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The Project Gutenberg eBook ofCronica di Matteo Villani, vol. 1

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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. 1

Author: Matteo Villani

Editor: Ignazio Moutier

Release date: January 29, 2023 [eBook #69898]
Most recently updated: October 19, 2024

Language: Italian

Original publication: Italy: Magheri, 1825

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the Bayerische Staatsbibliothek)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 1 ***

CRONICA
DI
MATTEO VILLANI

TOMO I.


CRONICA

DI

MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA

TOMO I.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


INDICE


[v]

AI LETTORIL’EDITORE
IGNAZIO MOUTIER.

Matteo Villani continuatore della Cronicadi Giovanni è reputato inferiore all’ultimo eper la lingua e per lo stile: ma quanto sia ingiustoun giudizio sì decisivo emesso in varitempi da accreditati scrittori, e sempre ciecamenteripetuto, lo dimostra la medesima operasua, a coloro che si dilettassero di farne unostudio più diligente. L’accusa datagli di diffusoscrittore è tanto essenzialmente falsa, chesembra pronunziata da uomo mal prevenuto, oche non abbia mai conosciuta l’opera che li piacquedi condannare. Ma la cagione primariaper cui pochi fino ad ora si dedicarono a studiarela Cronica di Matteo, è stata certamentela pessima forma con la quale fu sempre pubblicatanelle poche edizioni che ne furon fattefino a questo giorno. La buona volontà d’unlettore paziente si stanca facilmente alla letturad’un’opera condotta senz’ombra d’ortografia,[vi]e che trovi ad ogni passo periodi intralciati,voci fuor di luogo, omissioni d’ogni genere,e dei versi ancora ripetuti, e in tale stato sonole tre edizioni eseguite dai Giunti in epochedifferenti, e che tutte si trovan citate nel Vocabolariodegli Accademici della Crusca. È cosaveramente da deplorarsi con quanta negligenzasiano state impresse nel secolo decimosesto molteopere classiche di nostra lingua. L’esperienzadi fatto mi fece conoscere, che molti editori diopere di classici antichi scrittori, cominciandopoco avanti la metà del secolo decimosesto finoverso la fine di esso, avevano adottato un certoloro particolar sistema di variare a capricciola lezione dei codici antichi, in quei luoghi chediscordavano dalla loro maniera di vedere ed’intendere, sostituendo e togliendo a vicendavoci e talvolta interi periodi, senza altra ragioneche il loro singolarissimo sistema. Questointollerabile abuso di torta critica guastò talmentegli scritti di molte opere classiche, che igiudizi che ne furon fatti di esse da chi s’affidòciecamente alle stampe del cinquecento senzaricorrere ai manoscritti son da tenersi perinesatti e non veri. Quanta verità possa averel’accusa che io do agli editori del cinquecentolo mostrerebbero abbastanza l’edizioni di Giovannie di Matteo Villani eseguite in quel secolo,ma più luminosamente potrò dimostrarlofra qualche tempo, se la fortuna mi concede ilmezzo di dare al pubblico l’opere tutte d’unsommo scrittore, che già da qualche anno m’occupocon paziente studio alla loro emendazione.

[vii]

Lorenzo Torrentino fu il primo a pubblicarein un volumetto, in Firenze nel 1554, i soliprimi quattro libri della Cronica di MatteoVillani, corretti quanto poteva ottenersi in queltempo da una prima edizione di un’opera chesi traeva da antico manoscritto. Filippo e IacopoGiunti stampatori in Firenze, commesseronel 1562 a Domenico Guerra e Giovan Battistasuo fratello stampatori in Venezia l’impressionedella Cronica di Matteo, la quale nongiunse oltre il cap. 85 del libro nono. Nella dedicache fanno i Giunti al principe don Francescode’ Medici in data del medesimo anno, visi leggono lusinghiere promesse di dare l’operain quel modo appunto ch’ella fu scritta dall’autore,avendone affidata la revisione aduominieccellentissimi, che ogni particella e ogni parolaaccomodarono al luogo suo, ch’ella non uscìforse di mano a Matteo altramente disposta: maad onta di sì belle parole, quest’impressione fureputata scorretta dai medesimi Giunti, i qualinel 1581 la riprodussero più emendata col soccorsod’un codice che allora esisteva pressoGiuliano de’ Ricci, premettendovi la medesimaprefazione al principe don Francesco senzamutar data. Quest’edizione benchè contiun capitolo di più della prima in fine dellibro nono contiene precisamente la stessa materia,non variando che la materiale numerazionedei capitoli. Col soccorso pure delcodice di Giuliano de’ Ricci pubblicarono i Giuntinel 1577 in Firenze i tre ultimi libri dellaCronica di Matteo, così da loro intitolati, ma[viii]che essenzialmente non sono che ventisette capitoliche compiscono il nono libro, e il librodecimo e undecimo; di questi ultimi libri nefecero un’esatta ristampa nel 1596. La giuntadi Filippo comprende gli ultimi quarantaduecapitoli dell’undecimo ed ultimo libro. L’ultimaedizione, e certamente la migliore della Cronicadi Matteo, fu pubblicata nel 1729 in Milanonel decimoquarto volume della celebrecollezione degli scrittori delle cose d’Italia diLodovico Antonio Muratori, procurata ed illustratada Filippo Argelati. In quest’edizionefu seguitata la stampa dei Giunti del 1581, eil seguito impresso nel 1577; vi furono per altroaggiunte a piè della pagina le varianti lezioniche furono tratte dal cavalier Marmi dal codiceRicci, e da un altro manoscritto esistenteallora presso il prior Francesco Covoni; maqueste varie lezioni si trovano per la maggiorparte sì inutilmente abbondanti in principiodell’opera, come scarseggianti dopo l’ottavo libro,da muovere ragionevolmente sospetto cheil cavalier Marmi si stancasse alla metà delsuo faticoso lavoro. In questa edizione fu contanto scrupolo seguitata la lezione giuntina chevi fu lasciata stare la medesima viziosa ortografia,a danno dei poveri lettori, a’ quali ètroppo grave nello studio degli antichi classiciquesto barbaro sistema, che non è ancora spentodel tutto.

Da questo esatto ragguaglio dell’edizionidella Cronica di Matteo e Filippo Villani finoad ora pubblicate, è facile persuadersi del bisogno[ix]di farne una nuova più accurata edizione,ma tal pensiero venuto più volte in mente a uominidi molta dottrina, e amantissimi dellalingua italiana, svanì e venne meno allorchècominciarono a sentire il peso di questa spinosafatica. Colui che sia nuovo affatto di simili studinon può con approssimazione calcolare il lungotedio che richiedono i confronti d’operestampate con i manoscritti, che quasi sempresi trovano tra loro discordi nella lezione, omancanti, o inintelligibili, e quel che è peggiovariati sovente dall’arbitrio d’ignoranti copisti.Abituato com’io sono da molti anni a similistudi, da me intrapresi con vero desiderio di recarecon l’opera mia qualche vantaggio agli amatoridei classici nostri, che sì deturpati per lamaggior parte erano stati impressi in antico,pubblicai già è un anno la Cronica di GiovanniVillani (alla cui emendazione ebbi l’assistenzaun mio carissimo amico) e fin da quell’epocacontrassi verso il pubblico l’obbligazione didare alla luce ricorretta ed emendata l’operadi Matteo e Filippo Villani, servendomi dellalezione del famoso codice Ricci. Questo codicecartaceo in foglio, di non elegante ma buonaforma di lettere, è scritto tutto d’una medesimamano; ha in principio una breve nota che cifa conoscere l’anno in cui fu trascritto, cosìconcepita:Questo libro fu scritto l’anno 1378da Ardingo di Corso de’ Ricci, e continuamentesi conserva in questa casa: e oggi, che siamo alli6 di maggio 1608, è posseduto da Ruberto di Giulianode’ Ricci. Su qual documento asserisca[x]questo Ruberto de’ Ricci che il codice sia statoscritto nel 1378 non è da conoscersi tanto facilmente,ma di certo la scrittura è del secolo incui si vuole che sia stato copiato. Comincia ilmanoscritto con la tavola delle rubriche o capitolicon le prime voci e i numeri dei capitoliscritti in rosso, che occupano le prime diciottocarte; ne segue poi la Cronica, che comprendecarte trecentosettanta, con i titoli de’ capitolie la serie della loro numerazione in rosso. Questocodice di buona conservazione, non va peraltro esente dalla sorte che hanno incontrato lamaggior parte dei manoscritti, che per incuriao ignoranza di chi gli ha avuti a mano si trovanooggi mutilati e mal conci, poichè si hannoin esso mancanti le carte 299, e 384; mancavapure la carta 108, che fu sostituita finodall’anno 1573 da ignota mano. La buonissimalezione che ha questo manoscritto fa chiaratestimonianza della diligenza del suo copista,che non deve essere stato di que’ prezzolati emanuensiche in quel secolo flagellarono ogni manieradi scritture, ma uomo al certo di qualchedottrina. E qui mi sia lecito dar tributo d’obbligazionee di riconoscenza all’egregio signorCommendatore Lapo de’ Ricci, che con tantaamorevolezza si compiacque accordarmi l’usoper la presente edizione di questo prezioso codicedi Matteo Villani, scritto come parla l’anticatradizione da Ardingo di Corso de’ Ricci, giàdi sopra menzionato, e che tuttavia si conservanella biblioteca di quest’illustre famiglia.

Di questo codice adunque mi sono quasi interamente[xi]giovato nella presente ristampa diMatteo Villani, come il più corretto e copiosodi quanti n’abbia veduti, ed ho solamenteavuto ricorso alle varianti del codiceCovoni che esistono nell’accennata edizionedell’opera di Matteo eseguita in Milano nel1729, in quei pochissimi luoghi che manifestamenteerano errati. Due codici della libreriaRiccardiana e uno della Magliabechianami hanno fornito di qualche variante nel corsodell’opera, la poca importanza delle quali midisobbliga dal far di essi un circostanziatoragguaglio.

La presente edizione della Cronica di MatteoVillani potrebbe ragionevolmente chiamarsiun’esatta copia del codice Ricci, se i pochi luoghiche in esso si trovano errati non avesserodomandato il soccorso d’altri codici antichiper rettificarne gli errori. Così avess’io potutosupplire con altri manoscritti alle lagune vistosedel codice Ricci, specialmente a quelle ches’incontrano ne’ tre ultimi libri, ma il fattomi ha dimostrato non esser questo un errore daattribuirsi al copista, ma bensì all’autore medesimo,l’immatura morte del quale gli tolseil modo di dar l’ultima mano all’opera sua,giacchè tutti i manoscritti da me riscontrati,e non in piccol numero, hanno sventuratamentelo stesso difetto, da toglier la speranza aogni accurato investigatore di rinvenire ungiorno ciò che ora invano si desidera. Quei passiper altro, che nell’edizioni eseguite dai Giuntifurono tolti per cagione de’ tempi, si troveranno[xii]in quest’edizione restituiti al loro luogo,cioè al Cap. 93 del libro nono, e al Prologo dellibro undecimo.

Il sistema che ho creduto dover seguitare inquest’edizione è stato il medesimo che servì dinorma alla pubblicazione del primo Villani,meno che più libertà mi son preso intorno a’ nomipropri, avendone del tutto banditi gl’idiotismidel tempo, che nulla han che fare con la lingua,e che ad altro non servono che ad essereinciampo e noia al maggior numero dei lettori.L’ortografia ho avuto cura che si presti totalmenteall’intelligenza del testo senz’altra regolaspeciale, semplicizzando più che ho saputol’andamento del periodo. Finalmente all’ultimovolume vi ho posto l’indice generale, indispensabilead un’opera di tal natura, e unelenco di voci mancanti nel Vocabolario degliAccademici della Crusca. In un volume di supplementoriprodurrò le vite degli uomini illustriFiorentini scritte da Filippo Villani, giovandomidell’edizione procurata dall’eruditoGiammaria Mazzuchelli nel 1747 in Venezia;e così mi compiacerò d’essere stato il primo ariunire in un sol corpo tutte l’opere toscanede’ tre Villani, impresa molte volte progettatae mai condotta a buon termine, per gl’infinitiostacoli ch’era d’uopo sormontare con lungo epazientissimo studio.

Il dovere mi obbligherebbe a premettere all’operaalcune notizie intorno alla vita pubblicae privata di Matteo Villani, ma tanto scarsisono i documenti che lo riguardano, quanto[xiii]inutili e infruttuose sono state fino ad ora lericerche di diligenti biografi. Il suo figliuoloFilippo continuatore dell’opera del padre ciha tramandata l’epoca della di lui morte, laquale avvenne a dì 12 di luglio del 1363, anch’eglicome il fratello Giovanni colpito dalla pesteche da molti anni lacerava quasi tutta Europa,ma specialmente la misera Italia, senza che gliuomini riparassero a tanto loro esterminio. IlManni (Sig. Ant. T. 4. p. 75) ci addita duemogli ch’egli ebbe, Lisa de’ Buondelmonti eMonna de’ Pazzi, e alcune altre notizie ci riferisceillustrando l’albero di casa Villani, lapiù importante è quella che Matteo come ghibellinofu da’ capitani di parte guelfa ammonito.Di Filippo assai ne ragiona il diligentissimoMazzuchelli nella sua prefazionealle Vite degli Uomini illustri Fiorentini, laquale pubblicherò nel settimo volume di quest’opera,premettendola alle medesime Vitescritte da Filippo, procurando pure d’emendarlecon l’aiuto de’ manoscritti, benchè fino adora quelli che m’è avvenuto riscontrare nonmeritano nessuna fiducia per essere troppo moderni,e notoriamente variati dal capricciode’ loro copiatori.

Se questa mia non lieve fatica d’aver cercatodi ridurre a miglior lezione la Cronica diMatteo Villani non incontrerà in particolarel’approvazione dei dotti, riscuoterà certamenteil suffragio da tutti quelli che s’esercitanonello studio dei nostri classici antichi, che daun fonte più puro potranno trarre, con minor[xiv]noia e fatica di quel che far si potesse in addietro,preziosi documenti per l’istoria e perl’incremento della lingua italiana. Così piacciaalla fortuna d’accordare tal’ozio tranquilloai dotti accademici della Crusca, a’ quali ècommesso l’incarico di nostra lingua, che applicarsi possano con vero studio all’emendazionedi tanti classici, che ripieni d’infiniti errorie mancanze, attendono ancora dalla criticadi questo secolo d’essere riprodotti nella lorovera e primitiva forma. Ad alcuni onorevoliAccademici è debitrice la repubblica delle letteredi alcune opere riprodotte nella loro originalità,e di altri se ne desiderano tuttavia lestudiose fatiche, ma troppe opere ancora rimangonoda emendarsi, e dell’inedite da pubblicarsi,che il loro numero e la loro importanza puògiustificare qualunque lamento che se ne faccia.Sia loro di massimo incitamento l’esempio dell’ottimonostro Sovrano, che da qualche anno sicompiacque di farsi membro di quell’illustreAccademia, il quale con munificenza degna ditanto Principe ha pubblicato in quest’anno leopere di Lorenzo il Magnifico, con grandissimostudio da Lui emendate e illustrate.


[1]

CRONICADIMATTEO VILLANI

LIBRO PRIMO

Qui comincia la Cronica di Matteo Villani,e prima il prologo, e primo libro.

Esaminando nell’animo la vostra esortazione,carissimi amici, di mettere opera a scrivere lestorie e le novità che a’ nostri tempi avverranno,pensai la mia piccola facultà essere debole acotanta e tale opera seguire. Ma perocchè la vostrarichesta mi rende per debito pronto a ubbidire,e il vostro consiglio aggiugne vigore allastanca mente; e pensando che per la macchiadel peccato la generazione umana tutta è sottopostaalle temporali calamità, e a molta miseria, ea innumerabili mali, i quali avvengono nel mondoper varie maniere, e per diversi e strani movimenti,[2]e tempi; come sono inquietazioni diguerre, movimenti di battaglie, furore di popoli,mutamenti di reami, occupazioni di tiranni,pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi, naufragie altre gravi cose, delle quali gli uomini,ne’ cui tempi avvengono, quasi da ignoranza soppresi,più forte si maravigliano, e meno comprendonoil divino giudicio, e poco conoscono ilconsiglio e ’l rimedio dell’avversità, se per memoriadi simiglianti casi avvenuti ne’ tempi passatinon hanno alcuno ammaestramento: e inquelle che la chiara faccia della prosperità rapportanon sanno usare il debito temperamento;rischiudendo sotto lo scuro velo della ignoranzal’uscimento cadevole, e il fine dubbioso dellemortali cose. Onde pensando che l’opera puoteessere fruttuosa, e debba piacere per li naturalidesideri degli uomini, mi mossi a cominciare,per esempio di me uomo di leggieri scienza, adapparecchiar materia a’ savi di concedere del lorotempo alcuna parte, per lasciare agli altri memoriadelle cose appariranno di ciò degne a’ lorotemporali, e a’ meno sperti speranza con fatica estudio da poter venire a operazioni virtudiose, ea coloro che avranno più alto ingegno, materia diristrignere su brevità, e con più piacere degli uditori,le nostre storie. Ma perocchè ogni cosa è imperfettae vana senza l’aiuto della divina grazia,chiamiamo in nostro aiuto la carità divina,Cristo benedetto; il quale è in unità col Padree con lo Spirito Santo, vive e regna per tutti i secoli,e dà cominciamento e mezzo e termine perfettoa ogni buona operazione.

[3]

CAP. I.Della inaudita mortalità.

Trovasi nella santa Scrittura, che avendo ilpeccato corrotto ogni via della umana carne, Iddiomandò il diluvio sopra la terra: e riservandoper la sua misericordia l’umana carne in ottoanime, di Noè, e di tre suoi figliuoli e delleloro mogli nell’arca, tutta l’altra generazionenel diluvio sommerse. Dappoi per li tempi multiplicandola gente, sono stati alquanti diluviparticolari, mortalità, corruzioni e pistolenze,fami e molti altri mali, che Iddio ha permessovenire sopra gli uomini per li loro peccati. Trale quali mortalità troviamo venute le più gravil’una al tempo di Marco Aurelio, Antonio e LucioAurelio Commodo imperadori, gli anni di Cristo171, la quale cominciò in Babilonia d’Egitto,e comprese molte provincie del mondo. E tornandoL. Commodo colle legioni de’ Romanidelle parti d’Asia, parea combattesse ostilementeper la loro infezione gli uomini delleprovincie ond’elli passavano: e a Roma fece gravesterminio de’ suoi abitanti. E l’altra venne altempo di Gallo Ostilio Augusto, e Bolusseno suofigliuolo, occupatori dello imperio, e gravi persecutoride’ cristiani, la quale cominciò gli annidi Cristo 254, e durò, ritornando di tempo intempo, intorno di quindici anni: e fu di diversee incredibili infermitadi, e comprese molte provinciedel mondo. Ma per quello che trovar si[4]possa per le scritture, dal generale diluvio inqua, non fu universale giudicio di mortalitàche tanto comprendesse l’universo, come quellache ne’ nostri dì avvenne. Nella quale mortalità,considerando la moltitudine che allora vivea,in comparazione di coloro che erano in vita altempo del generale diluvio, assai più ne morironoin questa che in quello, secondo la estimazionedi molti discreti. Nella quale mortalitàavendo renduta l’anima a Dio l’autore dellacronica nominata la Cronica di Giovanni Villanicittadino di Firenze, al quale per sangue e perdilezione fui strettamente congiunto, dopo moltegravi fortune, con più conoscimento della calamitàdel mondo che la prosperità di quello nonm’avea dimostrato, propuosi nell’animo miofare alla nostra varia e calamitosa materia cominciamentoa questo tempo, come a uno rinnovellamentodi tempo e secolo, comprendendo annualmentele novità che appariranno di memoriadegne, giusta la possa del debole ingegno, comepiù certa fede per li tempi avvenire ne potremoavere.

CAP. II.Quanto durava il tempo della moría incatuno paese.

Avendo per cominciamento nel nostro principioa raccontare lo sterminio della generazioneumana, e convenendone divisare il tempo e ilmodo, la qualità e la quantità di quella, stupidiscela mente appressandosi a scrivere la sentenzia,[5]che la divina giustizia con molta misericordiamandò sopra gli uomini, degni per lacorruzione del peccato di final giudizio. Mapensando l’utilità salutevole che di questa memoriapuote addivenire alle nazioni che dopo noiseguiranno, con più sicurtà del nostro animocosì cominciamo. Videsi negli anni di Cristo,dalla sua salutevole incarnazione 1346, lacongiunzione di tre superiori pianeti nel segnodell’Aquario, della quale congiunzione si disseper gli astrolaghi che Saturno fu signore: ondepronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi;ma simile congiunzione per li tempi passatimolte altre volte stata e mostrata, la influenziaper altri particulari accidenti non parve cagionedi questa, ma piuttosto divino giudicio secondola disposizione dell’assoluta volontà di Dio. Cominciossinelle parti d’Oriente, nel detto anno,inverso il Cattai e l’India superiore, e nelle altreprovincie circustanti a quelle marine dell’oceano,una pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizionedi catuna età e sesso, che cominciavano a sputaresangue, e morivano chi di subito, chi in due oin tre dì, e alquanti sostenevano più al morire. Eavveniva, che chi era a servire questi malati, appiccandosiquella malattia, o infetti, di quella medesimacorruzione incontanente malavano, e morivanoper somigliante modo; e a’ più ingrossaval’anguinaia, e a molti sotto le ditella delle bracciaa destra e a sinistra, e altri in altre parti del corpo,che quasi generalmente alcuna enfiatura singularenel corpo infetto si dimostrava. Questa pestilenziasi venne di tempo in tempo, e di gente in[6]gente apprendendo, comprese infra il termined’uno anno la terza parte del mondo che si chiamaAsia. E nell’ultimo di questo tempo s’aggiunsealle nazioni del Mare maggiore, e alle ripe delMare tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso loEgitto e la riviera del Mar rosso, e dalla partesettentrionale la Rossia e la Grecia, e l’Erminiae l’altre conseguenti provincie. E in quellotempo galee d’Italiani si partirono del Mare maggiore,e della Soria e di Romania per fuggire lamorte, e recare le loro mercatanzie in Italia:e’ non poterono cansare, che gran parte di loronon morisse in mare di quella infermità. E arrivatiin Cicilia conversaro co’ paesani, e lasciarvidi loro malati, onde incontanente si cominciòquella pestilenzia ne’ Ciciliani. E venendo ledette galee a Pisa, e poi a Genova, per la conversazionedi quegli uomini cominciò la mortalitàne’ detti luoghi, ma non generale. Poi conseguendoil tempo ordinato da Dio a’ paesi, la Ciciliatutta fu involta in questa mortale pestilenzia. El’Affrica nelle marine, e nelle sue provincie diverso levante, e le rive del nostro Mare tirreno.E venendo di tempo in tempo verso il ponente,comprese la Sardigna, e la Corsica, e l’altre isoledi questo mare; e dall’altra parte, ch’è dettaEuropa, per simigliante modo aggiunse alleparti vicine verso il ponente, volgendosi verso ilmezzogiorno con più aspro assalimento che sottole parti settentrionali. E negli anni di Cristo1348 ebbe infetta tutta Italia, salvo chela città di Milano, e certi circustanti all’Alpi,che dividono l’Italia dall’Alamagna, ove[7]gravò poco. E in questo medesimo anno cominciòa passare le montagne, e stendersi in Proenza,e in Savoia, e nel Dalfinato, e in Borgogna,e per la marina di Marsilia e d’Acquamorta, eper la Catalogna, e nell’isola di Maiolica, e inIspagna e in Granata. E nel 1349 ebbe compresofino nel ponente, le rive del Mare oceano,d’Europa e d’Affrica e d’Irlanda, e l’isolad’Inghilterra e di Scozia, e l’altre isoledi ponente, e tutto infra terra con quasi egualemortalità, salvo in Brabante ove poco offese.E nel 1350 premette gli Alamanni, e gli Ungheri,Frigia, Danesmarche, Gotti, e Vandali, e gli altripopoli e nazioni settentrionali. E la successionedi questa pestilenzia durava nel paese oves’apprendeva cinque mesi continovi, ovverocinque lunari: e questo avemmo per isperienzacerta di molti paesi. Avvenne, perchè pareache questa pestifera infezione s’appiccasse per laveduta e per lo toccamento, che come l’uomo, ola femmina o i fanciulli si conoscevano malati diquella enfiatura, molti n’abbandonavano, e innumerabilequantità ne morirono, che sarebbonocampati se fossono stati aiutati delle cose bisognevoli.Tra gl’infedeli cominciò questa inumanitàcrudele, che le madri e’ padri abbandonavanoi figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’unofratello l’altro e gli altri congiunti, cosa crudelee maravigliosa, e molto strana dalla umananatura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali,seguendo le nazioni barbare, questa crudeltàsi trovò. Essendo cominciata nella nostracittà di Firenze, fu biasimata da’ discreti[8]la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono,e rinchiusono in luoghi solitari, e di sanaaria, forniti, d’ogni buona cosa da vivere, ovenon era sospetto di gente infetta; in diverse contradeil divino giudicio (a cui non si può serrarele porti) gli abbattè come gli altri che non s’eranoprovveduti. E molti altri, i quali si dispuosono allamorte per servire i loro parenti e amici malati,camparono avendo male, e assai non l’ebbonocontinovando quello servigio; per la qual cosaciascuno si ravvide, e cominciarono senza sospettoad aiutare e servire l’uno l’altro; ondemolti guarirono, ed erano più sicuri a serviregli altri. Nella nostra città cominciò generaleall’entrare del mese d’aprile gli anniDomini 1348, e durò fino al cominciamentodel mese di settembre del detto anno. E morìtra nella città, contado e distretto di Firenze,d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre, epiù, compensando il minuto popolo e i mezzanie’ maggiori, perchè alquanto fu più menomato,perchè cominciò prima, ed ebbe meno aiuto, epiù disagi e difetti. E nel generale per tutto ilmondo mancò la generazione umana per simigliantenumero e modo, secondo le novelle cheavemmo di molti paesi strani, e di molte provinciedel mondo. Ben furono provincie nel Levantedove vie più ne moriro. Di questa pestiferainfermità i medici in catuna parte del mondo,per filosofia naturale, o per fisica, o per arted’astrologia non ebbono argomento nè vera cura.Alquanti per guadagnare andarono visitandoe dando loro argomenti, li quali per la loro morte[9]mostrarono l’arte essere fitta, e non vera:e assai per coscienza lasciarono a ristituire i danariche di ciò aveano presi indebitamente.

Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degnidi fede, che aveano avute novelle di que’ paesi,che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia,nelle parti dell’Asia superiore, uscì della terra,ovvero cadde da cielo un fuoco grandissimo, ilquale stendendosi verso il ponente, arse e consumògrandissimo paese senza alcuno riparo. Ealquanti dissono, che del puzzo di questo fuocosi generò la materia corruttibile della generalepestilenzia: ma questo non possiamo accertare.Appresso sapemmo da uno venerabile frate minoredi Firenze vescovo di .... del Regno, uomodegno di fede, che s’era trovato in quelleparti dov’è la città di Lamech ne’ tempi dellamortalità, che tre dì e tre notti piovvono inquello paese biscie con sangue che appuzzarono ecorruppono tutte le contrade: e in quella tempestafu abbattuto parte del tempio di Maometto,e alquanto della sua sepoltura.

CAP. III.Della indulgenzia diede il papa per la dettapistolenza.

In questi tempi della mortale pestilenzia, papaClemente sesto fece grande indulgenza generaledella pena di tutti i peccati a coloro che pentuti econfessi la domandavano a’ loro confessori, e morivano:e in quella certa mortalità catuno cristiano[10]credendosi morire si disponea bene, e con moltacontrizione e pazienzia rendevano l’anima a Dio.

CAP. IV.Come gli uomini furono peggiori che prima.

Stimossi per quelli pochi discreti che rimasonoin vita molte cose, che per la corruzione delpeccato tutte fallirono agli avvisi degli uomini,seguendo nel contradio maravigliosamente. Credetesiche gli uomini, i quali Iddio per graziaavea riserbati in vita, avendo veduto lo sterminiodei loro prossimi, e di tutte le nazioni delmondo, udito il simigliante, che divenissono dimigliore condizione, umili, virtudiosi e cattolici,guardassonsi dall’iniquità e dai peccati, e fossonopieni d’amore e di carità l’uno contra l’altro. Madi presente restata la mortalità apparve il contradio;che gli uomini trovandosi pochi, e abbondantiper l’eredità e successioni dei beni terreni,dimenticando le cose passate come statenon fossono, si dierono alla più sconcia e disonestavita che prima non aveano usata. Perocchèvacando in ozio, usavano dissolutamente il peccatodella gola, i conviti, taverne e delizie condilicate vivande, e’ giuochi, scorrendo senza frenoalla lussuria, trovando nei vestimenti strane edisusate fogge e disoneste maniere, mutandonuove forme a tutti gli arredi. E il minuto popolo,uomini e femmine, per la soperchia abbondanzache si trovarono delle cose, non voleano lavorare agliusati mestieri; e le più care e dilicate vivande[11]voleano per loro vita, e allibito si maritavano, vestendole fanti e le vili femmine tutte le belle e carerobe delle orrevoli donne morte. E senza alcunoritegno quasi tutta la nostra città scorse alladisonesta vita; e così, e peggio, l’altre città eprovincie del mondo. E secondo le novelle chesentire potemmo, niuna parte fu, in cui viventein continenzia si riserbasse, campati dal divinofurore, stimando la mano di Dio essere stanca.Ma secondo il profeta Isaia, non è abbreviato ilfurore d’Iddio, nè la sua mano stanca, ma moltosi compiace nella sua misericordia, e però lavorasostenendo, per ritrarre i peccatori a conversionee penitenzia, e punisce temperatamente.

CAP. V.Come si stimò dovizia, e seguì carestia.

Stimossi per il mancamento della gente dovereessere dovizia di tutte le cose che la terra produce,e in contradio per l’ingratitudine degli uominiogni cosa venne in disusata carestia, e continovòlungo tempo: ma in certi paesi, come narreremo,furono gravi e disusate fami. E ancorasi pensò essere dovizia e abbondanza di vestimenti,e di tutte l’altre cose che al corpo umano sonodi bisogno oltre alla vita, e il contrario apparvein fatto lungamente; che due cotanti o più valsonola maggior parte delle cose che valere non soleanoinnanzi alla detta mortalità. E il lavorio,e le manifatture d’ogni arte e mestiero montò oltreal doppio consueto disordinatamente. Piati,[12]quistioni, contraversie e riotte sursono da ogni partetra’ cittadini di catuna terra, per cagione dell’ereditàe successioni. E la nostra città diFirenze lungamente ne riempiè le sue corti congrandi spendii e disusate gravezze. Guerre, e diversiscandali si mossono per tutto l’universo,contro alle opinioni degli uomini.

CAP. VI.Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso.

In questo anno, del mese d’agosto, nacquein Prato uno fanciullo mostruoso di maravigliosafigura, perocchè a uno capo e a uno collofurono partiti e stesi due imbusti umani contutte le membra distinte e partite dal colloin giuso, senza niuna diminuzione che natura diaa corpo umano: e catuno imbusto fu colle membrae natura masculina. Ma l’uno corpo era maggioreche l’altro: e vivette questo corpo mostruosoe maraviglioso quindici giorni, dando pronosticazioneforse di loro futuri danni, come leggendoappresso si potrà trovare.

CAP. VII.Come alla compagnia d’Orto san Michele fulasciato gran tesoro.

Nella nostra città di Firenze, l’anno della dettamortalità, avvenne mirabile cosa: che venendo amorte gli uomini, per la fede che i cittadini di Firenze[13]aveano all’ordine e all’esperienza che vedutaera della chiara, e buona e ordinata limosinache s’era fatta lungo tempo, e facea per li capitanidella compagnia di Madonna santa Maria d’Ortosan Michele, senza alcuno umano procaccio,si trovò per testamenti fatti (i quali testamentinella mortalità, e poco appresso, si poterono trovaree avere) che i cittadini di Firenze lasciaronoa stribuire a’ poveri per li capitani di quellacompagnia più di trecentocinquanta migliaiadi fiorini d’oro. Che vedendosi la gente morire,e morire i loro figliuoli e i loro congiunti, ordinavanoi testamenti, e chi avea reda che vivesse,legava la reda, e se la reda morisse, volea ladetta compagnia fosse reda; e molti che nonavevano alcuna reda, per divozione dell’usata esanta limosina che questa compagnia solea fare,acciocchè il suo si stribuisse a’ poveri com’erausato, lasciavano di ciò ch’aveano reda ladetta compagnia: e molti altri non volendoche per successione il suo venisse a’ suoi congiunti,o a’ suoi consorti, legavano alla dettacompagnia tutti i loro beni. Per questa cagione,restata la mortalità in Firenze, si trovò improvvisoquella compagnia in sì grande tesoro, senzaquello che ancora non potea sapere. E i mendichipoveri erano quasi tutti morti, e ogni femminellaera piena e abbondevole delle cose, sicchènon cercavano limosina. Sentendosi questofatto per cittadini, procacciarono molti con sollecitudined’essere capitani per potere amministrarequesto tesoro, e cominciarono a ragunare le masseriziee’ danari; ch’avendo a vendere le masserizie[14]nobili de’ grandi cittadini e mercatanti, tuttele migliori e le più belle voleano per loro a grandemercato, e l’altre più vili faceano vendere inpubblico, e i danari cominciarono a serbare, e chine tenea una parte, e chi un’altra a loro utilità.E non essendo in quel tempo poveri bisognosi,facevano le limosine grandi ciascuno capitanoove più gli piaceva, poco a grado a Dio e allasua madre. E per questo indebito modo si consumòin poco tempo molto tesoro. E quando venivail tempo di rifare i nuovi capitani, i cittadiniamici de’ vecchi si facevano fare capitaninuovi da loro che avevano la balía, con moltepreghiere, e altre promessioni, intendendosi insiemeper poco onesta intenzione. Le possessionidella compagnia allogavano per amistà e buonmercato, e le vendite faceano disonestamente.I cittadini ch’erano avviluppati nelle mani de’detti capitani per li lasci, e per le dote, e perli debiti, e per le participazioni di quelli beni, eper l’altre successioni non si poteano per lunghitempi spacciare da loro: e ogni cosa sosteneanoin lunga contumacia senza sciogliere, se perspeziale servigio non si facea. E fu tre annicontinovi più grande la loro corte che quelladel nostro comune. E avvedendosi i cittadinidella ipocrisia de’ capitani, acciocchè piùnon seguitasse la elezione, che l’uno facesse l’altro,ordinarono che i capitani si chiamassonoper lo consiglio. In processo di tempoil comune prese de’ danari del mobile della dettacompagnia alcuna parte, vedendo che male sistribuivano per li capitani. E per le dette cagioni[15]la fede di quella compagnia tra’ cittadinie’ contadini cominciò molto a mancare, avvelenataper lo disordinato tesoro, e per gli avariguidatori di quello. E per lo simigliante modo fulasciato a una nuova compagnia chiamata lacompagnia della Misericordia, tra in mobile ein possessioni, il valore di più di venticinquemilafiorini d’oro, i quali si stribuirono poco bene per lodifetto de’ capitani che gli aveano a stribuire. Eallo spedale di santa Maria Nuova di san Gilio fuanche lasciato in quella mortalità il valore di venticinquemilafiorini d’oro. Questi lasci di questospedale si stribuirono assai bene, perocchè lospedale è di grande elemosina, e sempre abbondadi molti infermi uomini e femmine, i qualisono serviti e curati con molta diligenza e abbondanzadi buone cose da vivere, e da sovvenirea’ malati, governandosi per uomini e femminedi santa vita.

CAP. VIII.Come in Firenze da prima si cominciò lo Studio.

Rallentata la mortalità, e assicurati alquantoi cittadini che aveano a governare il comune diFirenze, volendo attrarre gente alla nostra città,e dilatarla in fama e in onore, e dare materiaa’ suoi cittadini d’essere scienziati e virtudiosi,con buono consiglio, il comune provvide e misein opera che in Firenze fosse generale studio dicatuna scienzia, e in legge canonica e civile, edi teologia. E a ciò fare ordinarono uficiali, e[16]la moneta che bisognava per avere i dottori dellescienze: stanziò si pagassono annualmentedalla camera del comune; e feciono acconciare iluoghi dello Studio in su la via che traversa dacasa i Donati a casa i Visdomini, in su i casolaride’ Tedaldini. E piuvicarono lo studio per tuttaItalia; e avuti dottori assai famosi in tutte lefacultà delle leggi e dell’altre scienze, cominciaronoa leggere a dì 6 del mese di novembre,gli anni di Cristo 1348. E mandato il comuneal papa e a’ cardinali a impetrare privilegiodi potere conventare in Firenze in catunafacultà di scienza, ed avere le immunità e onoriche hanno gli altri studi generali di santa Chiesa,papa Clemente sesto, con suoi cardinali,ricevuta graziosamente la domanda del nostrocomune, e considerando che la città di Firenzeera braccio destro in favore di santa Chiesa, ecopiosa d’ogni arte e mestiere, e che questoche s’addomandava era onore virtudioso, acciocchè’l buono cominciamento potesse crescere successivamentein frutto di virtudi, di comune concordiadi tutto il collegio, e del papa, concedettonoal nostro comune privilegio, che nellacittà di Firenze si potesse dottorare, e ammaestrarein teologia, e in tutte l’altre facultadi dellescienze generalmente. E attribuì tutte le franchigiee onori al detto Studio che più pienamenteavesse da santa Chiesa Parigi o Bologna, o alcunaaltra città de’ cristiani. Il privilegio bollato dellapapale bolla venne a Firenze, dato in Avignonedì 31 di maggio, gli anniDomini 1349, l’ottavoanno del suo pontificato.

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CAP. IX.Raggiugnimento di principii che furono cagionedi grandi novitadi nel Regno.

Avvegnachè nella cronica del nostro anticessoresia trattato della novità sopravvenuta nelregno di Cicilia e di qua dal faro, insino al tempovicino alla nominata mortalità, nondimeno lanostra materia richiede (acciocchè meglio s’intendanole cose che nel nostro tempo poi seguiranno)che qui s’accolgano alquanti principii chefurono materia e cagioni di gravi movimenti.Il re Ruberto rimorso da buona coscienza, avendocon Carlo Umberto di suo lignaggio re d’Ungheriatrattato la restituzione del suo reame dopola sua morte a’ figliuoli del detto Carlo, nipotidi Carlo Martello primogenito di Carlo secondo,a cui di ragione succedea il detto reame di Cicilia,e fermata la detta restituzione con promissionedi matrimonio, sotto certe condizionide’ figliuoli del detto Carlo Umberto, e delle duefigliuole di M. Carlo duca di Calavra, figliuoloche fu del detto re Ruberto. E avendo già accresciutoappresso di se il re Ruberto Andreassofigliuolo di Carlo Umberto, e fattolo duca di Calavra,a cui si dovea dare per moglie Giovannaprimagenita del detto Carlo, nipote del re Ruberto,acciocchè fosse successore del reame dopola sua morte; e la detta Giovanna reina, concondizioni ordinate per li casi che avvenire poteano,che l’una succedesse all’altra in caso di[18]mancamento di figliuoli, acciocchè la successionedel Regno non uscisse delle nipoti. Vedendosiappressare alla morte, tanto fu stretto dallo amoredella propria carne, ch’egli commise errorii quali furono cagione di molti mali. Perocchè innanzila sua morte fece consumare il matrimoniodel detto duca Andreasso alla detta Giovannasua nipote, e lei intolò reina. E a tutti i baroni,reali, e feudatari e uficiali del Regno fece fareil saramento alla detta reina Giovanna, lasciandoper testamento, che quando Andreasso duca di Calavra,e marito della detta reina Giovanna, fossein età di ventidue anni, dovesse essere coronato redel suo reame di Cicilia. Onde avvenne che ’l sennodi cotanto principe accecato del proprio amoredella carne, morendo lasciò la giovane reinaricca di grande tesoro, e governatora del suoreame, e povera di maturo consiglio, e maestrae donna del suo barone, il quale come maritodovea essere suo signore. E così verificando laparola di Salomone, il quale disse, se la moglieavrà il principato, diventerà contraria al suomarito. La detta Giovanna vedendosi nel dominio,avendo giovanile e vano consiglio, rendevapoco onore al suo marito, e reggeva e governavatutto il Regno con più lasciva e vana che virtudiosalarghezza: e l’amore matrimoniale per l’ambizionedella signoria, e per inzigamento di perversie malvagi consigli, non conseguiva le sueragioni, ma piuttosto declinava nell’altra parte.E però si disse che per fattura malefica la reinaparea strana dall’amore del suo marito. Per laqual cagione de’ reali e assai giovani baroni presono[19]sozza baldanza, e poco onoravano colui cheattendevano per loro signore. Onde l’animo nobiledel giovane, vedendosi offendere, e tenere avile a’ suoi sudditi, lievemente prendeva sdegni.E moltiplicando le ingiurie per diversi modi,dalla parte della sua donna e de’ suoi baroni,per giovanile incostanza, alcuna volta conla reina, alcuna volta con i baroni usò parole diminacce, per le quali, coll’altra materia chequi abbiamo detta, appressandosi il tempo dellasua coronazione, s’avacciò la crudele e violentesua morte. Onde avvenne, che per fare la vendettaLodovico re d’Ungheria, fratello anzinatodel detto Andreasso, con forte braccio vennenel Regno non contastato da niuno de’ reali, o daaltro barone, se non solo da M. Luigi di Taranto,il quale dopo la morte del duca Andreasso,per operazione della imperadrice sua madre, diM. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio, aveatolta la detta reina Giovanna per sua moglie.E innanzi la dispensagione, ch’era sua nipote interzo grado, temendo il giovane d’entrare nella cameraalla reina, confortatolo, e presolo per lo bracciodal detto suo balio, in segreto sposò la dettadonna: e in palese fu dispensato il detto matrimonioda santa Chiesa. Il quale M. Luigi si misea contastare alcuno tempo alla gente del detto red’Ungheria, venuta innanzi che la persona deldetto re. Ma sopravvenendo il re, la reina Giovannain prima, e appresso M. Luigi, con certegalee in fretta, e male provveduti fuori che delloscampo delle persone, fuggirono in Toscana,e poi passarono in Proenza.

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CAP. X.Come il re d’Ungheria fece ad Aversa uccidereil duca di Durazzo.

Lodovico re d’Ungheria giunto ad Aversa, fecesuo dimoro in quel luogo ove fu morto il fratello.E ivi tutti i baroni del Regno l’andarono a vicitare,e fare la reverenza come zio, e governatoredi Carlo Martello infante, figliuolo del detto ducaAndreasso, e della reina Giovanna, a cui succedevail reame. I reali, ciò furono M. Ruberto prenzedi Taranto, M. Filippo suo fratello, M. Carlo ducadi Durazzo, che avea per moglie donna Maria sirocchiadella reina Giovanna, e M. Luigi e M.Ruberto suoi fratelli andarono ad Aversa confidentementea fare la reverenza al detto re d’Ungheria;e ricevuti da lui con infinta e simulata festa,stettono con lui infino al quarto giorno. Emosso per andare da Aversa a Napoli con grandecomitiva, oltre alla sua gente, di quella de’ realie del Regno, rimaso addietro, e cavalcando con luiil duca di Durazzo, il re gli disse: menatemi dovefu morto mio fratello. E senza accettare scusa condottoal luogo, il detto duca di Durazzo sceso del palafreno,già conoscendo il suo mortale caso, disse ilre: traditore del sangue tuo, che farai? E tirato perforza, come era ordinato, infino ove fu strangolatoil duca Andreasso, tagliatali la testa da un infedeleCumino, in sul sabbione dal Gafo fu in due pezzi gittato,in quell’orto e in quello luogo dove fu gittatoil duca Andreasso. E in quello stante furono presi[21]gli altri reali, e ordinata la condotta sotto buonaguardia, e con loro il piccolo infante Carlo Martello,furono mandati in Ungheria. Il quale Carlopoco appresso giunto in Ungheria morì. E M.Ruberto prenze di Taranto, e ’l fratello e’ cuginifurono messi in prigione, e insieme ritenuti sottobuona guardia.

CAP. XI.La cagione della morte del duca di Durazzo.

Questo duca di Durazzo non si trovò che fosseautore della morte del duca Andreasso, ma peròch’egli come molto astuto, avea, non senza alcunaespettazione di speranza del Regno, coll’aiuto del ziocardinale di Pelagorga, procacciato dispensazionedal papa, colla quale ruppe quattro grandi misteri.Ciò furono, violando il testamento e l’ordinee la concordia presa dal re Ruberto, e UmbertoMartello re d’Ungheria, ove era disposto che ilmatrimonio di dama Maria sirocchia della reinaGiovanna si dovesse fare, a conservagione della successionedel regno colla casa di Carlo Umberto,discendenti di Carlo Martello, in certo caso dimorte, o di mancamento di figliuoli alla reina.La quale Maria il detto duca si prese per moglie.E il saramento di ciò prestato per lo detto duca, eper altri reali in sul corpo di Cristo; e la dispensagionedi potere prendere la nipote per moglie, laquale si prese e menò di quaresima. E beneche col duca Andreasso si ritenesse mostrandoliamore, nondimeno lungo tempo segretamente fece[22]impedire a corte la diliberazione della sua coronazione.Onde per questo soprastare fu fattol’ordine e messo a esecuzione il detestabile e patricidadella sua morte: e questa fu la cagione perchèil re d’Ungheria il fece morire. Di questa morte,e della carceragione de’ reali nacque grande tremorea tutto il regno. E fu il re reputato crudelenon meno per la carceragione degl’innocenti giovanireali, che per la morte del duca di Durazzo.

CAP. XII.Come il re d’Ungheria entrò in Napoli.

Fatta il re d’Ungheria parte della sua vendetta,e ricevuto in Napoli come signore, e ordinatoi magistrati, e comandato giustizia per tutto ilregno, cominciò ad andare vicitando le città e leprovincie. E da tutti i baroni prese saramento perCarlo Martello suo nipote. E nell’anno 1348quasi tutto il regno l’ubbidia, salvo che in Pugliaera contra lui il forte castello d’Amalfi dellamontagna, il quale si teneva per la reina, e perM. Luigi di Taranto. E questo guardavano masnadeitaliane con cento cavalieri tedeschi, capitanodella gente e del castello M. Lorenzo figliuolodi M. Niccola degli Acciaiuoli di Firenze,giovane cavaliere, e di grande cuore, e di buonoaspetto. Non avendo ancora mandato il detto rein terra d’Otranto, nè in Calavra, i giustizieri chev’erano per la reina faceano l’uficio per lei, e nonubbidivano al re d’Ungheria, ed egli non strigneail paese, e però non vi si mostrava ribellione.

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CAP. XIII.Come il re d’Ungheria vicitava il regnodi Puglia.

In questi dì essendo la mortalità già cominciatanel Regno per tutto, nondimeno il re cavalcavavicitando le terre del Regno. Ed essendo stato inAbruzzi, in Puglia, e in Principato, tornò a Napolidel mese d’aprile del detto anno: e trovatigià morti alquanti de’ suoi baroni, sentì che certiconti e baroni del Regno faceano cospirazionecontro a lui. E impaurito in se medesimo per lamorte de’ suoi, e per la generale mortalità, avegnachèfosse di molto franco cuore, non gli parve tempoda ricercare quelle cose con alcuno sospetto: anzicon savia continenza mostrava a’ baroni pienaconfidenza. E copertamente (eziandio al suo privatoconsiglio) intendea a fornire tutte le buoneterre e castella del Regno di gente d’arme e divittuaglia. E con seco aveva uno barone della Magnache avea nome Currado Lupo. Costui avevail re provato fedele e ardito in molti suoi servigi, ea lui accomandò milledugento cavalieri tedeschiche aveva nel Regno. E un suo fratello, ch’aveanome Guelforte, mise nel castello nuovo di Napolidove era l’abitazione reale, con buona compagnia,e bene fornito d’ogni cosa da vivere, ed’arme e di vestimento e calzamento, e gli accomandòla guardia di quello castello; e fornì ilcastello di Capovana, e quello di Santermo soprala città di Napoli, e il castello dell’Uovo. E[24]tratto del Regno il doge Guernieri Tedesco, cui egliavea soldato con millecinquecento barbute quandoentrò nel Regno, non fidandosi di lui, lasciò suo vicarioalla guardia del detto reame il detto CurradoLupo; e ’l doge Guernieri malcontento del re, consue masnade di Tedeschi si ridusse in Campagna.

CAP. XIV.Come il re d’Ungheria partitosi del Regnotornò in Ungheria.

Avendo il detto re ordinata la sua gente e le sueterre in tutte le parti del Regno, le quali e’ possedeva:e ammaestrati in segreto i suoi vicari e castellanidi buona guardia, non mostrando a’ baronidel Regno, nè eziandio a’ suoi, che del Regnosi dovesse partire, si mosse da Napoli, doveavea fatto poco dimoro, e andonne in Puglia; eordinata la guardia delle terre e delle castella dilà in mano di suoi Ungheri, avendo fatto armarenel porto di Barletta una sottile galea, subitamente,improvviso a tutti quelli del Regno, all’uscita diMaggio l’anno 1348, vi montò suso con poca compagnia,e fece dare de’ remi in acqua, e senza arrestovalicò sano e salvo in Ischiavonia, e di là conpochi compagni a cavallo se n’andò in Ungheria.Questa subita partita di cotanto re fu tenuta follementefatta da molti, e da lieve e non savio movimentod’animo, e molti il ne biasimarono. Altridissono che provvedutamente e con molto sennol’avea fatto, avendo diliberato il partire nell’animosuo per tema della mortalità, e non vedendo[25]tempo da potersi scoprire contra i baroni, iquali sentiva male disposti alla sua fede, comedetto è, e commendaronlo di segreto e provvedutopartimento.

CAP. XV.Novità del reame di Tunisi, e più rivolgimentidi quello.

In questo mese di maggio avendo Balase re delGarbo e della Bella Marina prima conquistato ilreame di Trenusi, e montatone in superbia ambizione,trattò con Alesbi fratello del re di Tunisi:e fatta sua armata per mare, e grande oste perterra, improvviso al re di Tunisi fu addosso, esenza contasto, avendo il ricetto d’Alesbi, entrònella città, e prese il re, e di presente il fece morire.E avendo la signoria, non attenne i patti adAlesbi, il quale partito di Tunisi, e aggiuntosigrande copia d’Arabi del reame, venne versoTunisi. Il re Balase accolta grande oste andòcontro a lui, e commissono insieme mortalebattaglia, nella quale morì la maggiore parte dellagente del re Balase, ed egli sconfitto si fuggì inCarvano, suo forte castello; e assediato in quellodagli Arabi, per danari s’acconciò con loro, etornossi a Tunisi. Alesbi da capo co’ gli Arabitornò sopra Tunisi: ma Balase si tenea la guardiadelle terre, sicchè gli Arabi non potendo combatteresi tornarono in loro pasture. Avea Balasequando si partì di suo reame lasciato nella cittàreale di Fessa Maumetto suo nipote, e in Tremus[26]Buevem suo figliuolo. Costoro avendo sentito comeBalase era sconfitto e assediato dagli Arabi,senza sapere l’uno dell’altro, catuno si rubellòe fecionsi fare re: il figliuolo in Tremus, e il nipotein Fessa. E sentendo Buevem che Maumetto s’eralevato re in Fessa, parendogli ch’egli avesse occupatala sua eredità, propose nell’animo suod’abbatterlo, e così gli venne fatto, come innanzial suo debito tempo racconteremo.

CAP. XVI.Come per la partita del re d’Ungheria delRegno i baroni e’ popoli si dolsono.

Sentendo gli uomini e i baroni del Regno lasubita partita del re d’Ungheria si maravigliaronoforte, non ne avendo di ciò conosciuto alcunoindizio. E molte comunanze e baronich’amavano il riposo del Regno, e portavanofede alla sua signoria ne furono dolenti; perocchènon ostante che fosse nato e nutricato inUngheria, e avesse con seco assai di quella gentebarbara, molto mantenea grande giustizia, e nonsofferia che sua gente facesse oltraggio o noia a’paesani, anzi gli puniva più gravemente: e fecede’ suoi Ungheri per non troppo gravi falli aspree spaventevoli giustizie. E le strade e i camminifacea per tutto il Regno sicure. E aveaspente le brigate de’ paesani, delle quali per anticaconsuetudine soleano grandi congregazionidi ladroni fare, i quali sotto loro capitani conturbavanole contrade e’ cammini: e per questo[27]pareva a’ paesani essere in istato tranquillo efermo da dovere bene posare. E alquanti altribaroni che male si contentavano, e gentili uominidi Napoli, per la morte del duca di Durazzo, eper la presura de’ reali a cui e’ portavano grandeamore, e perchè il re non facea loro troppo onore,gli volevano male, e furono contenti della suapartita. Gli altri se ne dolsono assai, e parve loroche il Regno rimanesse in fortuna e in male stato,e che il peccato commesso della morte del reAndreasso, e l’aggravamento de’ peccati commessiper la troppa quiete de’ paesani, e per la soperchiaabbondanza in che si sconoscevano a Dio,non fosse punita, e meritasse maggior disciplinae spogliamento di que’ beni, dai quali procedevala viziosa ingratitudine, come avvenne, e seguendonostra materia diviseremo.

CAP. XVII.Come si reggeva la sua gente nel Regnopartito il re.

Partito il re d’Ungheria del Regno, la cavalleriadei Tedeschi e degli Ungheri, governata per buonicapitani, con le masnade de’ fanti a piè toscaniche aveano con loro, si manteneano chetamentesenza villaneggiare i paesani. E rispondeal’una gente all’altra tutti ubbedendo a M. CurradoLupo, cui il re avea lasciato vicario, il qualemanteneva giustizia ov’egli distrignea. E gliuomini del Regno benchè si vedessono in debolesignoria, non si ardivano a muovere contro ai forestieri,[28]e non parea però loro bene stare. Ma ibaroni che non amavano il re d’Ungheria,volevano che la reina e M. Luigi tornassono nelRegno; e l’università di Napoli, co’ gentiluominidi Capovana e di Nido, d’un animo deliberaronoil simigliante; e mandarono in Proenza, dicendoche di presente dovessono tornare nel Regno,e fare capo a Napoli ove sarebbono ricevuti onorevolemente,mostrando come i paesani si contentavanomale della signoria de’ Tedeschi e degliUngheri, e che in brieve tempo col loro aiuto sarebbonosignori del reame. Aggiugnendo che isoldati Ungheri e Tedeschi si rammaricavanoforte, che il re d’Ungheria non mandava danariper le loro paghe, ond’eglino erano di lui malcontenti;e il doge Guernieri colla sua compagniade’ Tedeschi ch’era in Campagna s’offeria d’esserecolla reina e con M. Luigi contro alla gente delre d’Ungheria, in quanto il volesse conducere alsuo soldo: promettendo fedelmente per se e perle sue masnade d’aiutarli riacquistare il Regno.

CAP. XVIII.Come messer Luigi si fe’ titolare re al papa,e mandò nel Regno.

Messer Luigi trovandosi in corte di papa maritodella regina Giovanna, e non re, gli parve,avendo diliberato di tornare nel Regno, che li fossedi necessità avere titolo di re: acciocchè avendoa governare colla reina le cose del reame, ea fare lettere da sua parte e della reina, il titolo[29]non disformasse, perocchè ancora la santaChiesa non avea diliberato di farlo re di Cicilia, sifece titolare il re Luigi d’altro reame, il quale nonavea, nè era per poter avere. E d’allora innanzicominciarono a scrivere le lettere intitolandole inquesto modo:Ludovicus et Ioanna Dei gratiarex et regina Hierusalem et Ciciliae. E d’allorainnanzi M. Luigi fu chiamato re. Il detto reLuigi e la reina Giovanna avendo il confortodel ritornare nel Regno, come detto è, senza soggiornoprocacciarono di ciò fare. E trovandosipoveri di moneta, richiesono d’aiuto il papa ei cardinali, il quale non impetrarono. Alloraper necessità venderono alla Chiesa la giurisdizioneche la reina avea nella città di Vignone perfiorini trentamila d’oro. E nondimeno richiesonobaroni, e comunanze, e prelati, limosinandod’ogni parte per lo stretto bisogno. E con moltafatica feciono armare dieci galee di Genovesi,e pagaronle per quattro mesi. E in questo mezzoil re Luigi mandò innanzi a se nel Regno M.Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio con pienomandato, il quale trovando la materia dispostaal proponimento del suo signore, incontanentecondusse il doge Guernieri, ch’era in Campagnacon milledugento barbute di Tedeschi, ch’eranoin sua compagnia. E ordinato le cose prestamente,mandò sollecitando il re e la reina chesenza indugio venissono a Napoli con le loro galee:che essendo nel Regno le loro persone, conl’aiuto di Dio e de’ baroni del Regno, che desideravanola loro tornata, e de’ Napolitani, e deldoge Guernieri, cui egli avea condotto con buone[30]masnade, e con le sue galee e’ sarebbono aqueto signori del Regno, e non conoscea che lagente del re d’Ungheria a questo potesse riparare,sicchè in brieve al tutto sarebbono signori.

CAP. XIX.Come il re e la reina ritornarononel Regno.

Avendo il re e la reina queste novelle, incontanentecon quei baroni che poterono accogliere diProenza, e con la loro famiglia, si raccolsono a Marsiliain su le dette dieci galee de’ Genovesi: ed avendoil tempo acconcio al loro viaggio, sani esalvi in pochi giorni arrivarono a Napoli, all’uscitadel mese d’agosto del detto anno. E perocchèle castella di Napoli, e quello dell’Uovo,e il castello di Santermo, e ’l porto e la Tenzanaerano nella signoria e guardia della gentedel re d’Ungheria, non si poterono metterenel porto, nè in quelle parti; anzi arrivaronofuori di Napoli sopra santa Maria del Carmino,di verso ponte Guicciardi, e ivi scesono in terra;e il re e la reina entrarono nella chiesa di NostraDonna per aspettare i baroni e l’universitàdi Napoli, che gli conducessono nella città.

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CAP. XX.Come il re e la reina Giovanna entrarono inNapoli a gran festa.

I baroni ch’erano accolti a Napoli, aspettandola venuta del re e della reina con la loro cavalleria,de’ quali erano caporali quegli di sanSeverino, e della casa del Balzo, l’ammiraglioconte di Montescheggioso, quelli dello Stendardo,il conte di Santo Agnolo, que’ della casa dellaRaonessa, e di Catanzano, e molti altri. Iquali forniti di molti cavalli e di ricchi arredi edi nobili robe e arnesi, con loro scudieri vestitid’assise, e’ gentili uomini di Napoli con loroproprio, apparecchiati pomposamente a cavalloe a piè con molta festa si misono ad andare alCarmino per conducere il re e la reina in Napolicon molta allegrezza; e da parte i Fiorentini eSanesi e Lucchesi mercatanti che allora eranoin Napoli, e Genovesi e Provenzali e altri forestieri,catuna gente per se, vestiti di ricche robedi velluti e di drappi di seta e di lana, con moltistormenti d’ogni ragione, sforzando la dissimulatafesta, andarono incontro al re e alla reina.E giunti a loro, e fatta catuna compagnia lariverenza, apparecchiati nobilissimi destrieri,montati a cavallo, addestrati da’ baroni, sottoricchi palii d’oro e di seta con molte compagnied’armeggiatori innanzi, in prima il re, a cuiandava in fronte il duca Guernieri co’ suoi Tedeschi,smovendo il popolo, e dicendo: gridate viva[32]il signore: e così gridando, fu la parola damolti notata, perchè era a loro nuovo titolo, nondicendosi viva il re, e con ragione dire non lo potevanoa quella stagione. E con questa festa ilcondussono a Napoli; e perchè l’abitazioni realierano tutte nella forza de’ nemici, il collocaronoad Arco, sopra Capovana, nelle case che furonodi messere Aiutorio. E appresso di lui con somigliantefesta vi condussono la reina. La gente,benchè sforzata si fosse di fare festa, pure s’avvedeaper le molte città e castella che il red’Ungheria avea nel Regno, e per la buona genteche v’era alla guardia, che questa tornata delre Luigi e della reina Giovanna era piuttosto aspettodi guerra e di grande spesa, e sconcio delpaese e della mercanzia e de’ forestieri, che cominciamentodi riposo, come poi n’avvenne.

CAP. XXI.Come il re Luigi si fe’ fare cavaliere, e da cui.

Vedendosi il re Luigi, e conoscendo il bisognoche avea di buono aiuto, e veggendo che la maggioreforza de’ suoi cavalieri era nel duca Guernieri,acciocchè per onorevole beneficio più lotraesse alla sua fede e amore, ordinò di farsi farecavaliere per le sue mani, della qual cosa avvilìse, per onorare altrui. E ordinata gran festaper la sua cavalleria, del mese di settembredel detto anno, si fece fare cavaliere al dettodoge Guernieri, ed egli in quello stante feceappresso ottanta altri cavalieri della città di Napoli,[33]e d’altri paesi del Regno. La libertà grandeche ’l re dimostrò nel tedesco duca Guernieritosto trovò vana in colui, come per la sua corrottafede nel processo della nostra materia alsuo tempo racconteremo.

CAP. XXII.Brieve raccontamento di cose fatte per il red’Inghilterra contra quello di Francia.

Richiede il nostro proponimento, per le coseche avremo a scrivere de’ fatti del re di Franciae di quello d’Inghilterra per la loro guerra, chenoi ci traiamo un poco addietro alle cose occorsepiù vicine, acciocchè quelle che seguiranno abbianopiù chiaro intendimento. Essendo il valorosore Adoardo d’Inghilterra passato in Normandia,del mese d’agosto, gli anni di Cristo 1347,e avendo preso Camoboroso e Saulu e più altreville, venendo verso Parigi con quattromilacavalieri e quarantamila sergenti, tra’ qualiavea molti arcieri, e fatto d’arsioni e di preda gravidanni al paese, s’accampò a Pussì e a San Germano,presso a Parigi a due leghe. Il re di Franciaera andato colla sua forza verso Camo per farlisiincontro, e non trovandolo nel paese, si tornòaddietro, e accolta molta baronia e cavalieri e sergentidi suo vassallaggio, s’accampò fuori di Parigicon più di settemila cavalieri e sessantamilasergenti: il re d’Inghilterra, sentendo la tornatadel re di Francia, si levò da campo scostandosida Parigi. Il re di Francia con grande baldanza[34]il seguitò con la sua gente, tanto che sopraggiunseil re d’Inghilterra, che andava assaia lenti passi per non mostrare paura: e aggiugnendosil’una oste all’altra, il re d’Inghilterravedendosi presso il re di Francia, e quello diBoemia e quello di Maiolica con molti baroni,e con più di due tanti cavalieri che non avea egli,come signore di grande cuore e ardire, di presentes’apparecchiò alla battaglia, intra Crescì eAlbevilla. E ordinò tutto il suo carreaggio allafronte a modo d’una schiera, e di sopra alle carramise i cavalieri armati, e a piè d’ogni parte i suoiarcieri. E sopravvenendo l’assalto de’ Franceschi,baldanzosi, con grande empito cominciarono labattaglia. Gl’Inglesi fermi al loro carreaggio, conl’ordine dato agli arcieri, senza perdere colpo,di loro saette fedivano i cavalli e’ cavalieri de’Franceschi. E vedendo gl’Inglesi fediti moltide’ cavalli e de’ cavalieri de’ loro avversari, a unosegno dato ordinate le guardie de’ sergenti soprail carreaggio, corsono i cavalieri a’ loro cavalli cheaveano a destro dietro al carriaggio, e montati e assettatisopra i loro cavalli, con savia condotta vennonoalle spalle de’ nimici, ed assalirono i Franceschicon dura battaglia. I Franceschi che eranore e baroni d’alto pregio manteneano la battagliavigorosamente, la quale durò da mezza nonaalle due ore di notte; ove si dimostrarono digrandi operazioni d’armi di valorosi baroni e cavalierida catuna parte. Ma perocchè i Franceschie i loro cavalli erano più stanchi e magagnatidalle saette degl’Inglesi, e molti conducitoridi loro morti, come fu la volontà d’Iddio la vittoria[35]rimase al re d’Inghilterra, con grande e gravedanno de’ Franceschi. Morto vi fu il valente redi Boemia, figliuolo dello imperatore Arrigo diLuzimborgo, e il duca di Loreno, il conte diLanzone fratello del re di Francia, e sei altri conti,con milleseicento cavalieri grande parte baronie banderesi, e morironvi ventimila pedoni; fra iquali furono i Genovesi che erano andati là condodici galee, che pochi ne camparono. Ed il reFilippo di Francia di notte, con sei tra prelati ebaroni, e sessanta sergenti a piè, uscì dellabattaglia, e campò per grazia della notte. Sulcampo si trovarono molti cavalli morti e benequattromila fediti. E fatta questa battaglia adì 26 d’agosto nel 1347, il re d’Inghilterrapoco appresso pose assedio al forte castello di Calesesulla marina, e per assedio il vinse: e fattolopiù forte, per avere porto nel reame e nellamarina di Francia, lasciato nel paese il conte d’Erbiduca di Lancastro, suo cugino, a guerreggiare,con duemila cavalieri e ventimila pedoni ipiù arcieri, con grande onore si tornò in Inghilterra.Il conte d’Erbi entrò in Guascogna l’annoappresso, e conquistò più terre di quelle chevi tenea il re di Francia; e rotti in più abboccamentii cavalieri franceschi, se ne venne cavalcandoe predando il paese infino alla città diTolosa; ma aggravando la mortalità quei paesi, sitornò addietro con grande preda. E fatta treguadall’uno re all’altro, con grande onore del re d’Inghilterra,posò la guerra per alcuno tempo.

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CAP. XXIII.Come gli Ubaldini furo cominciatori della guerrache il comune di Firenze ebbe con loro.

Avendo narrato de’ fatti de’ due reami, comincianole novità della nostra città di Firenze.Negli anni di Cristo 1348, essendo gli Ubaldini inpace, ma in corrotta fede col nostro comune, fidandosinelle loro alpigiane fortezze, cominciaronoa ricettare sbanditi del comune di Firenze:e insieme con loro entravano di notte nel Mugello,rubando le case e uccidendo gli uomini, e ricoglieansinell’alpe con le ruberie. E avendo fattoquesto più volte di notte, il cominciarono afare di dì. E tornando d’Avignone uno Maghinardoda Firenze con duemila fiorini d’oro, gliUbaldini il seguirono e uccisono, rubandolosul contado di Firenze. E non volendone fareammenda alla richesta del comune, i Fiorentinimandarono nell’alpe suoi soldati a piè e a cavallocol capitano della guardia. E stati più dì soprale terre e sopra i fedeli degli Ubaldini fecionoloro gran danno, e senza alcuno contasto si tornaronoa Firenze.

CAP. XXIV.Come i fedeli del conte Galeotto si rubellaronoda lui e dieronsi al comune di Firenze.

In questo anno, i fedeli del conte Galeotto de’conti Guidi si rubellarono da lui, perocchè lungamente[37]gli avea male trattati, per sua crudeltà edissoluta vita: e all’entrata del mese di marzo deldetto anno gli tolsono il forte castello di san Niccolò,e tutte le sue terre e tenute intorno a quello,e ’l suo tesoro e arnesi, che n’era fornito nobilmente,e di presente si diedono al comune diFirenze. Il quale, perocchè il detto conte sempreavea nimicato il nostro comune, perocchè eraghibellino, ricevette la fortezza e gli uomini insua giurisdizione e libera signoria, con quelle solennicautele che i detti uomini poterono fare;e fecionli popolani e contadini, dando loro per alcunotempo certe immunità. E ordinata la guardiadelle castella nelle mani de’ cittadini, a’ popolidiede podestà che gli reggesse, e messe le castellae gli uomini ne’ suoi registri. Dinominò eintitolò l’acquisto, il contado di san Niccolò delcomune di Firenze.

CAP. XXV.Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini,e presero Montegemmoli e loro castella.

Vedendo i Fiorentini che la latrocina superbiadegli Ubaldini non si gastigava per una battitura,feciono decreto, che ogni anno si dovessetornare sopra di loro, tanto che fossono privati dellealpigiane spelonche. E per questa cagione, ilverno furono chiamati otto cittadini uficiali sopraprovvedere e fornire la guerra: i quali, delmese di giugno 1349, mandarono l’oste del comunenell’alpe, la quale si dirizzò a Montegemmoli,[38]una rocca quasi inespugnabile: nella qualeera Maghinardo da Susinana e due suoi figliuoli, conparecchie masnade di franchi masnadieri, i più uscitidi Firenze. Era fuori della rocca in su lastretta schiena del poggio, alla guardia della viach’andava al castello, una torre forte e bene armata:innanzi alla torre una tagliata in su laschiena del poggio, con forte steccato: e a questaguardia, per voglia di fare d’arme, i caporali de’masnadieri del castello erano scesi co’ loro compagni:e la gente del comune di Firenze avendofermo il loro campo, a intendimento di vincereil castello per assedio, e molestarlo con dificiii quali vi faceano conducere, alquanti masnadieris’appressarono verso la guardia della torre perbadaluccare. I valenti masnadieri d’entro, pertroppa baldanza, uscirono fuori della tagliata incontroalla gente de’ Fiorentini, badaluccando e facendogran cose d’arme per lo vantaggio cheaveano del terreno. In questo stante i cavalieride’ Fiorentini montando il poggio per dare vigorea’ loro masnadieri, cominciarono a scenderede’ cavalli, e a pignersi innanzi con fanti ea’ nemici, i quali per non perdere il terreno, confolle prodezza attesono tanto, che i cavalieri e’ masnadieride’ Fiorentini co’ balestrieri furono mischiatitra loro, innanzi che si potessono ritrarrealla fortezza. E volendosi ritrarre, per lo soperchiode’ loro avversari non poterono fare, che aun’ora con loro insieme non entrassono dentroalli steccati i masnadieri fiorentini, e a loro aiutoerano tratti tanti balestrieri, che non lasciarono a’nemici riprendere la fortezza della torre: anzi la[39]presono per loro. E ritraendosi i masnadieri degliUbaldini per loro scampo nella rocca, continuandola battaglia stretta alle mani, entrarono iFiorentini cacciando gli avversari nel primo procinto.E crescendo della gente dell’oste la loroforza, presono tutto, fuori de’ palagi e torri dell’ultimafortezza, ov’era racchiuso Maghinardo e lamoglie, e due suoi figliuoli con loro compagnia: i qualisi difenderono vigorosamente. Essendo il dì e lanotte combattuti dalla gente de’ Fiorentini, Maghinardoe’ figliuoli, benchè fossero in fortezza da potersidifendere lungamente, conobbono il loro pericolo.E sentendosi male d’accordo per loro quistionicon gli altri Ubaldini loro consorti, si deliberaronodi dare la rocca a’ Fiorentini, e di volereessere contro a’ suoi consorti co’ Fiorentini.E fatti i patti, e fermi a Firenze, diedono la roccalibera al comune di Firenze: e il comune prese ilsaramento della fede promessa, li ricevette inamicizia e cittadinanza, e ordinarono loro la provvigionepromessa: e dati loro cavalieri e pedoni simossono a guerreggiare gli altri Ubaldini. E innanziche l’oste de’ Fiorentini tornasse, assediòMontecolloreto, e presonlo; e misonvi fornimentoe buona guardia. Andarono a Roccabruna edebbonla: ed entrarono nel Podere e presono Lozzoleper trattato. E per trattato fu dato loro lasignoria di Vigiano e di più altre tenute, che appartenevanoal detto Maghinardo e a certi altri degliUbaldini che feciono il comandamento del comune.E andarono intorno a Susinana, guastandole case e’ campi di fuori; e tentando di volerlocombattere, trovarono il castello sì forte e sì bene[40]fornito alla difesa, che lasciarono stare, e andaronoa Valdagnello, e dieronvi una battaglia,senza potervi acquistare per la fortezza del sito, eperchè era bene provveduto alla difesa: e peròguastarono i campi e le ville d’intorno. E fornitoche ebbono tutte le castella che aveanoacquistate di vittuaglia e d’arme e di buona guardia,avendo fatto agli Ubaldini e a’ loro fedeli grandanno, del mese d’agosto, gli anni di Cristo 1349,senza alcuno impedimento, sani e salvi con vittoriasi tornarono alla città di Firenze.

CAP. XXVI.Come il re di Francia comperò il Dalfinato.

Il re di Francia posandosi nella tregua col red’Inghilterra, avendo papa Clemente sesto, suoprotettore ne’ fatti temporali, perocchè per luisi teneva essere al papato, e amava sopra modo d’accrescerei suoi congiunti, i quali erano uominidel re di Francia, e però il re traeva in sussidiodella guerra danari al bisogno; e le decime delreame e tutte grazie che volea domandare ilpapa senza mezzo l’otriava, trapassando l’onestàdel suo pontificato: e perocchè i cardinali eranola maggior parte di suo reame, non si ardivanoa contrapporre a cosa che volesse. Era in que’ dìil Dalfino di Vienna uomo molle, e di poca virtùe fermezza. Costui alcuno tempo tenne vita femminilee lasciva, vivendo in mollizie: ed appressovolle usare l’arme: e andò capitano per la Chiesaalle Smirne in Turchia, e dove poteva acquistare[41]onore e pregio, tornò con poca buona fama:e per bisogno impegnò alla Chiesa il Dalfinato perfiorini centomila d’oro: ed essendo morta lamoglie, credendo prosperare in abito chericile,sperando in quello divenire cardinale, vendèal re Filippo di Francia il Dalfinato, contro allavolontà de’ suoi paesani, e pagò la Chiesa: e fattocherico fu dal papa promosso in patriarca....nel quale finì sua vita spegnendo la fama dellacasa sua. E il re di Francia, perdendo per laguerra d’Inghilterra in ponente, accresceva senzaguerra in levante i confini al suo reame.

CAP. XXVII.La cagione perchè il re d’Araona tolseMaiolica al re.

Vera cosa fu, che il re di Maiolica nella suainfanzia si nutricò co’ reali di Francia, e poi chefu re di Maiolica, essendo dissimigliante a’ Catalanionde traeva suo origine, mostrò d’esseremolto scienziato e adorno di bei costumi. Disdegnòdi rendere al re d’Araona l’omaggio debito,il quale si pagava con la reverenzia d’un bacio:e schifo della vita catalanesca e di loro costumi,seguiva i Franceschi; la qual cosa il fecesospetto al suo legnaggio. Cugino era del re d’Araona,e la sirocchia carnale avea per moglie,della quale avea figliuoli. Nondimeno il re d’Araonafece apparecchiamento d’arme contro alui, e trattato occulto co’ cittadini di Maiolica. Perlo quale, essendo egli a Perpignano, e venendo sopra[42]loro il re d’Araona, volendo mostrare di volersidifendere, il feciono venire in Maiolica,mostrando di volerlo atare fedelmente. Venutala gente col re d’Araona, e scesa nell’isola, accogliendoil consiglio in Maiolica per volere dareordine alla difesa, essendo tempo da potere scoprireil loro tradimento, feciono dire al loro re,o che facesse la volontà del re d’Araona, o chese n’andasse. Vedendosi tradito da’ suoi cittadini,i quali aveano già abbarrata la città contro alui, si ricolse in fretta, per campare la persona,in una galea. E partendosi dell’isola, le portedella città furono aperte alla gente del re d’Araona:e data loro la signoria di tutta l’isola, conpatto che ella non dovesse tornare per alcuno tempoal loro re nè a’ suoi discendenti.

CAP. XXVIII.Come il re di Maiolica vendè la sua parte diMompelieri al re di Francia.

Il re di Maiolica essendo cacciato dell’isolada’ suoi sudditi, venuta l’isola nella signoriadel re d’Araona, e avendo poco di quello che ilsuo titolo reale richiedea, disiderando d’accoglieremoneta, e d’avere aiuto dal re di Francia, alcui servigio era stato lungamente nelle sue guerree battaglie personalmente, il richiese con grandeistanza d’aiuto, acciocchè potesse ricoverare losuo, ma da lui non potè avere alcuno aiuto. Estretto da grave bisogno, vendè al detto re diFrancia la propietà e giurisdizione ch’avea in comune[43]consorteria col detto re nella metà di Mompelieri,per quello pregio che il re di Francia volle,a buono mercato. E come povero e sventuratore venia cercando modo di riacquistare l’isoladi Maiolica. La qual cosa fu cagione della sua finalemorte, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. XXIX.Come s’ordinò il generale perdono a Romanel 1349.

Essendo stato il giudicio della generale mortalitànell’universo per giusta cagione, fu supplicatoal papa che nel prossimo futuro cinquantesimoanno la Chiesa rinnovellasse generale perdonoin Roma. Il papa Clemente sesto, col consigliode’ suoi cardinali, e di molti altri prelati emaestri in teologia, trovando che per lo dicretofatto per papa Bonifazio, ogni capo di cento annidalla natività di Cristo fosse ordinato generaleperdono a Roma, per comune consiglio parvepiù convenevole, considerando l’età umana cheè brieve, che il perdono fosse di cinquanta incinquanta anni. Avendo ancora alcuno rispettoall’anno Iubileo della santa Scrittura, nel qualecatuno ritornava ne’ suoi propri beni: e i propribeni de’ cristiani sono i meriti della passione diCristo, per li quali ci seguita indulgenzia e remissionedei peccati. E per questa cagione lasanta madre Chiesa fece decreto e ordine: chenel prossimo futuro cinquantesimo anno, per lanatività di Cristo, cominciasse a Roma generale[44]perdono di colpa e di pena di tutti i peccati a’fedeli cristiani i quali andassono a Roma, daldetto termine a uno anno, i quali fossono confessie contriti de’ loro peccati, e vicitassono ogni dìla chiesa di santo Pietro e di santo Paolo e di santoGiovanni Laterano. E le dette visitazioni furonostribuite a’ Romani trenta dì continovi, salvo chequello si omettesse si potesse con un altro ristorare;ed agl’Italiani quindici dì, e agli oltramontania tali dieci, a tali cinque dì, e meno, secondola distanza de’ paesi. E nondimeno la Chiesadiscretamente provvide, per molti e diversi casie cagioni che possono avvenire, ch’e’ cardinalie gli altri legati che andarono per lo mondo, estettono a Roma, avessono autorità di potere dispensaredel tempo come a loro paresse. E lelettere furono fatte e mandate per corrieri sottole bolle papali. In prima per tutta la cristianità,e appresso per suoi legati a predicare per tutto lesante indulgenze, acciocchè ciascuno s’apparecchiassee disponesse a potere ricevere il santoperdono. In Italia furono mandati due cardinali,quello di Bologna sopra lo Mare, messer Annibaldodi Ceccano, e messer Ponzo di Perotto di Linguadocavescovo d’Orbivieto, uomo onesto, e di grandeautorità, il quale era vicario di Roma per lopapa: fu commessa piena e generale legazione apotere a tutti dispensare il tempo delle dette visitazionicome a lui paresse, ch’era presentecontinuo nella città di Roma. Lasciando alquantola santa disposizione del perdono, ci occorronomeno piacevoli, e più gravi cose al presente araccontare.

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CAP. XXX.Come il re di Maiolica andò per racquistarel’isola, e fuvvi morto.

Lo sventurato re di Maiolica non trovandoaiuto dal re di Francia, cui egli avea lungamenteservito nelle sue guerre, nè dal papa, nè daalcuno altro signore, strignendolo la volontàe ’l bisogno di racquistare l’isola, come disperatod’ogni aiuto, avendo venduta la sua partedi Mompelieri, accattò danari dal re di Franciasopra la villa di Perpignano, ch’altro non gliera rimaso, e condusse cavalieri e pedoni, edodici galee di Genovesi fece armare al suo soldo,e alcuno navilio di carico; sperando, quando fossecon forza d’arme nell’isola, gli uomini del suoregno tornassono a lui, come forse a inganno gliera dato intendimento, perocchè con alquanti erain trattato. Apparecchiata l’oste, e ’l navilio conle dodici galee armate, del mese di... deldetto anno si mise in mare; e senza impedimentoarrivò nell’isola di Maiolica, presso alla città adieci miglia; e ivi scesi in terra, s’accampòcon quattrocento cavalieri e cinquecento masnadieri,aspettando che coloro della città concui avea trattato, e il popolo della terra il volessonocome loro benigno e natural signore. Ledodici galee de’ Genovesi avendo messo in terrail re, o che fosse di suo comandamento, per mostrarsipiù forte agli uomini dell’isola, o peraltre cagioni, si partirono da quella parte ove[46]il re avea posto il campo, e girarono da un’altraparte del’isola; e rimaso il re, e ’l figliuolo, el’altra gente senza il favore delle dodici galee,della città di Maiolica subitamente uscirono piùdi seicento cavalieri con grandissimo popolo,e vennero contro all’oste del re per combatterecon lui. Il re vedendosi i nimici appresso,potea stare alle difese tanto che tornasserole sue galee: ma con vana confidanza de’ suoiregnicoli, che non dovessero resistere contro alui, senza attendere punto, si volle mettere allabattaglia, per trarre a fine la sua impresa comela fortuna il menava. E ordinata la sua gente, econfortata a ben fare, mostrando che quivinon era altro rimedio che nel bene operare lavirtù delle loro persone, sì fedì tra i nemici, iquali erano cavalieri catalani, maggiore quantitàe migliore gente che i suoi soldati, e guidati dabuoni capitani, i quali ricevettono il re e i suoicavalieri francamente, per modo, che in pocad’ora furono sconfitti, e il re morto. Il quale seavessono voluto potieno ritener prigione, marade volte in fatti d’arme tra’ Catalani si trovamansuetudine: il figliuolo fu preso, e rappresentatoal zio re d’Araona, l’altra gente fu rottae sbarattata, e l’isola rimase libera al re d’Araona,e Mompelieri e Perpignano al re di Francia.

CAP. XXXI.Come i baroni italiani e catalani per lorodiscordie guastarono l’isola di Cicilia.

Avendo detto dell’isola di Maiolica, quella di[47]Cicilia ci s’offera con dissimigliante fortuna. Essendoper la mortalità morto il valoroso ducaGiovanni, balio e governatore dell’isola di Cicilia,rimaso picciolo fanciullo di dieci anni messerLuigi figliuolo che fu di don Pietro, il qualesi fece appellare re di Cicilia, a cui aspettava l’ereditàdel detto reame. Costui avea due fratelliminori di se, l’uno chiamato Giovanni, l’altroFederigo. E non essendo della casa reale nessunoin età che governasse l’isola per lo fanciullo,discordia nacque tra i baroni: e dall’unaparte erano i Palizzi caporali, e con loro teneanoquelli di Chiaramonte, e’ conti di Vintimiglia, ei discendenti conti della casa degli Uberti di Firenze,de’ quali era capo il conte Scalore, e con costoroteneano quasi la maggiore parte degl’Italianidell’isola. E questi si faceano chiamare la parte delre, e a loro segno rispondeano le migliori città dellamarina dell’isola, Messina, Siracusa, Melazzo,Cefalu, Palermo, Trapani, Mazzara, Sciacca, Girgenti,Taormina, e gran parte delle buone terre ecastella fra la terra dell’isola. E dall’altra parteera don Brasco d’Araona caporale con gli altriCatalani dell’isola, e il figliuolo di Giovanni Barresicolla sua casa, genero di don Brasco, e moltialtri di Catania, i quali aveano a loro segno allamarina la città di Catania, Iaci, Alicata, Tose, laCatona, e il capo d’Orlando; e fra terra grandenumero di città e di castella. E per simigliante modosi faceano costoro chiamare la parte del re. Eper le loro divisioni cominciarono a far guerra l’unocontra l’altro. E catuna parte s’armava, e afforzavad’avere seguito di gente dell’isola: e catuno[48]volea governare il reame per lo re, e non potendositrovare via d’accordo tra loro, cominciaronoa cavalcare l’uno sopra l’altro; e dove si scontravanosi combatteano mortalmente. E spesso rompeae sconfiggea l’una gente l’altra, e senza misericordiaa tenere prigione s’uccidevano insieme,e montando la loro sfrenata mala volontà, cominciaronoad ardere le loro possessioni e le biadene’ campi, come fossono in terra di nimici; efacendo questo guasto, oggi in una contrada, e domaninell’altra, consumarono il paese senza alcunamisericordia. E seguitando l’uno dì appressodell’altro questa pestilente furia tra loro,in poco tempo fu tanta tribolazione tra’ paesani,e tanta disfidanza, che lasciarono il coltivamentodelle terre, e il nutricamento del bestiame: ondeavvenne che quello paese, il quale per anticoera fontana viva di grano, e di biade, e d’ogni vittuaglia,a spandere per lo mondo tra i cristianie tra i saracini, che solo tra loro nell’isola nonavea che manicare; e il bestiame per simigliantemodo fu consumato e disperso. Per la qualecosa avvenne che l’anno 1349 a Palermo, e a piùaltre città, per inopia convenne si provvedesseper comune consiglio grano mescolato con orzo,e dare ogni settimana certa piccola distribuizioneper testa d’uomo, acciocchè potessono miserevolmentemantenere la loro vita. E non potendosisostentare i popoli con questa misera provvisione,convenne che il popolo minuto in granparte per nicistà abbandonasse l’isola, e molti nefuggirono in Calavra e nel’isola di Sardignaper scampare dalla fame la loro vita. E questa[49]pestilenzia non avvenne a’ Ciciliani per sterilità ditempo avverso, che i campi aveano da Dio la lorostagione fertile, e abbondevole della grazia del cielo.E non era tolto loro il coltivamento da nimicistrani, nè per rubellione di loro signorie, nè perodio del paese, ch’era patria de’ suoi abitanti a catunaparte e reame d’uno medesimo re: ma stimasiavvenisse per dimostrazione del peccatodella ingratitudine dell’abbondanza di troppi beni,e a dimostrare come è divoratrice senza rimediod’ogni buono stato la cittadinesca discordia,e il divoratore fuoco della laida invidia.

CAP. XXXII.Come il re Filippo di Francia e ’l figliuolotolsono moglie.

Era nella mortalità morta la moglie del re Filippodi Francia, madre di messer Giovanni primogenito,Dalfino di Vienna, la quale fu sirocchiadel duca di Borgogna, e la moglie di messerGiovanni suo figliuolo, figliuola che fu del reGiovanni di Boemia della casa di Luzimborgo,della quale rimasono quattro figliuoli maschi, che’l primo nomato Carlo fu duca di Normandia,e il secondo messer Luigi conte d’Angiò, e il terzomesser Giovanni conte di Pittieri, e il quartominore messer Filippo: e tre figliuole, che lamaggiore fu reina di Navarra, la seconda monacadel grande monasterio di Puscì, e un’altra piccolanominata Lisabetta. Ed essendo catuno senzamoglie, il duca Giovanni trattava di torre per moglie[50]la sirocchia del re di Navarra, ch’era dellepiù belle giovani e di maggiore pregio di virtùche niun’altra di que’ paesi, e tenevane bargagno.Il re Filippo suo padre sapendo che il figliuolotrattava d’avere questa damigella per moglie,un dì che ’l duca suo figliuolo era cavalcato fuoridel paese, mandò per questa giovane: e comefu venuta, senza fare altro trattato la tolse permoglie, perocchè ’l piacere della sua bellezzanon gli lasciò considerare più innanzi. Tornatoil figliuolo se ne indegnò forte, e alla festa dellenozze del padre non volle essere. Ma passatoalcuno tempo, richiamato dal padre, venne alui. E riprendendolo il re dolcemente, gli disse:caro figliuolo, se voi amavate avere a donnaquesta damigella, voi non dovevate tener bargagno.Onde egli conoscendo suo difetto, rimasecontento. E allora il padre gli diè permoglie un’altra nobile dama della casa di Bolognasu lo mare, ch’era stata moglie delduca di Borgogna: della qual cosa i Borgognonifurono mal contenti, essendo rimaso unpicciolo fanciullo della detta donna, il quale doveaessere loro duca. E per lo detto maritaggiovendè la donna il governamento del figliuolocon la forza del re, e il re occupò parte della giuridizionedi Borgogna, onde i baroni e’ paesaniforte si sdegnarono contro al loro re. Ma perocchèil re di Francia per troppa giovinile vaghezzaavea offeso il figliuolo e se, poco tempo stettecon la sua giovane e vaga donna, che sforzandola natura già senile nella bellezza della damigella,raccorciò il tempo della sua vita, come[51]appresso al debito tempo racconteremo, narrandoprima com’egli fu ingannato dagl’Inghilesi.

CAP. XXXIII.Come il re di Francia fu ingannato del trattatodi Calese con gran danno.

Il re Filippo avendo l’animo curioso di trarredel suo reame la forza del re d’Inghilterra,il quale teneva il forte castello di Calesein su la marina, non potendo per forza farlo,pensava fornirlo per danari con trattato. Allaguardia di Calese era uno gentile uomo d’Inghilterra,con sue masnade di cavalieri e di sergenti.Il re di Francia il fece tentare se per danari glirendesse il castello. L’Inghilese avveduto diedeorecchie al fatto, e senza indugio il fece segretamentesentire al suo signore; il quale confidandosinella fede di costui, gli diede per comandamentoche menasse saviamente il trattatoinfino al fatto. Costui seguitò con molta astuzia,tanto, che per la sfrenata volontà che il re diFrancia avea di racquistarlo, s’indusse a dare idanari innanzi, attenendosi alla fede del castellano,e dielli, come era il patto, seimila scudid’oro, di ventimila che per lo patto gli doveadare, e del rimanente gli fece quelle fermezzeche volle, che mettendo dentro nel castello quellagente che il re volesse, in sul ponte compierebbeil pagamento. E così data la fede da catunaparte, il re di Francia commise la bisognaad alquanti suoi baroni: i quali incontanente[52]forniti di cavalieri e di sergenti d’arme ingrande quantità, cavalcarono al castello; e comeordinato era per lo castellano, aperta la porta, ecalato il ponte, mise dentro nel castello colorocui i Franceschi vollono, perchè vedessero aloro sicurtà che dentro non vi fosse altra genteche la sua alla guardia, acciocchè si assicurassonoa fare il rimanente del pagamento; e acostoro, com’egli avea provveduto, fece sì vedere,che del nascoso aguato non si avvidono. Ondei Franceschi vinti dalla sprovveduta baldanza,s’affrettarono a fare sul ponte il pagamentodel rimanente fino ne’ ventimila scudi d’oro alcastellano, ed egli mise dentro nel castello una partede’ Franceschi, mostrando di volere assegnareloro la fortezza del castello, e l’altra ostes’attendea di fuori. Il re d’Inghilterra, che aveafatto menare questo trattato, era di notte venutonel castello egli e il figliuolo con buona compagniadi gente eletta e fidata, come a quello affaregli parve competente, i quali si stettono ripostiper modo, ch’e’ Franceschi non se ne poteronoavvedere. I Franceschi che si credettonosenza inganno essere signori del castello, da piùparti furono subitamente assaliti dal re e dasue genti. E bene che gl’Inghilesi fossono pochia rispetto de’ Franceschi, per lo improvviso esubito assalto i Franceschi ch’erano nel castellosbigottirono, e temettono, vedendosi a stretta, enon essendo usi di cotali baratti, per sì fatto modo,che poco feciono resistenza. Gl’Inghilesi dipresente, come ordinato fu, presono le vie e leporti, e ’l castellano che si mischiava al cominciamento[53]co’ Franceschi d’entro si rivolse controa loro. E vedendo i Franceschi che non aveanol’uscita libera della terra, lasciarono l’arme,e arrenderonsi prigioni al re d’Inghilterra. Efatto questo, a’ Franceschi di fuori fu la cosa sìmaravigliosa, che fortemente spaventarono.E sentendo questo il re e’ suoi presono ardire,e uscirono fuori addosso agli spaventati, congrandi strida e ardire. E non ostante che iFranceschi fossono presso a dieci per uno degl’Inghilesi, tantapaura gli vinse, che si misonoin fuga, e abbandonarono il campo. Ed essendoseguitati alquanto dagl’Inghilesi, che nongli poterono troppo seguitare perchè aveano pochicavalli, presine e morti alquanti, con doppiavittoria si ritornarono nel castello.

CAP. XXXIV.Come messer Carlo eletto imperadore fu pressoche morto di veleno.

Nella cronica del nostro anticessore è fattamemoria, come la santa Chiesa di Roma, sappiendocome Carlo figliuolo del re Giovanni diBoemia era di virtù e di senno e di prodezzail più eccellente prenze della Magna, morto ilBavaro, che lungo tempo in discordia collaChiesa avea occupato lo ’mperio, non ostanteche il re Giovanni vivesse, ordinò di farlo eleggereallo ’mperio. Ed essendo in discordia glielettori, perocchè l’arcivescovo di Maganza nongli volea dare la boce sua, papa Clemente trovando[54]ch’egli era stato de’ fautori del Bavaro, ilprivò dell’arcivescovado, ed elessene un altro;il quale avendo il titolo, non ostante non avessela possessione, come il papa volle diede la suaboce al detto Carlo, e così ebbe piena la sua elezione.Costui eletto era impotente di cavalleriae di moneta a potere mantenere campo ad Aia laCappella quaranta dì, a rispondere con la forzadell’arme a chi lo volesse contastare, secondo laconsuetudine degli eletti imperadori: e peròsanta Chiesa dispensò con lui questa ceremonia,e levollo dal pericolo e dalla spesa. E in questoservigio la Chiesa prese saramento da lui, che venendoalla corona egli perdonerebbe a’ comuni diToscana ogni offesa fatta all’imperadore Arrigosuo avolo e agli altri imperadori, e tratterebbeglicome amici senza alcuna oppressione. Dopoquesto, morto il padre nella battaglia del redi Francia, come detto è, a costui succedette, efu chiamato re di Boemia. E cercando d’accogliereforza per potere venire alla corona delloimperio, ed essendo poco pregiato e meno ubbiditodagli Alamanni, tenendosi gravati dellasua elezione, egli umile si stava chetamente inBoemia aspettando suo tempo. La reina confemminile consiglio volendo attrarre l’amoredel marito dall’altre donne, ch’era giovane,avvegnachè assai onesta, gli fece dare amangiare certa cosa, la quale mangiata doveacrescere l’amore alla sua donna. Nella qual cosa,o erba o altro che mescolato vi fosse che tenesseveleno, come presa l’ebbe, ne venne a pericolodi morte; e per aiuto di grandi e subiti[55]argomenti, pelato de’ suoi peli, ricoverò la salutedel suo corpo. Della qual cosa facendo condannarea morte due suoi siniscalchi per giustizia, lareina, parendo che per sua semplice operazione,più che per colpa che avessono, i famigli delloro eletto imperadore fossono per morire innocenti,s’inginocchiò dinanzi al re dicendo, comeque’ cavalieri non aveano colpa di quello accidente,ma se colpa c’era, era sua: perocchè perfemminile consiglio, volendo più attrarre a se ilsuo amore, non credendo far cosa che offendereil dovesse, li fece dare quella cosa a bere,ovvero a mangiare: e però, se giustizia se n’aveaa fare, ella era degna per la sua ignoranzad’ogni pena, e non coloro ch’erano innocenti.Il discreto signore udite queste parole, consideròla fragilità e la natura delle femmine, e colla suamansuetudine inchinò l’animo all’errore dell’amorefemminile, e con molta benignità perdonòalla reina dolcemente, e liberò i suoi siniscalchi,rimettendogli ne’ loro ufici e onori. Alcunidissono, che messer Luchino de’ Visconti di Milanoil fece avvelenare per tema di perdere la suatirannia. Ed essendo lo eletto imperadore nelpericolo della morte, si disse che promise a Diose campasse, che perdonerebbe a chi l’avesse offesoe non ne farebbe alcuna vendetta; e qualeche fosse la cagione, l’effetto seguitò, che vendettanessuna fece.

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CAP. XXXV.Come il re Luigi prese più castella.

Tornando a’ fatti d’Italia, il re Luigi fattocavaliere, e dato alcuno ordine a’ fatti del Regnoche l’ubbidia, avvedutosi de’ baroni che teneanocol re d’Ungheria, innanzi che volesse procederea fare altra impresa attese a volere racquistarele castella di Napoli. E prima cominciòal castello di Santermo sopra la detta città,e quello per viltà di coloro che l’aveano a guardia,temendo delle minacce più che della forzadella battaglia ch’era loro cominciata, essendoda potersi bene difendere, s’arrenderono alre. E avendo vittoriosamente acquistato questocastello, se ne venne a quello di Capovana, cheè all’entrata della città, fortissimo, da non potersivincere per battaglia. Coloro che dentro v’eranoalla difesa cominciarono a resistere al primoassalto; ma inviliti per la presura di quello diSantermo, e più perchè non vedeano apparecchiatoloro soccorso, trattaron la loro salvezza, erenderono il castello al re. Avuto il re questi dueforti castelli con poca fatica, s’addirizzò al castellodell’Uovo fuori di Napoli sopra il mare,il quale per battaglia non si potea avere, ma eraagevole ad assediare, che tutto era in mare, salvod’una parte si congiungeva con una crestadel poggio, in sul quale il re fece fare unbattifolle. Que’ del castello sappiendo che illoro soccorso non potea essere d’altra parte che[57]per mare, e in quello mare non era alcuna forzadel re d’Ungheria, innanzi che si volessono recareallo stremo patteggiarono col re, e renderongliil castello. Avute il re prosperamentequeste tre castella in poco tempo, fece molto rinvigoriregli animi de’ Napoletani. E vedendo chenon v’era rimaso altro che il castello Nuovoa capo alla città, dove era l’abitazionereale, il quale era sopra modo forte e bene fornito,tanto era cresciuta la baldanza, che nelfervore del loro animo con molto apparecchiamentosi misono a combatterlo da ogni parte,con aspra e fiera battaglia. Ma dentro v’era Gulfortefratello di Currado Lupo, cui il re d’Ungheriaavea lasciato vicario suo, ed era accompagnatodi buona masnada, e bene fornito alla difesa,sicchè per niente si travagliarono della battaglia.E certificati che per forza non lo potevanoavere, e che Gulforte era fedele al suo signore,presono consiglio d’abbarrare tra il castelloe la città, e così fu fatto, e misonvi buona guardia;sicchè fuori che dalla marina il castello eraassediato. E poi senza combattere o assalirlo,l’una gente e l’altra si stettono lungamente.

CAP. XXXVI.Come il re Luigi prese il conte d’Apici.

Avendo il re Luigi vittoriosamente racquistatotre così forti castelli, e lasciando il quartoassediato per terra e per mare, con la sua cavalleria,e con le masnade del doge Guernieri[58]si mise a cavalcare sopra i baroni che teneanocol re d’Ungheria, e in prima andò sopra ilconte d’Apici, figliuolo del conte d’Ariano. Ilconte vedendosi venire il re addosso con granforza d’uomini d’arme, si racchiuse in Apici,e ivi s’afforzò alla difesa come potè il meglio.Il re faceva spesso assalire la terra. Vedendo ilconte che non attendea soccorso, e che il castellonon era forte da poter fare lunga difesa,s’arrendè alla misericordia del re: il quale trattòd’avere di suoi danari trentamila fiorini d’oro,e rimiselo nel suo stato, riconciliato alla sua grazia.

CAP. XXXVII.Come il re Luigi assediò Nocera.

Prosperando la fortuna il re Luigi nelle lievicose, gli dava speranza di prendere le maggiori,e però si mise di presente con tutta sua gentenel piano di Puglia, e dirizzossi a Nocera de’ saracini,che si guardava per la gente del re d’Ungheria.Ma perocchè la città era grande, e guastae male acconcia a potersi difendere, sentendogli Ungheri che dentro v’erano l’avvenimentodel re con la sua gente, abbandonarono la terra,e ridussonsi nella rocca di sopra, ch’era larga, emolto forte alla difesa, e ivi ridussono tutte leloro cose. E sopravvenendo il re Luigi, senzacontasto con tutta sua gente entrarono nella città:e trovando il castello sopra la terra forte e beneguernito alla difesa, conobbono che non era dapotersi vincere per forza di battaglie, e però non[59]tentarono di combatterlo: ma avendo la città inloro balía, afforzarono in ogni parte intorno allarocca, e puosonvi l’assedio, sperando d’averla,poichè gli Ungheri e i Tedeschi erano per lamortalità malati e mancati, e molti se n’erano itiper lo mancamento del soldo, e non era loro avvisoche a tempo potessono avere soccorso; e peròtenendo que’ del castello di Nocera assediati, cavalcaronotutto il piano di Puglia infino pressoa Barletta; e avendo cominciato a prendere ardire,trovando che Currado Lupo vicario del red’Ungheria non avea forza d’entrare in campocol re Luigi, nè di soccorrere gli assediatidi Nocera, era assai possibile al re di mantenerel’assedio, e di fare tornare l’altre terre di Pugliaa sua volontà, cavalcando con la sua forzail paese. Ma il fallace duca Guernieri, ch’aveamilledugento cavalieri tedeschi in sua compagnia,conoscendo il tempo che far lo potea signoree trarlo di guerra, si mise a fargli quistione,e non lo lasciò muovere dall’assedio, nè andareall’altre terre per lungo tempo: dando luogo aCurrado Lupo avversario del re di potersi provvedereal soccorso, e il re non era potente dase di cavalleria nè di moneta che senza il dogepotesse fornire le sue bisogne, e però conveniache seguisse più la volontà corrotta del dogeGuernieri che la sua. E non avea ardimentodi mostrare sospetto di lui, per paura che peggionon gli facesse, e da se nol potea partire senzapeggiorare sua condizione, e crescere la forzae ’l vigore a’ suoi nimici. Ed essendo così intrigatoe male condotto, per avere un capo a[60]tutti i suoi soldati, perdè tempo più di cinque mesial disutile assedio, e diede tempo a’ nimici di procacciareaiuto e soccorso, come fatto venne loro,come appresso racconteremo.

CAP. XXXVIII.Come Currado Lupo liberò Nocera.

Mentre che l’assedio si manteneva per lo reLuigi a Nocera, Currado Lupo, ch’era rimasoalla guardia del reame per lo re d’Ungheria,intese a sollicitare il re, tanto che gli mandòuna quantità di danari per ristorare la genteche per la mortalità gli era mancata: il qualedi presente cavalcò in Abruzzi, e condusse de’ cavalieritedeschi ch’erano in Toscana e nellaMarca, tanti, che co’ suoi si trovò con duemilabarbute: e lasciatine una parte alla guardia delleterre che per lui si teneano, e eletti milledugentocavalieri in sua compagnia, si propose disoccorrere gli assediati del castello di Nocera.Il re Luigi avendo sentito come Currado Lupoavea accolta gente per venire contra lui, di presentemandò il conte di Minerbino, e il contedi Sprech Tedesco, con ottocento cavalieri aimpedire i passi, che Currado Lupo co’ suoi cavalierinon potesse entrare nel piano di Puglia.Ma il detto Currado, come franco capitanoe sollecito, la notte si mise a cammino, e fuprima, partendosi da Guglionese, valicato i passied entrato nel piano di Puglia, che la gente delre fosse a impedirlo, e senza arresto, co’ suoi[61]cavalieri in quello dì cavalcarono quaranta miglia,e la sera giunsono a Nocera in sul tramontaredel sole; e perocchè erano molto affaticatidella lunga giornata, e i cavalli stanchi el’ora tarda, se n’entrarono nel castello senza farealtro assalto, o riceverlo dalla gente del re Luigi.E questo avvenne, imperciocchè del subito avvenimentosbigottì forte la gente del re, especialmente essendo assottigliato l’oste, e nonsappiendo che della loro gente andata a’ passi sifosse avvenuto. Il re veggendo la sua gente sbigottita,prese l’arme e montò a cavallo, e confortòfrancamente i suoi: e sopravvenendo lanotte, in persona ordinò buona e sollecita guardia,attendendo il ritorno de’ suoi cavalieri. Inimici ch’erano stanchi intesono a mangiare, ea confortare la loro gente, e dare riposo a’ loro cavalli,per essere la mattina alla battaglia.

CAP. XXXIX.Come il re Luigi rifiutò la battaglia conCurrado Lupo.

La mattina seguente, Currado Lupo innanziche scendessono del castello nel piano, mandò arichiedere il re Luigi di battaglia, e per segnodi ciò gli mandò il guanto per lo suo trombetta;il re ricevette il guanto, e con dimostramentodi franco cuore e d’ardire, senza tenere altroconsiglio promise la battaglia: perocchè la nottemedesima il conte di Minerbino e ’l conte diSprech erano tornati con la loro gente al soccorso[62]del re. Currado avendo la risposta dal re, comeaccettava di venire alla battaglia, non ostanteche il re avesse assai più gente di lui, confidandosinella buona gente che avere gli pareva, econoscendo la condizione del doge Guernieri, eforse intendendosi con lui, scese del castello contutta sua cavalleria, e ancora con gli Ungherich’erano nel castello a cavallo, e valicato peruna parte della città ch’era in loro signoria,con dimostramento di grande ardire si schierònel piano dirimpetto alla città, aspettando cheil re venisse con la sua gente alla battaglia. Evedendo che non venia, un’altra volta il mandòa richiedere di battaglia. Il re avendo volontàdi combattere sommovea i suoi baroni egli altri cavalieri a ciò fare, con grande istanzia:il doge Guernieri, quale che cagione ilmovesse, che dubbia era la sua fede, vedendoil re acceso alla battaglia, fu a lui, e con dimostramentodi savio e buono consiglio, e conbelle parole il ritenne, mostrandogli che follepartito era a quel punto prendere battaglia,allegando che per due cose sole si dovea combattere,l’una per necessità, e l’altra per grande avvantaggio,e quivi non era nè l’una nè l’altra. Eforse che il consiglio suo fu più salutevole chemalvagio a quel punto, il re vedendo il consigliodel duca, e temendo di non essere seguitonella battaglia da lui nè da’ suoi cavalieri, siritenne in Nocera, ontosamente schernito da’ suoiavversari, i quali schierati in sul campo faceanovergogna al re, perchè non usciva alla battagliacome promesso avea; e avendo aspettato infino[63]al mezzodì, e trombato e ritrombato per attrarrela gente del re alla battaglia, e veggendonon erano acconci a uscire della terra, si partìdi là ordinatamente con le schiere fatte, e dirizzossiverso la città di Foggia, ch’era ivi pressonello piano di Puglia, e in quella, ch’era senzaguardia e senza sospetto, s’entrò di cheto, senzatrovare alcuno riparo. E trovandola piena d’ognibene, quivi s’alloggiarono, facendo delle case,e delle masserizie, e della vittuaglia, e delledonne maritate e delle pulzelle la loro sfrenatavolontà, e ogni sustanza di quella terra si recaronoprima in uso, e poscia in preda. E quiviin prima si cominciò ad assaggiare la preda delloavere del Regno da’ Tedeschi e dagli Ungari, laquale assaggiata vi attrasse da ogni parte i soldati,come gli uccelli alla carogna, in grave dannodi tutto il paese, come procedendo per li tempiin nostra materia dimostreremo.

CAP. XL.Della materia medesima.

Essendo Currado Lupo con la sua gente inFoggia, con grande baldanza presa contro al reLuigi, intendendosi col duca Guernieri, afforzòla città di Foggia, per potere contastare al re ilritorno per la via del piano in Terra di Lavoro.E così fece lungamente, crescendo continuamentela sua gente di cavalleria e masnadieri,perchè viveano di prede, e avanzavano sopra ipaesani non usi di guerra, nè provveduti alla loro[64]difesa. Il re avendo scoperto come dal ducaGuernieri non potea avere servigio che utile glifosse, e che fidare non se ne potea, stato duemesi a Nocera senza alcuno frutto, con grandeabbassamento di suo stato e onore, poichè CurradoLupo entrò in Puglia, prese suo tempo, egirando la Puglia, dilungandosi da’ nimici ch’eranoin Foggia, entrò in Ascoli, e ivi stato pochidì se ne venne a Troia, e di là per Terra beneventanasi tornò a Napoli senza contasto.

CAP. XLI.Come morì il re Alfonso di Castella.

In questo anno, del mese di marzo, morì il reAlfonso di Castella, lasciando Pietro suo figliuololegittimo, nato della reina sirocchia del re diPortogallo, d’età di quindici anni, e sette suoifratelli nati di donna Dianora, grande e gentiledonna di Castella, la quale il detto re amòsopra la reina, e tennela ventiquattro anni.Morto il re, don Pietro fu coronato del reame,ed essendo troppo giovane, i maggiori baroniper tre anni ebbono a governare il reame. E venutoil re Pietro in età di diciotto anni, con malizia,e con senno e con ardire, di gran cuoreprese il governamento di suo reame, e trassenei baroni, e cominciò aspramente a farsi ubbidire;perocchè temendo de’ suoi baroni, trovò mododi fare infamare l’uno l’altro, e prendendo cagione,gli cominciò a uccidere colle sue mani,e in breve tempo ne fece morire venticinque: e[65]tre suoi fratelli fece morire e la loro madre, egli altri perseguitò: ed eglino valenti e di granseguito e ardire si ridussono in loro castella, efeciono al re aspra guerra. E ora fu, che l’unodi loro, ch’era conte di... in uno abboccamentoebbe prigione il re, e consentì che sifuggisse per grande benignità, e in fine si partìdi Spagna, e tornossene col fratello in Araona.

CAP. XLII.Come il doge Guernieri fu preso in Cornetodagli Ungheri.

Tornato il re Luigi a Napoli, non avendo potutoacquistare in Puglia alcuna cosa, ma peggioratala sua condizione, acciocchè le terre e’ baronidi sua parte non prendessono troppo sconfortodella sua partita, mandò in Puglia il doge Guerniericon quattrocento cavalieri, e commisegli laguardia di coloro che teneano con esso lui, e cheraffrenasse la baldanza de’ suoi avversari. Il ducasi mosse con sua compagnia, e con lui mandò il realquanti confidenti toscani, tra’ quali fu messerIacopo de’ Cavalcanti di Firenze, pro’ e valentecavaliere. Costoro entrati in Puglia si ridussonoin Corneto. Il fallace duca pensava, che standodalla parte del re non potea predare nè avanzarecome l’animo suo desiderava, e vedendo lamateria acconcia, e già cominciata per CurradoLupo e per gli Ungheri, trovò modo, volendocoprire il suo tradimento, come fatto gli venissesenza sua palese infamia. E per venire a questo,[66]essendo presso a nimici più possenti di lui, si stavasenza alcuno ordine e senza fare guardia ildì e la notte, anzi non lasciava serrare le portidella città, e andavasi a dormire con tutta la suamasnada. Onde avvenne, come si crede ch’egliavesse ordinato, che Currado Lupo con parte disua gente una notte vi cavalcò, e trovate le porteaperte, e senza difesa e guardia, s’entrò nellacittà: e trovando il doge e’ suoi cavalieri dormirene’ loro alberghi, tutti senza dare colpo di lanciao di spada ebbe a prigione, loro e’ loro cavalli earnesi, senza che niuno ne fuggisse; e avuti i forestieria prigioni furono signori della terra, efecionne, come di Foggia, la loro volontà: e il dìseguente con grande gazzarra ne menarono iprigioni e la preda a Foggia, dove faceano lororesidenza. Ed essendo il duca Guernieri prigionein Foggia, si fece porre di taglia trentamila fiorinid’oro; e mandò al re che ’l dovesse ricomperarein fra certo tempo, e dove questo non facesse,disse gli conveniva essere contro a lui in aiutodel re d’Ungheria: e però gli protestava, chese il riscatto non facesse, non gli farebbe tradimentovenendo contro a lui dal termine innanzi.Il re Luigi avendo conosciuto per opere i suoibaratti, avvegnachè conoscesse che per cupiditàdi preda e’ sarebbe contro a’ suoi agro nimico, innanziil volle suo avversario, potendo contro alui scoprirsi alla sua difesa, che averlo traditoredalla sua parte, e però nol volle riscuotere. Ondeegli trasse a se tutti i Tedeschi di sua condotta,e da Currado Lupo fu fatto il terzo conducitoredella sua oste, renduto a lui e a’ suoi l’armi e’[67]cavalli e gli arnesi. Messer Iacopo de’ Cavalcanti,perocchè altra volta era stato preso, elasciato alla fede, fu ritenuto, e ultimamente permandato del re d’Ungheria, per corrotto saramento,vituperevolemente fu impiccato.

CAP. XLIII.Come i Fiorentini presono Colle.

I Colligiani avendo ripreso in loro giuridizioneil reggimento libero della loro terra, poichè’l duca d’Atene fu cacciato di Firenze, cheper lo detto comune n’era signore, volendo mantenerela loro libertà, non lo seppono fare, anzicominciarono a setteggiare, e volere cacciare l’unol’altro, e alcuna parte trattava coll’aiuto digrandi e possenti vicini d’esserne tiranni. Escoperto tra loro il trattato, si condussono all’arme:e stando in combattimento dentro, il comunedi Firenze per paura che tirannia non vi siaccogliesse, subitamente vi mandò il capitanodella guardia che allora tenea in Firenze, contrecento cavalieri e con assai fanti a piè, e improvvisovennono a’ Colligiani in su le porti e intornoalla Prateria, del mese d’aprile gli anni 1349. Esentendo i Colligiani la gente de’ Fiorentini alleporti, e tra loro grave discordia dentro, viddono,che volere a’ cittadini di Firenze, che ivi eranomandati per loro bene, fare resistenza era impossibile,e il loro peggiore, perocchè se l’una settasi fosse messa alla difesa, l’altra si sarebbe fattaforte col comune di Firenze, e arebbono abbattuta[68]la setta contraria, sicchè per lo loro migliore,di comune concordia apersono le porti, emisono dentro la gente del comune di Firenze. Ecome dentro vi furono, i terrazzani lasciaronol’arme che aveano prese per la loro divisione,e ragunati al consiglio, conobbono, che il comunebeneficio della loro comunità era di dare la guardiadi quella terra al comune di Firenze, e altrimentinon vedeano di potere vivere in pacee in riposo senza sospetto l’uno dell’altro. E peròdiliberarono solennemente tutti d’uno animoe d’una concordia, che ’l comune di Firenze avessein perpetuo la guardia di quella terra; e ilcomune la prese, e ordinò dentro senza quistionei loro ufici, comunicandoli discretamentetra’ loro terrazzani, a contentamento di catunaparte; e appresso di tempo in tempo v’ordinò ilcomune di Firenze la guardia de’ suoi cittadini, ei rettori di quella, mandandovegli da Firenze ognisei mesi successivamente.

CAP. XLIV.Come i Fiorentini ebbono Sangimignanoa tempo.

Nel detto anno e mese d’aprile, recata la terradi Colle a guardia del comune di Firenze prosperamente,innanzi che il detto capitano consua gente a piè e a cavallo tornasse a Firenze, essendoil comune di Sangimignano per similemodo in grande divisione per cagione del lororeggimento, onde forte si temea non pervenisse[69]a tiranno, il comune di Firenze vegghiandocon sollecitudine a mantenere la libertàdi Toscana, fece comandamento al capitanoe a’ cittadini consiglieri ch’erano con lui ch’andassonoa Sangimignano, e senza fare alcunodanno, o atto di guerra, domandassono per locomune di Firenze la guardia di quella terra,acciocchè il comune loro e ’l nostro vivessonodi ciò più sicuri, che non si potea vivere vedendogliin setta e in divisioni. Il capitano conquella gente se n’andò a Sangimignano, e feceil comandamento del comune di Firenze, standosifuori della terra senza fare danno niuno.E fatta la richesta, quegli di Sangimignanoebbono sopra ciò diversi consigli, e dibattutosifra loro più giorni, che l’uno volea e l’altrono, in fine avvedendosi che le loro discordieerano pericolose, e che non erano potenti a mantenerelibertà; vedendo il pericolo delle divisionie sette che aveano tra loro, e che lo sdegnodel comune di Firenze potea risultare inloro maggiore pericolo, per comune consigliodiedono per tre anni a venire il governamentoe la guardia di quella terra al comune di Firenze,con patto che il comune vi mandasse di seimesi in sei mesi uno cittadino popolano di Firenzeper capitano della guardia, e un altro perpodestà alle loro spese; e così deliberato, misonodi gran concordia dentro la gente del comunedi Firenze. E ricevuti i rettori, cominciaronoa vivere tra loro in molta concordia e pace, ecatuno intendeva a fare i fatti suoi, dimenticandole cittadine contenzioni e gli altri sospetti[70]che gli conturbavano, e il capitano co’ suoi cavalierie col popolo tornò a Firenze ricevuto aonore, del detto mese d’aprile.

CAP. XLV.Di tremuoti furono in Italia.

In questo anno, a dì 10 di settembre, si cominciaronoin Italia tremuoti disusati e maravigliosi,i quali in molte parti del mondo duraronopiù dì, e a Roma feciono cadere il campaniledella chiesa grande di san Paolo, conparte delle loggi di quella chiesa, e una partedella nobile torre delle milizie, e la torre delconte, lasciando in molte altre parti di Romamemoria delle sue rovine. Nella città di Napolifece cadere il campanile, e la faccia della chiesadel vescovado e di santo Giovanni maggiore,e in assai altre parti della città fece grandi rovine,con poco danno degli uomini. Nella cittàd’Aversa, essendo i caporali de’ Tedeschi e degliUngheri, con molti conestabili e cavalieri, aconsiglio nella chiesa maggiore, non determinatoil loro consiglio uscirono della chiesa, ecome furono fuori, la chiesa cadde, e per volontàdi Dio a niuno fece male. La città dell’Aquilane fu quasi distrutta, che tutte le chiese e’grandi difici della città caddono, con grandemortalità d’uomini e di femmine; e durando perpiù dì i detti tremuoti, tutti i cittadini, ed eziandioi forestieri, si misono a stare il dì e la nottesu per le piazze e di fuori a campo, mentre che[71]quello movimento della terra fu, che durò ottodì e più. Ed erano sì grandi, che in piana terraavea l’uomo fatica di potersi tenere in piede.A san Germano e a monte Cassino feceincredibili ruine di grandi difici, e dell’anticomonistero di santo Benedetto sopra il monte delpoggio medesimo, che pare tutto sasso, abbattèbuona parte; il castello di Valzorano del poggiorovinò nella valle, con morte quasi di tutti i suoiabitanti. Nella città di Sora fece degli edificigrandissime ruine, e così in molte altre partidi Campagna e di terra di Roma, e del Regnoe di molte altre parti d’Italia, che sarebbonolunghe e tediose a raccontare. Per li quali terremuotisi potea per li savi stimare le future novitàe rivolgimenti di que’ paesi, le quali poiseguitarono, come il nostro trattato seguendo sipotrà vedere.

CAP. XLVI.Come sommerse Villacco in Alamagna.

In questo medesimo tempo, essendo all’entraredella Magna sopra una valle una città che hanome Villacco, in sul passo, con alquante villatee castella che teneano bene dodici miglia, a’confini della Schiavonia, questa terra con le sueville e castella per gli terremuoti s’attuffò nellavalle, con grande danno di morte de’ suoi abitanti.E perocchè il luogo è sul passo del Friuli eSchiavonia, e paese ubertuoso, e i suoi alberghitutti si fanno di legname, che ve n’ha grande[72]abbondanza, fu tosto rifatto e abitato. Innanziche l’anno fusse compiuto dal suo rifacimento,per fuoco arse tutta la terra, che fu a pensarenon piccolo giudicio de’ suoi abitanti. Ma per lofertile luogo e utile per lo passo, in brieve tempofu redificata la terra più bella che prima.

CAP. XLVII.De’ fatti del Regno.

Del mese di maggio del detto anno, sentendoil re Luigi crescere fortemente nel Regno la forzadel re d’Ungheria, fece comandamento a tutti isuoi baroni che teneano con lui che si sforzassonod’arme e di cavalli, e ragunassonsi in Napoliper resistere a’ loro avversari, che aveano per lapresa di Foggia e di Corneto presa superchia baldanzain Puglia, e accolti molti Tedeschi d’Italia,per vaghezza delle prede del Regno, più cheper soldo ch’elli avessono. I baroni vedendo il comunepericolo di loro stato e di tutto il Regno,feciono gente d’arme, e ragunaronsi a Napolipiù di tremila cavalieri ben montati e benearmati; e ancora non era venuto il conte di Minerbino,che avea con seco trecento barbute. CurradoLupo, che avea con seco il duca Guernieri,e ’l conte di Lando, e messer Giovanni d’Arnicchi,Tedeschi grandi maestri di guerra, econ grande seguito di soldati tedeschi, avienoaccolti tutti gli Ungheri del Regno, ch’erano piùdi settecento, in grande fede al loro signore: eancora erano ragunati con loro masnadieri italiani[73]assai, tratti per guadagnare, sentendo che la forzadel re era ragunata a Napoli, di presente fornìdi guardia tutte le terre sue, e co’ sopraddetticaporali, e co’ loro cavalieri tedeschi e ungheri,milleseicento o più, e con briganti apiè, acconci a guadagnare, sperando abboccarsico’ ricchi baroni del Regno, si partironodi Foggia, e senza fare soggiorno o trovare resistenzase ne vennero infino ad Aversa, cittàdi Terra di Lavoro, presso a Napoli a otto miglia,la quale in quel tempo non era murata:e per mala provvedenza non era guardata, avvegnachèmalagevole fosse a guardare, perchèera molto sparta, ma avea il castello moltogrande e forte. Currado Lupo con la sua cavalleriasenza contasto s’entrò nella terra, laquale era doviziosa e piena d’ogni bene. Edessendo altra volta stata all’ubbidienza del red’Ungheria, non si pensarono essere trattati inruberia e in preda dal vicario del re, e però sitrovarono ingannati. I Tedeschi e gli Ungheri comefurono dentro cominciarono a fare delle cose,vi trovarono da vivere a comune con i cittadini,con più temperanza e ordine che fattonon aveano in Foggia, perocchè vi aveano più astare. E incontanente cavalcarono per lo paesee per li casali dintorno per farsi ubbidire, e recareil mercato derrata per danaio; e chi non gliubbidia di recare della roba ad Aversa sì la rubavanoe ardevano. E in fine, ora per una cagione,ora per un’altra, tutti erano rubati, e cominciaronoa cavalcare fino presso a Napoli, ed a non lasciarea’ foresi portare alcuna roba in quella terra, che[74]a giornata solea abbondare della molta roba delleterre e casali di fuori, ed ora niuno v’andava,che d’ogni parte erano rotte le strade e i cammini,onde la città cominciò ad avere carestia, econvenia che per mare si fornisse. Il re Luigiavea baroni e cavalieri assai in Napoli, ma perbuono consiglio riteneva i suoi baroni con il volonterosopopolo che non uscissono contro a’ nimicia loro stanza, e attendea maggiore forza disua gente di dì in dì, e pensava che i nimici perle ruberie fatte a’ paesani venissono in soffratta,e volea a sua stanza e a suo tempo andare soprai suoi nimici e a suo vantaggio, e non alla lororichiesta, e questo era salutevole e buono consiglio.Ma dove la fortuna giuoca più che ’l senno, la gentevi corre.

CAP. XLVIII.Come la gente del re d’Ungheriasconfisse i baroni del Regno.

Vedendo i capitani della gente del re d’Ungheriache la baronia del Regno era accolta aNapoli contro a loro, e non si movea nè mostravain campo per le loro cavalcate, si fecionoloro più presso a Meleto quattro miglia presso aNapoli; e quivi stando, cominciarono a darevoce che discordia fosse tra’ Tedeschi e gliUngheri, e seguendo loro malizia s’armarono,e acconciarono il campo come se dovessero combattereinsieme; e avendo tra loro mezzani gli Ungheri,come malcontenti d’essere con CurradoLupo, dierono voce di volersene tornare in Puglia.[75]I giovani baroni che sentivano di pressole novelle de’ loro nimici, e’ baldanzosi cavalierinapoletani credendo che la discordia fosse tragli Ungheri e’ Tedeschi come la boce correa,non accorgendosi del baratto, e parendo loroche per difetto di vittuaglia e’ non potessonopiù stare nel paese, quasi come la preda uscisseloro tra le mani aspettando, fremivano nell’animod’uscire fuori, e correre sopra i nimici;e contradicendo il re e ’l suo consiglio la furiosapresunzione de’ giovani baroni e de’ pomposiNapoletani, in furia s’apparecchiarono dell’arme.E montati sopra i loro destrieri e buoni cavalli,che n’erano bene forniti, e con ricchi arredie nobili sopransegne, colle cinture dell’oroe dell’argento cinte, in grande pompa, avendo fattoloro capitani messer Ruberto di Sanseverino,e messer Ramondo del Balzo, valenti baroni, eil conte di Sprech Tedesco, e messer Guiglielmoda Fogliano, ordinate loro battaglie, contradicendoloil re in persona, uscirono di Napoli, e addirizzaronsia’ nimici. Il cammino era corto, e il paesepiano, sicchè in poca d’ora furono giunti al campo,ove trovarono di costa a Meleto nella spianataschierati i nemici, i quali aveano sentito il furiosomovimento de’ ricchi baroni e cavalieri del Regno,e aveano con savio provvedimento fatte tre schiere.Vedendo la folle condotta de’ loro avversari, s’allegrarono,e’ baldanzosi regnicoli sì diedono francamentenella prima schiera, la quale, per ordinefatto a maestria, s’aperse, e lasciò valicare,e mescolare tra loro la cavalleria del Regno,non ostante che assai fussono più di loro; e reggendo[76]a testa la seconda schiera e intrigata labattaglia, il conte di Lando, ch’era da parte collasua schiera, tornò un poco di campo, e venneloro alle reni, e combattendoli dinanzi e didietro,avvegnachè v’avesse di valorosi cavalieri,per la loro mala provvedenza in poca d’oracon non troppa asprezza di battaglia gli ebbonovinti, e sbarattati e richiusi tra loro per modo, chela maggior parte co’ loro capitani furono presi,e pochi ne morirono. Quelli che poterono fuggirene fuggirono, e non furono incalciati, perchèerano presso alla città, e i loro nemici n’aveanoassai tra le mani a guardare, sicchè non si curaronod’incalciare gli altri. Questa propriamentenon si potè dire battaglia, ma uno irretamentoda pigliare baroni e cavalieri di grandi ricchezze.I presi furono tra conti e baroni venticinquede’ maggiori del Regno, con molti ricchi cavalierinapoletani di Capovana e di Nido, e nobili scudierie grandi borgesi e baroncelli del Regno, i qualierano tutti bene montati. E come i capitani de’ Tedeschie degli Ungheri ebbono raccolti insiemei prigioni e la preda, con grande festa e sollazzod’avere acquistato grande tesoro senza fatica,gli condussono ad Aversa; e messi i baroni e’cavalieri in sicure prigioni, l’altra preda divisonotra loro. E questo fu a dì sei di giugno 1349.

CAP. XLIX.Come i Napoletani ricomperarono la vendemmiada’ nimici.

Dopo la detta sconfitta la gente del re d’Ungheria[77]avendo presa grande baldanza, cavalcavanoogni dì infino a Napoli per tutte le contradecircostanti alla città, senza trovare alcunocontasto. Ch’e’ cavalieri ch’erano in Napoli,e quelli che scamparono della sconfitta, tutti tornaronoin loro paese, e i Napoletani non ebbonopiù ardire di montare a cavallo contra i nimici;per la qual cosa assai picciola gente spesso entravanocon grande ardire tra santa Maria del Carminoe il Santolo, rubando e facendo preda insul mercato; e per questo avvenne che per terranon v’entrava alcuna vittuaglia, e però convenneche per mare vi venisse d’altre parti, emontasse ogni cosa, fuori del vino, in grande carestia.Vedendo i Napoletani nella forza de’ loronemici tutto il loro contado, temendo delle lorovendemmie, e per avere alcuna posa, diedono aCurrado Lupo e a’ suoi compagni ventimila fiorinid’oro, e messer Ramondo del Balzo, e messerRuberto da Sanseverino, e il conte di Tricarioanche della casa di Sanseverino, e il conte di santoAngiolo, e un altro barone, ch’erano presi, siricomperarono fiorini centomila d’oro, e gli altribaroni del Regno e cavalieri si ricomperarono fiorinicinquantamila, e’ cavalieri e scudieri di Napolisi ricomperarono altri cinquantamila fiorini: e ilconte di Sprech Tedesco, e M. Guiglielmo da Foglianoe’ soldati forestieri, tolto loro l’arme e’ cavalli,furono lasciati alla fede. E trovandosi questagente del re d’Ungheria fornita d’arme e dicavalli, e pieni d’arnesi, e abbondante d’ognibene, questi danari, e molti gioielli d’oro e d’ariento,riposono nel castello d’Aversa senza partire,[78]acciocchè niuno avesse cagione di partirsidel paese. E per accogliere maggiore tesoro, i danaridel riscatto, e del tempo della vendemmia,furono pagati, e queto il paese mentre che levendemmie durarono, secondo la loro promessa,e passato il tempo ricominciarono la guerra comeprima, aspettando danari freschi dal ree da’ Napoletani, come appresso seguendo sipotrà trovare.

CAP. L.Come si fe’ triegua nel Regno.

Il papa e’ cardinali avendo sentita la rottade’ baroni del Regno, e che ’l paese si guastava,mandarono nel Regno M. Annibaldo da Ceccanocardinale legato di santa Chiesa, a procacciare diconservare il reame, acciocchè la discordia de’ duere non guastasse quello ch’era di santa Chiesa.Il cardinale giunto a Napoli trovò il re e’ Napoletaniin male stato, e i paesi di Terra di Lavoroguasti, rubate le castella, le ville, i casali, e vedendoche la forza de’ Tedeschi e degli Ungheriguastava tutto, si mise a cercare via d’accordo,e andava dall’una parte all’altra, ma pocofrutto di concordia seppe fare. Onde il re e’ Napoletaniavvedendosi che il cardinale non facealoro profitto, si condussono a cercare eglino conloro confidenti. E mandarono a Currado Lupo eagli altri caporali ad Aversa, e in fine vennonocon loro a concordia, che dovessono lasciare inmano del cardinale Aversa e Capova, e tutte le[79]terre e castella che teneano dal Volturno diTuliverno in verso Napoli, per tutta Terra di Lavoroe di Principato, e facendo questo avessonocontanti centoventimila fiorini d’oro. Le terrefurono lasciate nella guardia del cardinale, e i danarifurono pagati del mese di gennaio 1349. Alloravidono il conto de’ danari che aveano raunati,e trovaronsi in contanti più di cinquecento migliaiadi fiorini d’oro, i quali di molta concordiasi divisono a bottino. E’ caporali dividitorifurono, Currado Lupo, e il doge Guernieri, e ilconte di Lando, e M. Gianni d’Ornicchi, e alcunialtri. E oltre a questo tesoro, e oltre a moltidestrieri, e ricchi arnesi e armadure che catunoavea, ebbono parte di molte vasellamentad’argento, e di croci e di calici e d’altri ornamentidelle chiese che avieno spogliate, eornamenti delle donne, e drappi e vestimentadi grandissima valuta, de’ quali erano pieni, avendonespogliate parecchie città, come detto abbiamo.Costoro sopra modo ricchi, passato il Volturno,si diliberarono di partirsi del Regno, etutti, fuori che Currado Lupo, e fra Moriale egli Ungheri, che si ritennono per lo re d’Ungherianel Regno, si partirono e menandone molte donnerapite a’ loro mariti, e molte altre che nonaveano marito, cosa strana e disusata tra’ fedelicristiani; e ricchi delle loro rapine, quali sitornarono in Alamagna, e altri si sparsono nell’italianeguerre: e per questo modo il Regno ebbealcuno sollevamento dalle ruberie e dalla guerra,che catuno si posava volentieri. E dandoci alquantotriegua le novità dello sviato Regno, ci[80]s’apparecchia nuova e lieve cagione, della qualesurse come di picciola favilla fuoco di smisuratagrandezza.

CAP. LI.Di novità di barbari di Bella Marina.

Tornando alquanto nostra materia a’ fatti de’barbari, in questo tempo Buevem figliuolo diBalese della Bella Marina, a cui come addietro ènarrato, il detto Buevem avea rubellato il regno diTremusi, sentendo che Maometto suo cugino gliavea rubellato Fessa e il suo reame, liberò di servaggiomille cristiani, e misegli a cavallo e in arme,e accolse suo oste di quindicimila cavalieri, edi gran popolo di Mori a piè, e andonne versoFessa, contro a Maometto, il quale trovò provvedutocon venticinquemila cavalieri e di grandepopolo, e fecelisi incontro fuori della città diFessa, e non troppo lungi della città commisonoaspra battaglia, nella quale morirono grandissimaquantità di saracini da catuna parte; in fine, comepiacque a Dio, per virtù de’ cristiani Maometto fusconfitto, colla sua gente morta e sbarattata, ed eglisi rifuggì nel castello di Villanuova, ove Buevemil tenne assediato sei mesi senza speranza di poterloavere per la grande fortezza; e però argomentòdi fare fuggire da se un grande caporale de’ cristianicon sua masnada, e mostrando di perseguirloper uccidere, si fuggì a Maometto nel castello,il quale conoscendo la prodezza e sennode’ cristiani, pensò di difendersi meglio, avendo[81]costui dal suo lato, e però gli fece onore e grandipromesse, perchè avesse materia d’aiutarloe d’esser leale. Costui mostrandosi agro nimicodi Buevem, alcuna volta uscì fuori percotendoil campo, e ritornando con onore. Il re Buevemmostrando che onta gli fosse cresciuta per lafuggita del malvagio cristiano, ordinò di volerecombattere il castello. Maometto sentendo ciòs’ordinò alla difesa: e avendo presa confidenzanel conestabile cristiano, gli accomandò la guardiad’una porta del castello. E venendo il re allabattaglia, il traditore gli aperse la porta, edentrato dentro con grande sforzo, preso Maometto,e incarcerato, in pochi dì il fece morire. E andatoa Fessa, fu ricevuto come re e loro signore,e fu coronato re di Morocco, e della Bella Marinae di Tremusi in poco tempo, essendo il padrea Tunisi, il quale tornando poi contro al figliuoloper lo regno, gli avvenne quello che a suotempo diremo.

CAP. LII.Come Balase tornando per lo suo reame controal figliuolo ebbe grande fortuna, e poifu avvelenato.

Balase avendo acquistato il reame di Tunisi,e perduto quello di Bella Marina e di Tremusi,di che Buevem suo figliuolo s’avea fatto coronare,fece in Tunisi re un altro suo figliuolo, econ sei galee armate, e una nave di Genovesicarica di grande tesoro ch’avea tratto di Tunisi,[82]del mese d’ottobre del detto anno, si mise inmare per tornare nel suo reame: confidandosi,che essendo con sua persona nel paese, i suoisudditi l’ubbidirebbono, non ostante che il figliuoloavesse la signoria. E avendo lasciato ilsuo nuovo re in Tunisi, poco appresso la suapartita gli Arabi entrarono in Tunisi, e uccisonoquesto figliuolo rimaso, e fecionne re il nipotedel re di Tunisi, cui Balase avea morto; e ’ldetto Balase essendo in mare, una fortuna il percosse,e tutte e sei le sue galee ruppe, e tutti gliuomini perirono, salvo il re con alquanti compagniche camparono in su uno scoglio: e indilevato da certi pescatori fu portato a Morocco,ove riconosciuto, fu ricevuto come loro signore.La nave col suo tesoro messasi in alto pelago arrivòin Ispagna, e il re Pietro s’appropiò il tesoro.Balase essendo ubbidito in Morocco e nelpaese, di presente accolse di suoi baroni, e congrande oste andò contro a Buevem suo figliuolo,inverso Fessa; e cominciato a guerreggiare, veggendoBuevem che i suoi baroni cominciavanoa ubbidire al padre, disperandosi della difesa, argomentòcon incredibile tradimento. Egli aveaseco una sua sirocchia giovane fanciulla figliuoladi Balase, costei ammaestrò di quello ch’eglivolle ch’ella facesse: la quale si partì da lui,mostrando mal suo volere, e tornò al padre, ilquale la vide allegramente, ed ella lui, comecaro padre, e commendatola della sua venuta,la tenea intorno a se come figliuola. Ma la corrottafanciulla osservando la malizia del fratello,ivi a pochi dì avvelenò il padre. Finito Balase[83]il corso della sua vita, e delle sue grandi fortuneprospere e avverse, Buevem suo figliuolorimase re della Bella Marina, e di Morocco e diTremusi; ma poco appresso i Mori gli rubellaronoTremusi, ma egli di presente vi mandò grandeoste, e racquistò tutto. E montato in grande potenzia,per forza si sottomise il reame di Buggeae quello di Costantina, e’ loro re mise in prigione.E incrudelito, per ambizione di reggere lasignoria con meno paura, in brieve tempo fecemorire venticinque suoi fratelli di diverse madri.Ed esaltato sopra tutti i Barberi, cominciò a usaresenza freno la sua lussuria, e gli altri diletticarnali, ove si riposa la gloria di quelli saracini;e a un’otta avea trecento mogli e grande noverodi vergini, le più nobili e le più belle de’ suoireami: e quando gli piaceva, usava con quellache l’appetito della sua concupiscenza richiedeva,e quella mettea nel numero delle sue mogli.Uomo fu ridottato sopra gli altri signori, easpro punitore di giustizia; e con grande guardiae con molto ordine governava i suoi reami. A’cristiani mercatanti facea grande onore, e volentierigli ricettava in suo reame.

CAP. LIII.Come per lievi cagioni suscitò novitàin Romagna.

Essendo conte di Romagna messer Astorgio diDuraforte di Proenza, il quale avea per moglieuna nipote di papa Clemente sesto, o che più vero[84]fosse sua figliuola, il papa l’amava, e intendevaa farlo grande. Costui il dì della Pasqua diNatale del detto anno, mostrando familiarità co’gentiluomini di Faenza, gli fece invitare a pasquareseco. Ed essendo a desinare, riscaldati dallavivanda e dal vino, messer Giovanni de’ Manfredidimestico del conte gli disse: in cotale mattinaper cagione di padronatico, ci è debitore ilvescovo di Faenza di mandare una gallina condodici pulcini di pasta, e con carne cotta: e quandoquesto e’ non fa, a noi è lecito mandare alla suacucina, e trarne la vivanda, e ciò che in quella sitrova. La gallina non è venuta, e però piacciaviche con vostra licenza noi possiamo usare la ragionedel nostro padronatico. La domanda fu indiscreta,essendo in casa altrui, che non era certoche il vescovo avesse fallato; e il conte con pocosentimento, non considerando il pericolo della novità,concedette quella licenza follemente. Il vescovoavea fatto suo dovere, e avea mandata a casamesser Giovanni d’Alberghettino la gallina ei pulcini, a cui l’anno toccava quello onore, e ladonna per un suo scudiere l’avea mandata almarito al palagio del conte; ma per comandamentofatto a’ portieri per lo conte che alcuno non vi lasciasseroentrare, se n’era tornato a casa. Nondimenomesser Giovanni, ch’avea avuta la licenziadal conte, disse a’ suoi famigli: andate, e chiamatede’ nostri amici, e dite loro rechino le scuri, ed entratenel vescovado: e se le porti non vi sono aperte,colle scuri l’aprite, e della cucina del vescovogittate fuori vivanda, e ciò che vi trovate dentro.Costoro andando agli amici di messer Giovanni[85]diceano: togliete le scuri, e venite con noi. Coloroch’erano invitati che togliessono le scuri non sapendola cagione, pigliarono anche l’altre armi, el’uno confortava l’altro: e così armati traevano acasa messer Giovanni. Le masnade del conte apiè e a cavallo che il dì avieno la guardia, temendodi questa novità, trassono a casa messer Giovanni,e cominciarono mischia contro a colorovi trovarono armati. I terrazzani si difendeanonon sappiendo la cagione del fatto: la gente traevada ogni parte a romore. Sentendosi la novitàal palagio dov’erano i convitati, facendosi ilconte alle finestre, vidde a piè del palagio unoFranceschino di Valle, grande amico di messerGiovanni Manfredi, a cui commise che andasseda sua parte a comandare alla sua gente e a’ cittadiniche lasciassono la zuffa e non contendessonoinsieme. Costui disarmato andò a fareil comandamento da parte del conte. La gentedel conte, che conosceano costui amico di messerGiovanni, presono maggiore sospetto, e rivolsonsicontro a lui, e volendogli uno dare dellaspada in sulla testa, parando la mano al colpogli fu tagliata: e seguendo i colpi contro a lui, fumorto, e in quello stante tre altri amici di messerGiovanni vi furono tagliati e morti. Per laqual cosa, al matto movimento aggiunto la vergognae il danno, generò fellonia e sdegno in messerGiovanni, e conceputo nel petto, propose nellamente di tentare cose quasi incredibili a poterlivenire fatte, secondo il suo piccolo e poverostato, le quali per molto studio copertamente,come vedere si potrà appresso, condusse al suointendimento.

[86]

CAP. LIV.Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenzaalla Chiesa.

Messer Giovanni Ricciardi de’ Manfredi avendoconceputo il tradimento ch’egli intendea fare,cominciò segretamente a dare ordine al fatto:e avvennegli bene, che il conte sopraddettoandò a corte a Vignone. E per alcuno sentimentodi gelosia, per sicurtà menò con seco messerGuglielmo fratello carnale del detto messerGiovanni, come per grande confidenza di suacompagnia, e lasciò vececonte un Provenzaledi poca virtù, con trecento cavalieri a sua compagnia.E oltre a ciò, lasciò fornite le fortezzedella città e le castella di fuori. Messer Giovannide’ Manfredi con molta stanzia teneagrande familiarità col vececonte, e con singularestudio traeva a se l’amore e la benivoglienzade’ cittadini. E come gli parve tempo, cominciòa mettere copertamente fanti in Faenzaa pochi insieme, e feceli ricettare a’ suoi confidenti.E seppe sì fare, che in poco tempo ebbenella città cinquecento fanti forestieri a sua petizione,innanzi che il vececonte o alcuno se nefosse accorto. Ma discordandosi da lui messerGiovanni dello Argentino suo consorto, per viadi setta, sentì come in certa contrada nel contado,gli amici di messer Giovanni di messerRicciardo non si trovavano, e non si sapea dovefossono. E per questo sospettando di tradimento,[87]fece sentire al vececonte, com’egli sapeache gli amici di messer Giovanni di messer Ricciardoin cotale e in cotale parte non si ritrovavano,perchè temea che in Faenza non apparissenovità; il visconte avendo con messer Giovannisingolare amicizia e confidenza, non voleaintendere di lui alcuno sospetto, ma provvedeaal riparo. E appressandosi il tempo che il fattosi dovea muovere, la cosa si venia più scoprendo.Allora il visconte ingelosito mandò a fare richiederedegli amici di messer Giovanni: costoro andaronoprima a messer Giovanni a sapere quelloch’avessono a fare. Messer Giovanni disse loro:tornatevi a casa, e armatevi co’ vostri parenti eamici, e levate il romore. Ed egli co’ cittadinicon cui egli si confidava, e co’ fanti che aveamessi in Faenza s’andò ad armare, e accolto ilsuo aiuto, uscì delle case armato, e fecesi fortea’ suoi palagi. Levato il romore, il visconte fu acavallo co’ suoi cavalieri e con fanti appiè soldati,e dirizzossi alle case di messer Giovanni,ove sentiva la gente armata. E giunto al luogo,trovando messer Giovanni co’ suoi armati cominciòa combattere con loro fortemente. MesserGiovanni co’ suoi si difendeva virtudiosamente,sostenendo il dì e la notte, senza perderedella piazza. La mattina messer Giovanni preseuna parte della sua gente, e misesi sul fossodella città, onde attendea soccorso da alcuni suoiamici di fuori, e sforzandosi il visconte di levarlodi quel luogo, non ebbe podere. La gentevenne, e misono un ponte, ch’aveano fatto però,sopra il fosso, e atati da quelli d’entro valicarono[88]senza contrasto, e furono trecento fantidi Valdilamone, e altri amici di messer Giovanni,e due bandiere di quaranta cavalieri chevi mandò il signore di Ravenna. Il Provenzalesbigottito per codardia, avendo la maggior partede’ cittadini in suo aiuto, e tutte le fortezzedella città in sua guardia, e l’aiuto delle masnadedi santa Chiesa a cavallo e a piè, ed essendovincitore, standosi fermo, tanta viltà gli occupòla mente, ch’egli abbandonò le fortezzedella terra, e la libera signoria ch’egli aveanelle sue mani, e tutto il suo onore, e non statocacciato, abbandonò la città, e fuggissi a Imolacolla sua gente, ove per reverenzia di santa Chiesafu ricevuto, e raccettato mansuetamente. Eabbandonata per costoro la città di Faenza e lesue fortezze, messer Giovanni di messer Ricciardode’ Manfredi ne rimase libero signore. E incontanentesi collegò col capitano di Forlì, e colsignore di Ravenna, e co’ signori di Bologna, chetemeano della Chiesa, perchè per tirannia teneanole città contro al volere della Chiesa, e segretamentedavano aiuto e consiglio a messerGiovanni, acciocchè Faenza e Romagna non rimanesseall’ubbidienza della Chiesa. Questoappresso si dimostrò manifestamente, come leggendonostro trattato si potrà trovare. E questorubellamento avvenne a dì 27 di febbraio deldetto anno.

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CAP. LV.Come il capitano di Forlì prese Brettinoroper assedio.

Del mese di maggio seguente, gli anniDomini1350, il capitano di Forlì vedendo che la Chiesaavea perduta Faenza, essendosi collegato co’tiranni di Bologna, con quello di Ravenna edi Faenza, che desideravano al tutto sveglierela Chiesa di Romagna e la sua forza; conoscendoil tempo fece suo sforzo, e andò ad assedio al castellodi Brettinoro, ch’era molto forte e benefornito. E ivi stando lungamente, la Chiesa nonlo soccorreva per avarizia, ma scrivea a’ signoridi Bologna, i quali amavano che si perdesse, e aicomuni di Toscana, che aiutassono al conte diRomagna a soccorrerlo senza darli forza di gented’arme. E stando d’oggi in domane a speranzadell’aiuto degl’Italiani, non avendo alcuna forzada se, il conte si trovò ingannato. Il capitanostringeva gli assediati con ogni argomento,i quali disperati di soccorso, in prima i terrazzanis’arrenderono al capitano, e appresso quellidella rocca la dierono per danari, che bene lapoteano lungamente difendere. Ma la viltà delnon sentire apparecchiare soccorso gli fece affrettarea trarre il loro vantaggio.

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CAP. LVI.Come i cristiani d’Europa cominciaronoa venire al perdono.

Negli anni di Cristo della sua natività 1350,il dì di Natale, cominciò la santa indulgenza atutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma,facendo le vicitazioni ordinate per la santaChiesa alla basilica di santo Pietro, e di sanGiovanni Laterano, e di santo Paolo fuori diRoma: al quale perdono uomini e femmine d’ognistato e dignità concorse di cristiani, con maravigliosae incredibile moltitudine, essendo dipoco tempo innanzi stata la generale mortalità, eancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedelicristiani; e con tanta devozione e umilitàseguivano il romeaggio, che con molta pazienzaportavano il disagio del tempo, ch’era uno smisuratofreddo, e ghiacci e nevi e acquazzoni,e le vie per tutto disordinate e rotte: e i camminipieni di dì e di notte d’alberghi, e le case soprai cammini non erano sofficienti a tenere icavalli e gli uomini al coperto. Ma i Tedeschie gli Ungheri in gregge, e a turme grandissime,stavano la notte a campo stretti insieme per lofreddo, atandosi con grandi fuochi. E per gliostellani non si potea rispondere, non che adare il pane il vino e la biada, ma di prenderei danari. E molte volte avvenne, che i romeivolendo seguire il loro cammino, lasciavano idanari del loro scotto sopra le mense, loro viaggio[91]seguendo: e non era de’ viandanti chi gli togliesse,infino che dell’ostelliere venia chi gli togliesse.

Nel cammino non si facea riotte nè romori,ma comportava e aiutava l’uno all’altro conpazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroniin Terra di Roma a rubare e a uccidere,dai romei medesimi erano morti e presi, aiutandoa soccorrere l’uno l’altro. I paesani faceanoguardare i cammini, e spaventavano i ladroni:sicchè secondo il fatto, assai furono sicure le stradee’ cammini tutto quell’anno. La moltitudinede’ cristiani ch’andavano a Roma era impossibilea numerare: ma per stima di coloro ch’eranorisedenti nella città, che il dì di Natale,e de’ dì solenni appresso, e nella quaresima finoalla pasqua della santa Resurrezione, al continovofossono in Roma romei dalle mille migliaia alledodici centinaia di migliaia. E poi per l’Ascensionee per la Pentecoste più di ottocento migliaia;essendo pieni i cammini il dì e la notte,come detto è. Ma venendo la state cominciò amancare la gente per l’occupazione delle ricolte,e per lo disordinato caldo; ma non sì, che quandov’ebbe meno romei, non vi fossono continovamenteogni dì più di dugento migliaia d’uominiforestieri. Le vicitazioni delle tre chiese, movendosid’onde era albergato catuno, e tornando acasa, furono undici miglia di via. Le vie eranosì piene al continovo, che convenia a catunoseguitare la turba a piede e a cavallo, chepoco si poteva avanzare; e per tanto era più malagevole.I romei ogni dì della visitazione offerivanoa catuna chiesa, chi poco, e chi assai, come[92]gli parea. Il santo sudario di Cristo si mostravanella chiesa di san Pietro, per consolazionede’ romei, ogni domenica, e ogni dì di festasolenne; sicchè la maggior parte de’ romei il poteronovedere. La pressa v’era al continovo grandee indiscreta. Perchè più volte avvenne, chequando due, quando quattro, quando sei, e tal’orafu che dodici vi si trovarono morti dalla stretta,e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tuttierano fatti albergatori, dando le sue case a’ romeia cavallo; togliendo per cavallo il dì unotornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvoltadue, secondo il tempo; avendosi a comprareper la sua vita e del cavallo ogni cosa il romeo,fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnaredisordinatamente, potendo lasciare avereabbondanza e buono mercato d’ogni cosa da viverea’ romei, mantennero carestia di pane, edi vino e di carne tutto l’anno, facendo divieto,che i mercatanti non vi conducessono vino forestiere,nè grano nè biada, per vendere più carala loro. Valsevi al continovo uno pane grande didodici o diciotto once a peso, danari dodici.E il vino soldi tre, quattro, e cinque il pitetto,secondo ch’era migliore. Il biado costava il rugghio,ch’era dodici profende comunali, a comperarloin grosso, quasi tutto l’anno, da lire quattroe soldi dieci in lire cinque: il fieno, la paglia,le legne, il pesce, e l’erbaggio vi furono in grandecarestia. Della carne v’ebbe convenevole mercato,ma frodavano il macello, mescolando e vendendoinsieme, con sottili inganni, la mala carnecolla buona. Il fiorino dell’oro valeva soldi quaranta[93]di quella moneta. Nell’ultimo dell’anno,come nel cominciamento, v’abbondò la gentee poco meno. Ma allora vi concorsono più signori,e grandi dame, e orrevoli uomini, e femmined’oltre a’ monti e di lontani paesi, ed eziandiod’Italia, che nel cominciamento o nel mezzodel tempo: e ogni dì presso alla fine si faceanodelle dispensagioni, del vicitare le chiese, maggiorigrazie. E nell’ultimo, acciocchè niuno chefosse a Roma, e non avesse tempo a poterefornire le visitazioni, rimanesse, senza la grazia,senza indulgenzia de’ meriti della passione diCristo, fu dispensato infino all’ultimo dì, checatuno avesse pienamente la detta indulgenzia.E così fu celebrato questo anno del santo giubbileola dispensagione de’ meriti della passione diCristo, e di quelli della santa Chiesa, e remissionede’ peccati de’ fedeli cristiani.

CAP. LVII.Perchè s’intramesse il dificio d’Ortosan Michele.

Era cominciato innanzi alla mortalità il nobileedificio del palagio sopra dodici pilastri nellapiazza d’Orto san Michele, per farvi granai perlo comune, acciocchè si stesse in continua provvisionedi grano e di biada, per sovvenire il popoloal tempo della carestia. Ma avvedendosi ilcomune, che il minuto popolo era ingrassato eimpoltronito dopo la mortalità, e non volea servireagli usati mestieri, e voleano per loro vita[94]le più care e le più dilicate cose che gli altriantichi cittadini, e con questo disordinavano tuttala città, volendo di salario le fanti, femminerozze e senza essere ausate a servigio, e i ragazzidella stalla, il meno fiorini dodici l’anno, e i piùsperti diciotto e ventiquattro l’anno: e così le balie,e gli artefici minuti manuali, volevano trecotanti o appresso che l’usato, e i lavoratori delleterre voleano tutti buoi e tutto seme, e lavorarele migliori terre, e lasciare l’altre: pensarono inostri rettori con buono consiglio, di mettere ordinealle cose, e raffrenare i soperchi con certeleggi, ma per cosa che fare sapessono, a questavolta non vi poterono porre rimedio, e convenneche a Dio si lasciasse il corso e l’addirizzamentodi quelli soperchi, i quali ancora nel 1362 durano,poco corretti, o mancati. Perocchè l’abbondanzadel guadagno corrompeva il comunecorso del ben vivere, pensarono che più utile eraraffrenare lo ingrato e sconoscente popolo lacarestia, che la dovizia. E allora si rimase copertod’un basso tetto l’edificio del palagio d’Ortosan Michele. E il comune avendo bisogno, raddoppiòla gabella del vino alle porte, e dove pagavasoldi trenta il cogno, lo recò in soldi sessanta.E chi vendesse vino a minuto, dovesse pagarede’ due danari l’uno al comune. E dinuovo puosonosoldi due a ogni staio di farina che si logorassenella città, e danari quattro alla libbra dellacarne, e che lo staio del sale si vendesse per locomune lire cinque e soldi otto. E non vollonoche provvisione di grano o di biada si facesse perlo comune, ma in contradio ordinarono, che tutto[95]il pane vendereccio si facesse per lo comune, e vendessesicaro: e quale fornaio ne volesse fare pervendere, pagasse d’ogni staio soldi otto di gabellaal comune. Queste furono cose di grande gravezza;ma tanto era l’utile che traeva d’ogni cosa il minutopopolo, che meno se ne curavano che i maggioricittadini.

CAP. LVIII.Come la Chiesa mandò il conte per racquistarela contea di Romagna.

In questo anno 1350, parendo al papa e a’ cardinali,con vergogna di santa Chiesa avere perdutala signoria e la propietà di Romagna, ordinaronodi volerla racquistare per forza; e avendo papaClemente sesto volontà d’accrescere onore e statoa messer Astorgio di Duraforte, conte di Romagna,suo parente, il fece capitano della gente che laChiesa intendea di mettere in arme a questo servigio.Il quale accolse quattrocento cavalieri gentiluominiin Proenza, e fece suo maliscalco messerRostagno da Vignone della casa de’ Cavalierri,pro’ e ardito e valoroso cavaliere. E la Chiesagli ordinò uno tesoriere, che ricogliesse i danari,e convertissegli ne’ soldi e negli altri bisogniche occorressono alla guerra, a volontà del conte.E innanzi che il conte si movesse di Proenza,fece a Firenze e a Perugia soldare ottocento cavalierie mille masnadieri di buona gente d’arme.E oltre a ciò, il papa con molta istanza fece richiederei tiranni di Lombardia, catuno per se,e i comuni di Toscana, che dovessono aiutare al[96]conte racquistare Romagna. L’arcivescovo diMilano gli mandò cinquecento barbute: messer Mastinodella Scala glie ne mandò dugento: i tirannidi Bologna glie ne mandarono dugento: ilmarchese di Ferrara cento; i comuni di Toscananon vi mandarono loro gente. Il conte di Romagnaavendo i suoi cavalieri e masnadieri, e questoaiuto, a dì 13 di maggio del detto anno sipartì d’Imola, e addirizzossi al ponte san Brocolo;ed essendo il ponte molto afforzato e bene guernitodi gente alla difesa per lo signore di Faenza,a dì 15 del detto mese, con aspra e durabattaglia combatterono la fortezza e vinsonla,che fu assai prospero cominciamento. E rafforzatala bastita del ponte, e messovi le guardie perdifendere il passo, con tutta sua cavalleria s’addirizzòa Salervolo, uno castello presso a Faenzaa cinque miglia, il quale non era murato, nè fortezza,nel luogo, che avendolo vinto fosse grandeacquisto. E ivi puose l’assedio, lasciandoper mala provvisione di porsi a Faenza, ch’eramale fornita e poco intera alla difesa, e i cittadininon amavano la signoria del nuovo tiranno,e però fu reputato pe’ savi follemente fatto. Il tirannodi Faenza, messer Giovanni di messer RicciardoManfredi, che stava in grande paura dellacittà, sentendo posta l’oste a Salervolo, fu moltocontento, e prese cuore alla difesa; e di subito misemasnadieri in Salervolo, che avea soldati in Toscana,sperti a sapere guardare le castella, iquali francamente difesono la terra di molte battaglieche ’l conte vi fece dare, durandovi l’assediodal dì 17 di maggio, fino a dì 6 del prossimo[97]mese di luglio, senza lasciarsi avanzarealcuna cosa.

CAP. LIX.Processo de’ traditori di Romagna, e dicerti Provenzali.

Seguita il processo de’ traditori, che si provvedeanocon molta sagacità a ingannare l’unol’altro, e catuno infine con la sua parte dell’impresarimase disfatto e ingannato. E dell’attizzamentodi questa maladetta favilla crebbefuoco, il cui fumo corruppe tutta Italia, e offuscògli occhi a’ liberi popoli, e ottenebrò la vistade’ sacri pastori, e fu cagione di nuovi avvenimentidi signori, e di grandi e gravi revoluzionidi stati, come seguendo a’ loro tempi racconteremo.Per questa impresa della Chiesa, itiranni di Bologna, che allora erano messer Giovannie messer Iacopo di messer Taddeo di Romeode’ Peppoli di Bologna, avendo occupata lacittà alla Chiesa di Roma sotto certo censo, edessendo in grande stato e pompa nella signoria,temeano che la Chiesa non racquistasse la signoriadi Romagna; e dall’altra parte si tenea dissimulandoper lo conte, che per lo loro caldo efavore messer Giovanni Manfredi avesse rubellataFaenza alla Chiesa, e che segretamente atassonoa mantenere la difesa. E però il conte, cheera più sperto in coperta malizia, che in apertaprodezza o virtù, continovo attendeva a tenderesuoi lacci, come i tiranni i loro, e mostravansi[98]insieme con molta confidanza e grande amistà, edavansi aiuto e consiglio l’uno all’altro, copertodi frode e di dolo.

CAP. LX.Come messer Giovanni de’ Peppoli cercò accordodal conte a messer Giovanni.

In fra ’l tempo già detto dell’assedio di Salervolo,crescendo continuo la forza del conte per losussidio de’ danari della Chiesa, e dell’amistà chegiugnea in aiuto al conte, messer Giovanni de’ Peppoli,per tenere in tranquillo il conte e farli perderetempo, cominciò un trattato, di voler riduceremesser Giovanni Manfredi di Faenza all’ubbidienzadi santa Chiesa: e mandò a direal conte che volea essere in ciò mezzano, facendoa santa Chiesa riavere suo diritto e suo onore.Il conte, ch’era di natura e di studio malizioso,si mostrò molto contento di voler seguire questotrattato, mostrando in questo, e nell’altre cose,volersi reggere per suo consiglio, dicendo, checosì aveva in mandato dal santo padre: e nondimenosapea al certo, che per operazione de’ signoridi Bologna, e del capitano di Forlì, e co’ lorodanari, al presente era entrato il doge Guerniericon cinquecento barbute alla difesa di Faenza.E dato lo intendimento a messer Giovanni,acciocchè seguisse il trattato, egli con sollecitudinemandava in Faenza suoi ambasciadori, e nell’osteal conte, e mostravasi già il trattato venirea concordia. Allora il conte mandò a dire a[99]messer Giovanni a Bologna per li suoi medesimiambasciadori, che innanzi che fermasse laconcordia, volea essere personalmente con luiin Bologna, o dovunque gli piacesse, per darecompimento a questo, e ragionargli d’altre segretecose, che dal santo padre avea in commissionedi conferire con lui: e però mandasse a diredove e’ volea ch’egli venisse, che avuta la risposta,con piccola compagnia subito sarebbea lui.

CAP. LXI.Come messer Giovanni de’ Peppoli andònell’oste, e fu preso.

Messer Giovanni de’ Peppoli signore di Bologna,avendo dal conte dimostramento di tanta libertà,e sentendo che il papa l’amava e davalimolta fede, prese sicurtà per lo trattato ch’eglimenava, e perchè aveva nell’oste del conte dugentosuoi cavalieri, e avea grande amistà conmolti altri conestabili dell’oste. E volendo mostrareal conte com’egli era fedele di santa Chiesa,per ricoprire le sue coperte operazioni fattecontro a quella, secondo la malizia del conte,pervenne a sua volontà: e contro al consiglio dimesser Iacopo suo fratello, di presente prese in suacompagnia de’ maggiori cittadini di Bologna,e di suoi soldati trecento cavalieri, e promettendoal fratello che non passerebbe Castel san Pietro,si mise a cammino. Ed essendo giunti la mattinaa buon ora a Castel san Pietro, come il[100]peccato conduce, e le fini de’ tiranni s’apparecchianoper non pensato sentiere, come si vide aCastel san Pietro non attese la promessa al fratello,ma volendo improvviso e tosto giugnere alconte, cavalcò senza arresto: e prima fu giuntoal padiglione del conte, che sapesse che vi dovessevenire; e scavalcato, il conte il ricevette congrande festa, mostrandogli ne’ sembianti amorefraternale; e molto s’allegrava con lui della suacortese venuta. E questo fu a dì 6 di luglio insulla nona, che ’l caldo era grande. Innanzi fecevenire vini, frutte e confetti, per fare rinfrescarelui e la sua brigata ch’erano ivi; e in questosoggiorno, veggendosi il conte tra le mani iltiranno di Bologna, o ch’egli avesse prima pensatoil tradimento, o che subitamente l’animoil tirasse all’inganno, bevendo e mangiando insiemein grande sollazzo, mandò il suo maliscalcoa fare armare cavalieri e masnadieri cui eglivolle, dando voce di fare assalto a quelli di Salervolo.E come furono armati, fece prometterea’ conestabili paga doppia e mese compiuto, acciocchènon si mettessono alla difesa del signoredi Bologna. Messer Giovanni che avea bevuto emangiato, e preso rinfrescamento a volontà delconte, attendea che il conte gli parlasse: e nonvedendo che ne facesse sembiante, disse a quelliambasciadori che quella ambasciata gli aveanoportata, che dicessono al conte che si dovea diliberare;e già cominciava a dubitare. Il conte rispuose,che attendeva il suo maliscalco, che di presentevi sarebbe, e fornirebbono loro parlamento.Ancora erano le parole, quando messer Rostagno[101]maliscalco dell’oste giunse colla gente armataal padiglione del conte ove messer Giovanni attendea,e fugli intorno: e apparecchiatogli unocavallo de’ suoi, disse: messer Giovanni, montatequi su: e immantinente vi fu posto più tosto chenon vi sarebbe montato, e senza contesa o difesa,di salto fu menato prigione a Imola. Unosuo famiglio cominciò a gridare e a piagnere,dicendo: oimè, signore mio: e di presente gli fumorto a’ piedi. E giunto in Imola, fu messo nellarocca, e ordinatogli buona guardia. I cittadini diBologna, e tutta la compagnia che avea menatadi Bologna, e i dugento cavalieri che avea tenutinell’oste in servigio del conte, in quella medesimaora, come preda di nimici vinta in battaglia,furono presi, e rubato loro l’arme, e’ cavalli,e arnesi, e i soldati così rubati furono cacciatidel campo; e i cittadini di Bologna furonotenuti prigioni alquanti dì, e manifestato per tuttoil grande tradimento, furono lasciati. E messerGiovanni rimase in prigione: il quale, dappoichèpervenne alla tirannia di Bologna, non tenne fedea parte guelfa, nè a’ suoi cittadini, nè a’ Fiorentini,nè all’altre città di sua vicinanza: eperò forse degnamente con tradimento fu punitodella sua corrotta fede.

CAP. LXII.Come il conte scoperse l’altro trattatoche avea con messer Mastino.

Non ostante che il conte tenesse trattato con[102]messer Giovanni de’ Peppoli, avea trattato conmesser Mastino della Scala, che venendo egli soprala città di Bologna gli darebbe mille cavalieriin aiuto infino a guerra finita. Onde essendovenuto fatto al conte d’avere messer Giovannia prigione, prese grande speranza d’avere Bolognacon l’aiuto di messer Mastino. E significatoliil fatto, e domandatoli l’aiuto promesso, adì 10 di luglio, del detto anno 1350, si levò daSalervolo, e venne a Imola con tutta l’oste. Ecome uomo di poca discrezione e provvedenza promiseun’altra volta paga doppia e mese compiutoa’ suoi cavalieri, se per forza pigliassono Castelsan Pietro. I quali cavalieri di presente andaronoal detto castello, che non era fornito di gente nèprovveduto alla difesa, e senza trovarvi resistenzain poca d’ora l’ebbono preso, che non vi morironoquattro persone. E così in meno di dieci dì i soldatidel conte ebbono per vituperose cagioni guadagnatedue paghe doppie e due mesi compiuti,che montarono un grande tesoro: e non pareache il conte se ne curasse, se non come avesse adistribuire il tesoro di santa Chiesa. Le quali promessefollemente fatte, con l’altre follie dellasua pazza condotta, al fine rendè il merito a santaChiesa della provvisione di sì fatto capitano,chente la disciplina della guerra richiede. Edessendo il conte con l’oste a Castel san Pietro,messer Mastino gli mandò ottocento cavalieri,per compiere i mille che promesso gli avea, ov’eglivenisse all’assedio di Bologna, come dettoè addietro.

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CAP. LXIII.Come messer Iacopo Peppoli rimaso in Bolognasi provvidde alla difesa.

Infra queste sopraddette tempeste, messer Iacopode’ Peppoli ch’era rimaso in Bologna sentendopreso il fratello, e che l’oste del conte aveapreso Castel san Pietro, e venia sopra lui a Bologna:e come messer Mastino signore di Veronae di Vicenza s’era scoperto suo nimico, non sapeache si fare; ma come la necessità intrigatadalla paura argomenta, mandò per soccorso alsignore di Milano, e al marchese di Ferrara, eal comune di Firenze, e in ogni parte onde speravaavere alcuno aiuto o consiglio; e mandate lelettere e’ messaggi, richiese con grande istanzai cittadini di Bologna, che a questo puntosoccorressono al suo e al loro pericolo. I qualigià domati dal servile giogo della tirannia, essendovenuto il tempo della franchezza, per povertàd’animo, e per li loro peccati, non furonodegni di cotale beneficio, che senza contasto aquel punto era in loro potenzia di tornare inlibertà. E aveano il comune di Firenze vicinonimico della tirannia, il quale per la libertà diquel popolo avrebbe prestato loro aiuto e favore,e riparato allo assalto del conte, con giustacagione di pace e di concordia con la santa Chiesa,disposto che il tiranno fosse della tirannia.Ma perocchè ne’ popoli più regna corso di fortunache libertà d’arbitrio, per apparecchiarsi alle debite[104]pene de’ peccati, per li quali l’empio tirannoregna, fu accecato il loro intendimento: e mollementes’apparecchiarono alla difesa per pauradel tiranno, combattuti nell’animo dall’apparecchiatalibertà. In questo stante l’arcivescovosignore di Milano sentì la presura di messer Giovanni,e scoperto l’animo di messer Mastino,mandò al conte suoi ambasciadori dolendosi dell’ingiuriafatta a messer Giovanni suo amico, edi sua lega e compagnia, dimandando che dipresente il dovesse liberare: e quando questo nonfacesse, mandò comandamento a’ suoi capitani ea’ suoi cavalieri che erano al servigio del conte,che di presente si dovessono partire da lui. Il conterispuose di non volerlo lasciare perocchè sapeaal certo ch’egli avea fatta rubellare, la città diFaenza alla Chiesa di Roma, e come tenea trattatocol capitano di Forlì, e col signore di Ravenna,e con quello di Faenza, di rompergli l’ostea un dì nominato, e di prendere lui a grandetradimento: e però avea preso il traditore, eintendea tenerlo a volontà del papa e di santaChiesa. E però fu comandato a’ cavalieri dell’arcivescovosi dovessono partire. Ma i cavalieri, e’loro capitani, che aveano promesse dal conte didue paghe doppie e di due mesi compiuti, nonsi vollono partire, e rimasono cassi dal soldodell’arcivescovo; e il conte con lo sfrenato animo,non guardandosi innanzi, gli condusse alsoldo della Chiesa, facendo debito sopra debito.E riveduta sua gente, si trovò a Castel san Pietrocon tremila barbute e con grande popolo di soldo.

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CAP. LXIV.L’aiuto che messer Iacopo accolse per guardareBologna.

Stando il conte colla sua oste a Castel sanPietro, e cavalcando il contado di Bologna, l’arcivescovodi Milano mandò di presente trecentocavalieri in Bologna, per aiuto della guardiad’entro. E cominciò a pensare, che mantenendomesser Iacopo nella città, a poco insieme conducerebbelui e la terra in tali stremi, che agevolementeall’ultimo ne diverrebbe signore, comein fine fatto gli venne. Messer Malatesta d’Arimino,ch’era allora nemico di santa Chiesa, vivenne in persona, e dato conforto a messer Iacopo,gli lasciò dugento cavalieri de’ suoi, e tornossenein Romagna. I Fiorentini per niuno modovi vollono mandare alcuna gente per riverenziadella Chiesa, ma incontanente vi mandaronoambasciadori a cercare se tra loro e il contepotessero metter pace o accordo; e più volteandarono da Bologna al conte senza fare alcunofrutto tra le parti. Messer Iacopo vedendosi piùl’uno dì che l’altro infiebolire, condusse il dogeGuernieri ch’era in Faenza con cinquecento barbute;il quale volendo andare a Bologna, convenneche valicasse per lo distretto del comunedi Firenze nell’alpi, ove lieve era a impedireper li stretti passi, ed egli era nimico delcomune, e andava contro a santa Chiesa. Trovossiche fu fattura de’ priori che allora erano all’uficio[106]senza sentimento degli altri cittadini; dellaqual cosa in Firenze ne fu grande ripitio, mafatta la cosa si rimase a tanto, e il doge passòsenza impedimento, e con tutta sua compagniase n’entrò in Bologna.

CAP. LXV.Del male stato che si condusse la città di Bologna,e di certi trattati che allorasi tennono.

Come il duca Guernieri co’ suoi cavalieri fu inBologna, prese per suo abituro una contrada, e inquella volle le case, e le masserizie, e quello che inesse trovò da vivere, come se egli avesse presala terra per forza: e non era chi osasse parlarecontro a suo volere. Gli altri soldati all’esempiodi costui cominciarono a fare il simigliante.I nimici di fuori cavalcavano ogni dì intorno allaterra, pigliando gli uomini, e predando leville del contado, venendo spesso fino alleporti. Per la qual cosa la città cominciò a sentiregrandissimi disagi e carestia d’ogni bene, e icittadini oppressati dentro e di fuori, non sapendoche si fare, e non trovando accordo col conteper ambiziosa superbia, messer Iacopo e’ cittadinidi Bologna, di grande concordia, e d’unoconsentimento, vollono dare la guardia di Bolognalibera al comune di Firenze, disponendosial tutto di volere lasciare la signoria messer Iacopo,sperando che ciò fatto, colla Chiesa nonmancherebbe accordo. E nel vero questa era salutevole[107]via: ma certi cittadini popolani di Firenzedella casa ... che aveano in quel tempostato in Firenze, ed erano per la Chiesa al servigiodel conte e del tesoriere, per loro spezialitàavvisandosi, che venendo Bologna alle mani dellaChiesa, come speravano, e’ ne sarebbonogovernatori, e farebbonsene ricchi e grandi; eper questa cagione smossono i loro amici cittadinigrandi e popolani: ed eglino medesimi essendoa consigliare quello ch’era grandezza e statodel loro comune, e riposo di tutta Italia, si opposonoal contradio, dicendo, che il comunen’offenderebbe troppo il papa, e’ cardinali e lasanta Chiesa. Ed essendo favoreggiati da’ loro amici,ebbono podere di non lasciare imprendere alcomune di Firenze questo servigio, e commisonogrande materia di molto male a tutta Italia,e non pervennono alla loro corrotta intenzione. IBolognesi disperati di questo, ove riposava tuttala loro speranza, e ’l conte montato nella cimadella sua superbia, coloro non sapevano più chesi fare, e il conte credendo senza contasto venireal suo intendimento d’avere la città per forza,essendo stato infino al settembre a Castel sanPietro, volle muovere l’oste, e porsi su le portidi Bologna; e sarebbegli venuto fatto, tantoerano i cittadini oppressati da’ soldati d’entro,e in disagio di tutte le cose da vivere, lequali al continuo montavano in disordinata carestia,e non aveano capo a cui i cittadini e’ forestieriubbidissono, ma come la mala provvedenzadel conte meritò, i soldati mossono quistionecome appresso diviseremo.

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CAP. LXVI.Come i soldati mossono quistione al conte, e fuloro assegnato messer Giovanni Peppoli.

La mala provvedenza del conte di Romagnaavendo moltiplicata gente d’arme al suo soldo,e promesse paghe doppie e mesi compiuti perniente, e dalla Chiesa non aveva i danari, comela sua follia avea stimato: i soldati conoscendoloro tempo, essendo a pagare di parecchi mesidi loro propi soldi, senza le promesse del conte,dissono, che di quel luogo non si partirebbono,se prima non fossono pagati de’ loro soldi serviti,e delle paghe doppie e mesi compiuti che promessiavea loro. Il quale soldo, colle promessefatte, montava centocinquanta migliaia di fiorinid’oro. Il conte vedendo che la Chiesa non glimandava danari, se non a stento, e a pochi insieme,temette che i soldati, ch’erano tutti di concordia,a uno volere non lo pigliassono, trattòcon loro d’avere termine da fare venire lorodanari, e diede loro in pegno messer Giovannide’ Peppoli, e certi Bolognesi che avea prigionia Imola, e Castel san Pietro, e quello di Luco,e quello di Doccia, ch’egli avea acquistati insul Bolognese: e fu con loro in accordo, come avessonola possessione di tutto, allora cavalcherebbono,e porrebbonsi a campo stretto alla cittàdi Bologna. Il conte fece dare loro i prigioni ela guardia delle castella, e avutole, volea che cavalcassono.I soldati colla corrotta fede, usati[109]de’ baratti, dissono che ’l pegno non era buono,e non voleano cavalcare nè partirsi da Castelsan Pietro. Messer Giovanni de’ Peppoli sentendoquesto, di presente ebbe de’ conestabili, etrattò con loro di dare contanti fiorini ventimilad’oro, e per stadichi i suoi figliuoli e quelli dimesser Iacopo suo fratello, e certi cittadini diBologna per lo rimanente, ed elli li liberassonodi prigione. L’accordo fu fatto con assentimentodel conte, se infra certo tempo la Chiesa non avessemandati i danari. Venuto il termine, e non idanari, i soldati presono fiorini ventimila contanti,e gli stadichi promessi, e lasciarono messerGiovanni, il quale tornò in Bologna, e il fratelloe la parte loro furono più forti, e signoridi potere fare della città a loro senno, senza lavolontà e consiglio de’ loro cittadini, perocchèmesser Giovanni era molto temuto, e sapeva beneessere co’ soldati ne’ fatti della guerra.

CAP. LXVII.Come messer Giovanni tenne suoi trattatidella città di Bologna.

Tornando messer Giovanni in Bologna, e lasciatia’ soldati della Chiesa gli stadichi promessi,trovò la città in molto male stato per le cagionigià dette, e non vide modo come difenderesi potesse, e conobbe che perdere gli convenia lasignoria di Bologna in breve tempo. I cittadinidi Firenze, che desideravano l’accordo di quellacittà colla Chiesa, sentendo tornato in Bologna[110]messer Giovanni, vi mandarono de’ loro cittadinipiù solenne ambasciata, i quali da’ tiranni furonoricevuti a onore, e di loro volontà trattarono accordocol conte, e condussono il trattato a questopunto. Che i tiranni lasciassono al tutto la signoriadella città e contado, e renderla alla Chiesadi Roma per lo modo usato: ch’ella tornasse algovernamento del popolo, e avere continuo i rettoridella Chiesa, e pagare il censo consueto; e alpresente voleano ricevere nella città il conte concinquecento cavalieri, e riformare doveano lorostato al popolo, per quelli cittadini che ’l comune diFirenze vi mandasse a ciò fare. Il conte cheavea provati i rimprocci de’ soldati, e il pericoloche correa con loro, dichinava le corna della suasuperbia, e acconciavasi alla detta concordia. Macome pomposo e vano, si strinse al consiglio diquesto partito che potea pigliare con messerGuglielmo da Fogliano, e con messer Frignano,figliuolo bastardo di messer Mastino, e altri conestabiliche v’erano per messer Mastino, i qualinon v’erano tanto per onore di santa Chiesa,quanto per loro vantaggio, per cui faceva la guerra,e speravano con loro malizia conducere lacittà di Bologna piuttosto in mano del loro signore,che del conte e della Chiesa di Roma, i qualidissono al conte: tu vedi che i signori di Bolognanon possono più, e la città è condotta a tantastremità dentro, che delle mani tue non puoteuscire: e però non pensare a questi patti, che noite ne faremo libero signore colla spada in mano.Il conte pomposo, pieno di vanagloria, conlieve testa, non pensò i casi che occorrono nelle[111]guerre, e per le vane promesse de’ fallaci adulatoriruppe il trattato menato per gli ambasciadoridel comune di Firenze fedelmente, a onore e abeneficio di santa Chiesa, e a ricoveramento di riposoal fortunoso stato di quella città. Vedendo itiranni la sconcia volontà del conte, si pensaronocon tradimento de’ loro cittadini e della loro patriavenire a un altro loro intendimento, giàmosso per la malizia e per lo sdegno di messerGiovanni; e però, acciocchè più copertamentea’ loro cittadini potessono fare l’inganno, dissonoche al tutto erano diliberati mettere Bologna nellaguardia del comune di Firenze. E a questo i Bolognesie grandi e piccoli di buona voglia s’accordarono,e sotto questa concordia elessono tre de’ maggioricittadini di cui il popolo faceva maggiorecapo, e quasti tre con altri compagni, e con pienomandato, mandarono a Firenze con diversiintendimenti. Il popolo credendosi racquistarelibertà e pace sotto la protezione del comune diFirenze, e i tiranni avendone tratti i caporali delpopolo, pensarono senza contasto, come fattovenne loro, di venire a loro intendimento, di poterevendere la città e i suoi cittadini all’arcivescovodi Milano. Gli ambasciadori in fede e congrandissima affezione vennono a Firenze, e spuosonola loro ambasciata, solennemente dinanzia’ signori, e a’ loro collegi, e a molti altri grandie buoni cittadini di Firenze, richiesti e adunatiper la detta cagione. E il dicitore fu messer Ricciardoda Saliceto, famoso dottore di legge, e lasua proposta fu:Ad Dominum cum tribularerclamavi, ec. E con nobile ed eccellente orazione, e[112]con efficaci ragioni e induttivi argomenti, conchiusela sua dimanda, a inducere il comune diFirenze a prendere la guardia della città e de’cittadini di Bologna. I governatori del comune diFirenze già aveano alcuna spirazione del trattatoch’e’ tiranni di Bologna aveano col signoredi Milano, e comprendevano che questi ambasciadorifossono mandati a inganno: nondimenoper non aversi a riprendere, in quello consiglio deliberaronodi mandare solenni ambasciadori dipresente a corte per trovare accordo col papa, ein questo mezzo di mandare cavalieri, e de’ suoicittadini alla guardia di Bologna, per contentareil popolo. Ma l’altro dì vegnente fu manifestoa’ signori di Firenze e agli ambasciadori di Bologna,che i tiranni l’aveano per danari vendutaall’arcivescovo di Milano; e fu per lettera de’ tirannidetti comandato agli ambasciadori, che nonsi dovessono partire di Firenze senza loro comandamento;allora fu al tutto la cosa palese, e seguitòil fatto come appresso racconteremo.

CAP. LXVIII.Secondo trattato di Bologna.

Messer Giovanni de’ Peppoli avvelenato di sdegnodella sua presura, vedendo che però perdeala tirannia di Bologna, avendo con non piccolafatica recato Messer Iacopo al suo volere, e votala terra de’ caporali di cui temea, e fortificatala guardia nella città, avendo segretamente tenutotrattato coll’arcivescovo di Milano, coll’impeto[113]del suo dispettoso cuore, ebbe podere divendere la città e’ suoi cittadini della sua propriapatria, e da cui avea ricevuto esaltamentodella sua signoria e onore, e niente per lorodifetto del suo caso, cosa molto detestabile audire. Costui vedendo che ’l suo trattato erascoperto, cavalcò di presente a Milano, e fermòla maledetta vendita per dugentomila fiorini,de’ quali si dovea dare certa parte a’ soldati dellaChiesa per riavere gli stadichi che avea loro lasciatiper liberare la sua persona, e a lui e alfratello dovea rimanere in loro libertà il castellodi san Giovanni in Percesena, e Nonandola e Crevalcuore.E tornato lui, manifestata la vendita, iBolognesi grandi e piccoli si tennono soggiogatidi giogo d’incomportabile servaggio, e moltosi doleano palesemente e in occulto l’uno coll’altro;e innanzi che la terra si pigliasse per losignore di Milano grande gelosia ebbono i traditoridella patria, e molto vegghiarono e di dì e dinotte alla guardia della città. Ma i vili e codardicittadini non ardirono di levarsi contra a’ tiranni,nè a muovere romore nella terra: che se fattol’avessono, leggiermente coll’aiuto del comunedi Firenze, a cui dispiaceva la vicinanza disì potente tiranno, sarebbe venuto fatto di tornarein libertà. Alcuna trista vista ne fecionomollemente, e in fine si lasciarono vendere e sottoporreal duro giogo, del mese d’ottobre gli annidi Cristo 1350.

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CAP. LXIX.Come l’arcivescovo di Milano mandò a prenderela possessione di Bologna.

Come l’arcivescovo di Milano ebbe fermo il pattodella compera di Bologna con messer Giovanni,non guardò con alcuna reverenzia o debitodi ragione che la città fosse di santa Chiesa, macresciuto nella tirannesca superbia subitamentefece apparecchiare messer Bernabò suo nipote, figliuolodi messer Stefano, valente uomo e digrande ardire, e con millecinquecento barbute disoldati eletti il mise a cammino, e mandollo a pigliarela tenuta di Bologna. Sentendo questa venutail doge Guernieri, ch’era in bando dell’arcivescovodi Milano, con tutta sua masnada sipartì di Bologna; e standosi fuori della città,accogliea gente senza soldo per fare una compagna.Messer Bernabò giunto alla città entròdentro senza alcuno contasto co’ suoi cavalieri,e con trecento che prima avea alla guardia di Bolognavi si trovò con millecinquecento barbute:e prese la tenuta e la guardia della città e dellecastella di fuori, e appresso convocò i cittadinia parlamento, e per forza fece loro ratificare lavendita fatta per i tiranni, e dinuovo aggiudicarsifedeli dell’arcivescovo e de’ suoi successori.E l’obbligazioni e le carte e il saramentofece fare il meglio seppe divisare; e questo fufatto all’uscita del mese d’ottobre 1350. E cosìebbe fine la tirannia della casa di Romeo de’[115]Peppoli, grandi ed antichi cittadini di Bologna,i quali erano stati onorati e fatti signori da’ lorocittadini, dalla cacciata del cardinale del Poggettolegato del papa, i quali aveano loro signoriamantenuta assai dolcemente co’ cittadini. Essendodi natura guelfi, per la tirannia eranoquasi alienati dalla parte, e i Fiorentini, amicissimidi quello comune, trattavano in molte cosecon dissimulata e corrotta fede; e perocchè a’ traditoridella patria tosto pare che Iddio apparecchila vendetta, in breve tempo seguitò a messer Iacopoe a messer Giovanni, per addietro tirannidi Bologna, pena del peccato commesso, comeseguendo nostra materia racconteremo.

CAP. LXX.Come capitò il conte di Romagna el’oste della Chiesa.

Il conte di Romagna ventoso di superbia, e incostanteper poco senno, il quale cotante voltepotè avere con grande sua gloria e onore di santaChiesa la città di Bologna, e non volutola senon colla spada in mano, secondo il consigliode’ malvagi compagni, vedendola nelle mani delpotente tiranno, vorrebbe avere creduto al consigliode’ Fiorentini. Non però dimeno, perocchèper tutto questo la città non era allargata di vittuaglia,ma piuttosto aggravata, e’ soldati eranoper gli stadichi che aveano, per li ventimilafiorini ricevuti, allargati di speranza, e messerMastino che dell’impresa dell’arcivescovo era[116]dolente a cuore, offerendo al conte tutto suo sforzodi gente e di prestare danari alla Chiesa, confortòil conte a seguitare l’impresa. Il conte perquesto si recò a conducere il doge Guernieri conmilledugento barbute, uscito di Bologna, e raccoltagente come detto è. Messer Mastino anchevi mandò di nuovo de’ suoi cavalieri, e danariper comportare i soldati. E il conte fatte grandiimpromesse a’ soldati mosse il campo da Castelsan Pietro e venne con l’oste a Budri, in mezzotra Bologna e Ferrara, e di là valicarono adArgellata e a san Giovanni in Percesena, e ivistettono dieci dì aspettando danari, con intenzionedi porsi presso a Bologna dalla parte diModena, per levare ogni soccorso a messer Bernabò:il quale era dentro in grande soffratta divittuaglia e di strame, e male veduto da’ cittadini,e però stava in paura e non s’ardiva amuovere. Onde la città era a partito da non poterdurare: e per forza convenia che tornasse allemani della Chiesa, se il pagamento o in tuttoo in parte fosse venuto a’ soldati. Ma chi si fidane’ fatti della guerra alla vista delle prime impresede’ prelati, e non considera come la Chiesaè usata a non mantenere le imprese, spessose ne truova ingannato. E’ non valse al contescrivere al papa, nè mandare ambasciadori,nè tanto mostrare come Bologna si racquistavacon grande onore di santa Chiesa, assai potè dolerela vergogna, che l’arcivescovo di Milanofacea d’avere tolta Bologna, che danari debitia’ soldati, per vincere così onorevole punga, venisseroda corte. Per tanto i soldati non si vollono[117]strignere a Bologna, anzi di loro arbitriomossero il campo e tornarono a Budri, e ivich’era luogo ubertuoso, e che ’l marchese davacopioso, si misono ad attendere se i danari de’loro soldi e dell’altre promesse venissero: eivi dimorarono infino a dì 28 di gennaio deldetto anno, e però i danari non vennono. Perla qual cosa al conte parea male stare, e perpaura di se consentì a’ soldati che trattasserod’avere le paghe sostenute e le paghe doppiepromesse per lui da messer Bernabò, condottoin parte per la sua mala provvedenza, che altronon poteva fare; rimanendogli alcuna vana speranza,che se messer Bernabò non si accordassecon loro, che gli farebbono più aspra guerra, mail tiranno s’accordò di presente ad accordarli epagarli, e riavere le castella e li stadichi; e questofornì de’ danari della compra che avea fatta di Bologna.In questo medesimo trattato, condusse settantabandiere di Tedeschi e Borgognoni soldatidella Chiesa al suo soldo. Ed essendo assediato,in cotanto pericolo ricolse gli stadichi, riebbele castella, ruppe l’oste de’ nimici, liberò la cittàdell’assedio, e in uno dì mise in Bologna in suoaiuto de’ cavalieri della Chiesa millecinquecentobarbute; e tutto gli avvenne per l’avarizia de’ prelatidi santa Chiesa, e per la forza e larghezzadella sua pecunia. Il doge Guernieri colla suacompagna si ridusse in Doccia, e la gente dimesser Mastino e del marchese di Ferrara sitornarono a’ loro signori: e il conte povero evituperato del fine della sua impresa si tornòco’ suoi Provenzali in Imola, e Bologna si rimase[118]sotto il giogo del potente tiranno, mettendoin paura tutta Italia, e spezialmente la parteguelfa. Abbiamo stesamente narrato il processodi questa guerra per esempio del pericolo checorre de’ folli e ambiziosi capitani: e come pertroppa superbia spesse volte volendo tutto si perdeogni cosa: e a dimostrare come è folle chi ha fidanzade’ danari della Chiesa far le imprese dellaguerra. Ancora questa rivoltura di Bolognafu cagione d’apparecchiare a tutta Italia, per lunghitempi, grandi e gravi novità di guerre, comeseguendo nostro trattato si potrà vedere.

CAP. LXXI.Come i Guazzalotri di Prato cominciaronoa scoprire loro tirannia.

Tornando a’ fatti della nostra città di Firenze,il nobile castello di Prato ci dà cagione dicominciare da lui, nel quale la famiglia de’ Guazzalotrierano i migliori e più potenti, e la lorograndezza procedeva perocchè erano amati sopragli altri di quella terra dal comune di Firenze:ed essendo guelfi, portavano fede e ubbidienzagrande al nostro comune. Vero è che quello comunevedendosi in libertà e in vicinanza de’ Fiorentini,per tema che alcuna volta non si sommettessonoal comune di Firenze aveano provveduto,come si racconta nella cronica del nostro antecessore,di darsi a messer Carlo duca di Calavra,figliuolo del re Ruberto, e a’ suoi discendenti[119]in perpetuo, con misto e mero imperio, edegli così gli prese. Nondimeno si manteneano infede e amore del comune di Firenze. Avvenneche morti gli antichi e savi cavalieri della casade’ Guazzalotri, i quali conoscevano la loro grandezzaprocedere dal comune di Firenze, rimasonvigiovani donzelli: i quali trovandosi nella signoriadi quella terra, mancando allora il governamentodella casa reale per le fortune delRegno, cominciarono i giovani a trapassare l’ordinee il modo de’ loro antecessori nel governamentodi quel castello, conducendolo a modo tirannesco.Della quale tirannia spesso veniva richiamoa’ priori di Firenze, e il comune per lo anticoamore che portava a quelli di quella casa mandavape’ caporali, tra’ quali il maggiore e il più ardito eriverito da tutti a quelle stagioni era Iacopo di Zarino,e riprendevanli e ammonivano parentevolementeper riducerli alla regola de’ loro maggiori.Ma i giovani caldi nella signoria e poco savi, e inzigatida mal consiglio, non seguendo il consigliode’ Fiorentini, l’un dì appresso all’altro più dimostravanoatto tirannesco per tenere in paura piùche in amore i loro terrazzani. E per dimostrarein fatto quello che aveano nella mente, fecionodi subito pigliare due Pratesi, l’uno era uno buonouomo ricco, vecchio e gottoso, l’altro era ungiovane notaio ricco, onesto e di leggiadra conversazionea cui i Guazzalotri a altro tempo aveanofatto uccidere il padre, e a questi due appuosono,che voleano tradire Prato, e darlo a’ Cancellieridi Pistoia. Sentendo questo il comune diFirenze mandò per Iacopo di Zarino, e per gli[120]altri caporali de’ Guazzalotri, e pregarongli chenon seguissono questa novità, e che i presi dovessonolasciare: perocchè manifestamente sapienoch’elli erano innocenti: tornarono a Prato,e contro alla preghiera del comune di Firenzestrussono gl’innocenti al giudicio: e sentendosi inFirenze, il comune vi mandò ambasciadori elettere; ed essendovi gli ambasciadori del comune,e avute le lettere che gli richiedeano che non giudicassonoa torto g’innocenti, i tirannelli permale consiglio s’affrettarono, e feciongli morirein vergogna del comune di Firenze, nellapresenza de’ suoi ambasciadori. E fatto a catunotagliare la testa, occuparono i loro beni indebitamente.

CAP. LXXII.Come i Fiorentini andarono a oste a Prato,ed ebbonne la signoria.

I Fiorentini vedendo la novità delle guerred’Italia che da ogni parte s’apparecchiavanocon tiranneschi aguati, e come avieno la nuovavicinanza del potente tiranno di Milano cheteneva Bologna, e così messer Mastino, e vedeanoche i Guazzalotri, congiunti per sito alleporti della città di Firenze, cominciavano a usaretirannia, pensarono che se possanza di grandetiranno s’appressasse loro, come s’apparecchiava,che della terra di Prato poco si poteano fidare.E però con buono consiglio, subitamente eimprovviso a’ Pratesi, del mese di settembre gli[121]anniDomini 1350, feciono cavalcare le masnadede’ cavalieri soldati del comune, con alquanti cittadinie pedoni delle leghe del contado, ed’ogni parte si puosono a campo intorno a Prato,e senza fare preda o guasto, domandarono divolere la guardia di quella terra. I Pratesi smarritidel subito avvenimento, e non provveduti alladifesa, e avendo nella terra molti a cui la novellatirannia de’ Guazzalotri dispiaceva, senzatroppo contasto furono contenti di fare la volontàdel comune di Firenze. E sicurati da’ cittadiniche danno non si farebbe, dierono al comune diFirenze liberamente la guardia di Prato, rimanendoa’ terrazzani la loro usata giurisdizione. Eil comune prese il castello dello imperadore e misevicastellano, e fece la terra guardare solennemente.

CAP. LXXIII.Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronloal loro contado.

Avendo il nostro comune la guardia di Pratopresa contro la comune volontà de’ terrazzani,pensò che se mai tornasse in libertà, che i giovaniin cui mano era rimasa la signoria con provvedenzala guarderebbono e la recherebbono atirannia lievemente: e però sentendo il re Luigie la reina Giovanna ereda del duca di Calavra,tornati di nuovo nel Regno, e che erano in fortunae in grande bisogno, e governavansi per consigliodi messer Niccola Acciaiuoli nostro cittadino,[122]feciono segretamente trattare di comperarela giurisdizione ch’aveano in Prato. E trovandola materia disposta per lo bisogno del re edella reina, e bene favoreggiata da messer Niccoladetto, il mercato fu fatto, e pagati per lo comunefiorini diciassettemila e cinquecento alla reina,come fu la convegna, per solenni privilegie stipulazioni pubbliche dierono al comune diFirenze ogni ragione e misto e mero imperioch’aveano nella terra di Prato e nel suo contado.E come il comune ebbe la ragione di questacompera, improvviso a’ Pratesi mandò alcuna forzaa Prato e prese la tenuta di nuovo, e fece manifestarea’ Pratesi come la terra e il contado egli uomini di quel comune erano liberi del nostrocomune per la detta compera, e mostrar loro iprivilegi e le carte; e questo fu del mese di...nel detto anno. E presa la tenuta, incontanentelevò le signorie, gli ordini e gli statuti de’ Pratesi,e recò la terra e il contado a contado di Firenze,e diede l’estimo e le gabelle a quello comunecome a’ suoi contadini, e diede loro quelli beneficiidella cittadinanza e degli altri privilegi ch’hannoi contadini di Firenze: e ordinovvi rettoricittadini con certa limitata giurisdizione, recandoil sangue e l’altre cose più gravi alla cortedel podestà del comune di Firenze. Della qual cosai Pratesi vedendosi avere perduta la loro franchigia,generalmente si tennono mal contenti,ma poterono conoscere per non sapere usarelibertà divenire suggetti: e per la provvisionefatta di non venire alla signoria de’ Fiorentini,con quella in perpetuo furono legati alla sua giurisdizione.

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CAP. LXXIV.Come i guelfi furono cacciati dalla Città diCastello.

In questo anno, essendo ne’ collegi del reggimentodi Perugia insaccati per segreti squittinigran parte de’ ghibellini, de’ quali a quel tempon’erano i più all’ufficio, per operazione diVanni da Susinana e degli altri Ubaldini dellaCarda, ch’erano cittadini della Città di Castello,fu messo in sospetto de’ Perugini la casa de’ Guelfucci,antichi cittadini e guelfi, ed altri guelfi,apponendo loro che trattavano di dare la Città diCastello a’ Fiorentini, e aggiungendovi alcunaaltra cagione, mossono il reggimento di Perugia,senza cercare la verità del fatto, a fare cavalcarea Castello tutti i loro soldati, e per forza cacciaronoi Guelfucci di Castello e certi altri, i qualidi queste cose non erano colpevoli, e non si guardavano.Come gli Ubaldini ebbono fornita la lorointenzione, tutti si vestirono di bianche robe,e andarono a Perugia colle carte bianche inmano, offerendo al comune di fare tutta la suavolontà: scrivessono, ed elli affermerebbono.Ma poco stante, entrato a reggimento il nuovo uficiodel loro priorato, uomini i più guelfi, s’avvidonodello inganno che il loro comune avearicevuto, di cacciare i caporali di parte guelfadi Castello per malo ingegno degli Ubaldini, ein furia arsono e ruppono i sacchi de’ loro ufici,e di nuovo riformarono la città, mettendo ne’ sacchi[124]per loro squittini cittadini guelfi, e ischiusonnei ghibellini; e di presente rimisono i Guelfuccinella Città di Castello, e confinaronne gliUbaldini.

CAP. LXXV.Come morì il re Filippo di Francia.

Stando la tregua, rinnovellata più volte tra ilre di Francia e il re d’Inghilterra, poche notabilicose degne di memoria furono in que’ paesi.Ma il detto re Filippo di Francia, avendo pertroppa vaghezza tolta per moglie la nobile e soprabella dama figliuola del re di Navarra, elevatala al figliuolo come abbiamo narrato, tantodisordinatamente usò il diletto della sua bellezza,che cadendo malato, la natura infiebolitanon potè sostenere, e in pochi dì diede fine collasua morte alla sollecitudine della guerra, ea’ pensieri del regno e ai diletti della carne. Emorto in Sanlisi, fu recato il corpo in Parigi, e fattoil reale esequio solennemente nella presenziade’ figliuoli e de’ baroni del reame, e sepoltoco’ suoi antecessori alla mastra chiesa di sanDionigi, a dì... gli anniDomini 1350. Immantinenteappresso nella città di Rems fu coronato delreame di Francia messer Giovanni suo figliuoloprimogenito, e la moglie in reina, e ricevette ilsaramento e l’omaggio da tutti i baroni e datutti gli altri feudatari del suo reame e dell’altroacquisto. Questo Filippo re di Francia fu figliuolodi messer Carlo Sanzaterra, e fu uomo[125]di bella statura, composto e savio delle cose delmondo, e molto astuto a trovar modo d’accoglieremoneta, e in ciò non seppe conservare nè fedenè legge. E sentendosi molto in grazia e temutoda papa Giovanni ventiduesimo, per l’openioneche sparta avea disputando della visionedell’anime beate in Dio, la cui openioneper li teologi del reame di Francia era riprovata,e perchè il collegio de’ cardinali erano tuttiquasi fuori de’ Catalani, di suo reame, e perquesta baldanza ebbe animo d’ingannar santaChiesa, sotto la promessa di mostrare di volerefare passaggio oltre mare per racquistare la Terrasanta: e per questo domandò per cinque anni ledecime del suo reame a ricogliere in breve tempo,non avendo l’animo al passaggio, come appressol’opere dimostrarono. E nel suo reamemutò spesso e improvviso monete d’oro, peggiorandolemolto e di peso e d’oro: per le quali mutazionidisertò e fece tornare i mercatanti disuo reame di ricchezza in povertà: e’ suoi baronie borgesi assottigliò d’avere per modo, chepoco era amato da loro per questa cagione.Onde apparve quasi come sentenzia di Dio, cheavendo egli cotanta baronia e moltitudine dibuoni cavalieri, i quali solieno essere pregiati sopragli altri del mondo in fatti d’arme, non s’abboccavanoin alcuna parte con gl’Inghilesi, chenon facessono disonore al loro signore: ove perantico gli aveano in fatti d’arme sopra modo avile. E molte singulari gravezze sopra la mercatanziae sopra uomini singulari mise, onde moltimercatanti forestieri n’abbandonarono il reame;[126]e non ostante che spesso fosse percosso dalbastone degl’Inghilesi, al continovo il re accresceail suo reame per le infortune degli altri circustantibaroni, e per l’aiuto de’ suoi danari. Lasciòdue figliuoli il re: messer Giovanni e messerLuigi duca d’Orliens: e quattro nipoti figliuolidel re Giovanni: il maggiore nominato messerCarlo Dalfino di Vienna e duca di Normandia,l’altro nominato Luigi duca d’Angiò, il terzomesser Giovanni conte di Pittieri, e il quartomesser Filippo piccolo fanciullo: e tre femmine: laprima moglie del re di Navarra, la seconda monacadel grande monistero di Puscì, e la terzanominata Caterina, picciola fanciulla, la qualefu poi moglie di messer Giovan Galeazzo de’ Viscontidi Milano, come a suo tempo diviseremo.

CAP. LXXVI.Come la Chiesa rinnovò processo contra l’arcivescovodi Milano.

In questo anno, avendo saputo il papa e’ cardinalicome l’arcivescovo di Milano per loromandato non s’era voluto rimuovere dell’impresadi Bologna, ma contro a loro volontà, e invitupero della Chiesa, avea presa la città erotta l’oste della Chiesa e del conte, furono moltoturbati. E ricordandosi come l’arcivescovo erastato infedele, e rinvoltosi nella resia dell’antipapae fattosi suo cardinale, e poi tornato all’ubbidienzadi santa Chiesa era ricevuto a misericordia dapapa Giovanni ventesimosecondo, e riconciliato,[127]il fece vescovo di Novara, e poi per Clementesesto promosso e fatto arcivescovo di Milano, eora ingrato era tornato nella prima eresia, dinon volere avere riverenzia nè ubbidire a santaChiesa: rinnovellarono contro a lui e contro a’suoi nipoti i processi altre volte fatti per papaGiovanni predetto, e feciono richiedere l’arcivescovo,e messer Galeazzo, e messer Bernabò, emesser Maffiuolo di messer Stefano Visconti, eassegnarono loro i termini debiti che s’andassonoa scusare, e gli ultimi termini perentori furonoa dì 8 d’aprile 1351. Infra il termine del dettoprocesso vedendo il papa e’ cardinali per la loroavarizia, in vituperio, delle loro persone ein contento di santa Chiesa, tolta tutta la Romagnae la città di Bologna, volendo con ingegnounire in lega e compagnia gli altri tirannilombardi, col comune di Firenze e di Perugiae di Siena, e colla Chiesa medesima, per poterecon maggiore forza resistere al potente tiranno,mandò in Italia il vescovo di Ferrara, cittadinodi Firenze della casa degli Antellesi, con pienomandato a ciò ordinare e fermare: il quale giuntoin Toscana, mandò a’ signori di Lombardia e a’comuni predetti, che a certo termine catunomandasse suoi ambasciadori alla città d’Arezzoa parlamento. E innanzi che il termine venisse,il detto legato andò in persona a messer Mastinoe al marchese di Ferrara, e al comune di Perugiae di Siena a sporre la sua ambasciata, e tornòa Firenze, avendo sommossi i detti comuni esignori a venire in loro servigio e di santa Chiesaalla detta lega, perocchè catuno si temeva[128]della gran potenza del’arcivescovo. E messerMastino, che gli era più vicino, con sollecitudineconfortava i Lombardi e’ comuni di Toscanache venissono alla lega e a fare sì fatta taglia,che all’arcivescovo si potesse resistere francamente.E del mese d’ottobre vegnente gli ambasciadorid’ogni parte furono ragunati ad Arezzo;quelli di messer Mastino e de’ Fiorentini v’andaronocon pieno mandato; i Perugini mostravanodi volere lega e taglia, ma d’ogni punto voleanoprima risposta dal loro comune, e i Sanesifaceano il somigliante, per li quali intervalli, gliambasciadori stettono lungamente ad Arezzosenza poter prendere partito. E questo avvenivaperocchè a’ Perugini e a’ Sanesi parea che la forzadell’arcivescovo non potesse giugnere a’ loro confini,e volevano mostrare di non volersi partiredal volere di santa Chiesa e de’ Fiorentini. E inquesto soggiorno, l’arcivescovo di Milano temendoche la Chiesa non si facesse forte coll’aiutode’ Toscani e de’ Lombardi, mandò a messerMastino messer Bernabò suo genero, pregandoloche si ritraesse da questa impresa: e grandiimpromesse al comune di Firenze faceva d’ognipatto e vantaggio che volesse da lui: e con questesuasioni cercava disturbare la detta lega: mainvano s’affaticava con questi tentamenti, chedi presente tutti si piovicavano nel parlamento,e’ Sanesi s’erano ridotti al segno de’ Fiorentini,ed era preso, che se i Perugini non volessono esserealla lega, che si facesse senza loro. E avendoquesto protestato loro, attendendo l’ultimarisposta, la quale dilungavano con nuove cagioni[129]di dì in dì, andandovi in persona oggi l’unoambasciadore e domane l’altro, essendo gli altriambasciadori per fermare la lega e la tagliasenza loro, come a Dio piacque, sopravvenne lanovella della morte di messer Mastino, per laquale cosa si ruppe il parlamento senza fermarelega, e catuno ambasciadore si tornò a suo comunee signore; della qual cosa tornò grande ripetioa’ comuni di Toscana. E benchè i Fiorentini e iSanesi non fossono cagione di questo scordo,nondimeno peccarono in tanto aspettare i Perugini:che grande utilità era al comune di Firenze,che confinava col tiranno, avere in suo aiutoil braccio di santa Chiesa e del signore di Verona,e di Ferrara e di Siena. Ma quando i falli siprendono ne’ fatti della guerra sempre hanno uscimentodi privato pericolo: e però gli antichi maestridella disciplina militare punivano con asprepene i mali consigliatori, eziandio che del maleconsiglio conseguisse prospero fine. Ma ne’ nostritempi, i falli della guerra si puniscono nonper giustizia, ma per esperienza del male che neseguita, come tosto avvenne a’ detti comuni diToscana, come seguendo appresso ne’ suoi tempidimostreremo.

CAP. LXXVII.Come il tiranno di Milano si collegò con tuttii ghibellini d’Italia.

Avvenne in questo anno, come l’arcivescovodi Milano sentì rotto il trattato della lega mosso[130]per lo papa, e morto messer Mastino di cui piùtemea, gli parve che fortuna al tutto fosse conlui, e prese speranza di sottomettersi Toscana, eappresso tutta l’Italia. E però procacciò di recarea se il gran Cane della Scala cognato di messerBernabò, e vennegli fatto per la confidenza delparentado. E perchè essendo giovane e nuovo nellasignoria non facea per lui la guerra di sìfatto vicino, e però lievemente venne a concordiae legossi con lui, e promise d’aiutare l’uno l’altronelle loro guerre. Sentita questa lega gli altritiranni lombardi tutti si legarono coll’arcivescovo,non guardando il marchese di Ferrara perchèavesse antico amore e singolare affetto colcomune di Firenze; e così tutti i tirannelli diRomagna feciono il simigliante, e que’ della Marca.E il comune di Pisa per patto li promisono dugentocavalieri, e non volendo rompere patto dipace a’ Fiorentini l’intitolarono alla guardia diMilano. E in Toscana s’aggiunse i Tarlati d’Arezzo,non ostante che fossono in pace e in protezionedel comune di Firenze, e il somigliante di Cortona:e gli Ubaldini, e’ Pazzi di Valdarno, e gli Ubertini,e de’ conti Guidi tutti i ghibellini, e quei diSantafiore, e molti altri tirannelli ghibellini, iquali segretamente s’intesono coll’arcivescovo,non volendosi mostrare innanzi al tempo, perpaura che i comuni guelfi loro vicini nol sapessono.Questa lega fu fatta e giurata tosto e moltosegretamente, perocchè vedendo i ghibellinila gran potenza dell’arcivescovo, e sappiendo chela Chiesa non avea potuto fare la lega, e che i tirannitutti di Lombardia s’erano accostati a dare[131]aiuto all’arcivescovo, pensarono che venuto fosseil tempo di spegnere parte guelfa in Italia, eperò senza tenere pace o fede promessa catunos’accostò col Biscione, e vennesi provvedendo d’armee di cavalli per essere alla stagione apparecchiati.In questo mezzo l’arcivescovo per megliocoprire l’intenzione sua amichevolemente mandavaal comune di Firenze sue lettere, congratulandoside’ suoi onori, e profferendosi come ad amici,e con questa dissimulazione passò tutto il verno,e mostrava d’avere l’animo a stendersi nella Romagna.E il comune di Firenze per non mostrarein sospetto l’amicizia che dimostrava a’ Fiorentini,non si provvedeva di capitano di guerra nèdi gente d’arme, e le strade di Bologna e diLombardia usava sicuramente colle mercatanziede’ suoi cittadini; e i Milanesi e’ Bolognesi e glialtri Lombardi faceano a Firenze il somigliantesenza alcuno sospetto: perocchè il malvagio concettodel tiranno e de’ suoi congiunti si racchiudeane’ loro petti, e di fuori non si dimostrava,per meglio potere adempiere loro intenzione.

CAP. LXXVIII.Come fu assediata Imola dal Biscione e altri.

In questo medesimo verno, messer Bernabò,ch’era in Bologna vicario per l’arcivescovo, costrinsei Bolognesi, e mandò a porre l’oste a Imolai due quartieri della città: ed egli v’andò inpersona con ottocento cavalieri, e fecevi venire ilcapitano di Forlì colla sua gente a piè e a cavallo,[132]e vennevi messer Giovanni Manfredi tirannodi Faenza colla sua forza, e il signore diRavenna e gli Ubaldini, e assediarono Imola intornocon più campi. Guido degli Alidogi signored’Imola, guelfo e fedele a santa Chiesa,avendo sentito questo fatto dinanzi, e richiesto iFiorentini e gli altri comuni e amici di santaChiesa d’aiuto, e non avendolo trovato, per lapaura che catuno avea d’offendere al Biscione,come uomo franco e di gran cuore s’era provvedutodinanzi che l’assedio vi venisse di moltavittuaglia; e per non moltiplicare spesa di soldatielesse centocinquanta cavalieri di buona gented’arme e trecento masnadieri nomati, tutti diToscana, e con questi si rinchiuse in Imola; efece intorno alla città due miglia abbattere casechiese e quanti difici v’erano, perchè i nimicinon potessono avere ridotto intorno alla terra; ecosì francamente ricevette l’assedio, acquistandoonore di franca difesa, insino all’uscita di maggiogli anniDomini 1351. In questo stante al continovosi mettea in ordine sotto questa covertad’Imola di potere improvviso a’ cittadini di Firenzeassalire la città: e approssimandosi al tempo,di subito fece levare l’oste da Imola e lasciarvicerti battifolli, i quali in poco tempo straccati,senza potere tenere assediata la città, sene levarono e lasciaronla libera.

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CAP. LXXIX.Come il capitano di Forlì tolse al conticino daGhiaggiuolo e al conte Carlo da Doadolaloro terre.

In questo medesimo tempo, il capitano diForlì disideroso d’accrescere sua signoria, e avventuratonell’imprese, non vedendosi avere inRomagna di cui e’ dovesse temere, co’ suoi cavalierivenne subitamente sopra le terre del conticinoda Ghiaggiuolo, di cui non si guardava,e con lui venne l’abate di Galeata, da cuiil conticino tenea certe terre, e non gli rispondeacom’era tenuto. E parve che fosse una maraviglia,che avendo buone e forti castella e beneguernite a grande difesa, tutte l’ebbe in pochi dì.E con questa foga se n’andò sopra le terre diCarlo conte di Doadola, e quasi senza trovar contastotutte le recò sotto la sua signoria. Egliera a quel tempo in lega col signore di Milano, eperò non trovò il comune di Firenze, benchèil conticino fosse stato suo cittadino, ch’aiutarelo volesse contro al capitano.

CAP. LXXX.Come nella città d’Orbivieto si cominciò materiadi grande scandalo.

In questo anno 1350, reggendosi la città d’Orbivietoa comune appo il popolo, erano i maggiori[134]governatori di quello stato Monaldo dimesser Ormanno, e Monaldo di messer Bernardodella casa de’ Monaldeschi; Benedetto di messerBonconte loro consorto, per invidia e per settarecati a se due altri suoi consorti, trattò con loroil malificio, che poco appresso gli venne fatto;perocchè del mese di marzo del detto anno, uscendoamendue i Monaldi sopraddetti del palagiodel comune dal consiglio, Benedetto co’ suoidue consorti s’aggiunsono con loro, e senza alcunosospetto, i due Monaldi, che al continovo ildì e la notte usavano con Benedetto, s’avviaronocon lui ragionando; e avendo il traditore l’unodi loro per mano, nel ragionamento, in sullapiazza, il fedì d’uno stocco, e cadde morto; l’altroMonaldo vedendo questo cominciò a fuggire:Benedetto sgridò i compagni, i quali il seguirono,e innanzi che potesse entrare in casa sua ilgiunsono e uccisonlo. Morti che furono costoro,Benedetto corse a casa sua e armossi; e accolticerti suoi amici, co’ suoi due consorti corsonola terra: e non trovando contasto, entrarono nelpalagio del comune; e aggiuntasi forza di cittadinidi sua setta, Benedetto si fece fare signore,e cominciò a perseguitare tutti coloro ch’eranostati amici de’ suoi consorti morti; e montòin tanta crudeltà la sua tirannia coll’audaciade’ suoi seguaci, che cacciati molti cittadini, inpiccolo tempo, innanzi che l’anno fosse compiuto,più di dugento tra dell’una setta e dell’altrase ne trovarono morti di ferro. Onde il contadoe il paese d’intorno se ne ruppe in sì fatto modo,che in niuno cammino del loro distretto sipotea andare sicuro.

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CAP. LXXXI.Come la città d’Agobbio venne a tiranniadi Giovanni Gabbrielli.

Avendo narrato delle nuove tirannie che si cominciaronoin Toscana, ci occorre a fare memoriad’un’altra che si creò nella Marca in questomedesimo anno, la città d’Agobbio, la quale inquel tempo avea sparti per l’Italia quasi tutti isuoi maggiori cittadini in ufici e rettorie. Giovannidi Cantuccio de’ Gabbrielli d’Agobbio, essendoco’ suoi consorti in discordia per una badia diSantacroce, si pensò che agevolemente si poteafare signore e della badia e d’Agobbio, trovandosinella città il maggiore, e non guardandosi i suoiconsorti nè gli altri cittadini di lui. E non ostanteche fosse guelfo di nazione, considerò che tuttii comuni e signori di parte guelfa di Romagna,e di Toscana e della Marca temeano fortedel signore di Milano, ch’avea presa di novellola città di Bologna, e provvidde, che dove i Peruginio altra forza si movesse contro a lui, chel’aiuto dell’arcivescovo non gli mancherebbe.E avendo così pensato, senza indugio accolse centofanti masnadieri, e con alquanti cittadini disperatie acconci a mal fare, i quali accolse a questotradimento della patria, subitamente corse inprima alle case de’ suoi consorti, e affocate e rottele porti, prese messer Belo di messer Cante, emesser Bino e Rinuccio suoi figliuoli, e Petrucciodi messer Bino e quattro altri piccioli fanciulli, e[136]tutti gli mise in prigione; e rubate le case, vi miseil fuoco e arsele. E fatto questo, corse al palagiode’ consoli rettori di quello comune: e non volendoil gonfaloniere darli il palagio, corse allecase sue e arsele in sua vista. E tornato al palagio,disse agli altri consoli, che se non gli dessonoil palagio altrettale farebbe delle loro; ondeper paura gli aprirono; e preso il palagio, vilasciò sue guardie, e corse la terra. I cittadinisentendo presi i consorti di Giovanni, di cuiavrebbono potuto fare capo, si stettono per paura,e niuno si mise a contastarlo. E così disventuratamentecoll’aiuto di meno di centocinquantafanti fu occupata in tirannia la città d’Agobbioin una notte, la quale avea seimila uomini d’arme.Ma i peccati loro, e massimamente le ree cosecommesse per le città d’Italia per le continoverettorie ch’aveano gli uomini di quella città, licondusse in quelle, e nella disciplina della nuovae disusata tirannia. E per le discordie della casade’ Gabbrielli a quell’ora non avea la città podestà,nè capitano nè altro rettore. Avevavi alcunemasnade de’ Perugini, i quali Giovanni necacciò fuori; e ’l dì seguente, avendo cresciuta lasua forza dentro, se ne fece fare signore; e di presente,come potè il meglio, si fornì di gente, edi notte facea sollecita guardia, e fortificava lasua signoria.

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CAP. LXXXII.Come il comune di Perugia e il capitano delPatrimonio andarono a oste ad Agobbio.

Sparta per lo paese la nuova signoria d’Agobbio,messer Iacopo, ch’era capo della casa de’ Gabbrielli,e allora era capitano del Patrimonio per laChiesa, co’ suoi cavalieri, e con aiuto d’alquantisuoi amici, di subito cavalcò a Perugia; e il comunedi Perugia, che si sentiva offeso per lo cacciaredella sua gente d’Agobbio, a furore di popolosi mosse a cavalcare popolo e cavalieri conmesser Iacopo, e puosonsi a oste intorno alla cittàd’Agobbio. Vedendo Giovanni di Cantuccio,nuovo tiranno, che il comune di Perugia, e messerIacopo e altri suoi consorti con forte bracciol’avieno assediato, e che da se era male fornito apotere resistere, e de’ suoi cittadini d’entro non sipotea fidare, sagacemente mandò nel campoa’ Perugini suoi ambasciadori, i quali da partedi Giovanni dissono: Signori Perugini, Giovannidi Cantuccio ci manda a voi a farvi assapere,com’egli è di quella casa de’ Gabbrielli, che semprefurono amatori e fedeli del vostro comune, ecosì intende d’essere egli; e intende che ’l comunedi Perugia abbia in Agobbio ogni onore eogni giurisdizione che da qui addietro avere vi solea,e maggiore, e vuole rendere i prigioni; ed e’ sipartissono dall’assedio, e mandassono in Agobbioque’ savi cittadini di Perugia cui elli volessono,a mettere in ordine e riformare il governamento[138]del comune, e ricevere i prigioni. La profferta fularga, e’ Perugini più baldanzosi che discreti,confidandosi follemente alla promessa del tiranno,elessono ambasciadori ch’andassono a riceverei prigioni e riformare la città, e misongli inAgobbio: e di presente si levarono da campo dellaterra e tornaronsi in Perugia, e lasciarono messerIacopo a campo colla gente d’arme ch’aveadella Chiesa, il quale rimase all’assediopiù dì partiti i Perugini; pensando coll’aiutode’ suoi cittadini d’entro potere da se alcuna cosa,o se la fede di Giovanni fosse intera co’ Perugini,potere tornare in Agobbio. Gli ambasciadoride’ Perugini entrati in Agobbio, con grandissimafesta, e dimostramento di grande amore econfidanza furono ricevuti da Giovanni. E cominciolliprima a convitare e tenerli in desinarie in cene, e tranquillarli d’oggi in domane;e strignendolo gli ambasciadori, disse che voleaprima vedere partito messer Iacopo dall’assedio.Messer Iacopo s’avvide bene dell’inganno, mastretto dagli ambasciadori perugini, acciocchèa lui non si potesse imputare cagione che per luiseguitasse la discordia, si partì dall’assedio etornossi nel Patrimonio. Gli ambasciadori di Perugia,partitosi messer Iacopo, con più baldanzastrigneano Giovanni, di rivolere i prigioni, e ordinareil reggimento della guardia della terra,com’egli avea promesso. Il tiranno vedendosi levatol’assedio, tenea con più fidanza gli ambasciadoriin parole, e trovando nuove cagioni a dilungareil tempo, gli tenea sospesi. Ma vedendoche oltre al debito modo gli menava per parole,[139]per sdegno si partirono d’Agobbio, e rapportaronoal loro comune l’inganno che Giovanni aveafatto. A’ Perugini ne parve male: ma nontrovarono tra loro concordia di ritornarvi adoste. Nondimeno il nuovo tiranno, pensandosipiù gravemente avere offeso il comune di Perugia,non ostante che fosse per nazione e per patriaguelfo, si pensò d’aiutare co’ ghibellini. Emandò ambasciadori a messer Bernabò ch’eraa Bologna, dicendo: che volea tenere la cittàd’Agobbio dal suo signore messer l’arcivescovo:e pregollo che gli mandasse gente d’arme allaguardia sua e della terra; il quale senza indugiovi mandò dugentocinquanta cavalieri, e appressove ne mandò maggiore quantità, parendoliavere fatto grande acquisto alla sua intenzione.Giovanni da se sforzò i suoi cittadini per averedanari, e fornissi di gente d’arme a piè e a cavallo;e vedendosi fornito alla difesa si dimostròpalesemente nimico de’ Perugini, come appressoseguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. LXXXIII.Come cominciò l’izza da’ Genovesi a’ Veneziani.

Essendo cresciuto scandalo nato d’invidia distato tra il comune di Genova e quello di Vinegia,tenendosi ciascuno il maggiore, cominciamentofu di grave e grande guerra di mare.E la prima cagione che mosse fu, che avendoavuto i Genovesi guerra e briga con Giannisbecimperadore nelle provincie del Mare maggiore,[140]a cui i Genovesi aveano arsa la Tana e fattodanno grande alla gente sua, per la qual cosai Genovesi non potieno colle loro galee andareal mercato della Tana, anzi facevano a Caffaporto, e per terra vi faceano venire la spezieriae altre mercatanzie, con più costo e avarie chequando usavano la Tana. I Veneziani dopo ladetta briga s’acconciarono coll’imperadore, ealla Tana andavano con loro navili e colle lorogalee per la mercatanzia, e traevanla a miglioremercato, la qual cosa mettea male a’ Genovesi. Perla qual cosa richiesono i Veneziani, e pregaronliche si dovessono accordare con loro a fare portoa Caffa, e darebbono loro quella immunità e fondacoe franchigia ch’avieno per loro: e facendoquesto, l’arebbono in grande servigio; ed essendoin concordia, non dottavano che Giannisbec sirecherebbe a far loro ogni vantaggio che volessono,per ritornarli al mercato della Tana: e questotornerebbe in loro profitto, e in onore di tuttala cristianità. I Veneziani non vi si poterono peralcun modo recare, anzi dissono, che intendeanod’andare con loro legni e galee alla Tana edove più loro piacesse, che della briga che i Genovesiaveano coll’imperadore non si curavano.Per la quale risposta i Genovesi sdegnarono, e dispuosonsidove si vedessono il bello, di fare dannoa’ Veneziani in mare, e i Veneziani a loro; ed’allora innanzi, dove si trovarono in mare sicombatteano insieme, e in trapasso di non grantempo feciono danno l’uno all’altro assai. Esentendo catuno comune come la guerra era cominciatain mare tra’ loro cittadini, ordinarono[141]di mandare a maggiore riguardo e più armati iloro navili grossi che non solieno. E per non mostrarepaura nè viltà l’uno dell’altro non si ristrinsonodel navicare.

CAP. LXXXIV.Come quattordici galee di Veneziani presonoin Romania nove de’ Genovesi.

Avvenne che andando in questo anno allaTana quattordici galee di Veneziani bene armate,come furono in Romania s’abboccaronoin undici galee de’ Genovesi ch’andavano aCaffa, sopra l’Isola di Negroponte, e incontanentesi dirizzano colle vele e co’ remi in verso loro.I Genovesi vedendole venire, l’attesono arditamente,e acconciaronsi alla battaglia. E sopraggiungendole galee de’ Veneziani, combatterono insieme.E dopo la lunga battaglia, i Veneziani sconfissonoi Genovesi: e seguitando la fuga, delleundici galee ne presono nove, e le due camparono,e fuggirono in Pera. I Veneziani avendo questavittoria, trovandosi presso all’isola di Negroponte,acciocchè non impedissono per tornare aVinegia il loro viaggio della Tana, tornaronoa Candia, e ivi scaricarono la mercatanziapresa delle nove galee de’ Genovesi, e misonla nelloro fondaco, e tutti i prigioni incarcerarono:e i corpi delle galee de’ Genovesi lasciarono nelporto, pensando d’avere ogni cosa in salvo allaloro tornata, e allora menar la preda della lorovittoria a Vinegia con grande gazzarra; e fatto[142]questo seguirono il loro viaggio. Ma le cose ebbonotutto altro fine che non si pensarono, comeappresso diviseremo.

CAP. LXXXV.Come i Genovesi di Pera presono Negroponte,e riebbono loro mercatanzia.

Le due galee di Genovesi campate dalla sconfitta,e venute a Pera, narrarono a’ Genovesi diPera la loro fortuna. E sentito per quelli di Peracome le quattordici galee di Veneziani eranopassate nel Mare maggiore, e come i Genovesiprigioni, e la mercatanzia e i corpi delle lorogalee erano in Candia; non inviliti per la rottade’ loro cittadini, ma come uomini di francocuore e ardire, di presente avendo in Pera settecorpi di galee le misono in mare, e quelle e ledue de’ Genovesi della sconfitta, e quanti legniaveano armarono di loro medesimi, e montaronvisuso a gara chi meglio potè, fornendosi d’armee di balestra doppiamente; e senza soggiorno,improvviso a’ Veneziani di Candia, i quali nonsapieno che galee di Genovesi fossono in quelmare, furono nel porto. I Veneziani co’ paesani,volendo contastare la scesa a’ Genovesi in terranel loro porto, tratti alla marina, per forza d’armee dalle balestra de’ Genovesi furono ributtati;e scesi in terra i Genovesi di Pera, e romorelevato per la città, tutti trassono i cittadini alladifesa, per ritenere i Genovesi che non si mettessonopiù innanzi verso la terra. Ma poco valse[143]loro, che con tanto empito di loro coraggioso ardirei Genovesi si misono innanzi, che coll’aiutodelle loro balestra rotti que’ della terra, efuggendo nella città, con loro insieme v’entrarono.Come si vidono dentro, affocando le case, edilungando da loro i cittadini co’ verrettoni, glistrinsono per modo, che già erano signori dellaterra; ma pervenuti alla prigione la ruppono, etrassonne tutti i loro cittadini presi; ed entrarononel fondaco, e tutta la mercatanzia presa dellenove galee de’ Genovesi, e quella che dentrov’era de’ Veneziani presono, e caricarono ne’corpi delle loro nove galee prese nel porto, esu le loro; e rimessi i prigioni in su le galee,pensarono che tanto erano rotti e sbigottiti gliabitatori di Candia, che agevole parea loro vincerela terra, ma vincendola e convenendolaguardare, convenia loro abbandonare Pera,e però si ricolsono alle galee, e con pienavittoria si ritornarono a Pera. E a Genova rimandaronole nove galee racquistate per loro, egli uomini e la mercatanzia, con notabile famadi loro prodezza e di varia fortuna.

CAP. LXXXVI.Come fu morto il patriarca d’Aquilea, e fattanevendetta.

In questo anno, del mese di giugno, messerBeltramo di san Guinigi patriarca d’Aquilea,cavalcando per lo patriarcato, da certi terrierisuoi sudditi, con aiuto di cavalieri del conted’Aquilizia, ch’era male di lui, fu nel cammino[144]assalito e morto con tutta sua compagnia, esenza essere conosciuti allora, coloro che fecionoil malificio si ricolsono in loro paese. Per laqual cosa rimaso il patriarcato senza capo, i comunismossono il duca d’Osterich, il quale conduemila barbute venne, e fu ricevuto da tutti ipaesani senza contasto, e onorato da loro. Evicitato il paese infino nel Friuli, sentendo che ’lpapa avea fatto patriarca il figliuolo del re Giovannidi Boemia, non illigittimo ma ligittimo, sitornò in suo paese. E poco appresso, il dettopatriarca venne nel paese, e fu con pace ricevutoe ubbidito da tutti i comuni e terrieri del patriarcato.E statovi poco tempo, certi castellaniil vollono fare avvelenare, e furono coloro ch’avienomorto l’altro patriarca, avendo a ciòcorrotto due confidenti famigliari. Onde egli scopertoil tradimento, messer Francesco Giovannigrande terriere, capo di questi malfattori, concerti altri castellani che ’l seguitavano, furonoda lui perseguitati senza arresto, tanto che si ridussonoa guardia nelle loro fortezze, e ivi furonoassediati per modo, che s’arrenderono al patriarca.Il quale prima abbattè tutte loro castella,le quali erano cagione della loro sfrenata superbia,e al detto messer Francesco, con ottode’ maggiori castellani fece tagliare le teste, eun’altra parte ne fece impendere per la gola.Per la qual cosa tutto il paese rimase cheto e sicuro,e il patriarca temuto e ubbidito da tuttisenza sospetto o contasto.

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CAP. LXXXVII.Come il legato del papa si partì del Regno,e il re riprese Aversa.

Tornando alle novità del regno di Cicilia diqua dal Faro, come è narrato, fatto l’accordodal re Luigi a Currado Lupo e agli altri caporalich’erano sotto il titolo del re d’Ungheria in Terradi Lavoro, le città e le castella che teneano inquella furono assegnate alla guardia del cardinalemesser Annibaldo da Ceccano, salvo le torri diCapova. Il cardinale non trovando tra le partiaccordo, per dare materia al re Luigi che si potesseriprendere le città e le castella che a luierano accomandate, si partì del Regno e andossenea Roma, ove da’ Romani fu male veduto;perocchè dispensava e accorciava i termini dellavicitazione a’ romei, contro all’appetito della loroavarizia, onde più volte standosi nel suo ostierefu saettato da loro, e alla sua famiglia fatta vergogna,e assaliti e fediti cavalcando per Roma.Onde egli sdegnoso si partì, e andossone in Campagna;e nel cammino morì di veleno con assaisuoi famigliari. Dissesi che ad Aquino era statoavvelenato vino nelle botti, del quale non ebbonoguardia, e bevvonsene: se per altro modo fu nonsi potè sapere. Rimasta la città d’Aversa e laguardia del castello a certi famigliari del cardinalein nome di santa Chiesa, il re Luigi vi cavalcòcon poca gente, e fecesi aprire le porte delcastello senza contasto, e misevi fornimento o[146]gente d’arme alla guardia. E incontanente la città,ch’era troppo larga e sparta da non potersibene difendere, ristrinse, facendo disfare tutte lecase e’ palagi che fuori del cerchio che prese rimanieno;e delle pietre fece cominciare a cignerequella di buone e grosse mura: e a ciò fare misegrande sollecitudine, sicchè in poco tempo, innanzil’avvenimento del re d’Ungheria nel Regno,le mura erano alzate per tutto sei braccia intornoalla terra. E fatto capitano messer Iacopo Pignattarodi Gaeta, valente barone, di trecento cavalierie di seicento pedoni masnadieri, gli accomandòla guardia della città d’Aversa e delcastello; e nella terra fece mettere abbondanza divittuaglia, perocchè di quella terra, più chedell’altre, si dubitava alla tornata del re d’Ungheria.In quel tempo Currado Lupo non sentendosiforte di cavalieri, che s’erano partiti delRegno, s’era ridotto a Viglionese in Abruzzi, egli Ungheri in Puglia, e guardavano il passo delletorri di Capova, aspettando il loro signore.

CAP. LXXXVIII.Come il re d’Ungheria ritornò in Pugliaconquistando molte terre.

In questo anno, Lodovico re d’Ungheria sentendoche la sua gente avea sconfitto a Meleto ibaroni del re Luigi e i Napoletani, e aveano moltia prigioni: essendo sollecitato per lettere eper ambasciadori da’ comuni e da’ baroni che teneanonel Regno la sua parte che ritornasse, diliberò[147]di farlo. E di presente mandò innanzi de’ suoicavalieri ungheri con certi capitani in Ischiavonia,perchè di là passassero in Puglia. E quandogli sentì passati, subitamente con certi suoieletti baroni, con piccola compagnia, si mise acammino, e prima fu alla marina di Schiavoniache sapere si potesse della sua partita: e trovandoal porto le galee e i legni apparecchiati, vi montòsuso; e avendo il tempo buono, valicò in Pugliaa salvamento, assai più tosto che per i paesaninon si stimava. E sentita la partita sua inUngheria, grande moltitudine d’Ungheri il seguitarono,valicando di Schiavonia in Puglia inbarche e in piccoli legni armati sì disordinatamente,che se il re Luigi avesse avute due galeearmate senza fallo gli avrebbono rotti e impeditiper modo, che non sarebbono potuti passare: macome furono passati, il re Luigi vi mandò tre galeearmate che vi giunsono invano. Ed essendo il red’Ungheria in Puglia, ragunò la sua gente insieme,e trovossi con diecimila cavalieri. In que’ dìil conte di Minerbino, il quale s’era ribellatodal detto re, si racchiuse nella città di Trani, allaquale il re andò ad assedio. E vedendosi il contesenza speranza di soccorso e disperato di salute,col capestro in collo e in camicia uscì dellacittà, e gittossi ginocchione in terra a piè del redomandandoli misericordia. Il re d’Ungheriadimenticati i baratti e’ falli del conte benignamentegli perdonò, e rimiselo nel suo stato: e lasciatonelle città e castella di Puglia quella genteche volle, venne in Principato. La città di Salernoessendo in cittadinesche discordie gli apersono le[148]porte, e ricevettonlo a onore: e ivi si riposò alquantidì; e messo suo vicario nella città e castellanonel castello, se ne venne a Nocera de’ cristiani;e in quella se n’entrò senza contasto. Ilcastello era forte e bene fornito alla difesa, mainvilito il castellano, per codardia l’abbandonò.Il re il fece prendere e guardare alla sua gente. Epartito di là venne a Matalona, nella quale entròsenza contasto. E tutte le città e castella di Terradi Lavoro feciono il suo comandamento, salvola città di Napoli ed Aversa. E poi il detto recon tutto suo sforzo se ne venne ad Aversa, delmese di maggio nel detto anno, e credettelasiavere alla prima giunta, ma trovossi ingannato,perocchè era città di mura cinta, e bene che fosserobasse, era imbertescata e fornita di legnamealla difesa; e dentro v’erano i cavalieri e i masnadieriche la difendevano virtuosamente; e assaggiataper più volte dall’assalto degli Ungheri,con loro dannaggio, il re conobbe che non la poteavincere per forza, e però vi mise assedio, e strinselacon più campi per modo, che da niuna partevi si poteva entrare.

CAP. LXXXIX.Come i Genovesi ebbono Ventimiglia.

In questo tempo dell’assedio d’Aversa, il dogedi Genova e il suo consiglio, conosciuto lorotempo, armarono dodici galee e mandaronle nelporto di Napoli, e diedono il partito a prendereal re e a alla reina, dicendo in questo modo: il doge[149]di Genova e il suo consiglio ci hanno mandatiqui a essere in vostro aiuto, in quanto voirendiate liberamente al nostro comune la cittàdi Ventimiglia, la quale è di nostra riviera, avvegnachèdi ragione fosse della contea di Provenza.E se questo non fate, di presente abbiamocomandamento d’essere contro a voi, e di servire ilre d’Ungheria. Il re e la reina vedendosi assediatiper terra dalla grande cavalleria del re d’Ungheria,a cui ubbidia tutta la Terra di Lavoro,e di mare convenia che venisse tutta loro vittuaglia,e da loro non aveano solo una galea: pensaronoche se i Genovesi gli nimicassono in mareerano perduti, e però stretti dalla necessità deliberaronodi fare la volontà del doge e del comunedi Genova, avendo speranza dell’aiutodi quelle galee molto migliorasse la loro condizione.E incontanente mandarono a far dare latenuta della città di Ventimiglia al comune diGenova. E le dodici galee non si vollono muoveredel porto di Napoli, nè fare alcuna novità infinoa tanto che la risposta non venne dal lorodoge, come avessono la tenuta della detta città.Avuta la novella, non tennono fede al re Luiginè alla reina di volere nimicare le terre che ubbidivanoal re d’Ungheria, nè essere contro a lui;anzi si partirono da Napoli, e presono altro loroviaggio.

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CAP. XC.Come fu data l’ultima battaglia ad Aversadal re d’Ungheria.

Stando l’assedio ad Aversa, il re d’Ungheriafacea scorrere continovo la sua gente fino a Napolie per lo paese d’intorno d’ogni parte, e tuttii casali e le vicinanze l’ubbidivano, e mandavanoil mercato all’oste. A Napoli per terra nonentrava alcuna cosa da vivere, e però aveasoffratta d’ogni bene, salvo che di grechi e di vinilatini. E se il re d’Ungheria avesse avute galeein mare, avrebbe vinta la città di Napoli perassedio più tosto che Aversa: perocchè non aveanod’onde vivere, se per mare non veniva daGaeta e di Roma con grande costo. Nel cominciamento,l’oste del re d’Ungheria fu abbondevoled’ogni grascia, per l’ubbidienzade’ paesani: ma soprastando l’assedio, il servigiocominciò a rincrescere, e l’oste ad averemancamento di molte cose, e spezialmente di ferridi cavalli e di chiovi. E i nobili regnicoli vedendoche il re in persona con diecimila cavalierinon poteva prendere Aversa, debole di mura edi fortezza e con poca gente alla difesa, cominciaronoad avere a vile gli Ungheri, e trarre lecose loro de’ casali, e la vittuaglia non portavanoal campo come erano usati. E per questo lemasnade degli Ungheri andavano a rubare oggil’uno casale e domane l’altro, e spaventati ipaesani, la carestia e il disagio montava nell’oste.[151]Il re temendo che la vittuaglia non fallassenel soggiorno, deliberò di combattere lacittà con più ordine e con più forza ch’altra voltanon avea fatto, come appresso diviseremo.

CAP. XCI.Della materia medesima.

Vedendo il re d’Ungheria mancare la vittuagliaall’oste, ebbe i capitani e’ conestabili de’ suoiUngheri e Tedeschi che v’erano a parlamento:e disse come grande vergogna era a lui e aloro essere stati tanto tempo intorno a quellaterra, abbandonata di soccorso e imperfetta dimura, e non averla potuta prendere; e ora conosceache per lo mancamento della vittuaglia ilsoggiorno non gli tornasse a vergogna; e perògli richiedeva e pregava ch’elli confortassonoloro e i loro cavalieri, ch’elli adoperassono perloro virtù, che combattendo la terra si vincesse:ch’egli intendea di volere che la battaglia daogni parte vi si desse aspra e forte, sicch’ella sivincesse. I capitani e’ conestabili di grande animoe di buono volere s’offersono al re, e il re inpersona disse loro d’essere alla detta battaglia.Quelli d’entro che sentirono come doveano esserecombattuti con tutta la forza di quella gentebarbara, non si sbigottirono, anzi presonocuore e ardire e argomento alla loro difesa. GliUngheri e i Tedeschi sprovveduti d’ingegni dacoprirsi e da prendere aiuto all’assalto delle mura,fidandosi negli archi e nelle saette, da ogni[152]parte a uno segno fatto assalirono le mura. E ilre in persona fu all’assalto, per fare da se, e perdare vigore agli altri. E data la battaglia, e rinfrescataspesso, per stancare i difenditori, efatto di loro saettamento ogni prova, ed essendoda quelli della terra in ogni parte ribattuti, coll’aiutode’ balestrieri e delle pietre e della calcinagittata sopra loro, e delle lanci e palie d’altri argomenti, non ebbono podere di prenderealcuna parte delle mura, ma molti di loromorti e più fediti, e infino fedito il re, con acquistod’onta e di vergogna si ritrassono dallabattaglia. Que’ d’entro avendo combattuto francamente,confortati e medicati di loro fedite, presonodelle fatiche riposo.

CAP. XCII.Come il conte d’Avellino con dieci galee stettea Napoli, e Aversa s’arrendè al re.

Stando l’assedio ad Aversa, la reina Giovannanon essendo bene del re Luigi, perchè voleaessere da lui più riverita che non le parea, perocchèera donna e reina del reame, e il marito nonera ancora re, a sua ’stanza fece in Proenza al conted’Avellino, capo e maggiore della casa del Balzo,armare dieci galee, e all’uscita di giugno neldetto anno giunse nel porto di Napoli colla dettaarmata, atteso per soccorso, del quale aveanogran bisogno. Ma il conte pieno di malizia, conoscendoil bisogno del re Luigi, e poco curandosidella reina, mostrandosi di volere trattare suo vantaggio,[153]colle sue galee si teneva in alto sopra il portodi Napoli. E per trarre vantaggio e mantenerel’armata, ordinò che ogni legno o barca che nelporto volesse entrare o uscire pagasse certa quantitàdi danari, e per questo modo aggravava i Napoletani,e faceva loro più grande la carestia dellavittuaglia. E stando in questo modo, trattavadomandando vantaggio al re Luigi, e il re gliel’otriavaquanto sapea domandare, per avere l’aiutodi quelle galee, aggiugnendo i prieghi della reina,mostrando come con quelle galee poteano racquistarele terre di quella marina, onde seguirebbeloro grande soccorso. Ma per cosa che fare sapessenon potè smuovere il conte a dargli l’aiuto diquell’armata, anzi si partì di là, e per potere agiarela ciurma in terra s’apportò al castello dell’Uovo:e cominciò a trattare col re d’Ungheriadi volergli dare per moglie la sirocchia dellareina, che fu moglie del duca di Durazzo, e il reavvisato gli dava intendimento, per volere quellegalee tenere in contumace de’ suoi avversari.E stando il conte in trattati e di là e di qua, nonsi potea conoscere che facesse la volontà della reina,nè che fosse ribello al re Luigi, o in che modosi potesse giudicare essere col re d’Ungheria,tenendo colla sua malizia ogni parte sospesa. Alre Luigi e ai Napoletani fece danno, alla reinanon accrebbe baldanza: ma al re d’Ungheria, perlo suo trattare, fece piuttosto avere Aversa: chesentendo gli assediati i trattati del conte, affaticatilungamente alla difesa d’Aversa, pensandoche il re d’Ungheria rimanesse nel Regno, benchèancora si potessono difendere alcun tempo,[154]presono partito di trattare per loro. E messer IacopoPignattaro loro capitano, essendo regnicolo,e di natura mobile alla nuova signoria, tosto s’accordòcol re, ed ebbe sotto titolo di loro soldimoneta dal re d’Ungheria, e rendégli la cittàd’Aversa: il quale incontanente v’entrò dentrocon tutta sua cavalleria, e non lasciò fare a’ cittadinialcuna violenza o ruberia. E questo fu delmese di settembre del detto anno. Manifesto fuche questa vittoria venne agli Ungheri a gran bisogno,perocchè già era sì stracca la gente, perlungo disagio e per la carestia, che poco più vipoteano stare, e il partire senza averla vintatornava al re e alla sua grande cavalleria ontosavergogna.

CAP. XCIII.Come il re d’Ungheria e il re Luigi vennonoa certa tregua.

Avendo non ispedite guerre, ma piuttosto avviluppamentidi quelle narrate de’ fatti del regnodi Cicilia, seguita non meno incognito eavviluppato processo nelle seguenti successionidi que’ fatti; ma cotali chenti alla nostra materias’offeriranno, con nostra scusa gli racconteremo.Avuta il re d’Ungheria la città d’Aversa, allaquale lungo tempo s’era dibattuto con tutta la suagrande oste, e non l’avea potuta nè per forza nèper assedio acquistare, essendo debole città dimura e da poca gente difesa, si pensò che l’altremaggiori e più forti città che si teneano contro[155]a lui sarebbono più malagevoli a conquistare,e per esempio d’Aversa troverebbe maggioreresistenza; e i suoi baroni aveano già compiutocon lui il termine del debito servigio, e a volerliritenere al conquisto del Regno bisognavache desse loro danaro, che n’avea pochi, e delRegno non ne potea trarre, essendo in guerra:vide che il re Luigi, i baroni, e quelli che si teneanodal suo lato erano disposti di stare alladifesa delle mura: e però mutò l’animo agevolmentedisposto a trovare accordo, col quale conmeno sua vergogna si potesse partire del Regno.E dall’altra parte il re Luigi era a tanto condotto,che non che potesse con arme resistere al nimico,ma di mantenere bisognose e necessariespese di sua vita era impotente; e se non fosseche l’animo de’ Napoletani concorrea a lui ealla reina alla loro difesa, non arebbono potutosostenere. E per questa cagione era atta la materiada catuna parte a venire alla concordia conpiccolo aiuto d’alcuni mezzani. Onde alcunoprelato di santa Chiesa, il quale era dal papamandato nel Regno, e il conte d’Avellino, cheavea da ogni parte puttaneggiato, coll’aiutod’alcuno altro barone, movendosi a cercare sepotessono trovare via d’accordo, con piccola faticavi pervennono alla cavalleresca, in questomodo. Che triegue fossono fatte infino a calendi aprile, gli anniDomini 1351, con patto, chechi avesse nel Regno dovesse sicuramente teneresue città, castella e ville in pace tutto iltempo detto. Che la questione che si faceva controalla reina Giovanna della morte del re Andreasso,[156]si dovesse commettere nel papa e ne’ cardinali:e dove fosse trovata colpevole, dovesseperdere il reame, e tornasse libero al re d’Ungheria:e dove ella non fosse giudicata colpevoledella morte del marito, ma liberatane per sentenzadel papa e del collegio de’ cardinali dovesserimanere reina del detto regno. E il red’Ungheria le dovea rendere tutte le città, castellae baronaggi che vi tenea, riavendo da leiper le spese fatte per lui fiorini trecentomilad’oro, per quello modo e termine competente cheordinato fosse per la santa Chiesa; e per pattocatuno re si dovea partire personalmente, e lareina del reame. Per la fermezza d’attenere l’unoall’altro questi patti non ebbe altro legame,che la fe e la scrittura e la testimonianza de’ mezzani.Il re d’Ungheria che avea d’uscire del reamemaggior voglia, prese l’onesta cagione d’andarein romeaggio a Roma al santo perdono; ein Puglia alle terre della marina lasciò de’ suoiUngheri alla guardia con loro capitani, e fornì dibuona guardia tutte le sue tenute in Terra di Lavoro;e a Capova e Aversa, e per l’altre terree castella circustanti lasciò suo vicario messerfra Moriale cavaliere friere di san Giovanni diProvenza, valente e ridottato cavaliere, con buonemasnade di Provenzali, di cui il detto remolto si confidava; e a Viglionese e a Lancianoe nell’altre terre che tenea in Abruzzi lasciò vicariomesser Currado Lupo, franco cavaliere,con sue masnade di Tedeschi a quella guardia.E ordinato ch’ebbe la guardia delle sue terrenel Regno si mise a cammino per andare a Roma:[157]e incontanente il re Luigi per mostrare di volereuscire del Regno, e tenere i patti, si partì daNapoli colla reina, e venne alla città di Gaetain su’ confini del reame, e ivi attendeva che ilre d’Ungheria si partisse d’Italia e tornasse insuo reame, com’era in convegna; e ciò fatto, ilre Luigi e la reina Giovanna doveano fuori delreame attendere la sentenza di santa Chiesa. IGaetani ricevettono il re Luigi e la reina Giovannain Gaeta con grande onore: e provviddongli diloro danari per aiuto alle spese, che n’aveanogrande bisogno. Ed ivi si fermarono con animoe intenzione di non uscire del Regno, bene chepromesso l’avessono, parendo loro che il dilungamentoda quello, al bisognoso e lieve stato ch’aveano,fosse pericoloso al fatto loro. Il re d’Ungheriaseguì a Roma suo viaggio, e avuto il santoperdono senza soggiorno se ne tornò in Ungheria.

CAP. XCIV.Come il conte d’Avellino diè al suo figliuoloper moglie la duchessa di Durazzo.

Il conte d’Avellino, il quale colle sue galeeera rimaso sopra Napoli al castello dell’Uovo,vedendo i fatti del Regno rimasi intrigati per lungotempo, essendo rimasa la duchessa di Durazzosirocchia della reina, vedova, nel castello dell’Uovo,chiamata Maria, non ostante che ’l dettoconte fosse suo compare, ma per quello mostrandopiù familiarità, con piccola compagniaandò al castello per vicitarla, innanzi alla sua[158]partita; la duchessa con buona confidanza glifece aprire liberamente il castello, ed egli con duesuoi figliuoli e colla sua famiglia armata v’entrarono:e entrati, fece prendere la guardia delleporti e delle fortezze d’entro. Ed essendo colladuchessa, disse che volea ch’ella fosse moglie diRuberto suo figliuolo, e per forza le fece consumareil matrimonio: e di presente la trasse delcastello con tutti i suoi arnesi, e misela nellasua galea, per menarla in Proenza. Il re Luigich’era in Gaeta sentì di presente questo fatto,e egli e la reina ne furono molto turbati. E seguendoil conte suo viaggio per tornare inProenza con tutte le galee, quando furono sopraa Gaeta l’otto entrarono nel porto, e i padronie’ nocchieri e le ciurme scesono in terra per pigliarerinfrescamento. Il conte colla duchessa eco’ figliuoli rimasono fuori del porto in due galee,e attendevano l’altre che prendevano rinfrescamentoper seguire loro viaggio. Il re Luigi cautamentefece venire a se i padroni e’ nocchieri dell’ottogalee, e fece segretamente armare de’ Gaetanie stare alla guardia, che non potessono senzasua volontà tornare alle galee. E fatto questo,disse: pensate di morire se non fate che le duegalee dov’è il conte, e i figliuoli e la duchessa,venghino dentro nel porto a terra; e alle minacceaggiunse amore e preghiere: e ritenuti de’ caporalicui egli volle per sicurtà del fatto, lasciògli altri tornare alle galee: i quali di presentes’accostarono alle due galee del conte, che di questofatto, come il peccato l’accecava, non s’eraavveduto, e di presente l’ebbono condotte a terra[159]dentro al porto. Allora il re mandò a direal conte che venisse a lui. Il conte si scusò chenon potea perocch’era forte stretto dalle gotte. Ilre acceso di furore e infiammato d’ira, per l’ingiuriaricevuta della vergogna fatta al sanguereale, e de’ suoi gravi e pericolosi baratti, non sipotè temperare nè raffrenare il conceputo sdegno:ma prese certi compagni di sua famiglia, earmati, in persona si mosse: e giunto al porto, montòin su la galea dov’era il conte. Venuto a lui,in brieve sermone gli raccontò tutti i suoi tradimenti,e la folle baldanza che lo avea condotto avituperare il sangue reale: e detto questo, senzaattendere risposta, con uno stocco il fedì del primocolpo; e incontanente n’ebbe tanti, che senzapotere fare parola rimase morto in su la galea.La duchessa di presente fu tratta di galea, e collocatacolla sua famiglia e co’ suoi arnesi in unoostieri in Gaeta, e i due figliuoli del conte furonomessi in prigione. Lasceremo ora de’ fatti del Regno,che stando le triegue non v’ebbe cosadegna di memoria, e ritorneremo alla nostra materiadegli altri fatti d’Italia, e della nostra cittàdi Firenze.

CAP. XCV.Della grande potenza dell’arcivescovo diMilano, e come i Fiorentini temeano diPistoia, e quello che ne seguì.

In questo medesimo tempo, tra il fine del cinquantesimoed il cominciamento del milletrecentocinquantuno,[160]i Fiorentini cominciarono fortea temere della città di Pistoia, la quale per cittadineschesette era divisa e in male stato. E la casade’ Panciatichi, che non erano originali guelfi, inque’ dì aveano cacciato della città messer RiccardoCancellieri e i suoi naturali, guelfi, di quella terra,e antichi servidori del comune di Firenze: e messerGiovanni Panciatichi s’avea recato in manoil governamento di quella terra, e per sembiantimostrava d’essere amico del comune di Firenze.I Fiorentini sentendo l’arcivescovo di Milano,il quale in quel tempo avea sotto la sua tiranniaventidue città, tra in Lombardia e in Piemonte,e di nuovo avea contro la volontà di santa Chiesapresa la città di Bologna, la quale confinavacol loro comune, temeano forte che Pistoia perle cittadinesche discordie non pervenisse nellesue mani, e però voleano la guardia di quella terra.E quanto che messer Giovanni si mostrasse amicodel comune di Firenze, con diverse e nuovecagioni tranquillava e metteva indugio col seguitode’ cittadini della sua setta, che il comune di Firenzenon avesse la guardia, raffrenando l’appetitode’ Fiorentini, col sospetto del potente vicino.Nondimeno i Pistolesi guelfi pur vollonoche il comune di Firenze v’avesse dentro alcunasua sicurtà, e consentirono che i Fiorentini mettessonoin Pistoia messer Andrea Salamoncelli,uscito di Lucca loro soldato, con cento cavalierie con centocinquanta masnadieri alla guardiadi Pistoia, alle spese del comune di Firenze,con patto espresso, che il detto capitano co’ suoicavalieri e fanti giurassono di mantenere quello[161]stato che allora reggeva Pistoia, contro il comunedi Firenze, e ogni altro che offendere o mutareil volesse. I Fiorentini vedendo che meglionon si poteva fare senza grave pericolo, benchèconoscessono che questa non era la guardia chebisognava, acconsentirono, e misonvi il capitanoe la gente d’arme sotto il detto saramento: econ molte dissimulazioni e lusinghe manteneanoquella città, ritenendo i cavalieri in Firenze senzamutazione infino al primo tempo.

CAP. XCVI.Come certi rettori di Firenze vollono prenderePistoia per inganno.

Era per successione de’ rettori di Firenze dipriorato in priorato la sollecitudine di mettererimedio alla guardia di quella città, e non trovandosida potere fare altro che fatto si fosse,alcuni allora rettori del nostro comune, con piùpresunzione che il loro consiglio non permettea,provvidono di fare tra loro segretamente d’avereper non leale ingegno la signoria di quella terra;e com’ebbono conceputo il non debito fatto,così per non discreto nè savio modo il vollonomettere a esecuzione, e sotto altro titolo accolsonoi soldati del comune a piedi e a cavallo, emossonne delle leghe del contado: e avendo aquesta gente dato ordine alla notte che si doveanomuovere, vollono provvedere di mutare diPistoia il capitano ch’avea giurato a’ Pistolesi,ch’era troppo diritto e leale cavaliere di sua promessa,[162]e scambiare le masnade sotto il titolo dellacondotta, acciocchè potessono senza contasto dentromeglio fornire la loro intenzione: e a ciò faremattamente si confidarono a uno ser Piero Gucci,soprannomato Mucini, allora notaro della condotta,il quale era paraboloso e di grande vista,e poco veritiere ne’ fatti. Questi promise di fornirela bisogna chiaramente, e d’avvisare del fattoalcuni conestabili confidenti: e preso a fornire ilservigio, i poco discreti rettori del comune ebbonola promessa di colui come se la cosa fosse fermae certa; e per questo la notte ordinata, a dì 26di marzo gli anniDomini 1351, feciono cavalcarei cavalieri e’ pedoni ch’aveano apparecchiati, econ loro messer Ricciardo Cancellieri, colle scaleprovvedute alla misura delle mura, e a Pistoiafurono la mattina innanzi dì, ed ebbono messele scale, e montati de’ cavalieri e de’ pedoni in sule mura, e scesine dentro una parte, avvisandod’avere l’aiuto de’ soldati del comune di Firenzeche v’erano dentro, come era loro datoa divedere, pensavano a dare la via agli altrie farsi forti, e tutto era senza contasto, perocchèi cittadini si dormivano senza sospetto. E i soldatidel comune che dentro v’erano non aveanosentimento nè avviso alcuno, perocchè il notaio,a cui la bisogna fu commessa, fu trovato inPrato nell’albergo a dormire. Messer Ricciardoessendo co’ suoi in sulle mura si scoperse innanzitempo, facendo gridare viva il comune di Firenzee messer Ricciardo. I Pistolesi sentendo ilrumore credettono fosse opera di messer Ricciardoloro sbandito, il quale aveano in gran sospetto;[163]e però co’ soldati de’ Fiorentini insiemefurono all’arme, e trassono alle mura francamentead assalire coloro che dentro erano scesi: e feditinealquanti, tutti gli presono, e allora di primaseppono che questa era fattura de’ Fiorentini;e tutti co’ soldati de’ Fiorentini insieme intesonosollecitamente a guardare la terra il dì e lanotte. E la folle impresa, mattamente condottaper li rettori di Firenze, generò in Pistoia gravee pericoloso sospetto, e in Firenze molta riprensione.Il notaio, a cui i signori aveano commessala bisogna, fu preso a furore di popolo e menatoalla podestà, e avrebbe perduta la persona, senon che il grande fallo ch’aveano commesso isuoi comandatori, perchè non gravasse loro difesonolui. E di questo seguì quello che appressodiviseremo.

CAP. XCVII.Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonlaa’ comandamenti loro.

Quando i Fiorentini s’avvidono del pericolo,ove l’indebita impresa de’ loro rettori gli avevamessi, di recare a partito i Pistolesi, per la nuovaingiuria ricevuta, d’aiutarsi colla forza delvicino tiranno: temendo che questo non avvenisse,non per animo di volere di quella cittàalcuna giurisdizione fuori che la guardia, per gelosiache al tiranno non pervenisse, di presentediliberarono che la città si strignesse per forzae per amore tanto che la guardia solo se ne avesse,[164]per loro sicurtà, e del nostro comune, e altronon volea; e senza indugio alla gente che andatav’era s’aggiunse cavalieri, quanti allora ilcomune ne aveva, e fanti a piè. E per decreto delcomune si diè parola agli sbanditi che catunofacesse suo sforzo, e alle sue spese menasse gentenell’oste in aiuto al comune di Firenze secondosuo stato, e dopo il servigio fatto sarebbe ribanditod’ogni bando. Per la qual cosa in tre dìfurono intorno a Pistoia ottocento cavalieri e dodicimilapedoni, e ristrinsonla d’ogni parte conpiù campi, sicchè di loro contado nè da altra amistàdentro non poterono avere alcuno soccorsoo aiuto. E di Firenze vi s’aggiunse sedici pennoni,uno per gonfalone, co’ quali andaronoduemila cittadini quasi tutti armati come cavalieri,e molti ve n’andarono a cavallo; e giuntinell’oste con loro capitani, feciono dirizzare intornoalla città otto battifolli. In Pistoia avevaa questo tempo millecinquecento cittadini, o pocopiù, da potere con arme difendere la terra,oltre alle masnade a cavallo e a piè che dentrov’erano a soldo de’ Fiorentini, i quali si stavanosenza fare novità dentro o guerra di fuori:per la qual cosa al gran giro della città pareache così pochi cittadini non la dovessono poteredifendere. E per questa cagione i Fiorentiniaveano speranza di vincerla per forza, quandocon loro non si potesse trovare accordo. I Pistolesid’entro, uomini coraggiosi e altieri, con durafaccia intendeano dì e notte alla loro difesa: e perch’eranopochi a tanta guardia quanta il dì e lanotte convenia loro fare, uscirono delle loro case,[165]e vennono ad abitare intorno alle mura: e lemura armarono di bertesche e di ventiere, e dentrouno largo corridore di legname, e fornironlodi pietre e di legname e di pali da gittare, e ditravi sopra i merli: e feciono a piè delle mura intornointorno molti fornelli con caldaie, per apparecchiareacqua bollita per gittare sopra coloroche combattessono: e apparecchiarono calcina vivain polvere per gittare, e con ferma e aspra frontemostravano volere difendere la loro franchigia;la qual cosa era degna di molta lode, se per antichie nuovi e continovi esempli, della loro cittadinescadiscordia non fosse contaminata. E addurandosidi non volere prendere accordo colcomune di Firenze, soffersono il guasto di fuoride’ loro campi; e vedendo i Fiorentini che piùs’adduravano, diliberarono che la terra si combattesse;e per levare loro la speranza del contradio,comandarono a messer Andrea Salamoncelli,capitano e conestabile de’ cavalieri e de’ pedoniche dentro v’erano a soldo del nostrocomune, che ne dovesse uscire, e così fu fatto;per la qual cosa la nostra oste s’accrebbe, e a loromancò la speranza: e ordinati di fuori ponti e grilli,e castella di legname e altri fornimenti dacombattere le mura, acciocchè con più sicurtàsi potesse intendere alla battaglia, cinsono dibuono steccato dall’uno battifolle all’altro. IPistolesi vedendo la disposizione de’ Fiorentini,e pensando, eziandio che si difendessono, non poteanobene rimanere, cominciarono più a temere.In questo mezzo ambasciadori da Siena v’entrarono,mandati dal loro comune per trovare accordo,[166]e come che s’aoperassono conferendo colleparti, manifesto fu che peggiorarono la condizione,e inacerbirono gli animi e dentro e di fuori.E dato il dì della battaglia, e da ogni parteapparecchiata, i guelfi di Pistoia, ch’erano lamaggiore forza della città, s’accolsono insiemecon pochi ghibellini, ed essendo al consiglio, ricercaronocon l’animo più riposato il pericolo ache si conducevano, per contrastare a’ padri loro, ilcomune di Firenze, la guardia loro e della città,la quale doveano con istanza domandare a’ Fiorentiniche la prendessono, volendo mantenerela città a parte guelfa, e in più sicuro e pacificostato che non erano. E così parlato, misono ilpartito a segreto squittino, e vinsero che la guardiadella città fosse messa liberamente nel comunedi Firenze, e che dentro vi mettesse gente ecapitano alla guardia quanto al detto comunepiacesse; e che dentro alla città in su le mura sifacesse un castello alle spese de’ Fiorentini, perpiù sicura guardia, e che oltre a ciò avessono laguardia di Seravalle e quella della Sambuca. Emessi dentro de’ cittadini di Firenze in quel dì,ogni cosa di grande concordia si recò in buonapace; e dentro vi misono il capitano e’ cavalierie’ pedoni che i nostri cittadini vollono, e presonola tenuta, e ordinarono la guardia di Seravalle: eper fretta e mala provvidenza indugiarono dimandare per la tenuta della Sambuca nel passodell’alpe, la quale quando poi vollono, senza difettode’ Pistolesi, non poterono avere: onde poine seguì cagione di grande pericolo a’ Pistoiesi eal nostro comune, come leggendo per innanzi si[167]potrà trovare. Fatta la detta concordia, i Fiorentinilevarono il campo e arsono i battifolli, e ordinatamentecon gran festa tornò tutta la beneavventurata oste nella nostra città, all’uscitad’aprile, gli anni di Cristo 1351. E pochi dì appressovi mandò il comune di Firenze de’ suoigrandi cittadini con pieno mandato, i quali riformassonoal piacere de’ cittadini di Pistoia lostato e il reggimento di quello comune; e rimisonvimesser Ricciardo Cancellieri e’ suoi, con pacede’ Panciatichi, fortificata e ferma con piùmatrimoni dall’una famiglia all’altra.

CAP. XCVIII.Come il re d’Inghilterra sconfisse in maregli Spagnuoli.

Nel tempo delle tregue del re di Francia e diquello d’Inghilterra, gli Spagnuoli, i quali usavanocolle loro cocche e navili di navicare il maredi Fiandra, cominciarono a danneggiare i navilid’Inghilterra, e a rubare in corso le loro mercatanzie;e seguitando con più forza la loro guerra,per più riprese feciono agl’Inghilesi onta e dannoassai. Il re d’Inghilterra non potè dissimularequesta ingiuria, che senza cagione di guerra gliSpagnuoli gli aveano fatta, e però accolse suonavilio, e in persona con due suoi figliuoli assaigiovani si mise in mare per andare in Spagna.Il re di Castella che sentì l’armata del re d’Inghilterra,fece suo sforzo d’armare molte navi,e abboccaronsi coll’armata d’Inghilterra nella[168]vicinanza delle loro marine, e commisono asprae fiera battaglia, della quale il re d’Inghilterraebbe la vittoria, con grande danno degli Spagnuolie delle loro navi. E fatta la sua vendetta, conpiena vittoria si tornò in Inghilterra. E qui finisceil nostro primo libro, anni di Cristo 1351.

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LIBRO SECONDO

CAPITOLO PRIMOProlago.

Perocchè anticamente gl’infedeli e i pagani ele barbare nazioni, compiacendosi alla reverenzadelle virtù morali, i cominciamenti della guerraalle ragioni della giustizia congiugneano, nonsenza debita ammirazione ne’ nostri tempi, ne’quali i cristiani, non solamente dalle morali, madalle virtù divine ammaestrati nella perfetta fededi Cristo nostro redentore, molti trapassanocon disordinato appetito la via eguale della veragiustizia, e seguitando la sfrenata volontà della tirannescaambizione, non colle debite ragioni,ma con perverse cagioni, con subiti e sprovvedutiassalti gli sprovveduti popoli assaliscono, lecittà e le terre, confidandosi nella loro quiete, perfurti, per tradimenti, e per inganni rapiscono,sforzandosi con ogni generazione d’inganni quellesoggiogare, e sottomettere al giogo della lorotirannia; e non meno la cristianità, che le infedelinazioni, di queste malizie e inganni spessosi conturba. E avvegnachè queste cose senza vergognade’ laici secolari raccontare non si possono,[170]ne’ cherici, e massimamente ne’ prelati, i quali, invecedi Cristo fatti spirituali pastori della suagreggia, diventando rapaci lupi, nelle predettecose sono con ogni abominazione da detestare.E però venendo al cominciamento del secondolibro del nostro trattato, diverse e varie cagionidi questa materia prima ci s’apparecchiano, vintida onesta necessità, la verità del fatto, con seguirenostra materia, racconteremo.

CAP. II.Come il comune di Firenze usava la pacecoll’arcivescovo di Milano.

I Fiorentini avendo per gelosia presa la guardiadel castello di Prato e della città di Pistoia,usciti della paura di quelle, si stavano in pace,riputandosi essere in amistà dell’arcivescovodi Milano, perocchè guerra non v’era, e contro asua impresa i Fiorentini non s’erano voluti travagliare.Con Bologna tenea le strade e i camminiaperti, e le mercatanzie d’ogni parte andavanoe venivano sicure. E spesso il tiranno scriveaal comune de’ suoi onori e de’ singulari servigi,come accade ad amici, e il comune a lui, come areverente signore e caro amico. E con folle ignoranzastava il nostro comune senza sospetto, e pernon dare materia di sospetto al vicino tiranno,si guardava di fornirsi di capitano di guerra e digente d’arme, e appena aveano fornite di guardiele loro castella. Il tiranno, ch’avea fatta la legacon gli altri tiranni d’Italia e con tutti i[171]ghibellini, si venia fornendo di gente d’arme alsuo soldo a piè e a cavallo, e vegghiava al continovocontro al nostro comune nella conceputamalizia, attendendo il tempo che a ciò avea divisato.E in questo mezzo carezzava con doni econ servigi i suoi vicini tiranni, per averli piùpronti al suo servigio al tempo del bisogno. E sipensava, che ingannando i Fiorentini, e venendodella città al suo intendimento, essere appressoal tutto signore d’Italia. E i rettori della cittàdi Firenze avendo a’ suoi confini il tiranno potente,viveano improvvisi, sotto confidenza degnadi biasimo e di grave punizione. Ma così avvienespesso alla nostra città: perocchè ogni vileartefice della comunanza vuole pervenire algrado del priorato e de’ maggiori ufici del comune,ove s’hanno a provvedere le grandi e gravicose di quello, e per forza delle loro capitudinivi pervengono; e così gli altri cittadini dileggiere intendimento e di novella cittadinanza,i quali per grande procaccio, e doni e spesa sifanno a’ temporali di tre in tre anni agli squittinidel comune insaccare: è questa tanta moltitudine,che i buoni e gli antichi, e’ savi e discreticittadini di rado possono provvedere a’ fatti del comune,e in niuno tempo patrocinare quelli, cheè cosa molto strana dall’antico governamentode’ nostri antecessori, e dalla loro sollecita provvisione.E per questo avviene, che in fretta e infuria spesso conviene che si soccorra il nostro comune,e che più l’antico ordine, e il gran fasciodella nostra comunanza, e la fortuna, governi eregga la città di Firenze, che il senno o la provvidenza[172]de’ suoi rettori. Catuno intende i due mesic’ha a stare al sommo uficio al comodo della suautilità, a servire gli amici, o a diservire i nimicicol favore del comune, e non lasciano usarelibertà di consiglio a’ cittadini: e questo è spessocagione di vergogna e di grave danno del nostrocomune, ricevuto da’ suoi minori e impotentivicini.

CAP. III.Come l’arcivescovo di Milano appuosetradimento e condannò messer IacopoPeppoli.

Era in questo tempo rimaso in Bologna messerIacopo de’ Peppoli, il quale fu traditore con messerGiovanni suo fratello della propria patria,vendendo la città e i suoi cittadini all’arcivescovo,come detto abbiamo, al quale la sua malizia, eil commesso peccato, tosto apparecchiò alcuna penitenzaalle sue male operazioni. Che trattandoegli con certi tiranni lombardi di fare rivolgerela città di Bologna, l’arcivescovo, o vero o bugiache fosse, sentì che trattato si tenea per lui e peralcuni altri cittadini di Bologna: e la boce corseche trattavano co’ Fiorentini: e questo non ebbesostanza alcuna di verità. Il tiranno avea vogliadi trarlo di Bologna, sicchè ogni lieve ragionamentoo materia gli fu assai: e però di presentefece prendere lui e’ figliuoli e alcuni altricittadini, e condannati gli altri a morte, messer Iacopoper grande servigio condannato a perpetua[173]carcere, e pubblicati i suoi beni alla sua camera,come di traditore, e tolsegli i danari che gli restavanodella vendita di Bologna, e le castella chedato gli avea, e il proprio patrimonio: e fattolovenire co’ figliuoli a Milano, incarcerò lui nel castellodi... e i figliuoli a Cremona. L’altrofratello che a quello tempo era in Milano non involsein questa sentenza, il quale dissimulandosuo dolore rimase in Milano in lieve stato, perpassare il tempo alla provvigione del signore, conamaro cuore. Assai tosto ha fatto manifesto qui ildivino giudicio la miseria a che sono condotti itraditori della loro patria, i quali per disperatoconsiglio, i cittadini i quali gli aveano con grandeonore esaltati e fatti signori sottopuosono per avariziaal giogo del crudele tiranno: e ora spogliatide’ propri beni, e privati d’ogni amore de’ lorocittadini, in calamitosa prigione danno esemploagli altri di più intera fede a’ loro comuni.

CAP. IV.Come l’arcivescovo fermò d’assalire improvvisola città di Firenze.

Nel mese di luglio del detto anno, l’arcivescovodi Milano, avendo purgato di sospetto la cittàdi Bologna, per la morte d’alquanti cittadinie per l’incarcerazione di messer Iacopo de’ Peppolie de’ figliuoli, e accolti e fatti accogliere quasitutti i soldati oltramontani d’Italia, parendolivenuto il tempo di scoprire a’ suoi collegatighibellini d’Italia la sua intenzione, ebbe in[174]Milano i caporali di parte ghibellina d’Italia,e conferì con loro di volere sottomettersi il comunedi Firenze, e con molte ragioni dimostròcom’era venuto il tempo da poterlo fare colloro aiuto: e ciò fatto, era spento in Italia il nomedi parte guelfa. La proposta fu in piacere ditutti. Eranvi caporali, oltre a’ Lombardi, gliUbaldini, i figliuoli di Castruccio Interminellie messer Francesco Castracani da Lucca, messerCarlino di Pistoia e’ suoi, il conte Nolfo d’Urbino,i conti di Santafiore e il conte GuglielmoSpadalunga, e de’ ribelli del comune di Firenzealquanti di quelli da Cigliano, e messerTassino e il fratello discesi della casa de’ Donati.E non volendosi scoprire d’esservi in personai Tarlati d’Arezzo, il vescovo co’ suoi Ubertini,e’ Pazzi di Valdarno, e il conte Tano da Montecarelli,ch’erano allora in pace e in amore col comunedi Firenze, in segreto vi mandarono catunosegreti ambasciadori con pieno mandato. I qualitutti udita l’intenzione del potente tiranno furonomolto allegri, e confortarono l’arcivescovodell’impresa: aggiugnendo che sentivano icittadini di Firenze in tanta discordia per le lorosette, e per lo male contentamento del reggimentodella città, e Arezzo e Pistoia in sì malestato, che se la sua potenza improvviso a quellicomuni col loro aiuto si stenderà sopra loro, nonvedeano che di tutto in breve tempo e’ non fossesignore: e la signoria di Firenze il facea signored’Italia. E così d’un animo rimasono in accordocol tiranno di fare l’impresa ordinata;e data la fede della loro credenza e di loro[175]aiuto, con grandi promesse lieti si ritornaronoin loro contrade, e intesono d’apparecchiarsi dicavalli e d’arme al loro podere. L’ordine fupreso, che quando l’oste dell’arcivescovo fossesopra i Fiorentini, che gli Ubaldini co’ Romagnuoliassalissono nel’alpe, e i Tarlati Ubertinie Pazzi si rubellassono e assalissono ilValdarno: e il conte Tano da Montecarellimovesse guerra in Mugello. A’ Pisani intendeal’arcivescovo co’ suoi confidenti ambasciadorifare rompere pace a’ Fiorentini, e muovere guerradalla loro parte: cercando muoverli con suecoperte suasioni, non dimostrando il perchè, insuo aiuto. Ma i Pisani accorgendosi del fatto,nutricavano il tiranno con parole di speranza, emandarono a lui loro ambasciadori per potere sentirepiù il vero da che movea quella inchiesta, eper avere più tempo a deliberare. E questo avvenne,perocchè allora la città di Pisa signoreggiavaper li Gambacorti, uomini mercatanti e amicide’ Fiorentini. Ma i governatori del comunedi Firenze, addormentati e fuori della mente, nonprocuravano di sentire queste cose, e quello chesentivano mettevano al non calere, e provvisionealla loro guardia non faceano, sentendo chemolta gente d’arme s’accogliea in Lombardia,e che Lombardia non era in guerra, ma in legacoll’arcivescovo di Milano. I quali rettori delnostro comune non erano degni di governare ilfascio di tanta città, ma di grandi pene delle loropersone, commettendo contro al loro comunepericolo d’irreparabile fallo.

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CAP. V.Come si mise in ordine il consiglio preso.

L’arcivescovo di Milano, la gente d’arme cheavea in diverse parti in Lombardia, in pochi dìla fece venire a Bologna: e fatto capitano messerGiovanni de’ Visconti da Oleggio, il quale per famasi tenea essere suo figliuolo, per addietro capitanode’ Pisani, e prigione de’ Fiorentini nellabattaglia che feciono per soccorrere Lucca allaGhiaia, animoso contro a’ Fiorentini, singularmenteper quell’onta, uomo di grande animo, e accompagnatoda’ caporali ghibellini lombardi toscanie marchigiani, maestrevoli conducitori diguerra, si pensò prosperamente fornire la commissionea lui fatta per lo suo signore. Il castellodella Sambuca, nel passo della montagna traBologna e Pistoia, era allora per difetto de’ Fiorentininelle sue mani, al quale avea di vittuagliaper l’oste grande apparecchiamento; e diquesto non s’erano accorti i Fiorentini: e cosìprovveduto, subitamente a dì 28 del mese di luglio,gli anniDomini 1351, mosse colla sua osteda Bologna, e prima fu valicato la Sambuca, eaccampatosi presso a Pistoia a quattro miglia, perattendere il rimanente del suo esercito, che iFiorentini sapessono alcuna cosa, o che avessonoavuto pensiero che la forza del tiranno si stendessesopra loro: ma sentendo questo, subitamente,in que’ due dì ch’e’ nimici attesono la lorogente, i Fiorentini misono gente d’arme a piè[177]e a cavallo in Pistoia, sicchè dentro vi si trovò allaguardia da cinquecento cavalieri e seicento fantialla venuta dell’oste, messer Giovanni raunatatutta la sua oste e la vittuaglia, a dì 30 di lugliopredetto si strinse alla città di Pistoia, credendolasiavere per vane promesse, ma non essendoglirisposto come s’avvisava, vi si strinse eposevisi ad assedio. La gente de’ Fiorentini chedentro v’era, faceano di dì e di notte sofficientee buona guardia, e per questo, se trattato niunov’era non s’ardì a scoprire, ma tutti i cittadinicolla gente de’ Fiorentini insieme attesonoalla difesa della città.

CAP. VI.Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presonoMontecolloreto.

Gli Ubaldini, ch’erano in pace col comunedi Firenze, sentendo l’oste dell’arcivescovo sopraPistoia, avendo fatto loro sforzo, e avutocavalieri del tiranno, improvviso a’ Fiorentiniapparirono nell’alpe, e corsono a Firenzuola,che si redificava pe’ Fiorentini, ma non era ancoracinta di mura, nè di fossi nè di steccati,ma incominciata, e dentro v’erano capanne peralberghi, e lieve guardia per tener sicuro il cammino,sicchè senza contrasto la presono e arsono:e andaronsene a oste a Montecolloreto, nelquale era castellano per lo comune di Firenzeuno popolano de’ Ciuriani di Firenze, giovanepoco scorto degl’inganni delle guerre. Costui[178]vedendosi assediato, e dando fede alle parole de’nimici, i quali diceano come Firenze era per arrendersial signore di Milano, si condusse mattamentea patteggiar con loro: che se in fra ’lterzo dì non fosse soccorso, darebbe la rocca: eper istadico diede un suo fratello. I Fiorentini ch’aveanol’animo a guardare quella fortezza, cercaronodi soccorrerla, e trovato uno conestabile valentecon venticinque masnadieri, promise d’entrareinnanzi al termine nel castello; e di presentesi mise in cammino: e tanto procacciò persuo ingegno e virtù, che innanzi il termine fu nelcastello, ma non potè entrare nella mastra fortezza,che si guardava per lo castellano, e ’l castellanoavendo questo soccorso si potea difendere per lungotempo da tutta la forza ch’avessono potuta faregli Ubaldini, perocchè il luogo era fortissimo ebene fornito: ma essendo (come egli follementeavea messo il fratello nelle mani de’ nimici, iquali minacciavano d’impiccarlo se non rendessela rocca) vinto dall’amore della carne,non volle ricevere il soccorso, anzi diede la roccaa’ nimici. E salvate le persone da’ nimici, condottoa Firenze, e giudicato traditore del comune,per la sua dicollazione e di due suoi compagnidiede esemplo agli altri castellani di più interafede al loro comune. I mallevadori che datiavea di rassegnare la rocca al comune convenneche pagassono lire ottomila com’erano obbligati.

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CAP. VII.Come gli Ubertini, e’ Tarlati, e i Pazziassalirono il contado di Firenze.

Messer Piero Sacconi co’ suoi Tarlati uscitid’Arezzo, e il vescovo d’Arezzo degli Ubertinico’ suoi consorti, e Bustaccio co’ Pazzi di Valdarno,per lungo tempo stati in pace e in protezionecol comune di Firenze, sentendo l’avvenimentodi messer Giovanni Visconti da Oleggio congrande forza d’arme sopra Pistoia, si ragunaronocon tutto loro sforzo di gente d’arme a piè ea cavallo a Bibbiena; e dall’arcivescovo aveanoavuto dugentocinquanta barbute, acciocchè potessonofare maggiore guerra. Di presente, improvvisoa’ Fiorentini, cominciarono a cavalcaresopra loro, e sopra i conti Guidi, amici e fedelidel comune di Firenze, e oggi correvano in unacontrada e domane in un’altra, uccidendo e predando,e facendo aspra guerra. I Fiorentini vedendod’ogni parte le subite e sprovvedute tempestevenire sopra loro, e sentendo gli amici diventatinimici, ebbono paura non piccola, mescolatadi grande sospetto, e i provveduti rettori delcomune non sapeano che si fare. E così era lacittà di forza e di consiglio spaventata, e moltopiena di paura e di sospetto per modo, che nonveggendo nè per atto nè per consiglio alcuna cagionedi sospetto cittadinesco, non si fidava l’unodel’altro, e non si provvedea al comune riparoper via di consiglio in que’ primi cominciamenti.

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CAP. VIII.Come i Fiorentini mandaro ambasciadorial capitano dell’oste.

Vedendosi i Fiorentini con tanta forza e dacotante parti assalire dal signore di Milano,senza avere con lui alcuna guerra o conturbagionedi pace, elessono alquanti cittadini, e mandaronliambasciadori nel campo a messer Giovannida Oleggio, capitano dell’oste sopra a Pistoia,i quali essendo giunti nel campo, furonoricevuti dal capitano assai cortesemente. E secondola commissione a loro fatta da’ priori eda’ collegi del nostro comune, domandarono messerGiovanni, con ciò fosse cosa che tra l’arcivescovosuo signore e ’l comune di Firenze fossepace e niuno sospetto di guerra, perchè venutoera ostilmente come contra suoi nimici sopra ilcomune di Firenze, non avendo prima annunziatoal comune la sua guerra secondo i pattidella pace, salvo che per una breve lettera, mandataper lui poichè fu sopra Pistoia: la quale senzaprecedente cagione di nostro fallo, disse:non avetevoi voluto osservare la pace, e però vi facciamola guerra: la quale non era nè onesta nèdebita cagione; e però siamo mandati dal nostrocomune a sapere la verità di questo movimento.Udito il capitano la loro ambasciata, raccolseil suo consiglio, e appresso rispose altieramentein questo modo. Il nostro signore, messerl’arcivescovo di Milano, è potente, benigno e grazioso[181]signore, e non fa volentieri male ad alcunagente, anzi mette pace e accordo in ogni luogoove la sua potenza si stende; è amatore di giustizia,e sopra gli altri signori la difende e mantiene:e qui non ci ha mandati per mal fare, maper volere tutta la Toscana riducere e metterein accordo e in pace, e levare le divisoni e legravezze che sono tra’ popoli e’ comuni di questipaesi. E perchè a lui è pervenuto e sente le divisionidiscordie e sette, e le gravezze che sonoin Firenze, le quali conturbano e aggravano lavostra città e tutti i comuni di Toscana, ci hamandati qui affinchè voi vi governiate e reggiatein pace e in giustizia per lo suo consiglio, esotto la sua protezione e guardia; e così intendevolere addirizzare tutte le terre di Toscana. Edove questo non si possa fare con dolcezza e con amore,intende farlo colla forza della sua potenzae degli amici suoi. E a noi ha commesso, oveper voi non si ubbidisca al suo buono e giustoproponimento, che mettiamo la sua oste in sullevostre porti e intorno alla vostra città, e che ivitanto manterrà quella, accrescendola e fortificandola,continuamente combattendo d’ogni parteil contado e il distretto del vostro comune colfuoco e col ferro, e colle prede de’ vostri beni,che tornerete per vostro bene alla volontà sua.Udendo gli ambasciadori la superba risposta delcapitano e del suo consiglio, non parve che luogoe tempo fosse di quivi stendere più loro sermone:e però domandarono sicurtà fino a Bologna perpotere andare al signore di Milano, come aveanoin commissione dal loro comune, la quale il capitano[182]non volle dare. E però si tornarono a Firenze,e spuosono a’ signori e al consiglio quelloch’aveano avuto dal capitano dell’oste per rispostadella loro ambasciata, per la quale l’animode’ cittadini di Firenze crebbe più in disdegnoche in paura.

CAP. IX.Come l’oste si levò da Pistoia e puosesia Campi.

Essendo stata l’oste del tiranno otto dì soprala città di Pistoia, e mancata la speranzad’avere la terra, per la buona guardia e sollecitache ’l dì e la notte vi faceano i Fiorentini: e ilsomigliante di Prato, nelle quali terre erano letre parti della gente d’arme che allora aveano iFiorentini, essendo la città di Firenze quasirimasa senza aiuto di soldati forestieri, e nonavendo capitano di guerra: messer Giovanni daOleggio col consiglio de’ caporali ghibellinich’avea con seco, i quali stavano solleciti a sentireil fatto del nostro comune, e sentivano esseredentro grande sospetto e poco consiglio, e minoreforza d’arme che in Pistoia e in Prato, conmolte verisimili suasioni mossono il capitano subitamentea stringersi sopra Firenze colla sua oste:il quale essendo uomo di grande ardire, e animosocontro a’ Fiorentini, sentendosi accompagnatoda molti buoni capitani di guerra, e dacinquemila barbute, e da duemila altri cavalieri,e seimila masnadieri a piede, non bene provveduto[183]di vittuaglia, sperando nel contado di Firenzefarsene abbondevole, come mostrato gli era, adì 4 d’agosto del detto anno subitamente levò ilcampo da Pistoia, e per la strada dritta e pianasenza arresto valicata la terra di Prato, condussela sua oste in sull’ora del vespero a Campi,Brozzi e Peretola, improvviso, non che a’ Fiorentini,ma agli uomini di quelle ville e contrade,per la qual cosa non poterono campare alcunacosa, fuori che le persone, e di quelle virimasono assai. Il capitano per non conducersi altardi, e perchè il luogo era albergato e pieno d’ognibene, fermò il campo a Campi. Della villa diCampi e d’altre d’intorno raccolsono grano ebiada e carnagione assai, e molte masserizie e lettade’ paesani: e intesono a starsi ad agio e a rinfrescarela gente di vivanda, della quale intornoa Pistoia aveano avuto disagio. E dato l’ordineal campo di buona guardia di dì e di notte,provviddono che ogni cavalcata che si facesse versola città di Firenze avesse riscossa di mille cavalieriil meno. E incontanente cominciarono acavalcare per lo piano, prendendo e raccogliendoil bestiame e la roba che rimasa v’era senzatrovare riparo, e alcuna volta si stesono infinoalle mura della città di Firenze. I Fiorentini sentendoquesta subita venuta dell’oste sopra la città,e la baldanza presa d’aversi lasciato dietroPistoia e Prato, sbigottirono disordinatamente,non trovandosi forniti nè provveduti al riparo.E i rettori del comune per lo fallo commessodell’abbandonata provvisione non sapeano chesi fare; e molto temeano che fossono venuti così[184]baldanzosi a istanza de’ loro cittadini d’entro. Ein questa contumacia e sospetto si stette insinoche manifesto apparve per l’operazione de’ cittadinigrandi e popolani grassi, che catuno era infede al suo comune: e levata la nebbia che tenevaintenebrata la mente del popolo e del comune,presono più ardire, e feciono trarre fuori igonfaloni, e andarono coll’arme alle porti, e fecionleserrare di verso la parte d’ond’erano inimici; e ordinarono guardie di buoni cittadini,facendo il dì e la notte fare buona guardia. Earmarono le mura di ventiere, e le più deboliparti feciono afforzare per difendere la città, chedi mettere gente in campo a quell’ora non aveanopodere.

CAP. X.Come l’oste ebbe gran difetti a Campie a Calenzano.

Avvenne, che stando l’oste a Campi, per malaprovvisione, tutto il bestiame ch’avrebbe dato conordine lungamente carne all’oste, in pochi dìsi straziò e consumò. E in quello tempo era sformatocaldo e secco grande, e tutte mulina diquelle contrade erano state sferrate e guaste; perla qual cosa, benchè l’oste avesse del grano, nonpotea fare farine, ed erano in grande soffratta disale. E la vittuaglia di quel piano cominciò amancare, e quella che venia da Bologna per scortaera spesso in preda de’ cavalieri ch’erano inPistoia. E per questo avvenne, che in pochi dì[185]all’oste mancò il pane e il sale: e non aveanoche manicare, se non carne, e di quella poca, e cocevanlacol grano, che farina non aveano. Da niunaparte del contado di Firenze aveano mercato,e cavalcate non poteano stendere in parte onderecare potessono fornimento al campo, perocchètutte le circustanze aveano sgombrato e ridottonella città. Onde cominciarono a sentire fame,e il caldo li consumava e affliggeva forte i corpidegli uomini; e il maggiore sussidio ch’avessonoera l’agresto e le frutta non mature: e pocotempo v’aveano a stare, che senza essere contastatida’ Fiorentini veniano in ultima disperazione. Iloro capitani e conducitori vedendosi a questopericolo, diedono voce di volersi strignere allacittà, e per forza valicare nel piano di san Salvi.I Fiorentini temettono di questo: e non trovandosigente d’arme da potere contradiare il passoa’ nimici, feciono una tagliata dal ponte della portaa san Gallo infino alla costa di Montughi: e ivi misonomolti balestrieri e popolo alla guardia, conordine di soccorso se bisogno fosse. L’altra vocediedono di tornarsene per lo piano d’ond’eranovenuti verso Pistoia; i Pistolesi per questa temaruppono i passi, e abbarrarono i cammini confossi e con alberi. E per questo i Fiorentini piùtemeano che non valicassono nel piano di sanSalvi, e per questa cagione afforzarono di berteschee di steccati la rocca di Fiesole, e fecionlaguardare; e nondimeno tutto il contado da lungee d’appresso feciono sgombrare da quella parte.I capitani dell’oste vedendosi a cotanto disagio,non ardirono di strignersi più alla città, anzi levarono[186]il campo, a dì 11 d’agosto del detto anno, etraendosi addietro si puosono a Calenzano. I Fiorentinistimando che se n’andassono, sonaronole campane del comune a stormo; e il popolovolonteroso a cacciare chi fuggisse s’armò, e alquantimattamente senza ordine e senza capitanouscirono della città: ma sentendo che inimici non fuggivano, tosto ritornarono dentrodalle mura. Ma di questo nacque la voce per locontado e scorse per tutto, che se n’andavanoper la Valdimarina; e di stormo in stormo simossono i contadini senza ordine o comandamentodel comune, e occuparono le montagnesopra la Valdimarina d’ogni parte, e furono lorotanto innanzi all’ora del vespero, che forte fecionotemere e maravigliare i nimici, ch’aveanointenzione di valicare nel Mugello per quellavia. Come i capitani ebbono fermo il loro camposotto Calenzano in sulla Marina, feciono combatterela pieve e certa fortezza ov’era raccolta lavittuaglia de’ paesani, e presonle a patti, salvele persone: e anche presono il castello di Calenzano,che non era murato nè difeso, e in questatenuta trovarono alcuno rinfrescamento. Finoa quell’ora non aveano fatta alcuna arsione:stando ivi, uno grande conestabile tedesco sistese a Pizzidimonte, e fuvvi morto da’ villani;e per questa cagione vi cavalcarono e arsonlo,e appresso alcuna altra villa intorno a Calenzano.E feciono provvedere i passi per valicare inMugello, ch’ogni altro viaggio era loro, in stremitàdel pane, più pericoloso a pigliare.

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CAP. XI.Come i rettori di Firenze abbandonaronoil passo di Valdimarina.

La necessità delle cose da vivere, l’un dì appressol’altro già tornata in fame, strignea l’ostedel Biscione, che così si chiamava allora, apartirsi del piano, ove senza speranza di potersiallargare, di pane erano affamati. I cittadinidi Firenze, a cui era commessa la provvisionedella guerra, ch’erano oltre a’ priori e a’ collegidiciotto tra grandi e popolani, sapeano bene ildifetto ch’aveano i nemici, ma non aveano capitano,e da loro non sapeano la maestria dellaguerra, conobbono per lo comune grido, che agevoleera a tenere loro il passo che non entrassononel Mugello per la Valdimarina, che pernatura il luogo era stretto, e’ passi aspri e forti,da tenergli poca gente con loro sicurtà da tuttal’oste: e vidono manifesto, che dove questa vias’impedisse loro, convenia che si partissono,tornando addietro da Pistoia sconciamente. Mala tema della boce che non passassono a san Salvi,ch’era quasi impossibile, fece al comunenon riparare a quel passo. Ma un gentile scudierealamanno, il quale in quel tempo per lo comuneera capitano in Mugello, da se medesimocommise a uno della casa de’ Medici, il qualeera in sua compagnia, ch’andasse a provvedereal passo, e diegli dugento fanti e cinquanta cavalieri.La commissione fu debole a cotanto fatto:[188]nondimeno se il cittadino fosse stato valoroso, eavesse voluto acquistare onore, molto agevole gliera a guardare quel passo, perocchè i Mugellesisentendo che il capitano mandava a guardarequel passo, con grande animo di ben fare trassonoda ogni parte allo stretto ov’era venutoil provveditore. Ed essendo nel luogo, viddono cheil passo si difendea senza dubbio, a grande sicurtàde’ difenditori, per la fortezza naturale diquelle valli, onde conveniva l’oste de’ nemici valicarea piede, e uomo innanzi uomo, che a cavalloinsieme non v’era modo da poter valicare. Ma ilcittadino deputato a quel servigio disse a’ Mugellesiche gli conveniva essere altrove, e quivi perniuno modo si potea ritenere. Onde i Mugellesich’erano tratti coraggiosi alla difesa, vedendocome colui cui doveano avere per capitano a quellaguardia si partiva, perderono ogni vigore: epartito il capitano, tornarono a casa, e cominciaronoa fuggire il loro bestiame, e le loro famigliee masserizie, maledicendo il comune di Firenzee’ suoi governatori, con giusta cagione della lorofortuna.

CAP. XII.Come l’oste del Biscione valicò il passo,e andò in Mugello.

I capitani dell’oste che si vedeano in granbisogno d’uscire del luogo dov’erano stretti dallafame, seppono di presente come il passo eraabbandonato da’ Mugellesi, e però incontanente[189]mandarono innanzi masnadieri eletti, e buonibalestrieri a prendere il passo: e senza arrestolevarono il campo, a dì 12 d’agosto del dettoanno, e misonsi loro appresso. In sul passo eranorimasi alquanti fanti del paese, i quali diloro volontà attesono i masnadieri de’ nemici; ealle mani con loro, li ributtarono indietro. Mavedendosi pochi e senza soccorso, e vedendo inemici che riempieano le coste de’ poggi e levalli d’ogni parte, abbandonarono il passo, e inemici di presente il presono, e l’oste senzacontrasto o pericolo valicò, facendosi grandi beffedel comune di Firenze, parendo a catuno diservo essere divenuto signore. E pensando allaviltà ch’avevano trovata ne’ Fiorentini, a nonavere fatto tenere e difendere quel passo, e alpoco provvedimento che mostravano ne’ fattidella guerra, crebbe la loro superbia. E poichèsi viddono essere valicati senza contrasto nel pianodi Mugello, presono fidanza d’essere signoridi tutto il paese senza contrasto, e quel dì medesimocavalcarono a Barberino, e a Villanuova.Barberino era forte e bene fornito alla difesa,e molta roba v’era dentro raccolta delle vicinanze,ad intendimento di difendersi, tanto ch’avessonosoccorso da’ Fiorentini. Ma Niccolò daBarberino, antico castellano e de’ nobili di quellaterra, avendo la fede corta al comune di Firenze,se n’andò al capitano dell’oste, e senzaconsiglio de’ suoi castellani, a suo vantaggiotrasse patto, e rendè il castello a’ nemici, emisonvi la loro guardia, e la vittovaglia che v’erafece dare all’oste. Villanuova, e Gagliano, e[190]Latera, e altre terre circustanti, che non eranodi gran fortezza, nè guardate da gente d’armedel comune di Firenze, feciono il comandamentodel capitano dell’oste, e dieronli il mercato.Trovandosi la gente affamata in paeselargo e dovizioso e pieno d’ogni bene, soggiornaronovolontieri più dì, per prendere confortodelle loro persone, e a’ loro animali, che tuttin’avevano gran bisogno. Ma chi ha ne’ fattidella guerra il tempo da avanzare, e per riposolo indugia, tardi il racquista; e così avvenne acostoro per lo detto soggiorno, come appresso diviseremo.

CAP. XIII.Come il conte di Montecarelli si rubellò a’ Fiorentinie venne al capitano.

Il conte Tano di Montecarelli rompendo lapace ch’avea col comune di Firenze, essendo congli altri ghibellini collegato coll’arcivescovo,avendo in prima per inganno, per mala provvedenzadel castellano, ritolta a’ Fiorentini la roccadi Montevivagni, nella quale era a guardiauno popolare figliuolo di Piero del Papa, il qualefu però condannato per traditore, come sentìl’oste del Biscione nel Mugello, fece suo sforzodi cavalieri in piccolo numero, e in persona coni suoi compagni a cavallo e con dugento fanti vennenell’oste, e in Montecarelli mise la guardiaper l’arcivescovo e le sue insegne; e mentreche l’oste stette in Mugello fu a nimicare il comune[191]di Firenze, e a dare il mercato all’oste, ericetto in Montecarelli a’ nemici del comune.

CAP. XIV.Come si fornì la Scarparia e il Borgo.

Avvenne come l’oste del tiranno fu valicatanel Mugello, e dilungata dalla città, a’ Fiorentiniparve al tutto essere fuori di sospetto, e ritornòloro il vigore e la virtù dell’animo a consigliaree a provvedere a’ rimedi. E in quellostante che l’oste si riposava a Barberino, misononella Scarperia Iacopo di Fiore conestabiletedesco, uomo leale e valoroso, il qual eracapitano del Mugello. A costui dierono dugentocavalieri eletti di buona gente, e trecento masnadieriesperti in arme, de’ quali quasi tuttii conestabili furono Fiorentini, uomini di grandepregio in fatti d’arme. E fornirono la terradi molta vittuaglia, e d’arme, di balestra, e di saettamento,e di lagname e di ferramenti, e di buonimaestri da fare ogni dificio da offendere e dadifendere; e fornita d’ogni cosa bisognevole perun anno, al detto capitano e conestabile accomandaronola guardia e la difesa di quello castello.E per simigliante modo e forma fornironoil Borgo a san Lorenzo, e Pulicciano, e altrefortezze. E mandarono armadure, saettamento ebalestra, e ammonirongli di buona guardia, confortandogliche a ogni bisogno avrebbono aiutoe soccorso presto dal comune. E gli uficiali deputatialla provvigione di quella guerra si cominciarono[192]a provvedere, e accogliere gente disoldo a cavallo e a piè quanti avere ne poteano,per attendere alla difesa.

CAP. XV.Come l’oste assediò la Scarperia.

Messer Giovanni da Oleggio capitano dell’oste,e il Conte Nolfo da Urbino maliscalco, vedutola gente rinfrescata, e presa forza e baldanzaper lo abbondante paese dove si trovarono, conle spalle di Bologna, onde potevano avere prestamenteaiuto e favore quando bisogno fosse,pensavano senza contrasto essere signori di tutto.E con questa baldanza, a dì 20 del mese d’Agostodel detto anno vennero colle schiere fattesopra il castello della Scarperia, e con loro s’aggiunsonogli Ubaldini, ch’erano con tutto lorosforzo nell’alpe, e più altri ghibellini nemicidel comune di Firenze. La Scarperia era a quell’oradebole terra di piccolo compreso, e nonera murata se non dall’una delle parti, ma inquello stare di Barberino, in molta fretta s’era rimessoil fosso vecchio e trattone la terra, e innanzia quello fattone un’altro piccolo, e racconciatolo steccato assai debole. I nimici vi furonointorno con tanta moltitudine di cavalierie di pedoni, che copriano tutto il piano, eavendo da ogni parte circondato il piccolo castello,e fermi i campi loro, domandarono il castelloa coloro che ’l guardavano, dicendo come iFiorentini non lo potevano soccorrere nè difendere,[193]ma perocchè sentivano che dentro v’eranodi prod’uomini e virtudiosi d’arme, voleanofar loro grazia d’avergli per amici, dove rendessonola terra senza contasto: e che quandoquesto non facessono nel breve termine loro assegnato,gli vincerebbono per battaglia, e lavita non perdonerebbono ad alcuno: e così eradeliberato per lo capitano e per tutti i guidatoridell’oste. Gli assediati risposono che voleanotermine a rispondere, e che dopo il termine farebbonoquello che la fortuna concedesse conloro onore. Furono domandati da’ capitani quantotermine voleano. Gli assediati risposono, checon loro onore non vedeano che potesse esseremeno di tre anni: e dopo il detto termine intendeanoprima morire in su i merli, che diquelli dessono uno a’ nimici: e di così franca rispostamolto feciono maravigliare i capitanidell’oste, parendo che si mettessono a grandepericolo a volere difendere così debole castello,e da cotanta forza. E fatta la risposta, di presentes’ordinarono e di dì e di notte a moltasollecita guardia, e a buona e a franca difesa; ecominciarono a regolare la vita di tutti, comese l’oste vi dovesse stare due anni. I nimicicominciarono prima ad assalirli con grossi badalucchi,per tentare il loro reggimento, il qualetrovarono sollecito, e maestrevolmente provvedutoalla difesa.

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CAP. XVI.Come i Fiorentini afforzarono Spugnole.

I Fiorentini ch’al continovo raccoglievano gented’arme a cavallo e a piè al loro soldo, e sollecitavanogli amici d’aiuto, avendo già accoltoun poco di gente, deliberarono d’afforzare Spugnolee Montegiovi per guardare le contrade di quada Sieve, e per dare alcuna speranza agli assediatidella Scarperia, e ivi misono de’ cavalieri ch’aveano,e parecchie masnade di buoni e valorosimasnadieri. E al Borgo a san Lorenzo crebbonogente d’arme: e come crescea al comune gented’arme per soldo o per amistà gli mandavanoalle frontiere de’ nemici in Mugello. Onde avvennepiù volte, che per gli aguati da catunaparte, e per le cavalcate de’ nimici v’ebbedi belli e di grossi assalti, ove si mostrarono operazionidi buoni cavalieri e di franchi masnadieri.Per questo avvenne che i nemici non ardironoa valicare la Sieve colle loro cavalcate inversoFirenze. E tutte loro cavalcate di là da Sieve faceanogrosse di mille cavalieri, o di millecinquecento,o di duemila per volta, e nondimenoerano continuamente percossi alla ritratta, e assalitid’aguati che si metteano loro. E in questomodo si venne domesticando la guerra, e gli uominidel paese cominciarono a prendere cuore eardire, per modo che i villani si raccoglieano insiemee nascondevansi a’ passi, e come i cavalierisi stendevano alle ville gli uccidevano; e avvezzi[195]a questo guadagno dell’arme e de’ cavalli, conmolta sollecitudine intendevano a tendere i loroaguati in ogni luogo. E per questo modo uccisonode’ nemici grande quantità nel tempo chedurò la detta guerra.

CAP. XVII.Come si difese Pulicciano di grave battaglia.

Al castello di Pulicciano furono condotti percerti ghibellini della terra in una cavalcata cinquecentocavalieri e quattrocento fanti, e nonessendo se non pochi terrazzani nella fortezza disopra, appena la difesono. I borghi di fuori arsonoe rubarono, e mandaronne il bestiame e lapreda nel campo. Sentito questo a Firenze,subito vi mandò il comune cento fanti masnadierialla guardia: i quali vi furono tosto a granbisogno, perocchè quelli dell’oste per seducimentodi traditori del castello, e per conforto de’soldati ch’erano stati in quella cavalcata, sipensarono vincere la fortezza, che non era chiusadi mura, ma da uno vile steccato, e avendo quella,signoreggerebbono un paese forte e pieno d’ognibene da vivere: e però una mattina per tempovi feciono cavalcare duemila barbute, e millefanti e più balestrieri. E giunti a piè del castello,i cavalieri scesono de’ cavalli, e con gli elmi ecolle barbute in testa si legarono con le bracciainsieme, tenendo l’uno ’altro, e tra loro ordinaronoi balestrieri, e cominciarono da ogni partea un’ora a montare verso gli steccati. I terrazzani[196]arditi e fieri, co’ soldati che v’erano, si misonofrancamente alla difesa colle balestra ch’aveanoe co’ sassi maneschi. La forza de’ nemiciera grande tanto, che per forza condussono unloro conestabile con la sua bandiera quasi al paridello steccato. Come si fermò con l’insegnaper dare favore agli altri, tra con le balestra econ le pietre lo traboccarono morto giù per laripa. Nondimeno i nimici con grave battaglia glistringeano forte, e quelli del castello molto vivamentesenza riposo difendeano gli steccati permodo, che da mezza terza fino a mezzo dì, che labattaglia era durata senza arresto, i nimici nonaveano potuto abbattere un legno del loro steccato.Per la qual cosa vedendo i cavalieri la franca difesadi que’ villani, e già morti alquanti di loro, eche il giorno era nel calare, disperati di quell’impresa,con loro vergogna si ritrassono dellabattaglia e tornarono nel campo, e più non tentaronodi ritornarvi.

CAP. XVIII.Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gliUbertini vennono in sul contado diFirenze, e furonne cacciati perforza da’ Fiorentini.

Dall’altra parte messer Piero de’ Tarlati d’Arezzoin prospera vecchiezza, valicati i novanta annidella sua età, e il vescovo d’Arezzo della casadegli Ubertini, e i Pazzi di Valdarno, non ostanteche fossono in pace col comune di Firenze, avendo[197]dugentocinquanta cavalieri di quelli dell’arcivescovo,e aggiuntosi de’ conti d’Urbino ealtri ghibellini, mentre che l’oste era in Mugello,con trecentocinquanta cavalieri e con duemilapedoni si misono da capo predando il contadodi Firenze, e vennono all’Ambra, e di là intendeanoentrare nel Valdarno e venire a Fegghine.I Fiorentini sdegnosi di questi traditori, subitamentetrassono dalle loro frontiere cinquecentocavalieri, e commisono a centocinquanta cavalierich’aveano in Arezzo che dovessono venire araccozzarsi co’ nostri; e mossono il popolo delValdarno, che con grande animo e di buonavoglia andavano in quello servigio. Il comune diFirenze si confidò al tutto in questa cavalcata diAlbertaccio di messer Bindaccio da Ricasoli, uomosavio, pro’ e ardito e buono capitano, se fossestato in fede nel servigio del comune: e benchèaltri buoni cittadini fossono mandati in dettoservigio, a costui fu dato il mandato che intutto fosse ubbidito. La gente a piè e a cavallo checavalcavano di volontà, sopraggiunsono i nimici insul vespero all’Ambra, in parte, che avendo volutofare quello si poteva per la nostra gente, nonne campava testa che non fossono morti o presi:perocchè la gente del comune di Firenze era duecotanti, e migliore gente d’arme, e erano nel loroterreno intorniati dagli amici. Questo Albertaccioavendo parentado e amistà co’ detti nimici,portò infamia di non avere servito il comunelealmente. In prima d’avere sostenuta la gentedel comune a Montevarchi, che potea più infra’l dì avere occupati i nimici: appresso, che[198]quando fu a loro non gli lasciò per la nostra gentebadaluccare, per tenerli corti e ristretti chenon si potessono provvedere: e perocchè non lasciòporre la sera la cavalleria de’ Fiorentini nel luogodove si poteva torre la via a’ nimici che andarenon se ne potessono quella notte. Per li savi chev’erano con lui si provvedeva, nondimeno per lopieno mandato ch’aveva dal comune fu ubbidito;ed egli mostrava di fare buona e franca capitaneria,e di volere vincere i nimici senza pericolodella sua gente: e però puose quella serail campo in luogo sicuro a’ suoi, e utile a’ nimici.O vero o bugia che fosse, infamato fu d’averedato il tempo e fatto assapere a’ nimici che si dovessonopartire in quella notte. I nimici traditoridel nostro comune, vedendosi sorpresi a lorogran pericolo, intesono con ogni sollecitudine,senza dormire, a campare le persone: e nontennono per una via, ma per diverse parti perlo scuro della notte presono la fuga molto chetamente.La nostra gente non fu ordinata a quellaguardia, e poi innanzi che il capitano facessearmare il campo, i nimici erano più di sei migliadilungati; allora si strinsono ove la sera aveanolasciati i loro avversari, e niuno ve ne trovarono:onde la infamia crebbe al capitano perlo fatto, e il ripitio fu grande tra i cavalieri soldatie il conducitore, ch’avea tolto loro quella predaper mala condotta. La gente che v’era d’Arezzo,forte sdegnata di questo tradimento che parveloro avere ricevuto, si partirono senza licenzadel capitano con centocinquanta cavalieri ch’aveanoper loro guardia da’ Fiorentini, e tornaronsiin Arezzo.

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CAP. XIX.Come Bustaccio entrò e rendè la Badiaa Agnano.

In quella notte Bustaccio degli Ubertini siridusse con parte di quella gente a piede e a cavallonella Badia a Agnano, la quale era moltoforte e bene guernita. La cavalleria de’ Fiorentinirimasa con vergogna della partita de’ nimici,sentendo come Bustaccio era ricoverato in quellaBadia, cavalcarono là, e trovaronli racchiusi, eordinati alla difesa di quella tenuta. Il capitanoper volere ricoprire sua infamia volea combatterela fortezza; i conestabili de’ cavalieri, stretti insieme,dissono ch’erano stati ingannati, e per barattoaveano perduta la preda de’ nimici fuggiti, eperò non intendeano combattere se prima nonfossono sicuri della preda, se per patto si lasciassonoi nimici partire: e in fine ne furono in concordiad’avere fiorini cinquecento d’oro, come chei nimici si capitassono. E di presente combattendocerto borgo il vinsono. Poi combattendo laBadia furono ributtati a dietro, e perderonotre bandiere, ch’erano in sulle case, le quali inimici presono, e per paura del passo ove si trovavanole locaro ritte in sull’altare maggiore dellabadia. I cavalieri aontati delle loro bandiereprese, d’un animo si disponeano per forza a vincerela Badia, e sarebbe venuto fatto loro, ma nonsenza grande danno, perchè dentro v’erano buoniguerrieri; e però innanzi che alla grave battaglia[200]si venisse, il Roba da Ricasoli, allora discordanteper setta d’Albertaccio, volle parlare conquelli d’entro, i quali stavano in gran paura: eparlato loro, di presente s’acconciarono a renderela Badia, potendosene andare salve le persone, ei cavalli e l’arme. E presa per lo meno reo partitola detta concordia, e data la fede, i nimici sipartirono, e la fortezza e le bandiere s’ebbonosenza vergogna del comune, e i conestabili vollonoi fiorini cinquecento d’oro loro promessi.

CAP. XX.Come l’arcivescovo tentò i Pisani di guerracontro a’ Fiorentini.

Stando l’oste intorno alla Scarperia, e dandoopera i capitani a far fare dificii da traboccarenella terra per rompere le torri e mura, e gattie altri ingegni di legname per vincere la terraper battaglia, e i Fiorentini d’accogliere gented’arme, e d’avere capitano per poterla soccorrere,l’arcivescovo non restava di tentare i Pisanidalla sua parte in comune e in diviso che rompessonopace a’ Fiorentini, con intenzione dimandare messer Bernabò da quella parte conduemila cavalieri ad assalire co’ Pisani insiemeil nostro comune, e faceva loro grandi promesse.I Gambacorti, a cui segno Pisa si governava, nonvollono rompere la pace: nondimeno l’arcivescovoavendo favore dentro, e’ consigliò del modoche avesse a tenere di muovere il popolo naturalenemico de’ Fiorentini, ed elesse una solenne[201]ambasciata, fornita d’autorità di savi uomini, emandògli a Pisa: e giunti là, e sposta la loro ambasciatacon molte suadevoli ragioni, i Pisaniastuti, per pigliare consiglio nel tempo, dissonodi rispondere all’arcivescovo per loro ambasciadori,e incontanente gli mandarono a Milano,imponendo loro, che della volontà dell’arcivescovonon si rompessono, ma tranquillassono ilfatto. E in questo mezzo provvidono più riposatamentesopra il partito, e conobbono che romperepace al comune di Firenze non tornava in loroutile: che se l’arcivescovo prendea signoria inToscana, era loro suggezione e danno; e segretamentefeciono quello sentire a tutti i confidentidi quello stato, buoni cittadini. L’arcivescovoavvedendosi del modo che con lui tenevano coloroche governavano la terra, li credette ingannare,e per lo favore ch’avea nel popolo e inmolti altri cittadini, e non ostante che avessegli ambasciadori pisani in Milano, fece maggioree più solenne ambasciata a’ Pisani; e commiseloro, che in parlamento esponessono la suadomanda, come detto gli era, sperando che agrido di popolo avrebbe la sua intenzione controa’ Fiorentini. E come giunti furono in Pisa, senzasporre alcuna cosa a’ rettori del comune, addomandaronoloro di volere il parlamento, e rispostofu loro di farlo adunare volentieri a certogiorno, onde gli ambasciadori furono contenti;e incontanente feciono a tutti i cittadini, concui aveano conferito loro consiglio, dire che venissonoal parlamento; e bandito e sonato a parlamento,come ordinato fu si ragunò il popolo[202]nella chiesa maggiore in gran numero, ove furonotutti i cittadini che temeano di perdereloro libertà e il loro stato. Gli ambasciadori ammaestratiin udienza di tutto il parlamento, conmolto ornato sermone, ricordando i servigigrandi per la casa de’ Visconti fatti al comunedi Pisa, e come gli aveano onorati e aggranditisopra gli altri cittadini di Toscana, e’ raccontaronoper ordine la mala volontà che i Fiorentiniaveano verso di loro, e l’ingiurie che altrotempo inimichevolmente aveano loro fatte, e intendeanodi fare quando si vedessono il destro,mostrando loro come ora era venuto tempo nelquale il loro signore intendea d’abbattere in tuttolo stato e l’arroganza de’ Fiorentini loro antichinemici, e spegnere parte guelfa in Italia, e a ciòfare avea mossi tutti i ghibellini di Lombardia edi Toscana, e di Romagna e della Marca, come peropera era loro manifesto. La qual cosa conosciutaper loro, ch’erano capo di parte ghibellinain Toscana, molto doveano essere contenti dipoter fare in cotanta loro esaltazione la volontàdel loro signore, la quale e’ domandava con tantaistanza a quello popolo. Essendo uditi attentamente,si pensarono a grida di popolo avere impetratala loro dimanda, ma la cosa andò tutt’altrimenti,per la provvisione de’ savi cittadini,li quali si ritennero in silenzio in quello parlamento,come per loro fu provveduto. E quandogli ambasciadori l’uno dopo l’altro ebbonodetto e confermato loro sermone, pregarono gliambasciadori che si attendessono alquanto, e tostorisponderebbono di comune consentimento[203]alla loro ambasciata, e così si trassono del parlamento.E usciti gli ambasciadori, gli anzianifeciono la proposta che si consigliasse se il comunedi Pisa dovesse rompere pace a’ Fiorentini,oggi loro amici e loro vicini, o no: e levatosialcuno a dire in servigio dell’arcivescovo,molti più, i maggiori cittadini, si levarono adire come grande male e vergogna del loro comunesarebbe, avendo ferma e buona pace colcomune di Firenze, a romperla contro a ragione,in perpetua infamia del loro comune. E fatto ilpartito, fu vinto che pace non si rompesse a’ Fiorentini.Gli ambasciadori, già preso sdegno perl’uscita del parlamento, avvedendosi dove lacosa riuscirebbe, senza attendere se n’erano andatiall’ostiere. E quando gli anziani mandaronoper loro per fare la risposta del parlamento,sentendo che non sarebbe quella ch’e’ voleano,non vi vollono andare, e senza prendere comiatomontarono a cavallo e tornaronsene a Milano. IPisani si scusarono saviamente all’arcivescovo,perchè non stesse indegnato, e mandarongli dugentocavalieri, che mandar gli doveano per loroconvenenza alla guardia di Milano. Alloravenne meno all’arcivescovo la maggiore speranzache avesse di potere vincere i Fiorentini. Ilcomune di Firenze cercava in questo tempo d’averecapitano di guerra che guidasse la sua gente,che al continuo la cresceva, e avendo mandatoa molti l’elezione con grande salario, tuttila rifiutavano per paura del potente tiranno:nondimeno il comune pensava d’atarsi con lacapitaneria de’ suoi cittadini. E avendo l’oste[204]così grande in Mugello, non pareva se ne curasse,e nella città catuno faceva la sua mercatanziae sua arte senza portare alcuna arme; e continovofacea rendere a’ cittadini i danari delmonte: e sapendo questo i nemici forte se nemaravigliavano, e molto n’abbassarono la lorosuperbia.

CAP. XXI.Come l’oste deliberò combattere la Scarperia.

Quando i conduttori dell’oste seppono cheil comune di Pisa non voleva rompere pace a’ Fiorentini,e come alcuno trattato ch’aveano in Pistoiaera scoperto, con tutta la loro intenzionesi rivolsono alla Scarperia, e quella cominciaronoa tormentare con percosse di grandissimi dificii,che il dì e la notte gettavano nel piccolo castellogrossissime pietre, le quali rompeano lecase d’entro, e le mura e le bertesche gettavano aterra. E ogni dì faceano assalto loro alla terra:onde gli assediati per la continova guerra, e perla sollecita guardia che conveniva loro fare il dìe la notte alla difesa, erano infieboliti, e pensaronoche senza soccorso di fuori, o aiuto di masnadierifreschi poco potrebbono sostenere: eperò scriveano a’ Fiorentini per loro fanti tedeschi,che si mescolavano con gli altri Tedeschidi fuori, che avacciassono il loro soccorso. I Fiorentinierano in ciò assai solleciti, e già avevanoal loro soldo accolti milleottocento cavalieri,e tremilacinquecento masnadieri a piede de’ buoni[205]d’Italia, e dugento cavalieri aveano da’ Sanesi,e seicento n’attendeano da Perugia, iquali erano a cammino; e avendo ordinatod’uscire a campo con questi cavalieri, e congrande popolo, a petto a’ nemici sopra il Borgo asan Lorenzo luogo detto a san Donnino, ove eranoforti per lo sito, e con le spalle al Borgo a sanLorenzo da potere strignere e danneggiare i nemici,ch’erano assai di presso, e dare vigore ebaldanza agli assediati della Scarperia: ed essendoogni cosa provveduta, attendendo i cavalieriperugini per uscire fuori, n’avvenne la fortunache appresso diviseremo.

CAP. XXII.Come i Tarlati sconfissono i cavalieride’ Perugini.

In questi dì, del mese di settembre del dettoanno, era giunto a messer Piero Saccone de’ Tarlatiin Bibbiena, mandato dal tiranno, il dogeRinaldo Tedesco con quattrocento cavalieri perincominciare più forte guerra a’ Fiorentini nelValdarno. In questo stante, messer Piero moltoavveduto, sentì che seicento cavalieri buona gented’arme, che ’l comune di Perugia mandavain aiuto a’ Fiorentini, erano in cammino, e venivanobaldanzosi senza sospetto, e la sera doveanoalbergare all’Olmo fuori d’Arezzo a duemiglia. Avendo messer Piero il certo del fatto, coldoge Rinaldo insieme con quattrocento cavalierie con duemila fanti cavalcò la notte, e chetamente[206]ripose i fanti nella montagna sopra l’Olmo,per averli al suo soccorso nel fatto; e lamattina per tempo co’ suoi cavalieri e col dogeRinaldo assalì la cavalleria di Perugia, che lamaggior parte era ancora per gli alberghi, maquelli ch’erano montati a cavallo si cominciaronofrancamente a difendere. E già aveano traloro messer Piero, che s’era messo molto innanzinella via ov’era la battaglia, prigione, con piùaltri de’ caporali in sua compagnia. E se in quelloassalto gli Aretini fossono stati favorevoli adaiutare gli amici del comune di Firenze, comedoveano, tutta la gente di messer Piero rimanevapresa per lo stretto luogo dove s’erano messi.Ma usciti d’Arezzo i Brandagli con loro seguito,che allora erano i maggiori cittadini, intesonoa campare Messer Piero con gli altri prigioniche i cavalieri di Perugia aveano ritenuti, comegente che aveano l’animo corrotto alla tiranniadella loro città, come poco appresso dimostrerò.Campato messer Piero e’ suoi, gli Aretinisi tornarono dentro senza aiutare que’ diPerugia, o dar loro la raccolta nella città. In questo,messer Piero e’ suoi ripresono ardire, e fecionoscendere della montagna i fanti loro, traboccandoaddosso a’ Perugini con smisurato romore: iquali non vedendo essere soccorsi, nè avere ricolta,non poterono sostenere, ma chi potè fuggirecampò, e gli altri tutti furono presi nelle viee negli alberghi. Messer Piero raccolta la predadell’arme, e de’ cavalli, e de’ prigioni, senza essercontastato dagli Aretini, si raccolse collasua gente a salvamento, menandone più di trecento[207]cavalieri prigioni, ventisette bandierecavalleresche, e trecento cavalli; e giunto in Bibbienacon questa vittoria i cavalli e l’armi el’altra roba partì a bottino, e i cavalieri prigionipoveri e mendichi lasciò alla fede. A’ Fiorentinilevò l’aiuto e la speranza d’uscire a campo alsoccorso della Scarperia, come ordinato era, ea’ nimici diede maggiore baldanza di vincere ilcastello.

CAP. XXIII.Come i Fiorentini procuraro di mettere gentenella Scarperia.

Veggendo i Fiorentini mancato disavventuratamentel’aiuto de’ Perugini, e cresciuta baldanzaa’ nimici per quella vittoria di messer PieroTarlati, perderono al tutto la speranza del campeggiare,e quelli ch’erano assediati addomandavanosoccorso più sollecitamente. Avvenne cheuno valente conestabile della casa de’ Visdominidi Firenze, che aveva nome Giovanni, congrande ardire elesse trenta compagni sperti inarme, buoni masnadieri, e una notte si misenel campo de’ nimici, e per mezzo delle guardie,non pensando che gente de’ Fiorentini simettessono tra loro, virtuosamente si misononella Scarperia; la qual cosa fu agli assediati alcunoconforto, e più per la persona del valente conestabile,che per la sua piccola compagnia, acotanto bisogno quanto aveano dì e notte, per gliassalti continovi de’ loro nimici. E i conducitori[208]dell’oste avendo sentito l’entrata di que’ masnadierinella Scarperia, la feciono più strigneree più guardare il dì e la notte. E tentato i Fiorentiniper più riprese di mettervi anche gente,e non trovando per niuno prezzo il modo,un altro conestabile cittadino di Firenze dellacasa de’ Medici, di grande fama tra gli uominid’arme, per accrescere suo onore si fece dare centofanti masnadieri a sua eletta, e avendo conseco uno della Scarperia che sapeva l’ore dellevegghie delle guardie, e le loro vie, presono ilcammino di notte per l’alpe di verso quellaparte donde meno si potea temere per quellidell’oste, con la insegna levata co’ suoi compagnistretti si mise arditamente per lo campo, dirizzandosiverso la Scarperia. E in su l’entratadel campo le guardie s’avviddono, e levato ilromore, venti di quelli fanti rimasono addietro,e non poterono ristrignersi co’ compagni, etornaronsi nell’alpe, e camparono: e il conestabilecon ottanta compagni sanza fare arresto,innanzi che i nimici il potessono occuparecon la loro forza, sano e salvo co’ suoi compagnientrò nella Scarperia; e così per virtù di dueconestabili fu fornito quello castello di quelloche aveva maggiore bisogno. E per questo soccorsogli assediati presono cuore e speranza fermadella loro difesa; e tra capitani dell’osten’ebbe ripitio e grande sospetto, temendo chegli Ubaldini non gli avessono condotti, ma niunacolpa v’ebbono. E soprastando alquanto alloinfestamento de’ nimici sopra questo castello, cioccorre alcune altre materie a cui ci conviene[209]dare luogo per debito del nostro trattato, e appressoritorneremo con più onestà alla presentemateria.

CAP. XXIV.Come la reina Giovanna si fece scusare incorte di Roma.

Come addietro abbiamo narrato, quando l’accordosi fece dal re d’Ungheria al re Luigi, ne’patti venne fatta la commissione nel papa e ne’cardinali per catuna parte: che se la reina Giovannasi trovasse colpevole della morte d’Andreassosuo marito, fratello del re d’Ungheria, ch’elladovesse essere privata del reame, e dove colpevolenon si trovasse, dovesse essere reina. A questopatto acconsentì il re d’Ungheria, più perl’animo che avea di tornare in suo paese, che peraltra buona volontà che di ciò avesse, e però lacommissione fu avviluppata più che ordinatoo spedito libello, e non vedendo i pastori dellaChiesa come onestamente potessono diliberarequesta cosa, la dilungarono. Essendo lungamentegli ambasciatori di catuna parte stati incorte senza alcuno frutto dell’altre cose commesseper li detti re nella Chiesa, vedendo chequesto articolo non terminandosi portava infamiae pericolo alla reina, con ogni studio vollonoche il suo processo si terminasse. E perocchèassoluta verità del fatto non poteva scusarela regina, levare il luogo della dubbiosa famaproposono; che se alcuno sospetto di non perfetto[210]amore matrimoniale si potesse proporre oprovare, che ciò non era avvenuto per corrottaintenzione o volontà della reina, ma per forzadi malíe o fatture che le erano state fatte, allequali la sua fragile natura femminile non aveasaputo nè potuto riparare. E fatta prova per piùtestimoni come ciò era stato vero, avendo discretie favorevoli uditori, fu giudicata innocentedi quello malificio, e assoluta d’ogni cagioneche di ciò per alcun tempo le fosse apposto, oche per innanzi le si potesse apporre di quellacagione: e la detta sentenza fece divulgare perla sua innocenza ovunque la fede giunse delladetta scusa.

CAP. XXV.Come i Genovesi e i Veneziani ricominciaronoguerra in mare.

Seguita di dar parte intra le italiane tempestedella terra a quelle che in que’ tempi conceputene’ nostri mari Tirreno e Adriatico da superbepresunzioni di due comuni, in Grecia e poi nellistremi d’Europa partorirono gravi cose, comeseguendo nostro trattato si potrà trovare. I Genovesiinfestati dalla loro alterezza, ricordandosiche i Veneziani l’anno passato aveano soperchiatoin mare le undici loro galee, avvegnachèper l’aiuto de’ loro di Pera si fossono felicementevendicati, vollono per opera mostrare loropotenza a’ Veneziani, e per comune consiglio,essendo a quel tempo catuna casa de’ loro maggiori[211]cittadini tornata con pace in Genova, ordinaronodi fare armata, la quale fosse fornita perpiù eccellente modo che mai avessono armato.E comandarono a’ grandi e a’ popolani mercatanti,e agli artefici minori e ad ogni maniera digente, che di due l’uno s’acconciassono ad andarein quell’armata, e simigliante comandamentofeciono fare per tutta la loro riviera, e certola volontà vinse il comandamento, che più volentieris’acconciavano d’andare che di rimanere:i corpi delle galee furono per numero sessantaquattro,e ammiraglio fu fatto messer PaganinoDoria; i soprassaglienti furono sopra ogni galeadoppi, armati nobilmente, e doppi i balestrierie i galeotti, tutti forniti d’arme, e tutti si vestironoper compagne chi d’un’assisa e chi d’un’altra,e comandamento ebbono dal loro comuned’abbattere la forza de’ Veneziani in mare e interra giusta loro podere: e fornite le galee dipanatica e di ciò ch’aveano bisogno, e pagatiper ordine di mercatanzia e’ dazii, senza trarredanari di comune, per sei mesi, del mese di luglio,gli anni di Cristo 1351, si partirono da Genova,ed entrarono nel golfo di Vinegia facendodanno assai a’ navili e alle terre de’ Veneziani, esenza lungo soggiorno si partirono di là e andaronneall’isola di Negroponte. I Veneziani nonprovveduti della subita armata de’ Genovesi, aveanomandate venti loro galee armate in Romania,le quali erano nell’Arcipelago, delle quali i Genovesiebbono lingua, e seguitandole, le sopraggiunsonoall’isola di Scio: le quali vedendosi di pressol’armata de’ Genovesi, con la paura aggiunsono[212]forza a’ remi, e avendo aiuto d’alcuno ventoalle loro vele, essendo seguitate da’ Genovesi, fuggendole diciassette ricoverarono nel porto diCandia, e le tre presono alto mare per loro scampo.

CAP. XXVI.Come l’armata genovese andò a Negropontee assediò Candia, e quello che ne seguì.

L’armata de’ Genovesi seguendo quella de’Veneziani giunsono a Negroponte, ove i Venezianicon grande studio e paura erano arrivati, eavendo da’ terrazzani aiuto, appena aveano compiutodi tirare le loro diciassette galee in terra,lasciando le poppe in mare per poterle difendere,e in aringo l’aveano messe l’una a lato all’altraa modo di bertesca per poterle megliodi terra difendere, ove giunta l’armata de’ Genovesi,senza arresto l’assalirono con aspra efolta battaglia, e prese l’avrebbono, se non fosseche tutti gli uomini d’arme di quella terra furonoalla loro difesa, e a guardare la marina chei Genovesi non potessono scendere in terra: e inquello assalto la feciono sì bene, che i Genovesis’avvidono per forza non poterle guadagnare nèscendere in terra nel porto: e però presono loroconsiglio d’assediare la città di Candia per maree per terra, e procacciare di Pera e dell’altre partidi loro amici legni grossi, e gente e dificii di legnameper combattere e vincere la terra, se per lorovirtù e forza fortuna l’assentisse. E allora lasciaronoguardia delle loro galee sopra il porto, e con[213]l’altre girarono alquanto, e misono in terra lorocampo, attendendo gente e fornimenti che procacciavanoper combattere la terra, e que’ d’entros’afforzavano alla difesa, e dì e notte intendeanoa fare buona guardia, avendo mandato a’ Venezianiper loro soccorso.

CAP. XXVII.Come i Veneziani feciono lega co’ Catalani,e di nuovo armarono cinquanta galee.

Stando l’armata de’ Genovesi per mare e perterra all’assedio della città di Candia, il comunedi Vinegia ebbe le novelle, ed essendo tanti lorograndi e buoni cittadini, e le loro galee e la lorocittà assediata, ebbono grande dolore, nondimenocon franco animo deliberarono di fare ogni lorosforzo per soccorrerli: e ricercando la gente cheallora poteano fare di loro distretto, non trovaronoche bastasse a potere fornire loro armata, tantoera mancata per la passata mortalità, e peròelessono di loro cari cittadini solenni ambasciadori,i quali mandarono prima a Pisa, e appresso inCatalogna, per recarli a loro lega, e averli in loroaiuto, con ogni largo patto che volessono: e di ciòdiedono agli ambasciadori piena libertà e balìa,con ispendio di grande somma di moneta. IPisani essendo in pace co’ Genovesi, avvegnachèpoco s’amassono, per promesse o patto che fosseofferto loro non si vollono muovere contro a’ Genovesi,ma alquanto più che ’l consueto s’inamicaronocon loro, ricevendo grazie da’ Genovesi[214]per la fede mantenuta a quel punto. I Catalaniper grande odio che aveano a’ Genovesi, peringiurie e danni ricevuti da loro in mare, di presentes’allegarono co’ Veneziani, e promisono didare armate di loro uomini quelle galee che i Venezianivolessono, dando i Veneziani loro i corpidelle galee e i debiti soldi a’ Catalani. E ferma lalega, i Veneziani incontanente misono il banco,e cominciarono a scrivere e a soldare la gente, emandarono a Venezia che vi mandassono i corpidelle galee e’ danari, i quali senza indugio vi mandaronoventitrè corpi di galee, e danari assai, efecionle armare di buona gente. I Veneziani a Veneziaprestamente n’armarono ventisette, e mentreche l’armata si facea in Catalogna e a Venezia,i Veneziani mandarono una galea sottile benearmata a portare novelle del loro grandesoccorso, e mandarono in quella danari per fareapparecchiare le galee ch’erano là, che di presenteal tempo della venuta della loro armata fossonoapparecchiate, sicchè contra a’ loro nimicifossono più possenti. Questa galea per scontrodi fortuna s’abbattè in una galea di Genovesi, ecombattendo insieme, la veneziana fu vinta epresa in segno del futuro danno. I Genovesi ebbonoi danari, e le lettere e l’avviso dell’armatade’ Veneziani e de’ Catalani per potersi provvedere;il corpo della galea aggiunsono alle loro, e gliuomini ritennono a prigioni, con gran festa diquesta avventura.

[215]

CAP. XXVIII.Come la imperatrice di Costantinopoli colfigliuolo si fuggì in Salonicco.

Avvenne che in questi medesimi tempi chel’armata de’ Genovesi era a Negroponte, cheMega Domestico del lignaggio imperiale, il quale sifaceva dire Cantacuzeno, cioè imperadore, essendorimaso balio del figliuolo dell’imperadore diCostantinopoli a cui succedea l’imperio, governavatutto per lui, gli diè la figliuola per moglie,ingannando la giovanezza del suo pupillo, senzaconsentimento della madre. L’imperatrice sentendoquello che Mega Domestico avea fatto, presesospetto, e fatto le fu vedere che ’l figliuolo sarebbeavvelenato, perchè l’imperio come era inguardia rimanesse libero al detto Mega, balio dell’imperioe del giovane, onde l’imperadrice colfigliuolo, di furto e improvviso a Mega s’eranofuggiti di Costantinopoli, e andati nel loro reamedi Salonicco, ivi mostrando manifesto sospettodel balio dell’imperio, si dimorarono in grandeguardia. E Mega Domestico, come è detto, vedendosirimaso nella forza dell’imperio, si fece dinominareimperadore: e senza fare guerra al giovane,si fortificava nell’imperio, e aveasi confederatol’amistà de’ Veneziani. L’imperadrice avendosentita l’armata de’ Genovesi a Negroponte,mossa da femminile furia e sprovveduto consiglio,mandò a trattare co’ Genovesi, in cui prendevaconfidanza, perocchè era figliuola del conte di Savoia,[216]assai presso di vicinanza a’ Genovesi, e sapeach’elli erano nimici de’ Veneziani, amici di MegaDomestico suo avversario; il trattato fu fermoco’ Genovesi, e le promesse furono grandi ove rimettessonoil figliuolo in signoria dell’imperiodi Costantinopoli. I Genovesi per questo si pensaronodi passare il verno alle spese del’imperadrice,e abbattere molto della forza degli amicide’ Veneziani, e d’essere più agresti e più forti controalla loro armata, e però si dispuosono a lasciarl’assedio con loro onore, ove poco profittavano, ea prendere il servigio dell’imperadrice. Lasceremoal presente questa materia per riprenderlaal suo debito tempo, e torneremo a’ fatti di Firenze.

CAP. XXIX.Come la Scarperia sostenne la prima battagliadal Biscione.

Tornando all’assedio della Scarperia, il capitanodell’oste col suo consiglio vedendo che laScarperia era fornita per la sua difesa di valorosimasnadieri, e che dentro era bene fornita divittuaglia, e sentendo che i Fiorentini non si curavanodi loro, e continovo accresceva loro forza,ed essendo mancata la ferma de’ loro soldati:per non partirsi con vergogna di non avere vintoper forza uno piccolo castello, rifermarono i lorocavalieri, e avuti danari dall’arcivescovo tutti glipagarono, e promisono paga doppia e mese compiutoa coloro che combattendo vincessono la[217]Scarperia. Il tempo era già all’entrata d’ottobre,e la vittuaglia cominciava a rincarare, e questopiù gli spronava a volere vincere la punga. I dificiida combattere la terra erano apparecchiati,scale assai, e grilli e gatti e torri di legname, lequali aveano condotte presso al castello al tiraredella balestra, o poco più. E così apparecchiati,una domenica mattina, ordinati i combattitori,da più parti con molti balestrieri assalirono ilcastello, e conduceano i dificii e le scale alle muracon gran tempesta di loro grida. Quelli delcastello ordinati dentro alla difesa co’ loro capitani,si teneano coperti e cheti, e lasciarono valicarei nimici il primo fosso e entrare nel secondo, chenon v’avea acqua, e accostare molte scale allemura innanzi che si movessono: allora dato ilsegno da’ loro conestabili, con grande romoresollecitamente cominciarono dalle mura a percuoteresopra i nimici colle pietre, lance e pali,e a traboccare loro legname addosso, e i balestrierisaettare da presso e da lungi senza perderein vano i loro verrettoni. In questo primo assaltofediti e magagnati assai di quelli che s’eranoaccostati alle mura e agli steccati per forzane furono dilungati: nondimeno i capitani perstraccare di fatica quelli delle mura, rimutavanospesso la loro gente dalla battaglia, rinfrescandogente nuova, e non lasciando prendere lena nèriposo a que’ delle mura e della guardia deglisteccati, ma i franchi masnadieri si difendeanovirtudiosamente, avendo in dispregio il riposo, econfortando l’uno l’altro per modo, che perforza nè per rinfrescamento di loro battaglia, da[218]innanzi terza all’ora di nona, per molte riprese dibattaglie non ebbono podere d’accostarsi allemura, nè agli steccati ove le mura non erano.Nel primo fosso condussono sessantaquattro scale, enel secondo accosta del muro tre, le quali abbandonarono,non potendo avanzare; e con pocoonore di questa prima battaglia, e con alquantimorti rimasi nel fosso, e con molti fediti e magagnati,si ritrassono dalla battaglia, e que’ d’entrointesono al riposo e a medicare i loro fediti,che ne aveano gran bisogno.

CAP. XXX.Come la Scarperia riparò alla cava de’ nimici.

Nonostante l’ordine delle battaglie, i conducitoridell’oste con gran costo e con molto studioconducevano una cava sotterra per abbatterele mura della Scarperia, e molto grande speranzaaveano in quella di vincere la terra. Que’ d’entropensando e temendo che così dovessono farei loro avversari, provvidono al rimedio, e fecionoun fosso dentro intorno alle mura, il qualeera braccia quattro e mezzo largo in bocca, e bracciatre largo in fondo, e andava di sotto al fondamentodelle mura braccio uno e mezzo, acciocchèse le mura cadessono, si trovassono l’aiutodel detto fosso alla loro difesa. E nondimeno provvidonodi cavare di fuori de’ fossi per ritrovare lacava de’ nimici innanzi che giugnesse alle mura.E a fornire questo misono grande sollecitudine,ma i loro avversari adoperarono grande[219]forza per ritrarli da quello lavorio: e condussonoun castello di legname in sul primo fosso, sìpresso, che con le pietre combatteano coloroch’erano tra l’uno fosso e l’altro alla guardiade’ loro cavatori, e avvenne che a questa si rivolsegrande parte dell’oste, e tutta la forza diquelli d’entro. Quelli di fuori combattendo con lepietre e con le balestre, e rinnovando d’ora in orai freschi combattitori, quelli del fosso colle fossedelle parate e co’ palvesi francamente s’atavano,con le loro balestra e con quelle del loro aiuto dallemura, e diputati a questa punga trecento di que’d’entro, sostennono l’assalto de’ nimici il lunedìe ’l martedì molto francamente, non lasciando impedirei loro cavatori: i quali lavorando con grandesollecitudine pervennero alla cava de’ nimici, laquale era venuta innanzi centottanta braccia, epresso alle mura a venti braccia: la quale di presenteaffocarono, e cacciarono i cavatori, e guastaronoloro la cava. Essendo da catuna partemolti fediti, que’ del campo abbandonaronol’assalto con loro vergogna; e i valenti masnadierialla ritratta de’ nimici presono e arsono il castellodel legname ch’era sopra il fosso, e stesonsiad assalire un altro ch’era più di lungi, e perforza l’affocarono, e tornaronsi sani e salvi nelcastello, avendo presa grande baldanza della lorodifesa, per la vittoriosa punga di quella cava.

[220]

CAP. XXXI.Del secondo assalto dato alla Scarperia.

Vedendo il capitano dell’oste e il suo consiglioessere di ogni assalto fatto con vergogna ributtatoda que’ della Scarperia, e vedendosi venireaddosso il verno e non avere vinto il castello,e che lo strame mancava, pensavano che la partitasarebbe con loro grande vergogna: però vollonoancora da capo cercare la fortuna, innanzi cheda quello assedio si partissono. E per avere apparecchiatoda riempiere i fossi, feciono tutto il legnamee’ frascati che aveano ne’ loro campi conducerepresso a’ fossi: e il giovedì mattina innanzidì, essendo l’oste armata, e le battaglie ordinate,e più torri di legnami condotte presso a’ fossi,con ordine di palvesari e di loro balestrieri, senzacontasto riempierono di frascati il primo fosso, ele torri condussono sopr’esso fornite di molti balestrieri.I cavalieri smontarono de’ cavalli congli elmi in testa, e cominciata la battaglia a un’orada ogni parte, i cavalieri si sforzarono di conduceregatti, grilli e scale alle mura. Que’ d’entroche aveano preso maggiore ardire per gli altriassalti, lasciarono fare molte cose innanziche alla battaglia si scoprissono, ma ordinatoda’ loro conestabili, al segno dato si mostraronoalla difesa, e con tanto impeto cominciarono acaricare di pietre, e di pali aguti e di legnamei loro assalitori, con l’aiuto de’ loro buonibalestrieri, che per forza gli ributtarono addietro[221]del primo fosso. E avendo a quelli ch’eranonelle torri ordinato di loro i migliori balestrieri,gli strinsono per modo, che non si poteanoscoprire, nè dare a loro utile aiutorio. E in questoassalto alcuni conestabili d’entro ebbono ardirecon certi loro compagni eletti d’uscire fuoridella terra, e con le lance e con le spade in manofediano per costa i combattitori, e incontanentesi ritraevano: e questo feciono più volte danneggiandoi nimici, e ritraendoli dalla battagliadov’erano ordinati, senza ricevere impedimento.Ed essendo durata la battaglia infino a nona, senzaavere que’ dell’oste fatto alcuno acquisto, fecionosonare la ritratta. E di presente quei delcastello misono fuori de’ loro masnadieri, i qualipresono le torri e’ dificii e arsonli, che i nimiciaveano condotti, e dato opera infino alla notte amettere dentro il legname utile, tutto l’altro co’frascati arsono nel fosso. E intesono a medicare iloro fediti, e a farsi ad agio d’alcuno riposo, delquale aveano gran bisogno per quella giornata.

CAP. XXXII.Del terzo assalto dato.

Avendo i capitani dell’oste quasi perduta ognisperanza di potere vincere la Scarperia, vollonotentare l’ultimo rimedio con danari e con ingegno;e in quello rimanente del dì feciono venirea loro tutti i conestabili tedeschi con i più nomaticavalieri di loro lingua, i quali nelle battagliedate al castello poco s’erano travagliati altro che[222]di vedere, e dissono loro: se a voi desse il cuoredi vincere con forza e con ingegno questa terra, l’onoresarebbe vostro, e oltre alla paga doppia emese compiuto, a catuno daremo grandi doni. Iconestabili e i loro baccellieri si strinsono insieme,e mossi da presuntuosa vanagloria e da avarizia,rispuosono: che dove e’ fossono sicuri d’avere didono sopra le cose promesse fiorini diecimila d’oro,che darebbono presa la Scarperia: e questo davaloro il cuore di fornire con l’aiuto dell’altra oste,ove fosse fatto quello che direbbono in quellanotte. I capitani promisono tutto senza indugio,sicchè rimasono contenti, e di presente fecionofare comandamento a tutti i conestabili delle masnadeda cavallo e da piè, che colà da mezza nottefossono apparecchiati dell’arme e de’ cavalli; efatto questo, andarono a cenare e a prendere alcunoriposo. Venuta la mezza notte, e armata l’ostechetamente, il tempo era sereno e bello, e laluna faceva ombra in quella parte della Scarperiache i Tedeschi aveano pensato d’assalire: efatto tra loro elezione di trecento baccellieri, aloro commisono tutto il fascio della loro intenzione;i quali bene armati, separati dall’altragente, con le scale a ciò diputate e con altri utiliargomenti, senza alcuno lume, s’addirizzarono versoquella parte della terra ove l’ombra gli copriva.Tutta l’altra oste con innumerabili luminarie, econ ismisurato romore e suoni di tutti glistromenti dell’oste, colle schiere fatte e collebattaglie ordinate si cominciarono a dirizzaredall’altre parti verso la Scarperia. I fanti dellaScarperia, che appena aveano ancora dell’affanno[223]del dì preso alcuno riposo, sentendo lo stormo,e vedendo l’esercito venire con ordine diloro battaglie a combattere la terra, cacciata lapaura e invilito il riposo, di presente furono all’arme:e con l’ardire delle loro difese apparecchiati,andò catuno alla sua guardia delle mura ede’ palancati; e stando cheti e senza mostrare i lorolumi attesono tanto, che le schiere e le battaglies’appressarono alle mura, e cominciato fu l’assaltocon suoni di tanti stromenti e con grida d’uomini,che riempieva il cielo e tutto il paese moltodi lungi. Quest’asprezza delle grida era maggioreche dell’arme, per attrarre l’aiuto da quellaparte di que’ d’entro, e mancarlo ov’era l’aguato.Quelli della terra maestri di cotali cosedelle grida non si curavano, e quelli che siappressavano, francamente colla balestra e collepietre gli faceano risentire e allungare, e niunonon si partiva o mosse dalla sua guardia. I trecentobaccellieri riposti presso della terra sentendo ilromore e l’infestamento di quelli dell’oste, chetamentecolle scale in collo passarono il primo eil secondo fosso, che non v’avea acqua, e condussonoe dirizzarono alle mura più e più scale, vedendoloe sentendolo que’ della terra ch’erano aquella guardia, e lasciandogli fare, finchè cominciaronoa salire sopra esse, e aveano già i loroaiutori a piede; allora quelli della guardia cominciaronoa gridare, e a mandare sopra loro grandipietre e legname e pali, percotendoli e facendolitraboccare delle scale nel fosso l’uno sopral’altro. E in un punto gli ebbono sì storditi efediti e magagnati, che in caccia si partirono da[224]quello assalto, e tornaronsi all’altra oste. Dall’altraparte fu maggiore il grido che l’assalto,ma per li buoni balestrieri molti ve ne furonofediti in quella notte. E facendosi dì, in sulla ritrattauscirono della terra un fiotto di buoni briganti,e dieronsi tra’ nimici, e per forza ne presonoe ne menarono tre di loro cavalieri nellaScarperia, e gli altri ritornarono al campo perdutaogni speranza d’avere la Scarperia. Que’ didentro uscirono fuori un’altra volta quella mattina,e arsono più dificii di legname ch’eranopresso, e uno castello ch’era più di lungi, e contamentesenza impedimento sani e salvi si ritornarononella Scarperia.

CAP. XXXIII.La partita dell’oste dalla Scarperia.

Vedendo il capitano dell’oste e i suoi consiglieriaver fatta la loro oste ogni prova per vincerela Scarperia, ed esserne con vergogna ributtati perla virtù de’ buoni masnadieri che dentro v’erano,e tornando l’oste piena di molti fediti, eche la vittuaglia venia mancando l’un dì appressol’altro fortemente, e che già lo strameper i cavalli al tutto venia loro meno, e il tempoch’era stato fermo e bello lungamente s’apparecchiavadi corrompere all’acqua, prese per partitod’andarsene a Bologna; e al segno dato d’unalumiera alzata sopra ogni lume molto, il sabatonotte, a dì 16 d’ottobre, l’oste si dovesse partire,e ogni uomo si dovesse riducere verso l’alpe[225]di Bologna, i cui passi erano tutti in loro signoria,e il cammino era corto e il passo aperto, e la gentevolonterosa di levarsi da campo, per la qual cosasubito ebbono passato il giogo dell’alpe. I Fiorentiniavendo sentito che i nimici erano perpartirsi dall’assedio, aveano mandati in Mugelloi cavalieri che aveano per danneggiarli, sepotessono, alla levata: ma gli avvisati capitanidell’oste la domenica mattina innanzi che la lorogente s’avviasse feciono una schiera di duemilabuoni cavalieri, i quali tennero ferma insul piano, insino che seppono che tutta la lorogente e la salmeria erano valicati il giogo e passatiin luogo salvo; la schiera della guardia passò,non vedendo apparire alcuno nimico, girò e preseil suo cammino verso la montata dell’alpe, ch’erapresso a due miglia di piano: ed ebbono passatoprima il giogo, che la cavalleria de’ Fiorentinisi assicurasse di stendere per lo piano, temendod’aguato: e così sani e salvi si ricolsono a Bolognasenza impedimento per lo senno de’ lorocapitani. Quest’oste mossa con tanto ordine e aiutodi tutti i ghibellini d’Italia, venuta di subitosopra la nostra città sprovveduta d’ogni aiuto,stette ottantadue dì sopra il nostro contado senzapotere vincere per forza niuno castello, ede’ quali, sessantuno dì consumarono all’assediodel piccolo castello della Scarperia. E come fupiacer di Dio, la sfrenata potenza di cotanto signore,aggiunta con tutta la forza de’ ghibellinid’Italia, guidata da buoni capitani, credendosisoggiogare la città di Firenze e’ popoli circustanti,non ebbono podere di vincere la Scarperia, da[226]qui addietro vilissimo castello, non murato pertutto e di piccola fortezza per sito, ma difesoda piccolo numero di valorosi masnadieri: essendovia oste con più di cinquemila barbute, eduemila cavalieri, e seimila pedoni di soldo,senza la forza degli Ubaldini e degli altri ghibellinicon loro sforzo; per la qual cosa il tirannoche avea l’animo levato a inghiottire le italianeprovincie, potè conoscere che un piccoloe vile castello domò e fece ricredente tutta la suaforza. E come era venuto a guisa di leone con latesta alzata, spaventevole a tutte le città di Toscana,chinate le corna dell’ambiziosa superbia,tornò pieno di vergogna e di vituperio, non avendoper sua potenza potuto acquistare un debolecastello, e diede materia a’ popoli di grande confidenzadella loro difesa. Lasceremo ora finitaquesta materia, e torneremo all’altre tempesteitaliane, che non bastando in terra conturbanol’altrui mare.

CAP. XXXIV.Come l’armata de’ Genovesi si partì da Negropontee andò a Salonicco.

In questo tempo cominciando aspro e fortunosoverno, i Genovesi che con la loro armata di sessantaquattrogalee erano stati all’assedio dellacittà di Candia nell’isola di Negroponte, sentendol’apparecchiamento delle cinquanta galeede’ Veneziani e de’ Catalani che doveano venirecontro a loro al soccorso; e vedendo che lo stare[227]ivi per speranza d’avere la terra era invano,e non minor danno a loro che a’ Veneziani, e avendopromesso il loro aiuto all’imperadrice diCostantinopoli, ch’era fuggita col figliuolo nelreame di Salonicco, parendo per questa cagionela loro levata dall’assedio fosse con meno vergogna,ed entrando nell’imperio aveano più sicurovernare, si partirono di là e dirizzarono loro viaggioverso Salonicco; e giunti a Malvagia, intendeanolevare l’imperadrice e ’l figliuolo, e fareloro podere di rimetterli in Costantinopoli conla loro forza e della parte che amava il loro verosignore. L’imperadrice sentendo l’armata di presso,come femmina mutevole, non avendo pienaconfidenza del figliuolo, cominciò a sospettare:e il giovane medesimo non avendo avuto più maturoconsiglio all’impresa, convenendo la suapersona mettere nelle mani dell’altrui forza,dubitò, e non lo volle fare, e forse fu più da biasimareil cominciamento della folle impresa che ’lcambiamento del femminile e giovanile animo, iquali non si vollono abbandonare alla non provatafede de’ Genovesi; per la qual cosa l’ammiragliocol suo consiglio presono sdegno, e rivolta la loroarmata, desiderosi di rapina e di preda, venneroall’isola di Tenedo, piena di gente e d’avere, sottopostaall’imperio, i quali de’ Genovesi non prendeanoalcuna guardia, ed elli la presono e rubaronod’ogni sustanza. E quivi feciono dimoro gran partedel verno prendendo rinfrescamento, e ragunandola preda di quella e dell’altre terre di Grecia, dellaquale data a catuno la parte sua, si trovarono pienidi roba e di danari, sicchè a loro non fece bisogno[228]altro soldo, e la loro vita tutta ebbero perniente delle ruberie del paese. E ivi stettonofino al Natale senza mutare porto.

CAP. XXXV.Come i Veneziani e’ Catalani s’accozzarono inRomania con l’altra armata.

I Veneziani, come addietro abbiamo narrato,avendo fatta compagnia e lega co’ Catalani controa’ Genovesi, armarono in Venezia ventisettegalee molto nobilmente, ove si ricolsono quasitutti i maggiori e migliori cittadini di Veneziaper governatori e soprassaglienti, forniti a doppiodi ciò che a guerra faccia mestiero, e ventitrè galeearmarono i Catalani. E tanto bolliva negli animiloro lo infocamento dell’izza ch’aveano presacontro a’ loro avversari genovesi, che nel tempoche l’armate sogliono abbandonare il mare e vernarein terra, si mossono da Venezia e di Catalogna,domando le tempeste del mare, ad andarecontro a’ loro nimici in Romania. Del mesedi novembre s’accozzarono insieme in Cicilia,e di là senza soggiorno si dirizzarono verso l’Arcipelago,e con grandi e aspre fortune, avendo perquelle perdute sette galee veneziane e due catalane,non senza danno della loro gente, pervenneroin Turchia, e posono alla Palatia e aAltoloco; e ivi, del mese di dicembre del dettoanno, avendo raccolte le galee che aveano a Negropontee nelle contrade si trovarono con settantagalee: e in Turchia stettono gran parte del[229]più fortunoso verno per rivedere i loro legni eavere novelle di loro nimici. In questo travalicamentodel tempo delle due armate ci occorrea raccontare altre cose rimase addietro, e in primauna pazzia di corrotta mente dell’ambizione umana,la quale alcuna volta combattendo, contro alsuo prospero e buono stato abbatte e rovina se medesimocon debito e degno traboccamento.

CAP. XXXVI.Come i Brandagli si vollono fare signorid’Arezzo.

Dappoich’e’ Bostoli per loro superbia furonocacciati della terra d’Arezzo, una famiglia chesi chiamarono i Brandagli, loro nimici, cominciaronodi nuovo ad avere stato in comune, emontando l’un dì appresso all’altro vennonoin maggiori, ed erano al tutto governatori del reggimentodi quello comune, e per questo montatiin grandi ricchezze: e della loro famigliaMartino e Guido di Messer Brandaglia erano icaporali. Costoro ingrati del loro buono statocercarono di farsene signori con tradimento, nonperchè fossono da tanto, ma per farne loro mercatanzia,come nel fine del fatto si scoperse.Costoro trattarono col nuovo tiranno d’Agobbiod’avere da lui al tempo ordinato centocinquantacavalieri, e da quello di Cortona dugentocavalieri, non che da se gli avesse, ma perservire costoro n’accattò centocinquanta dalprefetto da Vico, e cinquanta dal conte Nolfo[230]da Urbino, e feceli venire e soggiornare all’Orsaia,come gente di passaggio che attendessonod’essere condotti e oltre a questa gente acavallo, di quello che non era richiesto, misein ordine d’avere apparecchiati undicimila fantia piede, con intenzione, che se fortuna il mettessein Arezzo di volerlo per se. E ancora richiesemesser Piero Tarlati, che aveva in Bibbiena ildoge Rinaldo con trecento cavalieri, benchè fosseghibellino e nimico del loro comune richieselonon manifestandogli il fatto. Ma la volpe vecchiache conobbe la magagna, si offerse loromolto liberamente, sperando altro fine del fattoche non pensavano i traditori, accecati nella cupidigiadella sperata tirannia. A conducere questagente aveano fuori d’Arezzo Brandaglia loronipote, e Guido intendeva a raccogliere i masnadieriche gli capitavano segretamente, e a nasconderline’ loro palagi, e Martino stava nel palagioco’ priori della terra a tutti i segreti del comune.In quel tempo si dava in guardia a confidenticittadini una porta della città che si chiamavala porta di messer Alberto, la quale era amodo d’un cassero, e dava l’entrata tra le duecastella. Questa guardia per procaccio di Brandagliaera ne’ figliuoli di messer Agnolo loro confidenti,con cui elli si teneano in questo tradimento.E messe le cose d’ogni parte in assetto,a’ signori d’Arezzo fu scritto per lo comune diFirenze e per quello di Siena ch’avessono buonaguardia, perocchè sentivano che una terra sicercava di furare, ma non sapeano come nè quale;Martino Brandagli ch’era nel consiglio, co’ suoi[231]argomenti levava i sospetti. E venuto il dì chela notte si dava il segno a que’ di fuora, un conestabilefiorentino ch’era in Arezzo, uomoguelfo e fedele, fu richiesto da’ Brandagli per lanotte. Costui per amore della sua città e di partenon potè sostenere per promesse che avesse avuteche non manifestasse a’ priori il tradimento diquella notte. Incontanente i priori mandaronoper Martino, il quale confidandosi nel suo grandestato e ne’ molti amici, andò dinanzi a’ priori,e negava scusandosi che niente sapeva di quellecose; e in quello stante Guido suo fratello corsea’ loro palagi, e colla gente che avea nascosa levòil romore, e tennesi co’ suoi masnadieri forte. Icittadini in furia armati corsono alla porta dimesser Alberto, che poteva dare l’entrata a’ forestieri,per fornire di guardia per lo comune, matrovarono ch’ella si tenea per i traditori. E cosìla città intrigata nel nuovo pericolo, e non provveduta,fu in grande paura. La porta era forte ebene guernita alla difesa da non poter vincersiper battaglia, e già era venuta la notte, e queidella torre della porta d’entro feciono i cenni ordinatialla gente di fuori, che venire doveano aloro aiuto per vincere la terra.

CAP. XXXVII.Di quello medesimo.

I cittadini vedendo i cenni, temendo di nonessere sorpresi dall’aiuto provveduto da’ traditori,tempestando nell’animo, intrigati dalle tenebre[232]della notte e dalla paura, intendendo a combatterequei della porta e mettere gente in sule mura, ma per questo non poteano conoscereriparo che i forestieri non entrassono per forzanella città, e però s’avvisarono di rompere le muradella città appresso a quella porta: e fattane larotta che vollono, avendo per loro guardia centocavalieri di Fiorentini e alcuni di loro, li misonofuori in uno borgo fuori di quella porta, ovedovea essere l’entrata de’ nemici, e accompagnaronlidi cittadini e d’altri fanti alla difesa conbuone balestra; e di subito tagliarono alberi, eabbarrarono e impedirono le vie al corso de’ cavalli,e le mura guarentirono di gente e di saettamento:e nondimeno facevano dal lato d’entrocombattere di continovo quelli della porta e dellatorre, ma e’ si difendevano, e di quella battagliapoco si curavano, e continovo manteneanocenni a loro soccorso: e dentro i Brandagli difendeanoi loro palazzi e la loro contrada co’ masnadieriche aveano accolti, e attendendo Brandagliacon la gente invitata, con la quale nondottavano d’essere signori della terra s’ellav’entrasse. I segni della torre furono veduti dalprincipio della notte, e il signore di Cortonache stava attento fu in sul mattutino con dugentocavalieri e duemila pedoni giunto ad Arezzo,e Brandaglia con altri dugento cavalieri. Lagente di messer Piero Saccone tardò più a venire,per riotta che mosse il doge Rinaldo in sulfatto; gli altri ch’erano venuti baldanzosi, credendosisenza contasto entrare nella città, comefurono presso alla terra, mandarono innanzi cento[233]cavalieri che prendessono e guardassono l’entratadella porta, e quella trovarono imbarratadagli alberi e le vie innanzi al borgo: ed essendo làvenuti, e saettati da quelli ch’erano alla guardiadel borgo, e scorgendo in su l’aurora le mura pienedi cittadini armati alla difesa, e già morti duedi loro compagni da quei del borgo, si tornaronoaddietro, e feciono assapere a quelli dell’oste cheattendeano come stava il fatto: di che spaventatis’arrestarono senza strignersi più alla terra, egià per segni e ammattamento che que’ della torree della porta facessono, e eziandio chiamandoliad alte voci, non si attentarono di venirepiù innanzi, ma ivi presso si fermarono attendendocome i fatti dentro procedessono, e cosìstettono schierati dalla mattina sino presso a nona.E in verso la nona messer Piero Sacconi giunseco’ suoi cavalieri e pedoni, il quale sentendola cosa scoperta e i cittadini alla difesa, senzaattendere punto co’ suoi cavalieri diè volta eco’ suoi pedoni, e tornossene a Bibbiena; e vedutoquesto, tutti gli altri si partirono, e i traditoririmasono senza speranza di soccorso. Questanovità sentita nel contado e distretto de’ Fiorentini,mosse senza arresto i cavalieri e’ masnadieriche allora avea in quelle circustanze, ei Valdarnesi per venire al soccorso degli Aretini:i quali non bene confidenti del comune di Firenzeparte ne ritennono per loro sicurtà, e agli altridiedono commiato onestamente, senza riceverlinella città, e dolcemente fu sostenuto. Nondimenoi traditori teneano i palagi, e la torre ela porta: e tanta miseria occupò l’animo di[234]que’ pochi cittadini in cui era rimaso il reggimento,per tema di non volere fare parte agli altrida cui e’ potessono avere aiuto, che si misonoa trattare con Martino cui eglino aveano prigione,dicendo di lasciare andare e lui e’ suoi, ei figliuoli di messer Agnolo e le loro cose liberamente,ed e’ rendessono la porta. E innanzi chequesto venisse alla loro intenzione, convenne chei figliuoli di messer Agnolo fossono sicuri a loromodo d’avere contanti fiorini tremila d’oro, eavuta la sicurtà renderono la porta e la torre alcomune; e facendosi loro il pagamento per coloroche aveano fatta la promessa, i danari furonostaggiti per coloro che aveano per loro sodo alcomune, che eglino renderebbono quella fortezzaal detto comune: e così s’uscirono della città co’Brandagli insieme; e il seguente dì furono tutti condannatiper traditori, e i loro beni disfatti e pubblicatial comune. Trovossi poi di vero, che i traditoriaveano trattato come avessono presa la signoria,con ciò sia cosa che non erano d’aiuto perloro lignaggio da poterla tenere, di venderla all’arcivescovodi Milano, a gravamento della lorodetestabile malizia, la quale prese non il debitofine, ma alcuno segno della loro rovina, perla viltà di coloro che non degni rimasono al governamentodi quella terra.

CAP. XXXVIII.Come il re Luigi mandò il gran siniscalco adaccogliere gente in Romagna.

Tanto imbrigamento di guerra sboglientava glianimi degl’Italiani per terra e per mare in questi[235]tempi, che volendo cercare delle novità deglistrani, non ci lasciano da loro partire. Il reLuigi valicata la tregua dal re d’Ungheria a lui,non ostante che rimesso avessono le loro questionial giudicio del papa e de’ cardinali, tentavacon preghiere e impromesse di recare dalla suaparte fra Moriale, friere di san Giovanni, il qualeteneva Aversa e Capua dal re di Ungheria, equesto fra Moriale, astuto e malizioso, mostravadi voler piacere al re Luigi; e dandogli speranza,cominciò ad allargare il passo alla gente delre e a’ paesani d’Aversa e di Capua, sicchè andavanoe venivano sicuramente, e non facevaguerra, ma nondimeno guardava le città e lefortezze di quelle, e per questo corse la voce chela concordia era fatta: ma però il re di lui, o eglidel re si fidava. Ma in questo tranquillo, il remandò il grande siniscalco nella Marca ad accoglieregente d’arme, il quale con grandi promessemosse messer Galeotto da Rimini a venire alservigio del re con trecento cavalieri, e messerRidolfo da Camerino con cento, a tutte loro spese,e ’l grande siniscalco messer Niccola Acciaiuolidi Firenze ne condusse e menò quattrocento alsoldo del re, e con tutta questa cavalleria entròin Abruzzi. E mandò al re, che con la sua forzae con quella de’ baroni del Regno, i quali il reavea richiesti e ragunati a Napoli, venisse là,come era ordinato, per vincere messer CurradoLupo, e racquistare le terre d’Abruzzi che di làsi teneano per lo re d’Ungheria.

[236]

CAP. XXXIX.Come il re Luigi accolse i baroni del Regnoe andò in Abruzzi.

Il re Luigi sentendo come il gran siniscalcoavea con seco in Abruzzi que’ due buoni capitanicon ottocento cavalieri di buona gente, fu moltocontento, e avendo presa sicurtà che fra Morialeper la concordia ch’aveano non moverebbeguerra in Terra di Lavoro, si mosse da Napoli permare, e capitò incontanente a Castello a mare delVolturno, e tutta sua gente a piè e a cavallo feceandare per terra da Pozzuolo e per lo Gualdo aldetto Castello a mare, non fidando la gente suaper gli stretti passi d’Aversa e di Capua ch’eranoin guardia di fra Moriale: e seguendo di là loro cammino,del mese d’ottobre del detto anno s’accozzòin Abruzzi con la cavalleria accolta per lo gransiniscalco: e fatta fare la mostra, si trovò con undicimilacavalieri e con grande popolo. MesserCurrado Lupo avendo sentito l’oste che gli venivaaddosso, e non avendo gente da potere uscirea campo, mise guardia nelle terre che teneva inAbruzzi e ordinolle alla difesa, e con cinquecentocavalieri tedeschi bene montati e buoni dell’armesi mise in Lanciano. Il re poco provvedutodi quello che a mantenere oste bisognava, epovero di moneta, volendo usare l’aiuto degli amiciche quivi avea si mise a oste a Lanciano; edopo non molti dì, cavalcando messer Galeottoco’ suoi cavalieri intorno alla terra, messer Currado[237]Lupo uscì fuori con parte de’ suoi cavalierie percosse i nimici, e danneggiò molto la masnadadi messer Galeotto, e innanzi che dall’altraoste fosse soccorso si ritrasse in Lanciano a salvamento.Per questa cagione spaventato l’oste,considerando l’ardimento preso per li cavalieridi messer Currado, e che la terra di Lancianoera forte e bene guernita, e il verno veniva loroaddosso, per lo migliore presono consiglio e levaronsidall’assedio: e stando in dubbio di quellodovessono fare più dì, a messer Galeotto ea messer Ridolfo, non vedendo di poter fare utileservigio al re, rincrebbe lo stallo, presono congiòdal re e tornaronsi nella Marca, e i baroni delRegno feciono il simigliante. Il re con la sua genteinvilito e quasi disperato avendo animo di volereentrare nell’Aquila, gli fu detto non sene mettesse a pruova, perocchè non vi sarebbelasciato entrare, e scoprirebbe nimico messer Lalloche gli si mostrava fedele; e così rimaso il repieno di sdegno e voto di forza e d’avere, si tornòa Sulmona a mezzo dicembre del detto anno, eivi s’arrestò per trarre da’ paesani alcuno sussidio,e per fare in quella terra la festa del Natale.

CAP. XL.Come il re Luigi sostenne gli Aquilani chepasquavano con lui.

Vedendosi il re Luigi rotto da’ suoi intendimenti,e abbandonato del servigio degli amici, trovandosia Sulmona povero, si ristrinse nell’animo,[238]e diede opera di volere fare in Sulmona granfesta per lo Natale, e fece a quella invitare queigentiluomini e baroni circostanti che potè avere. ISulmontini il providono di moneta e d’altri doniper aiuto alla festa. Ciascuno si sforzò di comparirebene a quella festa, e intra gli altri principalifu invitato messer Lallo, il quale governavail reggimento dell’Aquila, e conoscendo la sua copertatirannia si dubitò d’andare al re, e infinsesid’essere malato, e sotto questa scusa ricusòl’andare alla festa. Per fare più accetta la sua scusaal re elesse quindici de’ maggiori cittadini d’Aquilacol suo fratello carnale, i quali portarono al reper dono da parte del comune dell’Aquila fioriniquattromila d’oro, e costoro mandò a festeggiarecol re: e giunti a Sulmona furono ricevuti dal regraziosamente, nonostante che si turbasse perchèmesser Lallo non v’era venuto. E fatto il corredoreale con piena festa, i cittadini dell’Aquila volendoprendere licenza dal re per tornare a casafurono ritenuti prigioni, della qual cosa il re fu fortebiasimato di mal consiglio, parendo a tutti piùopera tirannesca che reale. La novella corse in Aquila:il tiranno molto savio e buono parlatoreraccolse il popolo, e con argomenti di sua savia diceriainfiammò il popolo all’ingiuria, e mosseloall’arme e corse la terra, e ordinò la guardiacome se il re con l’oste vi dovesse venire, ma ilre non era atto a poterlo fare, e però si rimase,e messer Lallo più s’afforzò nella signoria.

[239]

CAP. XLI.Come papa Clemente sesto fe’ la pace de’ due re.

Stando il re Luigi in Sulmona maninconoso equasi in disperazione di suo stato, considerandocome in tutte cose la fortuna gli era avversa, e comecon abbassamento di suo onore gli avea fattefare cose non reali, ma di vile e mendace tiranno,e vedendosi povero e mal ubbidito, non sapevache si fare, e parevagli per la baldanza presape’ suoi avversari ch’elli dovessono ristrignerloo cacciare del Regno, e de’ suoi fatti da corte nonavea potuto avere alcuna speranza o novella chebuona fosse. Il papa Clemente in questo tempoera stato in una grande e grave malattia, nellaquale rimorso da coscienza di non avere capitatoil fatto tra i due re che gli era commesso, e diquesto sostenere era seguito danno e confusionedi molti, propuose nell’animo come fosse guaritodi capitare quella questione senza indugio, ecome fu sollevato mise opera al fatto; e per piùacconcio di quello reame, vedendo che il re d’Ungheriaavea l’animo al suo reame, ed era appagatodella vendetta fatta del suo fratello, deliberò,poichè avea deliberato la reina, che messer Luigifosse re: e questo pubblicò co’ suoi cardinali, e poiil mise a esecuzione, come appresso nel suo temporacconteremo. La novella venne improvviso alre Luigi a Sulmona, della qual cosa fu molto allegro:e confortato nel fondo della sua fortuna daquesta prosperità, di presente conobbe il suo[240]esaltamento per opera, che i baroni e’ comuni ilcominciarono ad onorare e a vicitare con doni egrandi profferte come a loro signore: e tornato a Napolicon grandi onori, stette in festa più dì tuttala terra delle buone novelle. Lasceremo al presentealquanto de’ fatti del Regno sollecitandocile novità di Toscana, delle quali prima ci convienefare memoria, per non travalicare il debitotempo della nostra materia.

CAP. XLII.Come messer Piero Saccone prese il Borgo asan Sepolcro.

Avendo messer Piero Saccone de’ Tarlati a Bibbienail conte Pallavicino con quattrocento cavalieridell’arcivescovo di Milano, e cento disuo sforzo per fare guerra, e standosi e non facendola,faceva maravigliare la gente, ma egli nelsoggiorno lavorava copertamente quello che prosperamentegli venne fatto. Il Borgo a san Sepolcro,terra forte e piena di popolo e di ricchi cittadini,e fornita copiosamente d’ogni bene da vivere,era nella guardia de’ Perugini con due casseriforniti alla guardia de’ castellani perugini e digente d’arme. Messer Piero aveva appo se unosuo fedele che aveva nome Arrighetto di sanPolo, questi era grande e maraviglioso ladro, e faceagrandi e belli furti di bestiame, traendo ibuoi delle tenute murate e guardate, e rompevatanto chetamente le mura, che niuno il sentiva,e di quelle pietre rimurava le porti a’ villani[241]di fuori sì contamente, che prima aveva dilungatele turme de’ buoi, e tratte per lo rotto del murodue o tre miglia, che i villani trovandosi muratele porti, e impacciati dalle tenebre della notte edalla novità del fatto, le potessono soccorrere;così n’avea fatte molte beffe, e accusatone di furto,messer Piero il difendea, e davagli ricetto intutta sua giurisdizione. Questi saliva su per li cautidelle mura e delle torri co’ suoi lievi argomentiincredibilmente, e quanto che fossono alte non sene curava, ed era dell’altezza maraviglioso avvisatore.Per costui fece messer Piero furare laforte e alta torre del castello di Chiusi alla moglieche fu di messer Tarlato. A costui scopersemesser Piero come volea furare il Borgo a Sansepolcro,e mandollo a provvedere l’altezza dellatorre della porta: il quale tornato disse, che glidava il cuore di montare in su la più alta torreche vi fosse; e avuta messer Piero questa risposta,s’intese con uno de’ Boccognani del Borgo egrande ghibellino, il quale odiava la signoria de’Perugini, e da lui ebbe, che se la porta e la torrefosse presa, e di fuori fosse forza di gente a cavalloe a piè grande, ch’egli con gli altri ghibellinid’entro verrebbono in loro aiuto a metterli dentro.E dato l’ordine tra loro, messer Piero concinquecento cavalieri e duemila pedoni un sabatonotte, a dì 20 del mese di novembre del dettoanno, improvviso a’ Borghigiani, innanzi il dì fupresso al Borgo; e mandato Arrighetto con certimasnadieri eletti in sua compagnia a prendere latorre e la porta, il detto Arrighetto con suoi incredibiliargomenti in quello servigio, cintosi corde,[242]e aiutato di non esser sentito per uno grandevento che allora soffiava, e avea ristrette le guardiesotto il coperto, montò in su la torre dellaporta, ed essendovi due sole guardie, si recò ilcoltello ignudo in mano, e mostrò d’avere compagnia,minacciandoli d’uccidere. Eglino storditiper la novità, non sapendo che si fare, stettonocheti per paura, e Arrighetto data la cordaa’ masnadieri ch’erano a piè del muro, con unascala leggieri di funi tirò su l’uno de’ capi e accomandolloa uno de’ merli, e incontanente montatisuso per quella l’uno appresso l’altro dodici masnadieri,e quando si vidono signori della porta, fecionoa quelli traditori d’entro certo segno ordinato.Quello de’ Boccognani veduto il segno come laporta era presa, fece sonare a stormo una campanad’una chiesa, al cui suono, come ordinato avea,tutti i ghibellini del Borgo furono all’arme etraevano verso la porta. I guelfi che non sapeanoil tradimento traevano storditi alla piazza senzaniuno capo; e schiarito il dì, vedendo aperta epresa la porta per i ghibellini, e sentendo comemesser Piero era di fuori con molta gente, nonvedevano da potere riparare; ma i ghibellini nonvolendo guastare la terra sicurarono i guelfi cheruberia non vi si farebbe, e senza contasto vi lasciaronoentrare messer Piero con tutta la sua gentee del conte Pallavicino, e non vi si diè colpo e nonvi si fece alcuna ruberia: e così messer Piero ne fusignore; ma le due rocche che erano forti e guardateper li Perugini si misono alla difesa, per attendereil soccorso de’ Perugini. Messer Piero e il contesenza prendere soggiorno con tutta la sua gente[243]a cavallo e a piè uscirono del Borgo, e accamparonsidi fuori dirimpetto alle rocche per torre la viaa’ Perugini, e fecionsi innanzi al loro campo fareun fosso di subito e uno steccato, e mandaronoa tutte le terre dov’avea gente d’arme del signoredi Milano che mandassero loro aiuto, e in pochidì vi si trovarono con ottocento cavalieri epopolo assai. E per impedire a’ Perugini, Giovannidi Cantuccio d’Agobbio con la cavalleriache avea del Biscione cavalcò sopra loro: nondimenoi Perugini turbati di questa perdita, procacciaronoda ogni parte aiuto per racquistarela terra, tenendosi i casseri, e di presente ebbonocinquecento cavalieri da’ Fiorentini: e conmillequattrocento cavalieri e con grande popolose ne vennono alla Città di Castello: e acconciandosiper soccorrere quelli de’ casseri, tantaviltà fu in coloro che gli aveano in guardia, chesenza attendere il soccorso così vicino s’arrenderonoa messer Piero; e incontanente quelli delcastello d’Anghiari cacciarono la guardia chev’era de’ Perugini, e dieronsi al vicario dell’arcivescovo,ed egli lo rendè a messer Masode’ Tarlati. In que’ dì il castello della Pieve asanto Stefano, e ’l Castello perugino, tenendosimal contenti de’ Perugini, anche si rubellaronoda loro.

CAP. XLIII.Come i Perugini arsono intorno al Borgo esconfissono de’ nimici.

I Perugini avendo perduta la speranza di soccorrerele rocche, cavalcarono al Borgo, e arsonlo[244]intorno guastando tutte le possessioni, e giàmesser Piero e ’l conte Pallavicino non ebbonoardire d’uscire della terra contro a loro: e fattoil guasto, si tornarono alla Città di Castello. MesserPiero preso suo tempo, con tutta la cavalleriach’avea nel Borgo cavalcò fino alle porti dellaCittà di Castello: i cavalieri che v’erano dentrode’ Perugini, e singolarmente quelli de’ Fiorentini,ch’erano buona gente d’arme e bene montati,uscirono fuori perchè i nimici aveano a farelunga ritratta, e seguitando i nimici quasi a mezzoil cammino, s’abbatterono in un grosso aguato:e ivi cominciò l’assalto aspro e forte,ove s’accolse la maggiore parte della gente dicatuna parte senza fanti a piede; e ivi dando ericevendo si fece aspra battaglia, e durò lungamente,perocchè catuno voleva mantenere l’onoredel campo; e non avendo pedoni chel’impedissono, feciono i buoni cavalieri grandepunga, e in fine per virtù di certi conestabilidella masnada de’ Fiorentini, ristringendosi insieme,con impetuoso assalto ruppono la cavalleriadi messer Piero, e a forza in isconfitta glicacciarono del campo, e rimasono morti sessantade’ loro cavalieri in sul campo e più cavalli, epresi sei de’ loro conestabili da’ cavalieri de’ Fiorentini,e messer Manfredi de’ Pazzi di Valdarno,e più altri cavalieri tedeschi e borgognoni,a’ quali tolsono l’arme e’ cavalli secondol’usanza, e lasciaronli alla fede: e questo fu delmese di dicembre del detto anno.

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CAP. XLIV.D’una cometa ch’apparve in oriente.

In questo anno 1351, del detto mese di dicembre,si vide in prima in cielo a noi versolevante una cometa, la quale per li più fu giudicataNigra, la quale è di natura saturnina. Ilsuo apparimento fu a noi all’uscita del segnodel Cancro, e alcuni dissono ch’ella entrò nelLeone: ma innanzi che per noi si vedesse fuoridel Cancro, fu fuori del verno, sicchè approssimandosiil Sole al Cancro se ne perdè la vista.Alcuni pronosticarono morte di grandi signori,ovvero per decollazione, e avvenimento di signorie.Noi stemmo quell’anno a vedere le novitàche più singolari e grandi apparissono ondeavere potessimo novelle, e in Italia e nel patriarcatod’Aquilea furono molte dicollazionidi grandi terrieri e cittadini, che lungo sarebbea riducere qui i singulari tagliamenti. E mortalitàdi comune morte in questo anno non avvenne:ma per la guerra de’ Genovesi, e Venezianie Catalani avvennono naufragii grandi, emortalità di ferro grandissima in quelle genti ene’ loro seguaci, e per i difetti sostenuti inmare non meno ne morirono tornando checombattendo. Avvenne in Italia singolare accidenteal grano, vino e olio e frutti degli alberi,che essendo ogni cosa in speranza di grandeubertà, subitamente del mese di luglio si mosseuna sformata tempesta di vento, che tutti gli[246]alberi pericolò de’ loro frutti, e i grani e le biadech’erano mature battè e mise per terra consmisurato danno. Dappoi a pochi dì fu il caldosì disordinato, che tutte le biade verdi inaridìe seccò. Per questo accidente avvenne, che doves’aspettava ricolta fertile e ubertosa, fu generalmenteper tutta Italia arida e cattiva. E avvennonoin questi anni singulari diluvi d’acque,che feciono in molte parti gran danni, e gittòper tutta Italia generale carestia di pane e sformatadi vino. In questo medesimo mese di dicembreapparve la mattina anzi giorno, a dì 17,un grande bordone di fuoco, il quale corse diverso tramontana in mezzodì. E in questo medesimoanno all’entrare di dicembre morì papaClemente sesto, e alcuno de’ cardinali. Al nostrolieve intendimento basta di questi segni del cieloe delle cose occorse averne raccontato parte, lasciandoagli astrolaghi l’influenza di quello ches’appartiene alla loro scienza, e noi ritorneremoalla più rozza materia.

CAP. XLV.Come fu preso il castello della Badia de’ Perugini,e come si racquistò.

Essendo i Perugini imbrigati nelle rubellionidelle loro terre per gli assalti de’ loro vicini,con la forza dell’arcivescovo di Milano, la qualedi prima, come addietro narrammo, nel tempo chesi cercò di fare lega con la Chiesa e co’ Lombardi,dicevano che non si potea stendere a[247]loro, due conestabili di fanti a piè cittadinisbanditi di Firenze, partendosi dal soldo del tirannod’Agobbio co’ loro compagni, di furtoentrarono nel castello della Badia, grosso castello,il quale era de’ Perugini, e cominciaronoa correre e predare le villate vicine con l’aiutodi Giovanni di Cantuccio signore d’Agobbio. IPerugini vi mandaro certe masnade di cavalieriche aveano di Fiorentini e altra gente a piè: costorovi si puosono a oste del mese di gennaio. Giovannidi Cantuccio con la cavalleria ch’avea dell’arcivescovodi Milano e co’ suoi fanti a piè, essendotre cotanti di cavalieri e di fanti che quellide’ Perugini, andarono per levarli da campoe fornire il castello. Un conestabile tedesco dellemasnade de’ Fiorentini valente cavaliere, ch’aveanome M... si fece incontro a’ nimici a unponte onde conveniva ch’e’ nimici venissono, efrancamente li ritenne, tanto che l’altra cavalleriade’ Perugini ch’era alla Città di Castello venneal soccorso del passo: e giunti, valicarono il ponte,e per forza cacciarono l’oste di Giovanni diCantuccio in rotta, e presono cento e più de’ cavalieridel Biscione: e tornati al castello, i masnadieriche ’l teneano, vedendosi fuori di speranzadi avere soccorso, il renderono a’ Perugini, salvole persone e l’arme, a dì 6 del detto mese digennaio.

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CAP. XLVI.Come i Fiorentini cercarono lega co’ comunidi Toscana, e accrebbono loro entrata.

Temendo il comune di Firenze la gran potenzadel signore di Milano, fornito della compagniade’ ghibellini d’Italia, con suoi ambasciadorismosse i Perugini Sanesi e Aretini a parlamentoalla città di Siena, del mese di dicembre deldetto anno, e ivi composono lega e compagnia ditremila cavalieri e di mille masnadieri, contraqualunque volesse fare guerra a’ detti comuni o adalcuno di quelli; e incontanente il comune di Firenzesi fornì di cavalieri e di masnadieri di piùassai che in parte della lega non li toccava. E peravere l’entrata ordinata a mantenere la spesa elessonoventi cittadini, con balìa a crescere l’entratae le rendite del comune, i quali commutaronoil disutile e dannoso servigio de’ contadini personalein danari, compensandoli che pagassonoper servigio di cinque pedoni per centinaio delloro estimo per rinnovata dell’anno, a soldi dieciil dì per fante: e questo pagassono in tre paghel’anno, e fossono liberi dell’antico servigiopersonale: o quando per necessità occorresse ilbisogno del servigio personale, scontassono diquesto. E questa entrata secondo l’estimo nuovomontò l’anno cinquantaduemila fiorini d’oro, efu grande contentamento de’ condannati. E a’ chericiordinarono certa taglia per aiuto e guardia ealla difesa della città e del contado, la quale stribuirono[249]e raccolsono i loro prelati, e montò fiorini ...d’oro; e raddoppiarono e crebbono più gabelle,per le quali entrate il comune potè spenderel’anno trecentosessantamila fiorini d’oro.E oltre a ciò ordinarono e distribuirono tra’ cittadinila gabella de’ fumanti, la quale nel fattofu per modo di sega, che catuno capo di famigliafu tassato in certi danari il dì per modo, che raccogliendosiil numero montava fiorini d’oro centoquarantail dì: poi per ogni danaro che l’uomoavea di sega, fu recato in estimo di soldi trenta;e questa gabella montava l’anno fiorinicinquantamila d’oro: e quando il comune avevanecessità, riscoteva questa gabella per avere i danaripresti, e assegnavali alla restituzione di certegabelle. Per queste sformate gravezze, avendocarestia generale delle cose da vivere, era la cittàe il contado in assai disagio, forse meritevolmenteper la dissoluta vita, e’ disordinati e nonleciti guadagni de’ suoi cittadini.

CAP. XLVII.Come i Romani feciono rettore del popolo.

In questo anno essendo per lo corso stato a Romadel general perdono arricchito il popolo, iloro principi e gli altri gentilotti cominciarono aricettare i malandrini nelle loro tenute, che facevanoassai di male, rubando, e uccidendo, e conturbandotutto il paese. Senatore fu fatto Giordanodal Monte degli Orsini, il quale reggeval’uficio con poco contentamento de’ Romani. E[250]per questa cagione gli fu mossa guerra a un suocastello, per la quale abbandonò il senato. Il vicariodel papa ch’era in Roma, messer Ponzo diPerotto vescovo d’Orvieto, uomo di grande autorità,vedendo abbandonato il senato, con la famigliache aveva, in nome del papa entrò in Campidoglioper guardare, tanto che la Chiesa provvedessedi senatore. Iacopo Savelli della parte diquelli della Colonna accolse gente d’arme, e perforza entrò in Campidoglio e trassene il vicariodel papa, e Stefano della Colonna occupò la torredel conte, e la città rimase senza governatore, ecatuno facea male a suo senno perocchè non v’eraluogo di giustizia. E per questo il popolo era inmale stato, la città dentro piena di malfattori, efuori per tutto si rubava. I forestieri e i romeierano in terra di Roma come le pecore tra’ lupi:ogni cosa in rapina e in preda. A’ buoni uominidel popolo pareva stare male, ma l’uno s’era accomandatoall’una parte, e l’altro all’altra diloro maggiori, e però i pensieri di mettervi consiglioerano prima rotti che cominciati: e la cosaprocedeva di male in peggio di dì in dì. Ultimamentenon trovando altro modo come a consiglioil popolo si potesse radunare, il dì dopo lanatività di Cristo, per consuetudine d’una compagniadegli accomandati di Madonna santa Maria,s’accolsono avvisatamente molti buoni popolaniin santa Maria Maggiore, e ivi consigliaronodi volere avere capo di popolo: e di concordiain quello stante elessono Giovanni Cerroni anticopopolare de’ Cerroni di Roma, uomo pienod’età, e famoso di buona vita. E così fatto, tutti[251]insieme uscirono della chiesa e andarono per lui,e smosso parte del popolo, il menarono al Campidoglioov’era Luca Savelli. Il quale vedendoquesto subito movimento non ebbe ardire dicontastare il popolo, ma dimandò di loro volere:ed e’ dissono che voleano Campidoglio, il qualeliberamente diè loro; ed entrati dentro sonaronola campana: il popolo trasse al Campidogliod’ogni parte della città senza arme, e i principicon le loro famiglie armati, ed essendo là, domandaronola cagione di questo movimento e quelloche ’l popolo volea: il popolo d’una voce risposonoche voleano Giovanni Cerroni per rettore,con piena balía di reggere e governare in giustiziail popolo e comune di Roma. E consentendoi principi all’ordinazione del popolo, di comunevolontà fu fatto rettore; e mandato per lo vicariodel papa che lo confermasse, come savio e discretovolle che prima giurasse la fede a santa Chiesa,e d’ubbidire i comandamenti del papa, e ricevutodi volontà del popolo il saramento dal rettore,il confermò per quell’autorità che aveva:e tutto fu fatto in quella mattina di santo Stefano,innanzi ch’e’ Romani andassono a desinare.E lasciato il rettore in Campidoglio, catuno sitornò a casa con assai allegrezza di quello ch’eraloro venuto fatto così prosperamente.

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CAP. XLVIII.Di una lettera fu trovata in concistorodi papa.

Essendo per lo papa e per i cardinali molto trattoinnanzi il processo contro al’arcivescovo diMilano, una lettera fu trovata in concistoro, laquale non si potè sapere chi la vi recasse, ma unode’ cardinali la si lasciò cadere avvisatamente inocculto: la lettera venne alle mani del papa, e la feceleggere in concistoro. La lettera era d’alto dittato,simulata da parte del principe delle tenebre alsuo vicario papa Clemente e a’ suoi consiglieri cardinali:ricordando i privati e comuni peccati di catuno,ne’ quali li commendava altamente nel suocospetto, e confortavali in quelle operazioni, acciocchèpienamente meritassono la grazia del suoregno: avvilendo e vituperando la vita povera ela dottrina apostolica, la quale come suoi fedelivicari eglino aveano in odio e ripugnavano, manon ferventemente ne’ loro ammaestramenti comenell’opere, per la qual cosa li riprendeva eammoniva che se ne correggessono, acciocchè liponesse per loro merito in maggiore stato nel suoregno. La lettera toccò molto e bene i vizi de’ nostripastori di santa Chiesa, e per questo moltecopie se ne sparsono tra’ cristiani. Per molti futenuto fosse operazione dell’arcivescovo di Milanoallora ribello di santa Chiesa, potentissimotiranno, acciocchè manifestati i vizi de’ pastorisi dovessono più tollerare i suoi difetti, manifesti[253]a tutti i cristiani. Ma il papa e i cardinali pocose ne curarono, come per innanzi l’operazionisi dimostreranno.

CAP. XLIX.Come il re d’Inghilterra essendo in tregua colre di Francia acquistò la contea diGuinisi.

Avvenne in questo anno, che un Inghilese prigionenella forte rocca di Guinisi, la quale eradel re di Francia, essendo per ricomperarsi, avealarghezza d’andare per la rocca, e così andando,provvide l’ordine delle guardie e l’altezza d’alcunaparte della rocca ond’ella si potesse furare. Epagati i danari della sua taglia, fu lasciato; e trovatosicon alquanti sergenti d’arme, suoi confidenti,disse ove potesse avere il loro aiuto glifarebbe ricchi. E presa fede da loro manifestòcome intendea furare la rocca di Guinisi, e aveaprovveduto come fare il poteva, i quali arditi evolonterosi di guadagnare promisono il servigio:ed essendo tra tutti cinquanta sergenti bene armati,avendo scale fatte alla misura del primoprocinto, una notte in su l’ora che l’Inghilese sapeache la guardia della mastra fortezza vi si rinchiudeadentro, condotte le scale al muro chetamentemontarono sopra il primo procinto: esorprese le guardie, per non lasciarsi uccidere silasciarono legare, e così legati gli faceano rispondereall’altre guardie della rocca. Quando vennein sul fare del dì gl’Inghilesi feciono alle[254]guardie muovere riotta, e fare romore tra loroin modo di mischia. Il castellano sentendo questotra le guardie, mostrando non avere sospettoscese della rocca, e aprendo l’uscio per venirea correggere le guardie, gl’Inghilesi apparecchiatinell’aguato, immantinente con l’armi ignudein mano furono sopra lui, e presono l’uscio ed entrarononella rocca, e presono il castello e le guardie.E incontanente mandarono al re d’Inghilterracome aveano presa la forte rocca di Guinisi,la quale il re molto desiderava. E di presente vimandò gente d’arme e fecela prendere e guardare,e commendata la valenza e l’industria del suofedele e degli altri scudieri fece loro onore e provvideglimagnificamente. E per questa rocca fu ilre d’Inghilterra in tutto signore della contea diGuinisi, e il re di Francia forte conturbato. E avvegnachèquesta presura andasse per la forma cheè detto, e’ si trovò poi che il castellano avea consentitoal tradimento, e tornato di prigione, essendolasciato, in Francia fu squartato.

CAP. L.Il piato fu in corte tra’ due re per la contea diGuinisi.

Essendo furata la contea di Guinisi al re di Franciasotto la confidanza delle triegue, trasse in giudicioil re d’Inghilterra a corte di Roma per suoiambasciadori, dicendo che sotto la fede delle triegueprestata il re d’Inghilterra gli avea toltoper furto la rocca, e la contea occupata per forza.[255]Per la parte del re d’Inghilterra fu risposto, cheavendo per suo prigione il conte di Guinisi conestabiledi Francia preso in battaglia, e dovendosiriscattare per lo patto fatto della sua taglia scudiottantamila d’oro, o in luogo di danari la dettacontea di Guinisi, e lasciato alla fede acciocchèprocacciare potesse la moneta, il re di Franciaappellandolo traditore, per non averlo a ricomperare,o acconsentirgli la contea di Guinisi il fecedicollare: e così contro a giustizia privò il red’Inghilterra delle sue ragioni, le quali giustamenteavea racquistate. La quistione fu grandein concistoro, e pendeva la causa in favore del redi Francia, e però innanzi che sentenza se nedesse, il re fece restituire la terra di Guinisi aquell’Inghilese che data glie l’avea; e seguendola morte di papa Clemente non ne seguì altrasentenza.

CAP. LI.Come l’arcivescovo di Milano ragunò i suoisoldati per rifare guerra a’ Fiorentini.

In questo tempo del verno, avendo l’arcivescovodi Milano fatte rivedere e rassegnare le suemasnade tornate da Firenze, trovò ch’aveva a fareammenda di bene milledugento cavalli. E turbatoforte nel suo furore, propose di fare al primo tempomaggiore e più aspra guerra a’ Fiorentini. E trovandoche avea consumato senza acquisto grandetesoro, volendolo rifare senza mancare la sua generaleentrata, fece nuova colta in Milano e in tutte[256]le sue terre per sì grave modo, che tutti i mercatantisi ritrassono delle loro mercatanzie nellesue terre: nondimeno a catuno convenne portarela soma che gli fu imposta; per la quale gravezzaaccrebbe cinquecento migliaia di fiorini d’orosopra le sue rendite ordinarie in piccolo tempo.In queste oppressioni molti parlavano biasimandol’impresa contro al comune di Firenze, e rimproveravanoquello che avea fatto loro il vile castellettodella Scarperia per provvisione del comunedi Firenze, essendovi intorno la forza de’ Lombardie de’ ghibellini di Toscana. E in tra gli altriun cavaliere bresciano di grande età, amicoe fedele alla casa de’ Visconti, biasimò l’impresa,dicendo semplicemente il vero, come aveva ricordodi lungo tempo, che qualunque signore aveaimpreso di far guerra al comune di Firenze n’eramal capitato, però per amore che aveva al suo signorenon lodava l’impresa. Le parole del cavalierefurono rapportate all’arcivescovo; il tiranno inacerbito,non considerando la fede dell’anticocavaliere, seguitando l’impetuoso furore del suoanimo, mandò per lui. E venuto nella sua presenza,il domandò s’egli aveva usate quelle parole.Il cavaliere disse, che dette l’avea per grande amoree fede ch’avea alla sua signoria, ricordandosidell’imperadore Arrigo, e dell’impresa dimesser Cane della Scala e degli altri che non eranobene capitati. Il tiranno infiammato nel suo disordinatoappetito, di presente fece armare un suoconestibile con la sua masnada, e accomandogli ilcavaliere, e disse il rimenasse in Brescia, e in sul’uscio della sua casa gli facesse tagliare la testa,[257]e così fu fatto. Costui per la sua fede degno dipremio e per l’utile consiglio ricevette pena, laquale soddisfece colla sua testa all’appetito delturbato tiranno.

CAP. LII.Come i Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi mandaronoambasciadori a corte.

Stando le città di Toscana in gran tema di futuraguerra, i comuni della lega di parte guelfamandarono al papa e a’ cardinali solenne ambasciata,a inducere la Chiesa contro alla grandetirannia dell’arcivescovo di Milano per aggravareil processo che contro a lui si faceva, e procurarel’aiuto e il favore di santa Chiesa alla lorodifesa. Gli ambasciadori furono ricevuti dal papae da’ cardinali graziosamente. Ma innanziche questi ambasciadori fossono a corte, l’arcivescovov’avea mandati i suoi, per riconciliarsicolla Chiesa, e fare annullare il processo fattocontro a lui per l’impresa di Bologna, i qualiambasciadori erano forniti di molti danari contantiper spendere e donare largamente; e facendolocon molta larghezza aveano il favore delre di Francia, che faceva parlare per lui, e quellodi molti cardinali, e de’ parenti del papa e dellacontessa di Torenna, per cui il papa si moveamolto alle gran cose. E il papa medesimo aveagià l’ingiuria fatta a santa Chiesa per l’arcivescovodella tolta di Bologna temperata, ed eradisposto a prendere accordo coll’arcivescovo: e[258]per questo fu molto più contento della venutadegli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana,credendo fare l’accordo dell’arcivescovo di lorovolontà; perocchè nel primo parlamento disseagli ambasciadori: eleggete delle tre cose che io viproporrò l’una, quale più vi piace, o volete pacecoll’arcivescovo, o volete lega colla Chiesa,o volete la venuta dell’imperadore in Italia pervostra difesa. L’offerte furono larghe per conchiuderealla pace che parea più abile e migliore. Gliambasciadori savi e discreti di concordia rimisonola detta elezione nel papa, a fine di farlo piùpensare nel fatto dandoli gravezza, dimostrandogrande confidanza nella deliberazione. E cosìcominciata la cosa a praticare ebbono tempo ecagione gli ambasciadori d’avvisare i loro comuni,e in questo si soggiornò la maggior parte delverno senza uscirne alcun frutto. Lasceremo alquantogli ambasciadori e ’l processo del papa, etorneremo agli altri fatti che occorsono in questosoggiorno, rendendo a catuno suo diritto.

CAP. LIII.Come l’ammiraglio di Damasco fece novitàa’ cristiani.

In questo tempo l’ammiraglio del soldano chereggeva la gran città di Damasco si pensò ditrarre un gran tesoro da’ cristiani di Damasco persua malizia, e una notte fece segretamente metterefuoco in due parti della città, il quale fece inDamasco grave danno. Spento il fuoco, l’ammiraglio[259]fece apporre che questo era stato avvistatamentemesso pe’ cristiani, e richiese i più ricchi cristianidella città, che ve n’avea assai, e feceli martoriare,e per martorio confessarono che fatto l’aveanoa fine di cacciare i saracini: e coloro che di questopericolo vollono campare la vita gli dierono danariassai; e tanti furono coloro che si ricomperarono,che l’ammiraglio ne trasse gran tesoro: agli altridiede partito o che rinnegassono la fede di Cristoo che morissono in croce. Una gran parte di loroper corrotta fede rinnegò per campare; rimasonneventidue, i quali diliberarono di morire in croce,innanzi che la perfetta fede di Cristo volessonorinnegare. E però il crudele ammiraglio li fecemettere in sulle croci, e ordinolli in suso i cammelliche li conducessono per la terra, e in questotormento vivettono tre dì. Ed era menato il padrecrocifisso innanzi al figliuolo, e il figliuoloinnanzi al padre rinnegato; e i rinnegati conpianto e con preghiere pregavano i crocifissi chevolessono campare la crudele morte e tornare allafede di Maometto; ma i costanti fedeli, il padrespregiava il figliuolo rinnegato, dicendo che nonera suo figliuolo, e il figliuolo il padre rinnegato,dicendo che non era suo padre, ma del nimicoche ’l volea tentare e torli i beni di vita eterna:e molto biasimavano a’ rinnegati la loro incostanzaper la paura della pena temporale, dicendoche a loro era diletto e gran grazia potere seguitareCristo loro redentore. E così consumate le lorotemporali vite in grave tormento e in grandissimacostanza, nella veduta per tre dì de’ saracinie de’ cristiani, renderono l’anime a Dio.[260]Il soldano sentì il movimento reo del suo ammiraglio,mandò incontanente per lui, e fecelotagliare per mezzo.

CAP. LIV.Come i Fiorentini disfeciono terre diMugello.

In questo medesimo tempo, di verno, i Fiorentinimandarono certi loro cittadini per lo contadoa provvedere le loro castella e terre, a fine diafforzare le parti deboli, e fornire le terre di ciòch’alla difesa mancasse per averle guernite, sopravvenendola guerra che s’aspettava del Biscione.Avvenne, come è usanza del nostro comune,acciocchè il buon consiglio non fosse senza difettodi singolare ovvero cittadinesco odio, che nelMugello furono per loro fatte disfare alquante tenuteforti e utili alla difesa di quello contado permodo, che dove state non vi fossono, era utile consiglioa porlevi di nuovo. E feciono abbattere Barberino,Latera, Gagliano e Marcoiano, ch’erano alMugello mura contra i nimici di verso Montecarelli,e di Montevivagni e delle terre degli Ubaldini,ove in que’ tempi si faceva capo pe’ nimicia fare guerra al nostro comune, le quali tenutecon piccola spesa d’afforzamento erano gransicurtà a tutto il Mugello, per le cui rovine s’accrebbecampo a’ nimici senza contasto di più di seimiglia di nostro contado, il quale tutto s’abbandonò,a danno e vergogna del nostro comune. Riprensionecomune ne seguitò a coloro che così[261]mala provvisione feciono, altro gastigamento no,per la corrotta usanza del comune di Firenze dinon punire le cose mal fatte, nè meritare lebuone.

CAP. LV.Come la Scarperia fu furata e racquistata.

Facendo il comune di Firenze con molta sollecitudineafforzare il castello della Scarperia digrandi fossi e di forti palancati, il tiranno e gliUbaldini con ogni sottigliezza d’inganno tentavanodi procacciare ridotto nel Mugello, e sopratutto di levarsi l’onta della Scarperia, e continovocercavano come la potessono furare: per la qualcosa corruppono più loro fedeli mandandoli peressere manovali, come se fossono Mugellesi, e alcunomaestro. E messi al lavorio del votare ilfosso, del quale si portava la terra al palancato peralzare la parte dentro, costoro provvidono la viaonde la terra si portava: e segretamente tra ledue terre segarono alcuni legni del palancato, edierono la posta agli Ubaldini: i quali di presentefeciono scendere gente a cavallo e a piè a Montecarelli,e alla Sambuca, e a Pietramala, e nell’alpee nel Podere, per dare diversi riguardi a’Fiorentini, e seppono come pochi dì innanzi i soldatiche guardavano la Scarperia aveano fatto mischiaco’ terrazzani, e mortine parecchi, onde tra’terrazzani e’ forestieri era sconfidanza grande. Lanotte che ordinata fu a questo servigio scesonodell’alpe e da Montecarelli nel piano di Mugelloduemilacinquecento fanti, e quattro bandiere[262]di cento cavalieri a guida degli Ubaldini. Costoroelessono dugentocinquanta i più pregiati brigantidi tutta quella gente con dieci bandiere, econestabili molto famosi d’arme, e lasciati gli altrifanti e cavalieri riposti ivi presso per loro soccorso,chetamente guidati per la via provveduta del fossodalla parte di Sant’Agata, e senza esser sentiti,entrarono tutti nella Scarperia a dì 17 di gennaiodel detto anno: e stretti insieme si condussonoin su la piazza, gridando, muoiano i forestieri,e vivano i terrazzani. E in quella nottenon avea nella Scarperia tra forestieri e terrazzanicentocinquanta uomini d’arme, sicchè al tutton’erano signori i nimici. Sentendo questo romorenella scurità della notte i soldati forestieri,credettono che i terrazzani li volessono offendere,e non ardivano d’uscire delle case, e i terrazzanitemeano de’ soldati, pensando che fosse in sula piazza inganno, e non voleano uscire fuori, e cosìi nimici non aveano contasto; e dove Iddio persingolar grazia non avesse liberato quella terra,senza speranza di soccorso umano era perduta.Ma la volontà di Dio fu, che la grande potenzadel tiranno non avesse quello ridotto a consumazionedel nostro paese; onde a coloro ch’aveanopresa la terra, e che aveano presso a un migliotutta la loro gente tolse l’accorgimento, chenon lasciassono guardia al passo ond’erano entrati,e non feciono il segno ordinato a quellidi fuori; e diede Iddio baldanza manifesta aque’ d’entro e accorgimento, perocchè per la vistascura i terrazzani conobbono all’insegne che colorodalla piazza erano nemici: e incontanente assicurarono[263]i conestabili de’ forestieri che v’erano, perpaura che quella gente nè quelle grida non eranoper loro fattura, ma de’ nimici ch’erano nellaterra. Come i valenti masnadieri sentirono la veritàdel fatto, ragunati insieme meno di cinquantatra terrazzani e forestieri, gridando alla mortealla morte, sì fedirono tra’ nimici, che lungamenteerano stati ammassati in su la piazza, e nel primoassalto senza fare resistenza li ruppono, cacciandolicome se fossono stati altrettanti montoni; esenza attendere l’uno l’altro, affrettando d’uscireper lo luogo stretto ond’erano entrati, e’ cadeanonel fosso, e voltolavansi per quelle ripe.Que’ d’entro erano pochi, e però non ve ne poteronouccidere più di cinque, e dodici ne ritennonoa prigioni, tra’ quali furono conestabili di pregio,che ’l signore avrebbe ricomperati molti danari,ma tutti furono impiccati. Que’ di fuoriche attendeano il segno per entrare dentro sentendola tornata in rotta, senza attendere il giornochiaro, innanzi che la novella si spandesseper il Mugello, si ricolsono nell’alpe a salvamento;e così in una notte fu presa e liberata laScarperia con dubbia e maravigliosa fortuna.

CAP. LVI.Come messer Piero Sacconi cavalcò con millebarbute infino in su le porte di Perugia.

Del mese di febbraio del detto anno, cresciutagente d’arme a messer Piero Sacconi de’ Tarlatidall’arcivescovo di Milano, trovandosi baldanzoso[264]per la presa del Borgo a san Sepolcro e delle terrevicine, e trovando i signori di Cortona ch’aveanorotta pace a’ Perugini, ed eransi collegati col Biscione,se n’andò a Cortona con mille cavalieri,e da’ Cortonesi ebbono il mercato e gente d’arme,con la quale cavalcò sopra il contado di Perugia,ardendo e predando le ville d’intorno allago; e per forza presono Vagliano e arsonlo, e combatteronoCastiglione del Lago e non lo poteronoavere; e partiti di là se n’andarono fino pressoa Perugia facendo grandissimi danni. E nonessendo i Perugini in concio da potere ripararea’ nemici, fatta grande preda, senza contasto siritornarono a Cortona sani e salvi, e di là al Borgoa san Sepolcro, onde partirono e venderonola loro preda. Per questa cagione grande sdegnopresono i Perugini contro a’ signori di Cortona,ma la baldanza dell’arcivescovo gli aveva sì gonfiatidi superbia, che non si curavano romperepace nè fare ingiuria a’ loro vicini, per la qualcosa poco appresso ricevettono quello che aveanomeritato per la loro follia, come ne’ suoi tempiracconteremo.

CAP. LVII.Come i Chiaravallesi di Todi vollono ribellarela terra e furono cacciati.

Questa sfrenata baldanza de’ ghibellini di Toscanae della Marca per la forza del Biscione faceagravi movimenti, tra’ quali, mentre chemesser Piero Sacconi guastava e predava il contado[265]di Perugia, i Chiaravallesi grandi cittadinidi Todi, d’animo ghibellino, feciono venire ilprefetto di Vico con trecento cavalieri subitamenteper metterlo in Todi, e cacciarne i caporali guelfiche s’intendeano co’ Perugini; ed essendo ilprefetto con la detta cavalleria già presso allacittà di Todi, il popolo e’ guelfi scoperto il trattatode’ Chiaravallesi, di subito presono l’armee corsono sopra i traditori: i quali essendosi piùfidati alla venuta del prefetto che provvedutid’aiuto dentro all’assalto del popolo, non ebbonoforza a ributtarlo, ma francamente sostennonola battaglia, consumando il rimanente deldì nella loro difensione. I Perugini che tosto sentironola novella vi cavalcarono prestamente, sicchèla notte furono alla porta. Il popolo per metterlinella terra spezzarono una porta, che giànon erano signori d’aprirla, ed entrati i Peruginiin Todi, e fatto giorno, i Chiaravallesi furono costrettid’uscire della città co’ loro seguaci, e fuggendotrovarono assai di presso il prefetto collasua gente che veniva a loro stanza, i quali co’ cacciatiinsieme vituperosamente si tornarono indietro,e la città rimase a più fermo stato di popoloe di parte guelfa col favore de’ Perugini in suo riposo.

CAP. LVIII.Come que’ da Ricasoli rubellaronoVertine a’ Fiorentini.

Era in questi dì questione non piccola tra’ consortidella casa da Ricasoli per cagione della pieve[266]di san Polo di Chianti, che essendo il piovanoin decrepita età ammalato, temendo i figliuolid’Arrigo e il Roba da Ricasoli, che per maggioranzadello stato messer Bindaccio da Ricasolie’ figliuoli non occupassono la detta pieve,pervennono ad accuparla contro la riformagionedel comune di Firenze, onde furono condannatinella persona a condizione; il Roba ubbidì,e fu prosciolto: i figliuoli d’Arrigo, avvegnachèrestituissono al comune la possessione, non essendoloro attenuto quello che però fu loro promessodal comune, rimasono in bando; e sdegnati di questaingiuria, sapendo che molta roba de’ loro consortiera ridotta nel castello di Vertine, accolsonocentocinquanta fanti masnadieri, ed entrarononel castello, che non si guardava, e di presentel’afforzarono: e corsono per le villate d’attorno, emisono nel castello molta roba, e gli abituri e casede’ loro consorti arsono e guastarono. Il comunedi Firenze vi feciono cavalcare il podestà con certemasnade di cavalieri e di pedoni, stimando checontro al comune non facessono resistenza: mai giovani trovandosi in luogo forte e bene guerniti,e la forza del Biscione di presso, di cuiil comune forte temeva, e favoreggiati da Giovannid’Ottolino Bottoni de’ Salimbeni di Siena,pensarono di tenere il castello per forza, tantoche il comune di Firenze per riaverlo farebbonola loro volontà: e però si misono a ribellione. Ealla loro follia aggiunse il tempo aiuto, che all’entratadi febbraio caddono nevi grandissimel’una dopo l’altra, che stettono sopra la terra oltreall’usato modo tutto il detto mese per tale maniera,[267]che tale era a cavalcare il contado di Firenzecome le più serrate alpi. Lasceremo Vertinetra le nevi nella sua ribellione, traendoci altramaggiore materia in prima a raccontare.

CAP. LIX.Come i Veneziani e’ Catalani furono sconfittiin Romania da’ Genovesi.

Avendo in parte narrato lo sboglientamentodelle guerre e delle seduzioni italiane, benchè cipartiamo del paese, ci accade a raccontare le marinebattaglie che gl’Italiani medesimi fecionoin Romania tra loro. Era l’armata de’ Genovesidi sessantaquattro galee presso a Pera sopra ilpasso di Turchia, e ivi stavano per riguardo chel’armata de’ Veneziani e Catalani non passassonoin Costantinopoli, acciocchè non si aggiugnessonoforza dall’imperadore ch’era in lega con loro. IVeneziani e’ Catalani avendo soggiornato gran partedel verno a Modone e Corone in Turchia, e riparateloro galee, si trovarono con sessantasettegalee bene armate, e con aiuto di molti legni ebarche armate di loro sudditi e di certi Turchi,avendo volontà d’essere a Costantinopoli, doves’accrescerebbe la loro forza e per mare e per terra,senza attendere che il verno valicasse si misonoa navicare verso Costantinopoli, a intenzionedi combattere co’ Genovesi se impedire glivolessono. I Genovesi con le sessantaquattro galeearmate, avendo per ammiraglio messer PaganinoDoria, e stando solleciti alla guardia per[268]attendere i loro nemici, mandarono a dì 7 difebbraio due galee a Gallipoli per avere linguadi loro nemici, e quel dì trovarono che l’armatade’ Veneziani e Catalani entravano all’isolade’ Principi. Come i Genovesi ebbono questa novellasi mossono per andare loro incontro, e per forzad’impetuoso vento furono portati indietro alporto di san Dimitrum verso Peschiera, dove stettonofino al lunedì, a dì 13 di febbraio. E partitidi là con grande fatica, tornarono al passo di Turchia.In questo mezzo tornarono le due galee confesta ch’aveano seguita una galea de’ Veneziani eaveanla fatta dare in terra, e campati gli uomini,la galea aveano arsa e profondata; allora tutte legalee insieme si misono da capo per andare controa’ nemici, e poco avanzato di mare per locontrario tempo, scopersono alla uscita di Principil’armata de’ Veneziani e Catalani che facevanola via verso Grecia con grosso mare e molto ventoin poppa. I Catalani e’ Veneziani com’ebbonoscoperti i loro nimici genovesi, si dirizzaronoverso loro colle vele piene per combattere,conoscendo il vantaggio che aveano per l’aiutodel vento e del mare, e passare in Costantinopolia loro contradio. I Genovesi veggendosi venireaddosso i nimici con le vele piene si ristrinsonoinsieme sopra la Turchia, e ritennonsi daparte a modo d’una schiera, per cessare e lasciarepassare l’impeto de’ nimici, temendo dellapercossa delle loro galee aiutate dalla forza delvento e del mare. E come le galee veneziane ecatalane passando vennono al pari delle poppedelle galee de’ Genovesi, i Genovesi si sforzarono[269]per ingegni e per forza d’arme traversarnee ritenerne alcuna, ma non ebbono podere, tantoera forte il corso di quelle. E così i Venezianie’ Catalani con le loro galee e co’ loro navili armativalicarono a Valanca lasciandosi addietrol’armata de’ Genovesi, e aggiuntosi otto galee armatedi gente greca dell’imperadore di Costantinopoli,si trovarono settantacinque galee e moltilegni armati. Le sessantaquattro galee de’ Genovesiper lo traversare che aveano voluto fare,avendo i marosi e ’l vento contrario, erano scerratee sparte, e vedendosi disordinati, e con gliavversari passati, intendeano a raccogliersi insiemesenza seguire i nimici per riducersi nel portodi san Dimitrum. I Veneziani e’ Catalani che sitrovarono valicati per forza, e accresciuta la loropotenza, vedendo che i Genovesi non venianoverso di loro, e ch’aveano le galee sparte e maleordinate a potere sostenere la battaglia, presonosubitamente partito di tornare loro addosso sperandoavere piena vittoria. E dato il segno a tuttal’oste, si dirizzarono per forza di remi, avendoil mare contradio, a venire sopra le galeede’ Genovesi, le quali non erano ancora potuteraccogliersi insieme. Ma vedendo che tutto lostuolo de’ Veneziani, e Catalani e Greci eranorivolti per venire loro addosso, catuna parte dellaloro armata, secondo che le galee genovesi sitrovarono insieme, non potendosi ristrignere nèraccozzarsi al loro ammiraglio, come uomini digrande cuore e ardire s’ordinarono alla loro difesa,sempre avendo riguardo e dando opera d’accostarsial loro capitano, ma la traversa del mare[270]e la fortuna forte l’impediva. L’ammiraglioa tutte le galee che avea appresso di se fece trarrel’ancore, e ritrarsi alquanto fuori delle grossemaree, e dirizzossi contro a’ suoi nimici con la suagalea grossa e con sette altre che avea in suacompagnia; e date le prode contro a’ nimici, fecionotesta. Il capitano delle galee veneziane equello delle catalane, con seguito di gran partedella loro armata, si trassono innanzi, avendocontrario il mare, per assalire i loro nimici. IGenovesi vedendoli venire, mandarono loro incontrodue delle loro galee sottili per assaggiarlecon le loro balestra, e cominciare lo stormo a mododi badalucco. Il capitano de’ Catalani s’avanzòinnanzi, e quello de’ Veneziani appresso, perinvestire la galea dell’ammiraglio de’ Genovesi,ma trovandole serrate e bene in concio, non leinvestirono, e non si afferrarono con loro, o percodardia, o per maestria di tramezzare l’altre galeede’ Genovesi innanzi che si raccogliessono alloro ammiraglio: ma dietro a loro tre grossede’ Veneziani si misono a combattere la galeadell’ammiraglio di Genova, e l’altre galee controquelle ch’erano in diverse parti del mare; ecominciata da ogni parte l’aspra battaglia tral’una armata e l’altra, le due grosse de’ Venezianisi misono per proda e una per banda acombattere la sopra galea dell’ammiraglio de’ Genovesi.Quivi fu lunga e aspra e grande battaglia,perocchè d’ogni parte s’aggiunsono galee a quellostormo, e quivi furono molti fediti e morti dacatuna parte; e valicato l’ora del vespero, per logrande aiuto delle galee de’ Genovesi che soccorsono[271]il loro ammiraglio, le tre de’ Venezianiche s’erano afferrate con quella rimasonosbarattate e prese; e l’altre galee de’ Venezianie Catalani, ch’erano passate e divise tra l’ammiraglioe l’altre galee genovesi, combattendo indiverse parti cacciarono delle galee de’ Genovesi:in prima dieci galee, che per campare le personediedono in terra verso sant’Agnolo, abbandonatii corpi delle galee a’ nimici, morti e perduti assaide’ compagni, il rimanente si fuggì a Pera; edopo queste altre tre galee de’ Genovesi fuggendoinnanzi a’ Veneziani feciono il simigliante, eabbandonati i corpi delle galee si fuggirono a Pera.I Veneziani e’ Catalani misono fuoco in quellegalee, e tutte le profondarono; e oltre a questealtre sei galee de’ Genovesi si fuggirono nel Maremaggiore per campare. Dall’altra parte i Genovesicombattendo per forza d’arme delle galeede’ Veneziani e Catalani e Greci in diversi abboccamenti,con grande uccisione di catuna parte,ne vinsono e presono assai: ma però non sapeal’uno dell’altro chi avesse il migliore. La tempestadel mare era grande, e non lasciava riconoscerenè raccogliere insieme alcuna delle parti.E avendo per questo modo disordinato e fortunosocombattuto fino alla notte senza saperechi avesse vinto o perduto, l’uno residuo dell’armatae l’altro si ridussono a terra alle Colonneal porto di Sanfoca; e dividendoli la notte,dilungata l’una parte dall’altra il più che sipotè, nel detto porto cercarono per quella nottealcuno sollevamento dalle fatiche agli affannaticorpi.

[272]

CAP. LX.Di quello medesimo.

La mattina vegnente, a dì 14 di febbraio, iVeneziani, Catalani e Greci che si conobbonoessere maltrattati in quella battaglia da’ Genovesi,innanzi che ’l sole alzasse sopra la terra,per paura che i Genovesi, ravveduti del dannoche aveano fatto loro, non li sorprendessono inquel luogo, si partirono, e andarsene a un portoche si chiama Trapenon, ch’è nella forza de’ Greci,ove poterono stare più sicuri. I Genovesi venutoil giorno, ricercarono la loro armata, e trovaronomeno le tredici galee profondate, e le sei ch’eranoandate fuggendo i nimici nel Mare maggiore:e della loro gente si trovarono molto scemati, tramorti e annegati e fuggiti. Dall’altra parte trovarono,che aveano prese quattordici galee de’ Veneziani,e dieci de’ Catalani e due de’ Greci, e alloraconobbono che i nimici come rotti s’erano partitie fuggiti a Trapenon. E trovandosi avere mortidi loro nimici intorno di duemila, e presine milleottocento,ebbono certezza della loro poco allegravittoria, e incontanente de’ loro prigioni fediti emagagnati lasciarono quattrocento, acciocchè noncorrompessono la loro gente, e per fare alcuna misericordiadella loro vittoria. Ma tanto fu il lorodanno de’ morti e fediti, e d’avere perdute le lorogalee, che della detta vittoria non poterono farfesta. Questa battaglia non ebbe ordine nè modo,anzi fu avviluppata e sparta come la tempesta[273]marina: e però com’ella fu varia e non potutabene cernere nè vedere, non l’abbiamo potutacon più certo e chiaro ordine recitare.

CAP. LXI.Come per le discordie de’ paesani la Siciliaera in grave stato.

Partendoci dalle battaglie fatte per gl’Italianinegli strani paesi, ci occorre l’intestino maledell’isola di Sicilia: la quale non avendo nemicostrano, tanto mortalmente crebbe il furoredelle loro parti, che senza alcuna misericordia,come salvatiche fiere, ovunque s’abboccavanos’uccidevano, per aguati, per tradimenti, e perfurti di loro tenute continovo adoperavano il fuocoe il ferro, onde molti gentiluomini, e altregenti del paese perderono la materia delle paesanedivisioni per le loro violenti morti; e ancoraper questo tanto si disusarono i campi della cultura,tanto si consumarono i frutti ricolti, chel’isola per addietro fontana d’ogni vittuaglia,per inopia e per fame faceva le famiglie de’ suoipopoli in grande numero pellegrinare negli altripaesi. E per partirci un poco da tanta crudele infamia,la seguente ferina crudelezza, con vergognadegli uomini di quella lingua, sia per oratermine a questa materia. Un Catalano, il qualeteneva una rocca nella Valle di... fece a’suoi compagni tenere trattato col conte di Ventimiglia,il quale avendo voglia d’avere quellarocca, con troppa baldanzosa fidanza sotto il trattato[274]entrò nel castello con centoquattro compagni,benchè più ve ne credesse mettere: ma comecon questi fu dentro, per l’ordine preso pe’ traditorifurono chiuse le porti, e ’l conte e i compagnipresi; e avendovi uomini i quali si volevanoricomperare grande moneta, ed erano da riserbareper i casi fortunevoli della guerra, tanto incrudelìl’animo feroce de’ Catalani, che senza arrestospogliati ignudi i miseri prigioni, e legaticolle mani di dietro, l’uno dopo l’altro posto a’merli della maggiore torre della rocca, sopra unodirupinato grandissimo furono dirupinati senzaniuna misericordia, lacerando i miseri corpi conl’impeto della loro caduta a’ crudeli sassi. Il contesolo fu riserbato, non per movimento d’alcunaumanità, ma per cupidigia di avere perla sua testa alcuno suo castello vicino a’ crudinemici. Chi crederebbe questa sevizia trovaretra’ fieri popoli delle barbare nazioni, laquale tra i cristiani, tra i consorti d’uno reame,tra i vicini passò le crudeltà de’ tigri, e la fierezzade’ più salvatichi animali che la terra produca?E perocchè trovare non si potrebbe maggiore, trapassiamoa un’altra di minore numero, ma forsenon di minore infamia.

CAP. LXII.Come fu in Firenze tagliate le teste a piùde’ Guazzalotri di Prato.

Avendo narrata la grande crudeltà de’ Catalani,un’altra sotto ombra di non vera scusa, non[275]senza biasimo dell’abbandonata mansuetudinedel nostro comune, ci s’offera a raccontare. IGuazzalotri di Prato, come è detto addietro, innanziche il comune il comperasse, usando la tiranniadi quello tirannescamente, ne furono abbattuti:per questo l’animo di Iacopo di Zarinocaporale di quella casa era mal contento, avvegnachèassai onestamente sel comportasse. Avvenneche alquanti cittadini di Firenze, animosidi setta, calunniarono lui e alquanti cittadinidi Firenze di trattato contro al comune, dellaqual cosa convenne che in giudicio si scusassono,e non trovandosi colpevoli, fu infamia a quellagente che quello aveano loro apposto, ed egli congli altri infamati furono prosciolti. Avvenne appresso,o per fuggire il pericolo degl’infamatori,o per sdegno conceputo, andando per podestà aFerrara, fu ritenuto dal tiranno di Bologna e poilasciato, rimanendo per stadico il figliuolo; e tornatoa Firenze, e preso sospetto di lui, fu confinatoa Montepulciano: i quali confini, qual che sifosse la cagione, e’ non seppe comportare, e fecesuo trattato col signore di Bologna per ritornarein Prato; per la qual cosa venne a Vaiano inValdibisenzio, e fece richiedere de’ suoi amici,e da Siena vennono lettere al comune di Firenzedi questo fatto: per le quali il nostro comunedi presente vi mise gente d’arme alla guardia,per modo che non se ne potea dottare. Nondimenoi cittadini che reggevano allora il comune,animosi per setta, volendo aggravare l’infamia,in su la mezza notte feciono chiamaredelle letta e armare i cittadini, e trarre fuori i[276]gonfaloni, come se i nimici fossono alle porti, diche i reggenti ne furono forte biasimati. Nondimenoseguendo loro intendimento, aveano fattovenire da Prato tutti gli uomini di casa i Guazzalotri,i quali per numero furono sette; e incontanente,come uomini guelfi e innocenti, e che dell’impresedi Iacopo di Zarino erano ignoranti,vennono a Firenze: ed essendo tutti in su la portadel palagio de’ priori, un fante giunse il dìmedesimo, che le guardie erano rinforzate in Prato,il quale disse loro da parte di Iacopo, com’egliintendea d’essere quella notte in Prato. Costorodi presente furono a’ signori e a’ loro collegi,e dissono quello che in quell’ora Iacopo avealoro mandato a dire, scusando la loro innocenza.I priori co’ loro collegi non dimostrando di loroalcuno sospetto, gli licenziarono per quel giorno:l’altra mattina gli feciono chiamare, e tutti senzasospetto andarono a’ signori, fuori d’un giovane,il quale quanto che non fosse colpevole, temettedi venire in esaminazione; gli altri furonoritenuti, e messi nelle mani del capitano del popolo,uomo di poca virtù, e fatti pigliare certiPratesi, e un Fiorentino de’ Galigai, e due fabbridi contado, tutti per gravi martori confessarono,come coloro che questo feciono fare vollono, esubitamente, improvviso agli altri cittadini, il dettocapitano, del mese di marzo 1351, fece decapitarei nove, e i fabbri impiccare; la qual cosa futenuta crudele e ingiusta sentenza, e molto dispiacquea’ cittadini, perocchè manifesto fu chenon erano colpevoli. Abbiamone detto steso perdue cagioni, l’una per manifestare di quanto pericolo[277]sono le sette cittadinesche, che i giusti spessocom’e’ colpevoli involgono in capitale sentenza;la seconda per dimostrare quanto a Dio dispiacequando si spande l’innocente sangue: che perquello che i Guazzalotri poco innanzi sparsero pertirannia nella loro terra, il loro per simigliantemodo fu sparto nella città di Firenze.

CAP. LXIII.Come il tiranno d’Orvieto fu morto.

In questo anno, del mese di marzo, essendo tirannod’Orvieto Benedetto di messer Boncontede’ Monaldeschi, il quale poco dinanzi avevamorti due suoi consorti per venire alla tirannia,e stando in quella per operazione de’ suoi consorti,da uno fante nel suo palagio fu morto. Perla morte di costui la città fu in grave divisione;ma coll’aiuto di gente e d’ambasciadori peruginis’acquetò alquanto il popolo con alcuno lieve enon fermo stato, perocchè tutta la terra era insanguinataper la divisione della casa de’ Monaldeschi,e avendo dentro poca concordia, e di fuorisparti per lo contado e distretto i cittadini cacciati,rimase lo stato dubbioso a potere sostenere;e per la cavalleria che l’arcivescovo di Milanoaveva in Toscana e nella Marca, i comuni di parteguelfa poco consiglio vi misono, onde ne seguìla rivoltura che appresso seguendo nostrotrattato nel suo tempo racconteremo.

[278]

CAP. LXIV.Come i Fiorentini assediarono Vertine.

Nel predetto mese di marzo i Fiorentini fecionoporre l’oste al castello di Vertine, e strignerlocon due campi al trarre delle balestra, e rizzaronvidue mangani che tutto dì gittavano, abbattendoe guastando le case della terra. Nell’osteavea seicento cavalieri, e millecinquecentomasnadieri di soldo, i quali deliberarono di combattereil castello e vincerlo per battaglia: maavvenne mirabile cosa, che quasi pareva fattaper arte magica, che il tempo si corruppe all’acqua,che dì e notte non ristò infino allaPasqua; e impedì tanto l’oste, che alla battaglianon si potè venire per niun modo, e quellidel castello ebbono agio di farlo più forte alladifesa; e per questa cagione, e perchè dentro aveafranca masnada di buoni briganti, poco pareasi curassono de’ Fiorentini, e minacciavano didarlo al Biscione; e così francamente il tennonoin fino all’uscita d’aprile, come appresso diviseremo.

CAP. LXV.Come in corte fu fermata la pace dal red’Ungheria a’ reali di Puglia.

Essendo per lungo tempo trattata in corte diRoma a Vignone la pace tra il re d’Ungheria e i[279]reali del regno di Cicilia di qua dal Faro, papaClemente essendo guarito della sua infermità,nella quale aveva avuta grave riprensione di coscienza,perchè aveva sostenuta la detta causa incontumacia, potendola acconciare, con singularesollecitudine mise opera che la pace si facesse. Edessendo il re d’Ungheria con un solo fratello redi Pollonia, senza avere altri consorti fuori de’ realidel regno di Cicilia, e già soddisfatto in partenon piccola della vendetta del fratello, agevolmentesi dispose a volere la pace, gradendola alpapa e a’ cardinali che con istanza ne pregavano,e però mandò a corte suoi ambasciadori con pienomandato, informati di sua intenzione, lo elettodi cinque chiese, e un vescovo d’Ungheria, eGulforte Tedesco fratello di messer Currado Lupovicario nel Regno del detto re; e del mese digennaio 1351, i detti ambasciadori in presenzadel papa e de’ cardinali, come ordinato fu per lodetto papa, si fece la pace con gli ambasciadoridel re Luigi e della reina Giovanna in nome ditutti i reali di quella casa. E per parte del re Luigie della reina furono fatte l’obbliganze, per lequali, secondo che ’l papa e i cardinali aveanotrattato, il re e la reina doveano dare e restituireal re d’Ungheria trecentomila fiorini d’oro indiversi termini, per sodisfacimento delle speseche il re d’Ungheria avea fatte in quell’impresadel Regno. E fatte le dette cautele e la dettapace, il papa per l’autorità sua e del consigliode’ suoi cardinali per decreto confermò ogni cosa,confermando la pace, e consentendo all’obbligagionepecuniaria del reame. E fornito ogni[280]cosa solennemente, innanzi che della casa sipartissono le parti, gli ambasciadori del re d’Ungheria,improvviso a tutti, seguendo il mandatosegreto che aveano dal loro signore, di graziaspontaneamente, per propria volontà del re d’Ungheria,finirono e quetarono al re, e alla reina,e a’ reali di Puglia, e al Regno, e alla Chiesa diRoma, di cui è il detto reame, i detti trecentomilafiorini d’oro, dicendo, come il loro signorenon avea fatta quell’impresa per avarizia, maper vendicare la morte del suo fratello. E incontanentesi partì Gulforte, e tornò in Ungheria afare assapere al re come fatto era quanto egliavea comandato, a grande grado e piacere disanta Chiesa. E i sopraddetti prelati andarononel Regno a trarne gli Ungheri che v’eranosalvamente, e a fare per comandamento del lorosignore restituire al re Luigi e alla reina tuttele città, e terre e castella che la sua gente vitenea. E fatto questo accordo, quale che si fossela cagione, il re d’Ungheria non lasciò incontanentei reali ch’aveva prigioni in Ungheria,anzi gli tenne insino al settembre prossimo,come al suo tempo si dirà, occorrendoci altrecose che prima richieggono il debito alla nostrapenna.

CAP. LXVI.Come l’arcivescovo trattava pace colla Chiesa.

In questo tempo, del verno, l’arcivescovo di Milanocontinovo mantenea a corte solenni ambasciadori[281]a procurare la sua riconciliazione consanta Chiesa, e a ciò movea il re di Francia conforza di grandi doni che gli faceva, e al continovopregava per sue lettere il papa e’ cardinali cheperdonassono all’arcivescovo, ed egli per esserepiù favoreggiato domandava pace. I parenti delpapa e certi cardinali erano sì altamente provveduti,e sì spesso, che continovo pregavano perlui il papa, e la contessa di Torenna non finava,per la qual cosa il papa dimenticava l’onore el’ingiurie di santa Chiesa. E non ostante che tenessesospesi gli ambasciatori de’ comuni di Toscanadelle cose che aveano proposto loro, gli ambasciadoricontinovo ricordavano in concistoro l’offesefatte per l’arcivescovo e pe’ suoi antecessori,e l’ingiurie e violenze che fatte avea, e continovofaceva a’ comuni di Toscana fedeli e divoti disanta Chiesa. Il papa non ostante ciò favoreggiavaoltre al modo onesto la causa del tiranno, ondeper alcuno cardinale ne fu cortesemente ripreso;a costui e agli altri cardinali che mostravano inconcistoro di essere zelanti dell’onore di santaChiesa, procedendo il tempo, coll’ingegno e coll’artee co’ doni del tiranno furono racchiusele bocche, e aperte le lingue in suo favore, sicchèultimamente pervenne alla sua intenzione, comeseguendo al suo tempo dimostreremo.

[282]

CAP. LXVII.Della gran fame ch’ebbono i barbari diMorocco.

Avvenne in quest’anno nel reame di Moroccoe nel reame della Bella Marina un’inopinatafame per sterilità del paese, la qual fame gittògran carestia in Granata e nella Spagna, e stesesiper la Navarra, e appresso in Francia infinoa Parigi: che per portare il grano a’ barbari, perdisordinato guadagno che se ne facea, venne lostaio di libbre cinquanta di peso in Parigi invaluta di due fiorini d’oro, e per lo paese nonmolto meno. E i barbari saracini per sostentarela vita s’ordinarono continovo digiuno, il qualesodisfacevano con tre once di pane dato loro, econ un poco d’olio quanto teneva la palma dellamano, nel quale intignevano il detto pane, e conquesto mantenevano la loro vita: nondimeno granquantità ne morirono di fame in quell’anno.

CAP. LXVIII.Come i rettori di Firenze cominciarono segretamentea trattare accordo con l’elettoimperadore.

Mentre che il comune di Firenze e di Siena aveanogli ambasciadori a corte di papa contro all’arcivescovodi Milano, avvedendosi che la Chiesaper le preghiere del re di Francia e d’altri baroni,[283]e per la grande quantità di moneta che il tirannospendea in corte, colla quale avea recatoin suo favore tutta la corte, ed era per essere riconciliatoe fatto assai maggiore che non era inprima, diffidandosi di non potere per loro resisterealla sua potenza, ordinarono molto segretamentedi volere far muovere della Magnamesser Carlo re de’ Romani eletto imperadore,e però mandarono e feciono venire d’Alemagnaa Firenze segretamente un suo cancellierecon grande mandato: il quale fu collocato e stettetutto il verno racchiuso in san Lorenzo per modo,che i Fiorentini non sapeano chi si fosse, e dinotte andavano a lui segretari del comune, i qualitrattavano il modo della venuta del detto eletto,col favore e aiuto grande del detto comune,per abbattere la tirannia dell’arcivescovo: e infine vennono col detto cancelliere a piena concordia,tanto che, nonostante l’antico odio delnome imperiale a’ detti comuni, fu loro lecitodi piuvicare la detta concordia accetta a’ detti popoli,come a suo tempo racconteremo.

CAP. LXIX.Come la gente de’ Fiorentini che andavano afornire Lozzole furono rotti dagli Ubaldini.

Entrando nel mese d’aprile 1352, essendo commessoper lo comune di Firenze al capitano delMugello che fornisse Lozzole che i Fiorentini tenevanonel Podere, acciocchè più chiusamente sifacesse, si mise a farlo con sì poca provvisione,[284]che più dì innanzi fu palese agli Ubaldini la cavalcatache fare si doveva. I quali in que’ dì aveanocolla gente dell’arcivescovo di Milano preso ilMonte della Fine a’ confini di Romagna, il qualeera stato accomandato, ma non difeso da’ Fiorentini.E avendo la gente apparecchiata, si misonoin più aguati nell’alpe, ove stettono piùdì aspettando la scorta de’ Fiorentini per fornireLozzole. Il folle capitano di Mugello con quattrocentocavalieri e con pedoni del Mugello, non avendoprima presi i passi più forti dell’alpe, nèfatto provvedere se aguato vi fosse, si mise per lavia del Rezzuolo con la salmeria e con la sua gentead entrare nell’alpe, e lasciossi uno degli aguatide’ nimici addietro; quando ebbono valicatoRezzuolo furono assaliti da’ nimici dinanzi, e dalato e didietro per modo, che piccola difesa v’ebbe,altro che di fuggire chi potè. Rimasonvimorti cinquanta uomini tra a cavallo e a piede, eottanta presi con tutta la salmeria; e di questo fallonon fu altra vendetta in Firenze, se non chechi fu morto o preso per la mala condotta s’ebbeil danno. Il capitano fu Rosso di Ricciardode’ Ricci di Firenze.

CAP. LXX.Come s’ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca.

Essendo stato il castello di Vertine lungamenteassediato e traboccato da’ dificii, e non volendosiarrendere, i Fiorentini diliberarono di farlocombattere: e a dì 20 d’Aprile, gli anni Domini1352, con molta baldanza e con poco ordine si[285]strinsono al castello assalendolo da più parti; ein alcuno luogo furono infino al rompere dellemura, ma per non avere dificii da coprire, nè lescale che bisognavano a assalire, condotti alle mura,con danno e con vergogna, mortine alquanti, e feditie magagnati assai degli assalitori, si ritrassonodella battaglia, la quale aveano mantenuta treore del dì. L’assedio vi si fortificò, e strinsono ilcastello più di presso, e ordinavano di combatterlocon più ordine e con maggiore forza. Que’ d’entrovedendosi senza speranza di soccorso, per fuggireil pericolo della battaglia trattarono di renderela terra, salve le persone e l’armi, e che potessonotrarre tutto il grano che aveano nel castellodi Vertine di que’ della casa da Ricasoli, infraquindici dì prossimi. Il trattato fu fermo, e il primodì di Maggio del detto anno n’uscirono que’da Ricasoli con centocinquantotto masnadieri,molto bella gente d’arme; e il comune prese laterra, e incontanente fece abbattere due fortezzeche v’erano a modo di rocche, l’una di que’da Ricasoli, e l’altra di que’ da Vertine, acciocchèpiù per quelle tenute non si potesse rubellare.

CAP. LXXI.Esempio di cittadinesca varietà di fortuna.

In questo tempo avvenne una cosa notevole inFirenze, la quale per se non era degna di memoria,ma concedelesi luogo per esempio delle coseavvenire. Un giudice di legge di grande famanella pratica de’ piati criminali e civili, di assai[286]nuova progenie, e di piccolo stato ne’ suoi principii,venne per suo guadagno in ricchezza, e conprospera fortuna, il dì di calen di maggio del dettoanno, dottorato un suo figliuolo e menata moglie,con dote di fiorini millecinquecento d’oro,e con eredità di patrimonio di fiorini tremilacinquecentod’oro in possessioni a lui pervenute, celebròsolenne festa in più dì in grande allegrezza.E verificandosi la parola detta per santo Gregoriosopra il Giobbe, il quale disse:Praenuntia tribulationisest laetitia satietatis: poco appresso avvenne,che essendo ingrati della non debita e sformatadote e successione ereditaria della detta donna,vollono alla madre della fanciulla per male ingegnodella loro arte sottrarre altri certi beni, laquale turbata si difendea a ragione. I legisti ordinaronoun piato tacito, e avendo avuta per altrifatti una procura dalla detta donna, si sforzarono,non avendo avversario, di venire alla sentenza.Ma come Iddio volle, la corte s’avvide del baratto;e scoperto l’inganno, il figliuolo fu condannatonel fuoco con un suo nipote; e il padre confidandosidi difendere a ragione si rappresentò ingiudicio. Ed essendo per essere arso un suo nipotech’avea nome Lotto del maestro Cambio de’ Salviati,uomo di buona condizione e amato da’ cittadini,accadde essere de’ priori di Firenze, ilquale per onore della sua casa operò tanto, che fucondannato nel fuoco per falsità, a condizione, chese infra dieci dì non pagasse al comune lire quattromila,e stesse a Perugia un anno a’ confini; ed essendogià stato da dieci mesi a’ confini, tanto seppeadoperare con un altro podestà, che rivocò i suoi[287]confini, e tornò a Firenze innanzi al tempo, e mostrossipalese più d’un mese. Volendosi fare cancellaredel detto bando, e restituire alla matricolaov’era stato raso, e non trovandosi modo comedi ragione fare si potesse, rimase in bando delfuoco per avere rotti i confini, i quali aveva pocotempo a ubbidire ed era libero. Costui fu il primoche mise in pratica nella nostra città di conducerei civili piati in criminali, e per quella medesimacagione fu infamato e condannato egli e ’lsuo figliuolo; il quale poi dopo l’esilio di pressoa otto anni morì in bando, avendo prima il padrericomperato dal comune per grandi riformagioniil suo fallo d’avere rotti i confini lire milledugento.E dopo la morte del figliuolo la donnaritrasse della casa la dote e ’l patrimonio in grandeabbassamento di quella famiglia, lasciando esempioa’ suoi cittadini, che come la scienza convertitain pratica di male suasioni, e le disordinatedote fanno gli uomini arricchire e montare instato, così quelle medesime operazioni e dotespesso sono materia e cagioni di gravi ruine: questoci scusi averne fatto qui la detta memoria.

CAP. LXXII.Come un gran re de’ Tartari venne soprail re di Proslavia.

Avvenne in quest’anno, che un re del lignaggiode’ Tartari, avendo avuta la sua gente brigacol re di Proslavia infedele, avegnachè suddito alre d’Ungheria, e fatto danno l’una gente all’altra,[288]il detto re de’ Tartari sentendosi di grandepotenza, per prosunzione della sua grandezza,ovvero per trarre la gente del suo paese che aveanoa quel tempo grandissima fame, uscì del suoreame con infinito numero di gente a piè e a cavallo,ed entrò nel regno de’ Proslavi. Il rede’ Proslavi colla sua gente si fece incontro aquella moltitudine per ritenerli a certe frontiere,tanto che avesse il soccorso dal re d’Ungheria,il quale di presente vi mandò quarantamilaarceri a cavallo: e aggiuntosi colla gente del rede’ Proslavi, di presente commisono la battagliaco’ Tartari, de’ quali tanti n’uccisono, che lalena mancò agli uomini, e lo taglio alle spade,e le saette agli archi. Ma per la soprabbondantemoltitudine de’ Tartari, non potendoli gliUngheri e i Proslavi più tagliare, convenne ch’abbandonassonoil campo, non senza grande dannodella loro gente. I Tartari vinti rimasono vincitori:ma per disagio di vivande, e per la corruzionedell’aria, costretti prima a manicare de’ corpimorti, sentendo che per li due re si facevaapparecchiamento di ritornare in campo conmaggiore e più potente esercito, per paura, e perlo gran difetto che i Tartari aveano di vittuaglia,si tornarono addietro in loro paese. Questa novellaavemmo da più e diverse parti in Firenze delmese d’aprile 1352.

[289]

CAP. LXXIII.Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio.

Ritornando all’italiane tempeste, essendo rimasala città d’Orvieto con grande dissensionetra’ cittadini dopo la morte di Benedetto di messerBonconte loro tiranno, i cittadini da capo sicominciarono a insanguinare insieme, e uccideal’uno l’altro nella città e di fuori, come s’uccidonole bestie al macello. Ed era sì corrotta lacittà ed il contado, che in niuna parte si potevaandare o stare sicuro, e i Perugini e gli altri comunidi Toscana erano sì oppressati dalla gentedel Biscione, che appena poteano intendere allaloro difesa, sicchè de’ fatti d’Orvieto non sipotevano intramettere come a quel tempo bisognava.Avvenne che Petruccio di Peppo Monaldeschi,come che d’animo e di nazione fosseguelfo, avendo rispetto a pigliare la tirannia d’Orvieto,per suo trattato fece venire a condottadegli Ubaldini a Cetona dugento cavalieri, eprocacciò d’avere gente dal prefetto da Vico: equando si vide il bello, avendo raunato nella terraassai fanti, levò il romore e corse la terra, emise dentro i dugento cavalieri ch’avea in Cetona,e uccise Bonconte suo consorto, nipote di Benedetto,e più altri, e ridusse la città nella forza de’ghibellini, credendo poterla tiranneggiare per se;ma in fine, come al suo tempo racconteremo, lasignoria rimase al prefetto da Vico e a parte ghibellina,tradita la patria e i consorti per singolareinvidia de’ suoi congiunti.

[290]

CAP. LXXIV.Come l’armata de’ Genovesi andò a Trapenonper danneggiare i nemici.

Dopo la battaglia fatta in Romania tra’ Genovesi,Veneziani e Catalani, avendo i Genovesipreso riposo per alcuno tempo, e ritornate le seigalee fuggite nel Mare maggiore, riconosceronola loro amara vittoria, presono cuore dimenticandoil danno loro per l’animosità ch’aveanocontro a’ loro nemici ch’erano rifuggiti a Trapenon,e procacciarono aiuto da Pera, e mandaronoper rinfrescamento di galee armate, strignendoche quante più ne potessono mandare armate ilfacessono senza indugio, a fine di disfare affattol’armata de’ Veneziani e Catalani, avendoanche speranza di vincere Costantinopoli. E racconcele loro galee, e rifornite le ciurme e’ soprassaglientise n’andarono a Trapenon, ove i Venezianie’ Catalani s’erano rifuggiti; e assai volte tentaronod’assalirli, ma gli avversari aveano la forzadella terra, e l’avvantaggio della guardia delporto, sicchè poco li curavano; e quando vidonoun tempo al loro viaggio fatto e fermo, e che eracontradio a’ loro nemici a poterli impedire, contrentotto galee racconce e rifornite si misonoin mare, e atandosi con le vele e co’ remi, avendoil vento in poppa, a contradio de’ Genovesivalicarono in Candia: e giunti in Candia misonoin terra, e disarmarono. E stando nell’isola, perla corruzione di loro fediti e de’ disagi sostenuti[291]infermarono e corruppono molto la terra, e mandaronodue loro galee per avere aiuto da Vinegia,le quali s’abbatterono in dieci galee ch’e’ Genovesimandavano in aiuto alla loro armata, mal’una per forza di remi campò, l’altra diede aterra, e abbandonato il corpo della galea salvaronole persone.

CAP. LXXV.Come i Genovesi assediarono Costantinopoli.

L’armata de’ Genovesi non avendo potuto impedirel’armata de’ Veneziani e Catalani chenon fossono passati all’isola di Negroponte, nonattesono a seguirli, ma attesono ad assediare Costantinopoliper mare, e fermarono di fare ogniloro podere per abbattere l’aiuto che i Venezianiaveano dall’imperatore. E stando ivi, giunse inloro aiuto sessanta legni armati di Turchi, e le diecigalee che il comune di Genova avea mandateloro. Mega Domestico che allora governava l’imperiocome tiranno, vedendo i Veneziani rotti esoperchiati in quella guerra da’ Genovesi, e chela loro forza cresceva, e sentendosi il vero imperatore,il quale s’avea fatto a genero, nemico, pernon venire a peggio trattò pace co’ Genovesi, efermossi la detta pace a dì 6 maggio del dettoanno: e fu in patto, ch’e’ Veneziani del paese fossonosalvi in avere e in persona, e che i Genovesinon dovessono pagare in Costantinopoli commercio,e che vi potessono fare porto, e andare e starecome amici: e che d’allora innanzi l’imperadore[292]non dovesse ricettare i Veneziani nè i Catalani,nè dare loro alcuno aiuto. E ferma la pace, i Genovesicon tutta loro armata se ne vennono inCandia per vincere il paese; e volendo porre interra, ebbono incontro i paesani con trecento cavalieri,e le ciurme delle galee, e contradissono laprima scesa. I Genovesi si provvidono di fare parate,e dietro a quelle misono i balestrieri, e messele scale in terra, a contradio de’ nemici presonocampo; e stando in terra trovarono il paese corrotto,e avvelenata l’aria e la terra dalla corruzionesparta dalle galee de’ Veneziani e Catalani,e anche tra loro avea de’ fediti e degl’infermi,e per questa cagione, e per i molti disagi sostenutilungamente, pensarono che il soprastare era pestilenziosoe mortale, si ricolsono a galea, e misonsiin mare per tornarsi a Genova; e innanzipervenissono alla patria più di mille cinquecentouomini morti gettarono in mare: e nondimenolasciarono nel golfo di Vinegia dieci galeeper danneggiare i Veneziani. E del mese d’agostodel detto anno con trentadue galee tornarono aGenova col loro ammiraglio, e con settecentoprigioni veneziani, e con molta preda dell’acquistofatto sopra i nemici e sopra le spoglie de’ Greci.Della qual vittoria, avvengnachè molto nemontasse in fama il comune di Genova, più tristiziache allegrezza, più pianto e dolore chefesta tornò alla loro patria; e trovossi all’ultimodi questa maladetta guerra di queste armate, chetra morti in battaglia, e annegati in mare, e peritidi pestilenza, tra l’una parte e l’altra vimorirono più d’ottomila Italiani in quell’anno.[293]E questo avvenne solo per attizzamento d’invidiadi pari stato di due popoli Genovesi e Veneziani,che catuno si volea tenere il maggiore.

CAP. LXXVI.Concordia fatta dall’imperadore a’ comunidi Toscana.

Tornando al lungo trattato menato in Firenzeper li Fiorentini e Perugini e Sanesi, molto segretamentecon messer Arrigo proposto d’Esdriadell’ordine di certi frieri, vececancelliere dimesser Carlo eletto imperadore re di Boemia ere de’ Romani, il quale con molto senno e grandiligenza avendo il mandato dal suo signore,e per mezzano tra lui e gli ambasciadori de’ sopraddetticomuni messer Ramondo l’uno degliusciti guelfi di Parma marchese di Soraga, capitanodi guerra del comune di Firenze, scrittele convenenze e’ patti di concordia, si sostenne lapiuvicazione di quelli per lo detto vececancellieree per li detti comuni, tanto ch’ebbono lafermezza da corte come il papa avea riconciliatoper sentenza l’arcivescovo di Milano, e fattola concordia con lui, come nel principio del nostroterzo libro si potrà trovare; e questa concordiafu ferma del detto mese d’aprile del dettoanno.

[294]

CAP. LXXVII.Come si levò una compagnia nel Regno, e furotta dal re Luigi.

Avvenne non ostante che la pace fosse fatta trail re d’Ungheria e i reali di Puglia, e deliberatofosse per lo papa la coronazione del re Luigi,per la baldanza che i soldati forestieri aveanopresa nel Regno, uno Beltramo della Motta nipotedi fra Moriale, che ancora teneva la città d’Aversa,fece raccolta di cavalieri di sua lingua, e diTedeschi e d’Italiani ch’erano nel Regno senzasoldo, ed ebbe quattrocento barbute e cinquecentomasnadieri: e cominciò a correre per Terradi Lavoro, di consiglio e consentimento diFra Moriale, secondo il suono, benchè secondola vista dimostrava il contradio, e prendea i casali,e facea rimedire la gente, e molto conturbavail paese: e i baroni e’ cavalieri regnicoliche voleano venire a Napoli alla coronazione delre erano da costoro forte impediti, e i camminierano rotti per loro, e spesso assaliti, eper soperchia baldanza s’erano ridotti a Cesa,tra la città d’Aversa e l’Acerra. E stando ivi,in gran vergogna del futuro re Luigi, il re infiammatodi questa ingiuria, subitamente e improvvisoa’ ladroni accolse de’ baroni ch’erano venutia lui, e di Napoletani da mille cavalieri, emontò a cavallo in persona, e seguitato da’ suoi,a dì 28 d’aprile del detto anno occupò Beltramodella Motta e la sua compagnia, i quali per lo[295]subito assalto non feciono retta, ma chi potèfuggire non attese il compagno: e così fuggendomolti ne furono morti e presi, che pochine camparono. Beltramo della Motta con venticompagni fuggì a Alife e campò. In Napoli furonogiudicati a morte venticinque paesani ch’eranoin quella compagnia, gli altri rimasonoprigioni: e la detta compagnia fu al tutto consumatae spenta con onore del re Luigi, econ più lieta festa della sua coronazione, che appressoseguitò, come tosto diviseremo.

CAP. LXXVIII.Come i Perugini guastarono intornoa Cortona.

In questo mese d’aprile del detto anno, i cavalieridell’arcivescovo di Milano ch’erano statilungamente al servigio del signore di Cortonaall’Orsaia, si partirono di là, e lasciaronodugentocinquanta cavalieri. I Perugini aontatidell’ingiuria fatta loro da’ Cortonesi, di presente,avuto trecento cavalieri da’ Fiorentini, con settecentobarbute e con gran popolo cavalcarono sopraCortona, ardendo e guastando le case, ele vigne e’ campi, e tagliando gli alberi, aoperandoil fuoco e il ferro, e guastarla intornoper molti giorni, senza potere i Cortonesi difenderein niuna parte, di fuori che dall’Orsaia aCortona, per la guardia vi fecero i dugentocinquantacavalieri del Biscione: ma senza arsione,così consumarono que’ cavalieri quella parte[296]difendendo, come i Perugini l’altre parti perloro vendetta.

CAP. LXXIX.Come i Fiorentini fornirono Lozzole.

I Fiorentini poco tempo innanzi per mala condottarotti dagli Ubaldini nell’alpe, volendofornire Lozzole, provvidono di fornirlo con piùavviso e provvedenza; che senza fare apparecchiamentonel Mugello, avendo in Firenzecavalieri e pedoni, e la vittuaglia apparecchiata,senza alcuna vista mandarono improvvisoagli Ubaldini, e feciono pigliare a buonimasnadieri i passi e i poggi dell’alpe. E presii passi la notte, la mattina vi mandarono centocavalieri, e quattrocento balestrieri eletti, eseicento buoni masnadieri di soldo e tutta lasalmeria con loro, i quali andarono senza contasto.E furono sopra il battifolle degli Ubaldini,il quale era sopra Lozzole, innanzi chepotessono avere soccorso; e vedendosi sorprenderealla gente de’ Fiorentini, abbandonaro labastita e l’arme, e gittaronsi per le ripe persalvare le persone; i Fiorentini presono l’armee la roba ch’era nella bastita, e aggiunsonlaalla loro salmeria, e misono ogni cosa nel castellodi Lozzole, e arsono il battifolle de’ nimici, esani e salvi senza trovare contasto si tornarono aFirenze del mese di maggio del detto anno.


[297]

TAVOLADEI CAPITOLI

Prefazione.Pag.V
Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima il prologo, e primo libro.1
Cap. I. Dell’inaudita mortalità3
Cap. II. Quanto durava il tempo della moria in catuno paese4
Cap. III. Della indulgenzia diede il papa per la detta pistolenza9
Cap. IV. Come gli uomini furono peggiori che prima10
Cap. V. Come si stimò dovizia, e seguì carestia11
Cap. VI. Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso12
Cap. VII. Come alla compagnia d’Orto san Michele fu lasciato gran tesoro12
Cap. VIII. Come in Firenze da prima si cominciò lo Studio15
Cap. IX. Raggiugnimento di principi che furono cagione di grandi novitadi nel Regno17
Cap. X. Come il re d’Ungheria fece ad Aversa uccidere il duca di Durazzo20
Cap. XI. La cagione della morte del duca di Durazzo21
Cap. XII. Come il re d’Ungheria entrò in Napoli22
[298]Cap. XIII. Come il re d’Ungheria vicitava il regno di Puglia23
Cap. XIV. Come il re d’Ungheria partitosi del Regno tornò in Ungheria24
Cap. XV. Novità del reame di Tunisi, e più rivolgimenti di quello25
Cap. XVI. Come per la partita del re d’Ungheria del Regno i baroni e’ popoli si dolsono26
Cap. XVII. Come si reggeva la sua gente nel Regno partito il re27
Cap. XVIII. Come messer Luigi si fe’ titolare re al papa, e mandò nel Regno28
Cap. XIX. Come il re e la reina ritornarono nel Regno30
Cap. XX. Come il re e la reina Giovanna entrarono in Napoli a gran festa31
Cap. XXI. Come il re Luigi si fe’ fare cavaliere, e da cui32
Cap. XXII. Brieve raccontamento di cose fatte per il re d’Inghilterra contra quello di Francia33
Cap. XXIII. Come gli Ubaldini furo cominiciatori della guerra che il comune di Firenze ebbe con loro36
Cap. XXIV. Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono da lui e dieronsi al comune di Firenze36
Cap. XXV. Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini, e presero Montegemmoli e loro castella37
Cap. XXVI. Come il re di Francia comperò il Delfinato40
Cap. XXVII. La cagione perchè il re d’Araona tolse Maiolica al re41
Cap. XXVIII. Come il re di Maiolica vendè la sua parte di Mompelieri al re di Francia42
Cap. XXIX. Come s’ordinò il generale perdono a Roma nel 134943
Cap. XXX. Come il re di Maiolica andò per racquistare l’isola e fuvvi morto45
Cap. XXXI. Come i baroni italiani e catalani per loro discordie guastarono l’isola di Cicilia46
Cap. XXXII. Come il re Filippo di Francia e ’l figliuolo tolsono moglie49
[299]
Cap. XXXIII. Come il re di Francia fu ingannato del trattato di Calese con gran danno51
Cap. XXXIV. Come messer Carlo eletto imperadore fu preso e morto di veleno53
Cap. XXXV. Come il re Luigi prese più castella56
Cap. XXXVI. Come il re Luigi prese il conte d’Apici57
Cap. XXXVII. Come il re Luigi Assediò Nocera58
Cap. XXXVIII. Come Currado Lupo liberò Nocera60
Cap. XXXIX. Come il re Luigi rifiutò la battaglia con Currado Lupo61
Cap. XL. Della materia medesima63
Cap. XLI. Come morì il re Alfonso di Castella64
Cap. XLII. Come il doge Guernieri fu preso in Corneto dagli Ungheri65
Cap. XLIII. Come i Fiorentini presero Colle67
Cap. XLIV. Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a tempo68
Cap. XLV. Di tremuoti furono in Italia70
Cap. XLVI. Come sommerse Villacco in Alamagna71
Cap. XLVII. De’ fatti del Regno72
Cap. XLVIII. Come la gente del re d’Ungheria sconfisse i baroni del Regno74
Cap. XLIX. Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia da’ nimici76
Cap. L. Come si fe’ triegua nel Regno78
Cap. LI. Di novità di barbari di Bella Marina80
Cap. LII. Come Balese tornando per lo suo reame contro al figliuolo ebbe grande fortuna, e poi fu avvelenato81
Cap. LIII. Come per lievi cagioni suscitò novità in Romagna83
Cap. LIV. Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenza alla Chiesa86
Cap. LV. Come il capitano di Forlì prese Brettinoro per assedio89
Cap. LVI. Come i cristiani d’Europa cominciarono a venire al perdono90
Cap. LVII. Perchè s’intramesse il dificio d’Orto san Michele93
[300]
Cap. LVIII. Come la Chiesa mandò il conte per racquistare la contea di Romagna95
Cap. LIX. Processo de’ traditori di Romagna, e di certi Provenzali97
Cap. LX. Come messer Giovanni de’ Peppoli cercò accordo dal conte a messer Giovanni98
Cap. LXI. Come messer Giovanni de’ Peppoli andò nell’oste, e fu preso99
Cap. LXII. Come il conte scoperse l’altro trattato che avea con messer Mastino101
Cap. LXIII. Come messer Iacopo Peppoli rimaso in Bologna si provvidde alla difesa103
Cap. LXIV. L’aiuto che messer Iacopo accolse per guardare Bologna105
Cap. LXV. Del male stato che si condusse la città di Bologna, e di certi trattati che allora si tennono106
Cap. LXVI. Come i soldati mossono quistione al conte, e fu loro assegnato messer Giovanni Peppoli108
Cap. LXVII. Come messer Giovanni tenne suoi trattati della città di Bologna109
Cap. LXVIII. Secondo trattato di Bologna112
Cap. LXIX. Come l’arcivescovo di Milano mandò a prendere la possesione di Bologna114
Cap. LXX. Come capitò il conte di Romagna e l’oste della Chiesa115
Cap. LXXI. Come i Guazzalotri di Prato cominciarono a scoprire loro tirannia118
Cap. LXXII. Come i Fiorentini andarono a oste a Prato, ed ebbonne la signoria120
Cap. LXXIII. Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronlo al loro contado121
Cap. LXXIV. Come i guelfi forono cacciati dalla Città di Castello123
Cap. LXXV. Come morì il re Filippo di Francia124
Cap. LXXVI. Come la Chiesa rinnovò processo contra l’arcivescovo di Milano126
Cap. LXXVII. Come il tiranno di Milano si collegò con tutti i ghibellini d’Italia129
[301]
Cap. LXXVIII. Come fu assediata Imola dal Biscione e altri131
Cap LXXIX. Come il capitano di Forlì tolse al conticino da Ghiaggiuolo e al conte Carlo da Doadola loro terre133
Cap. LXXX. Come nella città d’Orbivieto si cominciò materia di grande scandaloivi
Cap. LXXXI. Come la città d’Agobbio venne a tirannia di Giovanni Gabbrielli135
Cap. LXXXII. Come il comune di Perugia e il capitano del Patrimonio andarono a oste ad Agobbio137
Cap. LXXXIII. Come cominciò l’izza da’ Genovesi a’ Veneziani139
Cap. LXXXIV. Come quattordici galee di Veneziani presono in Romania nove de’ Genovesi141
Cap. LXXXV. Come i Genovesi di Pera presono Negroponte, e riebbono loro mercatanzia142
Cap. LXXXVI. Come fu morto il patriarca d’Aquilea, e fattane vendetta143
Cap. LXXXVII. Come il legato del papa si partì del Regno, e il re riprese Aversa145
Cap. LXXXVIII. Come il re d’Ungheria ritornò in Puglia conquistando molte terre146
Cap. LXXXIX. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia148
Cap. XC. Come fu data l’ultima battaglia ad Aversa dal re d’Ungheria150
Cap. XCI. Della materia medesima151
Cap. XCII. Come il conte d’Avellino con dieci galee stette a Napoli, e Aversa s’arrendè al re152
Cap. XCIII. Come il re d’Ungheria e il re Luigi vennono a certa tregua154
Cap. XCIV. Come il conte d’Avellino diè al suo figliuolo per moglie la duchessa di Durazzo157
Cap. XCV. Della grande potenza dell’arcivescovo di Milano, e come i Fiorentini temeano di Pistoia, e quello che ne seguì159
Cap. XCVI. Come certi rettori di Firenze vollono prendere Pistoia per inganno161
Cap. XCVII. Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonla a’ comandamenti loro163
[302]
Cap. XCVIII. Come il re d’Inghilterra sconfisse in mare gli Spagnuoli167
 
LIBRO SECONDO
 
Cap. I. Prologo169
Cap. II. Come il comune di Firenze usava la pace coll’arcivescovo di Milano170
Cap. III. Come l’arcivescovo di Milano appuose tradimento e condannò messer Iacopo Peppoli172
Cap. IV. Come l’arcivescovo fermò d’assalire improvviso la città di Firenze173
Cap. V. Come si mise in ordine il consiglio preso176
Cap. VI. Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presono Montecolloreto177
Cap. VII. Come gli Ubertini, e’ Tarlati, e i Pazzi assalirono il contado di Firenze179
Cap. VIII. Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al capitano dell’oste180
Cap. IX. Come l’oste si levò da Pistoia e puosesi a Campi182
Cap. X. Come l’oste ebbe gran difetti a Campi e a Calenzano184
Cap. XI. Come i rettori di Firenze abbandonarono il passo di Valdimarina187
Cap. XII. Come l’oste del Biscione valicò il passo, e andò in Mugello188
Cap. XIII. Come il conte di Montecarelli si rubellò a’ Fiorentini e venne al capitano190
Cap. XIV. Come si fornì la Scarperia e il Borgo191
Cap. XV. Come l’oste assediò la Scarperia192
Cap. XVI. Come i Fiorentini afforzarono Spugnole194
Cap. XVII. Come si difese Pulicciano di grave battaglia195
Cap. XVIII. Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini vennono in sul contado di Firenze, e furonne cacciati per forza da’ Fiorentini196
Cap. XIX. Come Bustaccio entrò e rendè la Badia a Agnano199
[303]
Cap. XX. Come l’arcivescovo tentò i Pisani di guerra contro a’ Fiorentini200
Cap. XXI. Come l’oste deliberò combattere la Scarperia204
Cap. XXII. Come i Tarlati sconfissono i cavalieri de’ Perugini205
Cap. XXIII. Come i Fiorentini procuraro di mettere gente nella Scarperia207
Cap. XXIV. Come la reina Giovanna si fece scusare in corte di Roma209
Cap. XXV. Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono guerra in mare210
Cap. XXVI. Come l’armata genovese andò a Negroponte e assediò Candia, e quello che ne seguì212
Cap. XXVII. Come i Veneziani feciono lega co’ Catalani, e di nuovo armarono cinquanta galee213
Cap. XXVIII. Come la imperatrice di Costantinopoli col figliuolo si fuggì in Salonicco215
Cap. XXIX. Come la Scarperia sostenne la prima battaglia dal Biscione216
Cap. XXX. Come la Scarperia riparò alla cava de’ nimici218
Cap. XXXI. Del secondo assalto dato alla Scarperia220
Cap. XXXII. Del terzo assalto dato221
Cap. XXXIII. La partita dell’oste dalla Scarperia224
Cap. XXXIV. Come l’armata de’ Genovesi si partì da Negroponte e andò a Salonicco226
Cap. XXXV. Come i Veneziani e’ Catalani s’accozzarono in Romania con l’altra armata228
Cap. XXXVI. Come i Brandagli si vollono fare signori d’Arezzo229
Cap. XXXVII. Di quello medesimo231
Cap. XXXVIII. Come il re Luigi mandò il gran siniscalco ad accogliere gente in Romagna234
Cap. XXXIX. Come il re Luigi accolse i baroni del Regno e andò in Abruzzi236
Cap. XL. Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che pasquavano con lui237
Cap. XLI. Come papa Clemente sesto fe’ la pace de’ due re239
[304]
Cap. XLII. Come messer Piero Saccone prese il Borgo a san Sepolcro240
Cap. XLIII. Come i Perugini arsono intorno al Borgo e sconfissono de’ nimici243
Cap. XLIV. D’una cometa ch’apparve in oriente245
Cap. XLV. Come fu preso il castello della Badia de’ Perugini, e come si racquistò246
Cap. XLVI. Come i Fiorentini cercarono lega co’ comuni di Toscana, e accrebbono loro entrata248
Cap. XLVII. Come i Romani feciono rettore del popolo249
Cap. XLVIII. Di una lettera fu trovata in concistoro di papa252
Cap. XLIX. Come il re d’Inghilterra essendo in tregua col re di Francia acquistò la contea di Guinisi253
Cap. L. Il piato fu in corte tra’ due re per la contea di Guinisi254
Cap. LI. Come l’arcivescovo di Milano ragunò i suoi soldati per rifare guerra a’ Fiorentini255
Cap. LII. Come i Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi mandarono ambasciadori a corte257
Cap. LIII. Come l’ammiraglio di Damasco fece novità a’ cristiani258
Cap. LIV. Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello260
Cap. LV. Come la Scarperia fu furata e racquistata261
Cap. LVI. Come messer Piero Sacconi cavalcò con mille barbute infino in su le porte di Perugia263
Cap. LVII. Come i Chiaravallesi di Todi vollono rubellare la terra e furono cacciati264
Cap. LVIII. Come que’ da Ricasoli rubellarono Vertine a’ Fiorentini265
Cap. LIX. Come i Veneziani e’ Catalani furono sconfitti in Romania da’ Genovesi267
Cap. LX. Di quello medesimo272
Cap. LXI. Come per le discordie de’ paesani la Sicilia era in grave stato273
Cap. LXII. Come fu in Firenze tagliate le teste a più de’ Guazzalotri di Prato274
[305]
Cap. LXIII. Come il tiranno d’Orvieto fu morto277
Cap. LXIV. Come i Fiorentini assediarono Vertine278
Cap. LXV. Come in corte fu fermata la pace dal re d’Ungheria a’ reali di Puglia278
Cap. LXVI. Come l’arcivescovo trattava pace colla Chiesa280
Cap. LXVII. Della gran fame ch’ebbono i barbari di Marrocco282
Cap. LXVIII. Come i rettori di Firenze cominciarono segretamente a trattare accordo con l’eletto imperadore282
Cap. LXIX. Come la gente de’ Fiorentini che andavano a fornire Lozzole furono rotti dagli Ubaldini283
Cap. LXX. Come s’ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca284
Cap. LXXI. Esempio di cittadinesca varietà di fortuna285
Cap. LXXII. Come un gran re de’ Tartari venne sopra il re di Proslavia287
Cap. LXXIII. Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio289
Cap. LXXIV. Come l’armata de’ Genovesi andò a Trapenon per danneggiare i nemici290
Cap. LXXV. Come i Genovesi assediarono Costantinopoli291
Cap. LXXVI. Concordia fatta dall’imperadore a’ comuni di Toscana293
Cap. LXXVII. Come si levò una compagnia nel Regno, e fu rotta dal re Luigi294
Cap. LXXVIII. Come i Perugini guastarono intorno a Cortona295
Cap. LXXIX. Come i Fiorentini fornirono Lozzole296

    ERRORICORREZIONI
 
TOMO PRIMO
 
p.7v.28li ro (in alcuna copia)libro
1126volsonovalsono
172 e 10principiprincipii
2025traditore, del sangue tuo che farai?traditore del sangue tuo, che farai?
4413ch’ cardinalich’e’ cardinali
10015o ch’glio ch’egli
11814comincioronocominciarono
12310in sopettoin sospetto
1772, e 3fanti. Alla venuta dell’oste messer Giovannifanti alla venuta dell’oste, messer Giovanni
20212il destroil destro,
2367ch’frache fra
2593che v’ n’aveache ve n’avea
26824o passaree passare

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazioneminimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 1 ***
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