva o no; se si capisce o se riesceoscura, se piace o annoia. Nella sostanza, ossiase lo storico abbia adoperato bene o male il processointuitivo con cui soltanto si può scriver la storia; sesia nel vero o se s’inganni, no. Siccome non c’è modoo criterio per verificare inappellabilmente se un documentoè stato o non è stato interpretato rettamente,il critico può soltanto scoprire o notare i piccolierrori di fatto, in cui a tutti gli storici accade di incorrere:per giudicare sostanzialmente una storia ilcriticodovrebbe rifarla tutta quanta, interpretandodi nuovo i documenti, a modo suo, ossia intuendo inaltro modo e legando tra loro in un ordine diversogli stati di coscienza di cui i documenti sono il segnoframmentario, accidentale e morto. Al lettore spetterà[146]poi di giudicare quale delle due interpretazionilo convinca di più, e gli sembri più verosimile: giudizioperò personale anche questo e quindi variabileda lettore a lettore, ma sempre posato sopra un paragonedi più storie. Se voglio dimostrare che Tacitosi è sbagliato scrivendo la storia di Tiberio, devo raccontarladi nuovo e in modo che sembri più persuasiva,perchè più verosimile; senza però presumeremai di giungere ad una conclusione che sia definitiva,inoppugnabile, irrevocabile.

Desidera il lettore rendersi conto, come un critico,il quale voglia giudicare il valore intrinseco di unastoria senza rifarla, possa vaneggiare? Il Croce stessoci somministra di ciò un curioso esempio. Il Croceaveva rasentato la verità — che la storia sia intuizionedi stati di coscienza — quando scriveva a pagina29 e 30: «la fantasia è indispensabile allo storico:la critica vuota, la narrazione vuota, il concetto senzaintuizione o fantasia sono affatto sterili; e ciò siè detto e ridetto in queste pagine col richiedere laviva esperienza degli accadimenti, di cui si prendea narrare la storia, il che importa insieme elaborazionedi essa come intuizione e fantasia; senza questaricostruzione o integrazione fantastica non è datonè scrivere storia, nè leggerla o intenderla. Ma siffattafantasia veramente indispensabile allo storicoè la fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la fantasianel pensiero e per il pensiero, la concretezza delpensiero che non è mai un astratto concetto ma sempreuna relazione e un giudizio, non una indeterminatezza,[147]ma una determinatezza. Epperò essa èda distinguere dalla libera fantasia poetica, cara aquegli storici che vedono o odono il viso e la vocedi Gesù sul lago di Tiberiade, o seguono Eraclito nellesue quotidiane passeggiate tra le colline di Efeso,o ridicono i segreti colloquî tra Francesco d’Assisi eil dolce umbro paese».

Sebbene involuta ed oscura, questa pagina distingue,una fantasia — chiamiamola così — «storica»che ricostruisce ed integra dai documenti quello chefu; e unafantasia poetica che inventa quello chenon fu mai; concludendo che senza la fantasia «storica»la quale ricostruisce ed integra, non c’è storia.«Senza questa ricostruzione o integrazione fantasticanon è dato nè scrivere storia, nè leggerla ed intenderla».

Su questo punto non possono esserci dubbi. Èchiaro d’altra parte che quella che il Croce chiamaqui, con linguaggio impreciso e barcollante, «ricostruzioneo integrazione fantastica» è l’intuizionedegli stati di coscienza passati. Ma in un’altra operail Croce ha voluto giudicare l’opera mia e giudicarlanon solo nella forma, ma anche nella sostanza,per negare che essa sia storia. Che cosa ha detto allora?Ha affermato che non solo la fantasia poetica,ma anche la fantasia storica, ossia l’intuizione, nonpuò creare storia vera. Il lettore stenterà a crederlo;eppure è proprio vero che il Croce ha scritto testualmentecosì: «Il Ferrero crede che si debba con la immaginazione,o come dice, con la congettura integrare[148]le fonti là dove il senso criticovieta coteste integrazionie nega che possano mai fornire storia e storiareale. Al che il Ferrero, e con lui i suoi difensori,obbiettano, che, senza le congetture e le immaginazioni,molta parte della storia rimarrebbe aridaesposizione e compilazione di fonti. E tale sia e rimanga,quando non può essere altro, ossia quandomancano le condizioni soggettive ed oggettive perchèsorga storia vera e propria; meglio allora unarassegna di fonti, che un sogno sulle fonti...»

La contraddizione è evidente: «Il senso critico vietacoteste integrazioni e nega che possano mai fornirestoria e storia reale». Ma che altro possono esserequeste integrazioni vietate dal senso critico, senon quelle che la fantasia storica fa in opposizionealla fantasia poetica, che non integra ma inventa; eche nella «Teoria» erano state giustamente dichiarateindispensabili allo storico, perchè non sono altroche la sua facoltà di intuizione?

Ma non poteva accadere altrimenti. Volendo negareche una storia fosse buona storia senza rifarla,il Croce non aveva altro mezzo che di negare addiritturail processo creativo della storia — l’intuizione;ossia, per affermare che io ho perduto il miotempo a scrivere «Grandezza e Decadenza di Roma»come i suoi numerosi lettori a leggerla, che la storianon esiste, non è possibile, è un vano sogno. Per ammazzareme egli ha sacrificato addirittura Clio e laStoria tutta quanta; e dopo aver scritto un poderosovolume per scoprire che cosa sia e come si scrive!

[149]

O giovani, che volete darvi alle storie, non ascoltatele false autorità, che vogliono insegnarvi, senzasaperlo, che cosa è e come si scrive la storia. Leggetei grandi maestri dell’arte, incominciando dagli antichi.Leggete Tucidide, leggete Sallustio, leggete Livio,leggete Tacito. Solo chi conosce l’arte può insegnarla:troppo, questo vecchio precetto del buonsenso è stato dimenticato dal secolo implacabilmentenemico di tutte le arti: della storia come dellaguerra, della pittura come della politica.

[151]

II.IL MATERIALISMO STORICO E ROMA ANTICA.

Quando apparve la traduzione francese dei dueprimi volumi di «Roma» alcuni, giornalisti d’oltreAlpi, uomini d’ingegno ma un po’ precipitosi nelgiudicare, come è spesso quella professione, scrissero,e con sincera intenzione di elogio, che l’autoreaveva studiato Carlo Marx. Imbattutisi per la primavolta in una storia antica, che raccontava di commerci,di dissesti, di fallimenti, di usure, e di altre coseconsimili, reputate da molti invenzioni moderne;avendo sentito dire che Carlo Marx aveva fatto degliinteressi economici l’asse intorno a cui giri lastoria universale, s’erano messi in mente di far onoreall’opera, ascrivendola ad una famiglia così modernae così illustre. Senonchè è difficile immaginareun più grosso sproposito, e che sia prova più manifestadi ignoranza totale, sia in ciò che concerne lastoria in genere, sia per ciò che tocca il materialismostorico. Ragione per cui l’errore fu largamenteripetuto.

Il materialismo storico non è una scuola, perchè[152]una scuola suppone maestri e discepoli, e qui i discepolialmeno mancano; è una pura dottrina, campatanei cieli della speculazione, un po’ confusa enebulosa, come tutto ciò che è uscito dalla menteframmentaria di Carlo Marx. Nessuno storico l’haancora applicata in nessuna opera di polso. Ma comedottrina si presenta negli scritti del suo autore e deisuoi discepoli e commentatori in due vesti: più generalela prima, più particolare la seconda. La dottrinapiù generale vuole che i fenomeni della storia,la religione, la politica, il diritto, l’arte e via dicendo,siano una specie di drappeggiamento sontuoso,sotto cui si nasconde la greggia ed unica realtà degliinteressi economici. Ma del materialismo inteso cosìio penso che sia una dottrina puerile, da non poteressere presa sul serio; immaginarsi se si potrannotrovare le sue «formule» e i suoi «derivati» nell’operamia! Che ogni istituzione o associazioneumana di qualsiasi natura, politica, religiosa o intellettuale,debba tenere un libro di conti; che tuttele relazioni tra gli uomini di ogni specie, dalla famigliaallo Stato e alla Chiesa, siano regolate anche dauna ragione di dare e avere, non vuol dire, che l’animadi quelle associazioni e istituzioni viva nel librodei conti; vuol dire soltanto che, qualunque cosagli uomini facciano, pensino o vogliano, hanno bisognodi nutrirsi e di vestirsi; che il prete deve viveredell’altare, come il pittore del pennello, e ilmatematico delle formule. Più seria è la dottrinaparticolare e ristretta, che assume latrasformazione[153]degli istrumenti del lavoro a motore occultodella storia. Inteso così, il materialismo storico potrebbeessere una dottrina feconda e fare scuola, ilgiorno che raccogliesse intorno a sè discepoli valorosi,purchè circoscritta alla storia dell’Europa negliultimi due secoli, che sola può comportarne laapplicazione. Negli ultimi due secoli la storia dell’Europaè veramente condotta da due demiurghi:le dottrine razionali della società e dello Stato, cheminano sotto sotto Dio; le macchine mosse dal vaporee dall’elettricità, che minano sotto sotto tutti gliantichi ideali di perfezione. Nessuno scrittore capiràil secolo XIX, sinchè non riesca a scoprire questi duedemiurghi, discesi da due cieli differenti della storia,all’opera insieme e senza saper l’uno dell’altro.Il materialismo storico potrebbe studiarne con profittouno; e quindi scoprire una parte della verità.

Senonchè questa dottrina non ha posto nè ufficionella storia antica, dalla quale il secondo demiurgoè assente; ed è addirittura infantile di supporre cheabbia potuto applicarla proprio l’autore, che ha indicatonel secolo XIX e nel trapasso della civiltàqualitativa alla quantitativa, dall’ideale di perfezioneall’ideale di potenza, il maggior rivolgimento dellastoria universale. Solo questo rivolgimento hachiamato in terra, un paio di secoli fa, il demiurgo,che il materialismo vorrebbe presente in tutti i luoghie in tutte le epoche; e le cui formidabili spintee audacie e crudeltà gli uomini non conobbero, sinchèla civiltà fu per sua natura qualitativa. Intorno[154]alla tecnica dei Greci e dei Romani ci somministranonumerose, per quanto slegate e frammentarie notizie,gli scrittori, le leggi, i rottami di attrezzi e dimacchine — aratri, mulini, telai, forni, stampi e viadicendo — raccolti negli scavi, e i disegni scolpitinei bassorilievi. Ma da secolo a secolo, da paese apaese, non si riesce a scoprire differenze visibili equindi progresso, come l’intendiamo noi, fuorchènelle macchine di guerra. Gli strumenti della industriae della agricoltura non mutano, a distanza disecoli; le forze motrici sono sempre i muscoli umani,alcuni animali, il vento e l’acqua; il vapore è ungingillo. In tutta la letteratura antica ho trovatouna sola pagina, in cui l’ammirazione del progresso,oggi così fervida, sia presentita: la prefazione del librodiciannovesimo dellaHistoria naturalis, in cuiPlinio il vecchio, raccontando che il Mediterraneoai suoi tempi è solcato in ogni verso non più da navia remo ma da navi a vela, dopochè l’abbondanza dellino coltivato in Occidente ha fatto della tela un oggettodi consumo corrente, vanta la velocità dellenavi spinte del vento, i viaggi affrettati, lo spaziovinto, con parole, che un moderno potrebbe ripetere,ritoccandole appena, del vapore. Ma se gli strumentinon mutavano, mutavano, e molto, i manufatti daepoca ad epoca; secondo che la mano di una generazionee di un popolo era più abile o meno, piùarduo o più facile il modello di perfezione a cui idifferenti secoli e le diverse nazioni guardavano, più[155]fino e più rozzo il gusto che commetteva i lavori eli giudicava.

Immaginare una storia «materialistica» di Romasarebbe come voler scrivere una storia cattolica oprotestante dei Faraoni. Ma come è nato allora questosvarione di critici orecchiuti e orecchianti? Nellastoria degli ultimi due secoli della repubblica c’èun paradosso apparente: più Roma e l’Italia arricchisconoe più sono rovinate; più si ingrandisconofuori, e più si indeboliscono dentro. L’aristocraziaromana si trova padrona di un immenso impero,quando non è più capace di governare e amministrareuna città! Massime nell’ultimo secolo della repubblicaogni vittoria è una catastrofe. Parecchi storiciavevano visto o intravisto, tra le cause di questosingolare dissolversi per troppo vincere, gli influssidella cultura greca — arti, filosofie, industrie,religioni, costumi, lussi, piaceri — sull’antica societàlatina, aristocratica, tradizionalista, bigotta e puritana.Ma questa causa non è la sola, ed è, per dir così,una causa seconda, derivata da un’altra, meno visibilee più profonda: l’oro delle conquiste. Fenomenoeconomico? Per chi cerca nella natura umana la ragioneprofonda della storia, questa azione della monetaè un altro esempio della padronanza e tiranniache tanti oggetti creati dall’uomo a servirlo esercitanosul loro autore. Che cosa è la moneta? Non èla ricchezza, mauna ricchezza; ossia uno dei tantibeni desiderati dall’uomo, ma in sè e per sè non deipiù necessari, perchè i metalli preziosi, tanto pregiati[156]per la loro bellezza e rarità, non servono a nullafuorchè ad ornare, se non esistono gli altri beni necessarialla vita, che il denaro acquista. Ad un uomoperduto nel Sahara un pane ed un otre d’acqua sarebberopiù preziosi, che un sacco di monete d’oro.

Senonchè se questo è vero, è pur vero che gli uominiimmedesimano la ricchezza e il denaro, comese il denaro fosse la ricchezza, e di nulla sono piùcupidi che di denaro, sia esso coniato in metallo preziosoo stampato in vilissima carta, al punto che reputanofelice solo chi ne abbonda — uomini e tempi.Come si spiega questo strano fenomeno? Per qualeragione questi pezzi di argento e d’oro, queste polizzebaroccamente istoriate che da sè e per sè nonpotrebbero soddisfare nessuno dei nostri bisogni, abbaglianol’uomo al punto, che il maggior numeroimmedesima in quelli la ragione stessa del vivere?Perchè, quando intorno sussista una civiltà raffinatae piena di beni svariati, il denaro è uno schiavo docile,pronto a tutti i servizi; mentre tutte le altrericchezze si prestano ai voleri dell’uomo soltanto secondola loro natura rigida e limitata. Chi possiedeuna terra, una casa, una bottega, un’officina, unamerce qualsiasi, ne è nel tempo stesso il padronee lo schiavo; perchè può servirsene solamente per ifini e gli uffici a cui la loro natura destina quellecose. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici devevenderli, ossia convertirli in denaro. Chi possiededenaro, può invece accumularlo o disperderlo, nasconderloo ostentarlo, prestarlo o regalarlo, aiutare[157]i suoi simili o corromperli, convertirlo in sapere, insfarzo, in piacere o in vizio. Il denaro è amico e nemico,maestro e lenone, creatore e distruttore, angeloe demonio. Se l’uomo comanda, il denaro lo servirànell’una o nell’altra di queste opposte persone.

Questa sua natura è cagione che nessuna prova siapiù ardua e pericolosa per un singolo uomo, comeper un popolo ed una civiltà, che un’improvvisa abbondanzadi denaro. Che cosa accade quando, peruna ragione o per un’altra, il denaro viene improvvisamentead abbondare in una nazione,mentre glialtri beni necessari alla vita, che si possono comperarecon il denaro, non crescono, o diminuiscono?Noi possiamo rispondere facilmente a questo quesito,dopo il diluvio di falso denaro sotto cui la guerraha sommerso in sette anni l’Europa. Coloro, nellecui mani affluisce questa nuova abbondanza di denaro,potranno accaparrare una parte assai maggioredei beni disponibili, che non prima; e siccome lasomma totale di questi non è cresciuta, dovranno toglierliad altri che prima ne godevano: a coloro iquali, per una ragione o per un’altra, non sono statiraggiunti e irrorati dall’alta marea del denaro...Quindi alterazione violenta delle fortune; ingiustoe improvviso arricchimento degli uni; improvvisoed ingiusto impoverimento degli altri. Inoltre — edè il disordine più pericoloso — mentre gli impoveritisi ridurranno a vivere strettamente del necessario,gli arricchiti saranno spinti sempre più al lussoed al vizio. Appunto perchè questo pericoloso servitore[158]si offre di servirli a loro piacere, come angeloo come demonio, gli uomini sono vinti il più spessodalla curiosità di vedere come serve un demonio.Quando gli uomini dispongono di troppo denaro, illoro senno vacilla; cresce il prezzo dei gioielli, deivini, delle vesti preziose; sorgono da ogni parte villee palazzi; lupanari e bische rigurgitano; danze efeste tripudiano.

L’ingiusto arricchimento infatua gli uni, come loimmeritato impoverimento inasprisce gli altri; la disciplinasociale si rallenta; il rispetto, la parsimonia,lo spirito d’ordine svaporano, si diffonde l’invidiadelle altrui ricchezze, l’odio dei fortunati, unainsaziabile cupidità. Non solo il denaro, passandoda una mano all’altra, insegna l’ozio, la prodigalità,il lusso, la dissolutezza, la vanità, la ghiottoneria;ma più abbonda, più scarseggia, più ne cresce il bisognoperchè più rinvilia. I tempi si lagnano di impoverire,quanto più arricchiscono. Il denaro sembracome volatilizzarsi.

Questo spasimo tetanico, in cui si contorce oggil’Europa, infettata dal falso denaro della guerra intrisodi tanto sangue, per poco non soffocò Romae l’Italia negli ultimi due secoli della repubblica romana.Non la carta e i torchi litografici, ma l’oro el’argento furono allora il veicolo della malattia.L’Italia fu per due secoli devastata periodicamenteda violente maree di oro e di argento, suscitate dalleguerre, che nei tempi antichi, per le ragioni espostenel mio primo volume, snidavano dai ripostigli[159]e trasportavano nel paese vincitore i metalli preziosi.Soffrì, in quei due secoli, di tutti i mali che citormentano oggi: la carestia crescente con l’abbondanza,l’alterazione iniqua delle fortune, la depravazionedei costumi, il tramonto delle tradizioni,l’obliterarsi della disciplina sociale, le turbolenze politichee gli odi civili che, via via esasperandosi, prorupperoalla fine in aperte e sanguinose rivoluzioni.

Ed ecco spiegato l’errore di coloro che hanno vistoin questa visione della storia di Roma le formulee i derivati di un materialismo storico di fantasia,perchè la moneta vi comparisce come il principaleagente del disordine di una grande epoca. Ma questavisione non è parente del cosidetto materialismostorico neppure in decimo grado. Vero è inveceche la visione è mia. Senza dubbio questo spaventoso emeraviglioso fenomeno non è stato da me capito conquella pienezza e rappresentato con quella forza, dicui, dopo la guerra mondiale, mi sentirei oggi capace;e che spero di trasfondere un giorno in unaedizione definitiva. Ho concepito questa parte dell’operauna ventina di anni fa, perduto in unapace così universale e profonda, che la memoria ela nozione stessa del terribile fenomeno si erano perdute;l’ho concepita, quasi direi, dal nulla e in pienasolitudine, perchè nessuno dei predecessori avevaneppur presentito queste oscure verità e potevaquindi prestarmi aiuto. Non ostante un intensissimosforzo di riflessione e di immaginazione, che ha duratoanni, non ho veduto il fenomeno nella sua pienezza[160]e in tutti i suoi particolari, così lucidamentecome lo vedo ora; e qualche volta l’ho confuso unpo’ con un altro fenomeno, che appartiene alla stessafamiglia ma è diverso: con la perturbazione chegenera l’incremento della ricchezza, quando è figliadel lavoro. L’opera ha quindi bisogno di qualche ritocco.Ma sarò io giudicato vittima di un vano orgoglio,se dirò apertamente che, a mio giudizio, uncritico equo e competente, invece di dottrineggiarefuori di tempo e luogo sul materialismo storico,avrebbe potuto, e forse dovuto, riconoscere un po’di merito all’autore, che primo aveva avuto la visionedi un fenomeno di cui si era perduta la memoria,venti secoli dopo che era avvenuto, venti anniinnanzi che, ripetendosi in un intero continente, sirivelasse di nuovo alla obliviosa noncuranza degliuomini?

FINE.

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INDICE DEI NOMI

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[165]

INDICE DELLE MATERIE

Al Lettorepag. 1
 
LA CREAZIONE.
 
I.L’annalistica dei primi secolipag. 5
II.Sallustio9
III.Tito Livio15
IV.Tacito29
V.Svetonio41
 
LA DISTRUZIONE.
 
I.L’Impero romano e la sua storiapag. 47
II.L’aurora della morale umana49
III.S. Agostino, la Repubblica e il popolo romano53
IV.S. Agostino e la corruzione dei costumi57
V.S. Agostino, i grandi uomini e la storia di Roma63
VI.La fortuna di Roma e Cristo75
[166]
 
LA RINASCITA.
 
I.La storia e l’antichità nella mente del Machiavellipag. 85
II.La razionalizzazione della politica91
III.Lo Stato superiore alla morale95
IV.Lo Stato-Dio in Livio e nel Machiavelli103
V.La reazione contro Livio e contro il Machiavelli107
VI.Il Tacitismo e la ragion di Stato111
VII.Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito117
VIII.Quel che noi dobbiamo agli storici antichi123
 
APPENDICE.
 
I.Che cos’è la Storia?pag. 127
II.Il materialismo storico e Roma antica151
 
Indice dei nomipag. 163

NOTE:

1.  De Oratore, II, 12.

2.  De Oratore, II, 15.

3.  Cfr.: Ferrero e Barbagallo,Roma Antica, I, pag. 259.

4.  Taine,Essai sur Tite Live. Paris 1874, pag. 343 e sg.

5.  Taine,Op. cit., pag. 346.

6.  Cat., VII.

7.  Cat., VII.

8.  Livio,Proemio.

9.  Liv., IX, 11.

10.  Liv., XLV, 38.

11.  Liv., 2, 41.

12.  Tac.Hist., I, 2.

13.  Tac.Hist., I, 3.

14.  Tac.Ann., IV, 32.

15.  Tac.Ann., XIV, 64.

16.  Ann., IV, 33.

17.  Ann., III, 65.

18.  Ann., I, 10.

19.  Ann., III, 3.

20.  Ann., I, 8.

21.  Hist., II, 50.

22.  Ann., IV, 11.

23.  De Civit. Dei, XIX, 21.

24.  De Civit. Dei, II, 21.

25.  De Civit. Dei, I, 15.

26.  De Civit. Dei, XIX, 7.

27.  De Civit. Dei, I, 31.

28.  De Civit. Dei, I, 33.

29.  De Civit. Dei, II, 2.

30.  De Civit. Dei, II, 17.

31.  De Civit. Dei, III, 13.

32.  Livio, I, 9.

33.  Livio, I, 9.

34.  Livio, I, 10.

35.  De Civit. Dei, III, 14.

36.  De Civit. Dei, III, 14.

37.  De Civit. Dei, III, 4.

38.  De Civit. Dei, II, 20.

39.  De Civit. Dei, I, 19.

40.  De Civit. Dei, I, 19.

41.  De Civit. Dei, IV, 8.

42.  De Civit. Dei, IV, 8.

43.  De Civit. Dei, IV, 14.

44.  De Civit. Dei, II, 22.

45.  De Civit. Dei, II, 22.

46.  De Civit. Dei, II, 23.

47.  De Civit. Dei, II, 24.

48.  De Civit. Dei, II, 23.

49.  De Civit. Dei, IV, 7.

50.  De Civit. Dei, V, 1 e 10.

51.  De Civit. Dei, V, 12.

52.  De Civit. Dei, XVIII, 22.

53.  De Civit. Dei, V, 13.

54.  De Civit. Dei, V, 13.

55.  De Civit. Dei, V, 14.

56.  De Civit. Dei, V, 12.

57.  De Civit. Dei, I, 1.

58.  De Civit. Dei, III, 14.

59.  De Civit. Dei, V, 17.

60.  De Civit. Dei, I, 8.

61.  De Civit. Dei, I, 11.

62.  De Civit. Dei, I, 17 e 24.

63.  De Civit. Dei, I, 12.

64.  Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio. Proemio.

65.  Discorsi, I, 11.

66.  Discorsi, I, 39.

67.  Discorsi, Proemio.

68.  Principe, XIV.

69.  Discorsi, I, 2.

70.  Discorsi, I, 55.

71.  Discorsi, I, 55.

72.  Discorsi, III, 6.

73.  Cfr.Discorsi, I, 2; I, 38; I, 57.

74.  Discorsi, I, 18.

75.  Principe, II.

76.  Discorsi, III, 5. —Principe, 3 e 19.

77.  Principe, 3.

78.  Principe, 2.

79.  Discorsi, I, 11.

80.  Discorsi, I, 11.

81.  Discorsi, I, 12.

82.  Principe, 7.

83.  Principe, 15.

84.  Principe, 15.

85.  Principe, 18.

86.  Principe, 18.

87.  Principe, 8.

88.  Principe, 8.

89.  Principe, 8.

90.  Principe, 18.

91.  Principe, 3.

92.  Discorsi, I, 1.

93.  Discorsi, I, 7.

94.  Discorsi, I, 7.

95.  Discorsi, I, 9.

96.  Discorsi, I, 30.

97.  SulTacitismo si può leggere con profitto il bel lavorodi G. Toffanin,Machiavelli e il Tacitismo. Padova, 1921.

98.  Iusti Lipsi,Polit., IV, 14.

99.  Iusti Lipsi,Polit., IV, 13.

100.  Iusti Lipsi,Polit., IV, 14.

101.  Iusti Lipsi,Polit., IV, 14.

102.  Principe, 18.

103.  Tacite, avec des notes politiques et historiques parAmelot de la Houssaye. Paris, 1724.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazioneminimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PALINGENESI DI ROMA ***
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