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The Project Gutenberg eBook ofLa guerra del Vespro Siciliano vol. 1
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Title: La guerra del Vespro Siciliano vol. 1
Author: Michele Amari
Release date: July 14, 2009 [eBook #29409]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Print project.)
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GUERRA DEL VESPRO SICILIANO VOL. 1 ***
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net(This book was produced from scanned images of publicdomain material from the Google Print project.)
LA GUERRA
DEL
VESPRO SICILIANO
o
UN PERIODO DELLE ISTORIE SICILIANE DEL SECOLO XIII
PER MICHELE AMARI
SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA E CORRETTA DALL'AUTORE E CORREDATA DI NUOVI DOCUMENTI
PARIGI BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA 3, QUAI MALAQUAIS, PRÈS LE PONT DES ARTS STASSIN ET XAVIER, 9, RUE DU COQ
1843
PREFAZIONE.
Questo libro si pubblicò in Palermo, non è ancora un anno, col titoloun po' lungo e indeterminato di «Un periodo delle istorie sicilianedel secol XIII.» Non ebbe altro proemio che i due primi paragrafi delprimo capitolo. Ma nella presente edizione, perchè avvi qualche cosadi nuovo, mi par bene intrattenerne il lettore per poche pagine.
E per cominciare da ciò che rileva meno, avverto che ho fatto alcunecorrezioni di stile; senza presumere di essere pervenuto con ciò allaforma, che a me stesso sembri la migliore. Anzi io, che pur troppo nedebbo saper la cagione, veggo quanto niun altro, in molti squarci e indue o tre capitoli interi, il dettato disuguale, febbrile, spezzatocome la parola di chi è tra i tormenti, tale da non correggersi chescrivendo da capo: e così avrei fatto se avessi potuto o ritardar lapresente edizione, o posporre altri studi ai quali m'incalza unardente desiderio d'illustrar le memorie della Sicilia.
Ma col favor de' nuovi materiali, la più parte inediti, che horinvenuto a Parigi, e sommano a un centinaio tra diplomi e altrenotizie, io ho potuto aggiungere o convalidare alcuni fatti di granmomento. Molte memorie dovean qui restare, attenenti a una dominazioneche uscì dalla Francia; e che toccata quella fiera scossa dellarivolta di Sicilia, ebbe ricorso nuovamente alla Francia; la trassealla guerra di Spagna; e s'aiutò per venti anni della sua influenzapolitica e delle sue armi. Fattomi, con questa {ii} certezza, acominciar le ricerche, le trovai facili pel favore de' molti egregiFrancesi e Italiani che m'aprivan le braccia in questa ospitalissimaFrancia, usando meco non solamente con gentilezza, ma sì conbenevolenza, con sollecitudine, con affetto; i nomi de' quali nonripeto, perchè quando si parla d'uomini sommi, anche la espressionedella gratitudine può parer vanità. Mercè d'essi e degli ordini sìcivili del paese, frugai gli archivi del reame di Francia, ove ognunoè culto e gentile; e ne ho tratto diplomi assai importanti. La fortunami portò alle mani due volumi di pregio non minore, quand'io volliaffacciarmi nell'immensa miniera de' Mss. della Biblioteca reale.Altre carte ho cavato dalle opere degli spagnuoli Feliu, Capmany, eQuintana; poche più da altri libri.
Per tal modo nel cap. II, ho potuto far menzione d'un disegno assaigrave, ancorchè non mandato ad effetto, cioè una partizione delleprovince del reame di Puglia, proposta da Urbano IV a Carlo d'Angiò,prima della nota concessione feudale. La notizia d'un'atroce prigionedi stato che Carlo tenea in Napoli, e altri particolari della suatirannide, aumentano la descrizione ch'io n'abbozzava nel cap. IV. Ilcap. V. risguardante le relazioni politiche esteriori, e l'opinion delpopolo è rimaneggiato e accresciuto molto. Perchè alcune notiziepubblicate recentemente intorno al Sordello della Divina Commedia, ela relazione Ms. ch'io trovai d'una ambasceria della corte di Franciaper la crociata del 1270, ritraggon sempre meglio le sembianze nienteamabili di Carlo d'Angiò. È determinata la patria dello ammiraglioRuggier Loria: è ammesso a riputazione letteraria il nome di Giovannidi Procida, per un'opuscolo di filosofia morale, ch'ei tradusse dalgreco o compilò. {iii} In fine ho avuto luogo a riferire il vespro,non solamente alla reazione degli oppressi contro gli oppressori, maanche all'antagonismo della nazion latina, che s'era sviluppato controi Francesi per tutta l'Italia. Il mostra assai chiaramente unaepistola de' Siciliani, piena di poesia e di fuoco, dalla quale hotolto, per accennare l'opinione pubblica del tempo, alcune frasi, diquelle vere e viventi che l'immaginazione de' posteri invano si sforzaa ritrovare.
Il medesimo documento mi ha fornito un altro fatto nel cap. VII; ch'èaccresciuto ancora dalla lettera di Carlo d'Angiò, che diè contezzadalla rivoluzione a Filippo l'Ardito, e gli domandò soccorso; senzaaccennare il menomo sospetto di Pietro d'Aragona o d'alcuna congiura,e senza punto ingannarsi su le difficoltà del racquisto della Sicilia.Non manca qualche notizia cavata dalle nuove carte nei cap. VIII, IX,X ed XI; come le negoziazioni di Filippo l'Ardito con Genova; diPietro d'Aragona co' cittadini di Roma, e col re di Tunis; lepreghiere che Carlo d'Angiò moribondo indirizzava al re di Francia,ec. È rimutato il principio del cap. XII per alcuni diplomi che svelanle pratiche della corte di Francia su la guerra d'Aragona. Un breve diMartino IV, tra gli altri, dà a vedere come il parlamento di Franciafosse l'arbitro di questa impresa; e con che audacia la contrastasse.
E scorrendo i cap. XIII e XIV si potrebbero osservare qua e là, altriparticolari su le negoziazioni che portarono i re d'Aragona adabbandonar la Sicilia; onde questa innalzò al trono Federigo II. Unapoesia provenzale di Federigo, con la risposta d'un suo cavaliere, mifecero aggiugnere alcuni righi nel cap. XV; come altri versiprovenzali mi avean suggerito qualche parola ne' cap. V, XII e XIII,su Carlo d'Angiò, {iv} Pietro e Giacomo d'Aragona. Nello stesso cap.notansi altri documenti su l'ammiraglio Loria; nel XVII confermansi iparticolari della battaglia della Falconarìa, con una lettera di CarloII di Napoli a Filippo il Bello, piena di lusinghe e di preghiere, perottener novelli soccorsi dalla corte di Francia. Infine molte notiziesu l'ultimo sforzo che fu affidato a Carlo di Valois, aumentano ilcap. XIX; tra le quali non è da tacersi un diploma di Carlo II, cheprevedea la necessità della pace con la Sicilia, e un altro intorno idritti ch'or chiameremmo d'albinaggio, che rinnegaronsi in teoria, erinunziaronsi in fatto, su i beni de' Francesi dell'esercito delValois, che venissero a morte nelle terre soggette al re di Napoli.Nuove autorità ho aggiunto alla appendice, destinata al minuto esamedelle memorie storiche su la supposta congiura. Per tutto il corsodell'opera ho fatto menzione soltanto nelle note, di quei documenti,che nulla mutavano ne' fatti raccontati. E seguendo lo stesso metododi pubblicare i documenti inediti più importanti, ne ho aggiuntotredici a que' della prima edizione: e sono numerati VI, VII, XIV,XXIV, XXXII e dal XXXVII al XLIV.
Tali son le differenze di questa sopra la prima edizione: ciò che nonè mutato, nè mutabile io spero, è la coscienza che guidò il miolavoro. L'intrapresi per fare un saggio di quelle istorie particolari,che sopra tutt'altre convengono a' tempi nostri. Scelsi il vesprosiciliano come il più grande avvenimento della Sicilia del medio evo:il che se si chiamasse umor municipale, sarebbe mal detto; perchè laSicilia parmi assai grande per una città; e l'amore del proprio paese,il rammarico de' suoi mali, e il desiderio della sua prosperitàcomunque possan portarla gli eventi, non si {v} dee confondere conl'egoismo di municipio che dilaniò un tempo l'Italia; passionefunesta, dileguata per sempre, io lo spero, insieme con l'ambizione ditirannide d'ogni popolo italiano sopra l'altro. Guardando il vespro davicino, lo trovai più grande; si dileguarono la congiura e iltradimento; l'eccidio si presentò come cominciamento e non fine d'unarivoluzione; trovai l'importanza nella riforma degli ordini dellostato; nelle forze morali e sociali che la rivoluzione creò; neivalenti uomini che spinse per vent'anni tra i combattimenti e i negozipolitici: vidi estendersi in altri reami, e perpetuarsi in Sicilia, efors'anche nel resto d'Italia, gli effetti del vespro. Donde poteabene accendersi in me il severo zelo della verità istorica; e potevaio difendermi dall'inganno delle mie passioni nell'esame de' fatti,ancorchè punto non mi sforzassi ad occultarle nelle parole.
Giovanni di Procida, per amor della patria e vendetta privata, sipropone di toglier la Sicilia a Carlo d'Angiò; l'offre a Pietro red'Aragona, che vantava su quella i dritti della moglie; cospira conPietro, col papa, con l'imperatore di Costantinopoli, coi baronisiciliani: quando è in punto ogni cosa, i congiurati danno il segno;uccidono i Francesi; esaltan Pietro al trono di Sicilia. Tale è stata,poco più, poco meno, l'istoria del vespro siciliano: e sempre si èarrestata al caso del vespro, o tutto al più, alla mutazione didinastia che ne seguiva. Per vero alcuni storici moderni, la più parteoltramontani, dubitarono d'una trama sì vasta, segreta, felice; ma nonprendendo a investigare minutamente i fatti, perchè scorreanovastissimi tratti di storia, prevalse sempre quella credenza, ripetutaa gara da tutti gli altri storici, e da' Siciliani soprattutto; e sicontinuò a fabbricare su la congiura. {vi}
Io credo aver dimostrato che il vespro non nacque da alcuna congiura;ma fu un tumulto al quale diè occasione l'insolenza de' dominatori, ediè origine e forza la condizione sociale e politica d'un popolo nèavvezzo nè disposto a sopportare una dominazione tirannica estraniera. I novelli documenti che possono sparger luce su l'originedella rivoluzione, la lettera dello stesso Carlo, quella de'Siciliani, non poche altre bolle papali inedite, confermano certamentequesta conchiusione. Al suo popolo, non ai potenti, la Sicilia deequella rivoluzione che nel secol XIII la salvò dalla estrema vergognae miseria, dalla corruzione servile, dall'annientamento. Al vespro diSicilia dee il reame di Napoli una riforma di governo, che moderò perqualche tempo i suoi mali, ma non potè poi allignare. Il vesprorisparmiò a tutta l'Italia molti fieri contrasti con la dominazioneangioina, che potea conturbare la penisola, non mai ridarla sotto unoscettro: il vespro, per tristissimo compenso, aprì in Italia la stradaalla dominazione spagnuola. Esso voltò il corso degli avvenimenti inLevante, disarmando l'ambizione di Carlo: esso per poco non mutò lesorti dell'Europa occidentale, dando occasione alla prima guerra diconquista tentata dalla Francia su la penisola spagnuola. Ma lasciandodi considerare le conseguenze esteriori del movimento di questopopolo, che or somma a due milioni, e non n'era forse la metà nelsecolo XIII, e restandoci agli effetti nella Sicilia stessa,importantissimi li vedremo; perchè la rivoluzione che mutò prima laforma del governo, poi la dinastia, indi la persona del principe,rimasta salda e vittoriosa al finir della guerra, tramandò alle etàavvenire, in mezzo a tanti mali inevitabili, due fatti da non sidileguare sì tosto: una gran {vii} tradizione; e uno statuto politicoche molto ristrinse l'autorità regia.
Quella tradizione, quelle franchige, ressero a un secolo d'anarchiafeudale; a tre di governo spagnuolo; duraron tutto il secolodecimottavo, e gran tratto del decimonono. Nè alcuno troverà ch'ioporti esempi, come or diciamo, liberali, quando parlo di Carlo V e diFilippo II; nè ch'io cerchi autorità sospette o leggiere, quando citoil professor tedesco Ranke, e le sue considerazioni su gli Osmanlis ela monarchia spagnuola ne' secoli XVI e XVII. E pure in quest'opera sidimostra la pertinace resistenza della nazion siciliana control'autorità regia ai tempi di que' principi sì dispotici e duri; e conche difficoltà il parlamento di Sicilia consentisse loro alcuno scarsosussidio, mentre il reame di Napoli, la Lombardia, i Paesi Bassi, lamedesima Castiglia, tutta la monarchia infine, dall'Aragona in fuori,era oppressa dalle imposte, e dalla novella austerità del governo.Que' nostri ordini pubblici restarono sotto Carlo III, quando i duereami di Napoli e di Sicilia si divisero dalla Spagna; quegli ordinifurono cangiati nella forma e non certo nella sostanza, pe' mutamentidel 1812: ed è bizzarra cosa a riflettere, che nel 1815 il congressodi Vienna, rimescolando tutte le masse minori, tarpando e scorciando,come in ogni altro stato d'Italia, le franchige della Sicilia, nonseppe annullarle del tutto. Gli statuti degli 8 e 11 dicembre 1816,dettati, come pur furono in quanto alla Sicilia, dal solo potereesecutivo senza partecipazione del legislativo, unirono, egli è vero,i due reami di Napoli e di Sicilia più strettamente che ai tempi diCarlo III, dileguarono per via di fatto le forme costituzionali orappresentative, ch'erano state in Sicilia senza {viii} interruzioneinfin dal secolo XI, ma par cucirono nelle nuove fogge, pochi straccidell'antico manto di porpora; perchè non si potè fare a meno dimantener qualche ultima franchigia nell'ordine giudiziale eamministrativo della Sicilia: e franchigia è per certo, la promessadata chiaramente nello statuto dell'11 dicembre, che il reconvocherebbe il parlamento di Sicilia, se dovesse accrescere i pesipubblici oltre la somma decretata dall'ultimo parlamento.
Così veggonsi per cinque secoli e mezzo, non solamente nel drittopubblico, ma fino nel fatto degli ordini pubblici di Sicilia, comechèsempre decrescenti, gli effetti di quel potente movimento popolare delsecol XII. Se ne potrebbero al pari scerner le vestigie nell'indoledel sicilian popolo d'oggi, se fosse agevole, come quella delleistituzioni, l'analisi delle cagioni naturali e sociali onde nascono icostumi d'un popolo. Ma in tale investigazione gli effetti del vesproandrebbero confusi con l'indole che produsse il vespro; della qualeognun può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forseperchè son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto megliocomprendere la sollevazione del 1282 sì com'essa nacque, repentina,uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta algirar d'uno sguardo.
Parigi, aprile, 1843.
LA GUERRA DEL VESPRO SICILIANO.
CAPITOLO PRIMO.
Intendimento dell'opera. Viver civile del secolo XII. Potenza della Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d'Italia e dei reami di Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II imperatore, e papa Innocenzo IV.
La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati,mutabilissima è; donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quandopiù irreparabilmente sembra perduta, d'un tratto ristorasi, per virtùdi principe, o impeto di popolo. Splendono allora egregi fatti incittà e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione, espezzansi ingiuriosi legami stranieri, si abbatte al di dentro unaviziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato. Questa, alveder de' savi, è la gloria vera delle genti. Questa è degna che siriduca spesso alla memoria loro, per francheggiare gli abbattuti evergognosi animi. Del rimanente, che portan gli annali de' popoli, senon disuguaglianza di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre,paci bugiarde, sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono efanno, moltissimi che si lagnan solo, e immolato, il ben comune dacontraria tendenza delle cupidigie {2} private? E sarebbero argomentida ammaestrar gli uomini sì, ma di tal dottrina, che li volge adisdegnosa accidia, anzi che prontarli a virtude.
Però mi son proposto, io Siciliano, di narrare la mutazion didominio, che seguì nella mia patria al cader del secolo decimoterzo.E in vero, lasciati i tempi rimoti troppo, difformi per costumi,religione, linguaggio, e tutt'altra parte di civiltà, veggo dalmilledugentoottantadue infino al trecentodue le glorie maggiori dellaSicilia; e venti anni innanzi un tal eccesso di tirannide, che radevolte si è sopportato l'uguale: nè parmi che alcuno scrittore abbiatutto abbracciato questo memorevol periodo, nè dirittamenteinvestigatolo, nè degnamente descritto. Ciò non presumo compier io,ma certo vi porrò ogni sforzo. Non asconderò nè l'amore, nè l'ira;perchè uomo invano promette spogliarsene ove narri i fatti degliuomini. Ben mi guarderò che quelle passioni non mi tirino a sfigurarela storia contro mia volontà; nè dico del falsarla, che sarebbe,secondo il fine, o fanciullaggine o malignità e colpa sempre, ancheverso la patria, cui van ricordate con ugual candore le virtù, glierrori e i misfatti, i lieti e i tristi giorni delle generazioni chetennero un tempo questi nostri medesimi focolari. Io so, chescrivendo di età lontane, spesso viensi, come dice un felicissimoingegno, a far l'indovino del passato. Ma mi studierò a dare allaimmaginativa il men che si possa. E perchè i fatti, e là dov'essimanchino, le induzioni, abbiano saldo fondamento, non ritrarrò iprimi altrimenti che da scrittori contemporanei o diplomi[1]. Delle{3} memorie repugnanti tra loro, seguirò quelle di maggior autorità,sia per sè medesime, sia perchè si accordino con le necessità degliuomini e de' tempi.
E su i tempi rivolgendo indietro lo sguardo, io non dirò, per essercose a tutti notissime, nè gli ordini del governamento feudale cheingombrava l'Europa, nè i vizi di quello, nè i passi che moveansi allariforma nel secolo decimoterzo. Quali nascer possono da poter civile,non già diviso ma senza misura fatto a brani e fluttuante, da estremadisuguaglianza ne' dritti e negli averi, e poco men che universaleignoranza, deturpata religione, leggi impotenti, e uso alla violenza,e necessità della frode; e tali erano i costumi: nè la riforma, dubbiae tarda, li moderava per anco. Necessaria è per natura, nei costumide' popoli, una mescolanza di buono e di tristo, della quale per leggied esempi mutansi alquanto le proporzioni, e non si spegne pur mainessuno degli elementi; ma in quella età forse al peggio sitraboccava, sopra il biasimo de' tempi nostri. Certo egli è, che intal mezza barbarie, sciolti gli uomini dalla menzogna delle infiniteforme, che oggidì ne inceppano a ogni passo nel viver domestico ecivile, le grandi passioni, o buone o triste, più rigogliose sorgeano,e più operavano.
Tra così fatti uomini, tra la divisione e debolezza degli stati, ilsacerdozio giganteggiava; raccogliendo i frutti della mansueta pietàdei tempi apostolici, del fervore delle prime crociate, dellaignoranza lunghissima dei popoli. Fu la religione di Cristo nei secolidi mezzo sola luce e {4} conforto ai buoni; seguita anco dai pravi,perchè feano a metà: calpestavanla nelle opere, la onoravano dellafede e del culto, a quetar la cieca paura delle loro coscienze. Iministri perciò dello altare, crebbero di riputazione, crebbero diricchezze; chè vantaggiavano inoltre i laici per lume di scienza, eadopravan destri ambo le chiavi, e non pochi la purità del Vangelocontaminavano con la superstizione, che ai barbari è più grata. Apuntellarsi di loro autorità pasceanli i grandi; i popoli indifesiteneano a loro, credendo trovar sostegno, e in realtà ne davano: masoprattutto fu la corte di Roma che consolidò la smisurata possanza.Perchè assicuratosi non disputato comando su le chiese d'Occidente, lemedesime arti che adopravan quelle in minor campo, spiegò ardita esapiente tra i reami; nel cui scompiglio tenne dritto il corso a' suoidisegni; trapassò dai dommi e dalla morale, ai civili negozi. Indi,fortificandosi a vicenda il papa e 'l clero, questo per tutta Europaimbaldanziva e prevaleasi, come milizia di possente dominazione;quegli, come capitano d'immense forze, sopra ogni altro principe silevò.
Non è che molti umori non sorgessero contro la romana corte nel secolodecimoterzo. Perciocchè un desiderio novello movea gl'ingegni;prendeansi a ricercar tutte le parti dell'umano sapere; si arricchianoi savi di antiche lettere e dottrine: i quali, ancorchè pochidapprima, e più radi ove lo stato più discostavasi da libertà, perogni luogo pure la scintilla del sacro fuoco accendeano. Sollevaronsipertanto gl'intelletti più audaci a meditare sulla mistura delle duepotestà, a contemplare i costumi del clero; nè fu lieve incitamento lagelosia de' reggitori degli stati, svegliata da tanti fatti. Quindimostravano già il viso alla corte di Roma que' ch'erano più avvezzi a'suoi colpi; il gregge provocato, si voltava con aspri insulti controil pastore; gli anatemi, per troppo usarsi, perdean forza; {5}pensavano gli uomini e parlavano arditamente di cose tenute in priasacre come la fede istessa. Nascean così le idee, che Dante tuonò dital forza; e a fatica si faceano strada tra le inerti masse, doveallignarono infine, e amari frutti portarono alla corte di Roma.
Ma queste opinioni ristrette a pochi, se urtavano talvolta la suapossanza, non la menomavano per anco nel tempo ond'io scrivo. Mentrele ambizioni de' chierici passavano ogni misura, mentre cupidigia, esimonia, e libidine lussureggiavano nella vigna del Signore, tremavandel clero i popoli, e il successor di Pietro stendea la mano su ireami e su i re. Che se tal fiata prevalse la brutal forza sullamorale, la prepotente opinione fece risorger tosto più gagliardo ilpontefice. Sì il veggiamo oltremonti levare a sua posta il vessillode' re o de' popoli, ed accender guerre, e cessarle, e trar tesori, edove moderare le dominazioni, dove dare o strappar corone: quanto piùlontano, più venerando e terribile. In Italia intanto, trasportato daiturbini delle contese civili, più fiero pugnava coll'oro dicristianità tutta; e chiamava straniere nazioni, e opponea l'unaall'altra; t'innalzava oggi, diman ti spegnea.
Avvegnachè il bel paese già si disputava acerbamente tra la Chiesa el'impero. Dietro la occupazion di Carlo Magno e degli Ottoni, la piùparte d'Italia era rimasa sotto la signoria feudale degl'imperatorid'Occidente. Succedettero i dappoco a quei forti; i grandi feudatarilaceraron l'impero; tosto divenne nulla o nominale di qua dalle Alpila tedesca dominazione. E in questo, crescea la Chiesa, e confortavagl'Italiani alla riscossa, con lo scritturale spirito di uguaglianza edi libertà. In questo, la industria, il commercio, le scienze, lelettere rinasceano in Italia a mutare le sorti del mondo. Quegliesercizi, quelle discipline, trasser fuora dalla cieca moltitudine diplebi, vassalli, e nobili minori, un'ordine nuovo: il popolo, ch'èsolo fondamento {6} ad uguaglianza e viver libero. Donde, volgendoprestamente la feudalità all'anarchia feudale, e questa nel nuovoordine imbattendosi, sursero nel secolo undecimo repubblichemercantesche; nel seguente e nel decimoterzo, la Lombardia e laToscana fioriron di città industri e guerriere, che scosso ogni giogo,si governarono a comune: e i feudatari si fecero cittadini ocondottieri, alla lor volta richiedendo il sostegno delle cittàdivenute più forti. E quando il reggimento di pochi o di un solooccupava alcuna città, d'altra fatta esso rinasceva, e meno tendente abarbarie; perchè non più n'era fondamento la ignava necessità delvassallaggio, ma la divisione o l'inganno de' cittadini; i quali, semetteansi il giogo sul collo, non mutavano i modi del vivere, nèperdeano la virtù di affranchirsi. Rinnovellandosi in tal guisa gliordini civili, fortificossi la virtù guerriera; si rianimarono levirtù cittadine; si apersero gl'ingegni agli alti concetti dellafilosofia e della politica; una forza ignota agli oltramontanisolidamente feroci, scorse di nuovo per le vene dell'italian popolo,stato dianzi signore del mondo. Il perchè gagliardamente ributtaronsigl'imperatori accaniti con loro masnade a ripigliare il dominio; manon tolleraronsi gli ordini, che poteano scacciarli per sempre. E 'lrapido accrescimento dell'ordine popolare ne fu cagione. Perocchè inaltre nazioni, generandosi lentamente, fu adulto assai secoliappresso, quando la monarchia, domi i baroni, avea consolidato e resouno il reame; onde il popolo, riscotendosi, fu animato da virtùnazionale. Ma in Italia surse mentre province e città erano piùstranamente divise dall'anarchia feudale; laonde, non veggendo altroche i propri confini, quei popoli presero umori e virtù municipali.Operose virtù, che prodigiosamente aumentarono la possanza di ognicittà; ma tolsero al tutto che l'universale in reggimento durevoles'assestasse. Così se in alcuna provincia si feano accordi a comune{7} difesa, nè alle altre si estendeano, nè duravano oltre l'immediatobisogno. Difformi i reggimenti, e mutabili, e incerti; e qual città siricattava, qual ricadea sotto immane tirannide. Brulicavano in Italiacento e cento piccoli stati, pieni di passioni, di vita, di sospetti,di nimistà; pronti a servir ciecamente ad ambizioni maggiori, che nelparteggiare trovavan campo, e più rinfocavano a parteggiare.
Ondechè la corte di Roma, conscia delle sue forze, agognò alladominazione, or mettendo innanzi concessioni e diritti, or sottospecie di farsi scudo a libertà; e gl'imperatori tedeschi, com'e'poteano, al racquisto del bel giardino sforzavansi. Elettivo allora diGermania il re, che re de' Romani per vanità pur s'appellava, eimperatore, quando assentialo il papa, arrogantesi dar questo titolo equesta corona; ma disputata e mutila, sotto il gran nome de' Cesari,l'autorità. Tenean ogni possanza in Lamagna i grandi feudatari, e lecittà libere; indocili, gelosi, di lor franchige superbi. Donde nègagliardi, nè continui gli sforzi degl'imperatori su l'Italia; impresedi venturieri, non guerre di poderosa nazione: e scorati e stanchiavrebbero forse i Tedeschi lasciato quest'ambizione, se l'Italiamedesima non si fosse precipitata ad aiutarli con quella maladiziondelle parti, i cui nomi a maggior vergogna si tolsero da due casetedesche. I Guelfi allo inerme pontefice, gli altri allo stranierolontano, davan fomite e forza; tra loro atrocemente dilaniavansi; e aquesto eran paghi, di libertà, di servitù non curandosi. E quasi nonbastassero a lor passioni insociali quelle divisioni, le tramutavanoin altre di nomi e sembianze diverse; nelle repubbliche vi simescolavano le usate parti di nobili e popolani: era per tutto unaconfusione, una rissa brutale. Così stoltamente sciupossi quel nerbodi valor politico ond'era rigogliosa l'Italia; l'Italia si preparòsecoli, e chi sa quanti? di servitù senza quiete. {8}
La Sicilia, e la penisola di qua dal Garigliano poco diverse daglialtri popoli italiani per gente, linguaggio, tradizioni e costumi,reggeansi pure con altri ordini. Mentre nel rimanente d'Europa laprogenie settentrionale, perdute le virtù de' barbari, ne ritenea soloi vizi, ebbe la Sicilia, al par che la Spagna, il dominio degli Arabi,culti se non civili, attivi e pronti come popolo testè rigenerato. Laregione di terraferma, or invasa dai barbari, or dagli imperatorigreci ripigliata, divideasi in vari stati, sotto reggimenti diversi,alcun dei quali pigliava la forma delle nascenti repubbliche italiane,quando una man di venturieri normanni venuta a difendere, si fe'occupatrice, e istituì gli ordini feudali. Altri di questa gentepassando in Sicilia allo scorcio del secolo undecimo, e scacciando iSaraceni, nimicati dagli altri abitatori per la diversa religione e lostraniero dominio, fondaronvi un novello principato, e primi recaronvila feudalità[2]. La quale, perchè in Europa già piegava a riforma, quisurse più civile e giusta; temperandola ancora la virtù e riputazionedi Ruggiero duce de' vincitori, la influenza delle grosse città, e imolti poderi che s'ebber le chiese nelle prime caldezze dellacristiana vittoria, le proprietà allodiali, le ricchezze, il numerode' Saracini venuti a patti più che spenti, e de' cristiani stessi diSicilia. Così il conte Ruggiero, principe di liberi uomini, non capodi turbolento baronaggio, e vestito dell'autorità di legatopontificio, ch'è infino ai dì nostri egregio dritto della corona diSicilia, fortemente e ordinatamente il nuovo stato reggea. Titolo glidiè poi {9} di reame un altro Ruggiero, figliuolo del conte, posciachècon le arti e con le armi tolse Puglia e Calabria agli altri principinormanni; e dai baroni quivi più possenti, e dal papa, e dalloimperatore, gagliardamente difesele con le siciliane forze. Quindi fugridato dai parlamenti, e in fine, per amore o per forza, riconosciutodal papa, re di Sicilia, duca di Puglia e di Calabria, principe diCapua. Costui ritirando ver la corona l'autorità dei magistrati,contenendo i baroni, assestò il reame con ordini civili, ravvivò leindustrie, e vittoriosamente adoprò fuori le armi sue.
Due forze turbarono questa novella monarchia siciliana: che furono, ilbaronaggio non sì gagliardo da mettere al nulla l'autorità regia, mabaldanzoso abbastanza da provocarla; e la corte di Roma, la qualeattirò i nostri principi nelle contese italiane, or chiamandoli insostegno, or vantando dritti su lor province, e combattendoliapertamente. Pure la monarchia, per la virtù della sua primafondazione, stette salda a que' colpi; si ristorò con migliori leggisotto il secondo Guglielmo; e avrebbe potuto per avventura dopo lunganeutralità alzare un vero vessillo italiano, e messi giù lo imperatoree il papa, da sè occupare o proteggere tutto il paese infino alleAlpi: ma essa dal sangue normanno passò per nozze a casa sveva[3], chetenea di que' tempi lo impero. Indi la potenza di Sicilia e di Pugliaprese le ingrate sembianze di ghibellina: e dopo il regno delloimperatore Arrigo, che per essere stato breve ed atroce, nulla operò,vidersi questi due reami avvolti nella gran lite d'Italia. Perchè dalcominciamento al mezzo del secolo decimoterzo regnovvi Federigo IIimperatore, prò nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotordelle lettere italiane, costante nemico di Roma. {10} RaffrenòFederigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi;chiamò nei parlamenti nostri i sindichi della città; repressenondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente imagistrati, vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavandi Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle deiNormanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la suagloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa lanecessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsenealla guerra di fuori.
Dondechè mentre i due potentati acerbamente si travagliavano con leastuzie, con le armi, con gli scritti, e, incontrando varia fortuna,or fean sembiante di venire agli accordi, or più feroci ripigliavan leoffese, crebbero nei reami di Sicilia e di Puglia pericolosissimiumori; come avviene dal troppo tender l'arco che i governanti fanno,sperando che pur sempre si pieghi. Innocenzo IV, pontefice dialtissimi spiriti, se ne accorse, e principiò a gridare il nome dilibertà, non che alle cittadi dell'Italia di sopra, ma nei reamistessi di Federigo. E varcato già a mezzo il secolo decimoterzo,aspirava sì gagliardamente alla vittoria, che, convocato un concilioin Lione, denunziavagli la deposizione dallo impero; e tutte contro ilmagnanimo Svevo ritorcea le folgori sacerdotali.
NOTE
[1] Sconoscerei un dovere se non facessi qui menzione degli aiuti, che ho trovato a queste ricerche nella Biblioteca comunale di Palermo e nel regio archivio di Napoli. La biblioteca palermitana, dotata un dì largamente dal comune, arrichita di libri da molti cittadini, ristorata dal sommo Scinà, ed ora fiorente per lo amore e l'intendimento con cui la governano i presenti deputati, mi è stata schiusa come a chiunque; ma il valore de' bibliotecari ha agevolate le mie ricerche; e massime debbo renderne merito al sacerdote don Gaspare Rossi, lodatissimo per non comune perizia, erudizione, memoria.
Una permissione del ministero degli affari interni mi die' adito al regio archivio di Napoli: ove trovai molta cortesia in quanti reggono questo prezioso stabilimento, e in particolare nell'erudito professore signor Michele Baffi, capo dell'uficio al quale appartengono i diplomi svevi e angioini.
[2] Così scrivo non ignorando pure che alcuno abbia voluto veder concessioni feudali in tempi più rimoti; fantasie, come giudica il di Gregorio, non solidi ragionamenti. D'altronde è da distinguere feudalità da aristocrazia. Questa, dove più, dove meno, fu a un di presso in tutti gli stati. La feudalità nacque, come sa ognuno, dallo stabilimento de' barbari settentrionali, e fu un particolare modo di governo di ottimati misto di monarchia.
[3] Chiamerò così, secondo l'uso comune, la dinastia degli Hohenstauffen, duchi di Svevia.
CAPITOLO II.
Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa leprovince di terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia.Manfredi ristora l'autorità regia; e l'usurpa. A spegner lui, la cortedi Roma pratica con Inghilterra e con Francia. In fine concede i reamia Carlo conte di Angiò. Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto,e morto a Benevento. Carlo prende il regno—Dall'anno 1251 al 1266.
Alla morte di Federigo, pronto il pontefice assurse a schiantard'Italia l'emula casa sveva. E l'invidia dell'impero tenuto lungamenteda quella; e 'l sospetto della possanza che traea di Sicilia e Puglia,valser tanto in Lamagna, rincalzati delle romane arti, che Corradofigliuol di Federigo, ancorchè eletto re de' Romani, fu esclusodall'imperial seggio. A torgli i domini meridionali, papa Innocenzorifaceasi a gridare ai popoli libertà; suscitava i baroni; esortava ivescovi e 'l clero, bandiva la remissione delle peccata a chi silevasse in arme per la corte di Roma; per brevi, per legati, ad ogniordine d'uomini promettea pace, e godimento di tutte lor franchigesotto la protezion della Chiesa: istigazioni tentate indarno sul findel regno di Federigo. Pur lo zelo de' Ghibellini d'Italia, e la virtùdi Manfredi, bastardo dell'imperatore[1] e non tralignante dal paternoanimo, fecero che Corrado, spenti i nemici del suo nome, regnassealfine dal Garigliano al Lilibeo. Poc'oltre due anni regnò, che damorte fu colto: lasciando di sè un sol bambino per nome Corrado, cuidisser poscia Corradino, perchè uscito appena di fanciullo, brillò efu morto. Raccomandavalo il padre, com'orfanello {12} e innocente,alla paternale carità del pontefice; e questi più furiosamente cheprima riassaltava i reami suoi con seduzioni ed armi[2].
Prontissima tal foco trovò l'esca, per l'odio partorito agli Svevi, eal principato con essi, da quella lor dominazione avara e rigida,spesso anco crudele, e testè esacerbata nei contrasti all'avvenimentodi Corrado. I baroni tendeano a scatenarsi, pe' vizi radicali dellafeudalità e i mali esempi di fuori. Increscea il freno alle maggioricittà, aspiranti alle franchige di Toscana e di Lombardia, delle qualiavean preso vaghezza per gli spessi commerci con l'Italia di sopra, eper sentirsi forti anch'esse di sostanze e di popolo, e ravvivatedella virtù delle lettere e de' leggiadri esercizi, che fioriron sottoFederigo. Inoltre eran use al municipal reggimento, avanzo di piùfelici tempi, non dileguato dalla romana conquista, nè sotto l'impero,nè forse anco per la saracena dominazione; il qual reggimentoprovvedendo alla più parte de' bisogni pubblici, alla libertà politicanon restava che un passo. E suol sempre all'autorità dello statoincerta o vacillante sottentrar la municipale, che più si avvicinaalla semplicità de' naturali ordini del vivere in comunanza, e ipopoli, come cosa {13} propria, l'odian manco. Però in tantoscompiglio ne crebbe la riputazione delle municipalità, e con essa labrama dello stato libero. La quale fors'era più viva in Sicilia che interraferma, per lo numero delle città grosse, e i meglio raffrenatibaroni[3]. {14}
Spiegò Innocenzo in tal punto il vessillo della Chiesa, correndol'anno milledugentocinquantaquattro; occupò Napoli con l'esercito;mandò oratori e frati a sollevare i {15} popoli per ogni luogo: ed erail re in fasce in Lamagna; il reggente straniero e dappoco; Manfredisenza forze, nè dritto alla corona. Andaron sossopra dunque i reami:chi si trovò presso al potere li die' di piglio, dove a nome del re,del papa, del comune, e dove di niuno. Quindi a poco a poco surseManfredi, praticò col papa, e pugnò; e morto a Napoli Innocenzo, erifatto pontefice Alessandro IV, gioviale, dice una cronaca[4],rubicondo, corpulento, non uomo da sostenere i disegni del fieroantecessore, lo Svevo, savio e animoso, a ripigliar lo stato sicondusse. Ma perchè l'anarchia avea preso in Sicilia le sembianze direpubblica, e fu questo lo esempio agli ordini che gridavansi poi nelriscatto del vespro, io narrerò questo avvenimento il più largamenteche si possa su le scarse memorie de' tempi.
Sedea vicerè in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie,Pietro Rosso o Ruffo. L'imperator Federigo da vil famigliare l'avealevato a' sommi gradi, com'avviene in corte a' più temerari eprocaccianti. Pensò Corrado che per opera di costui gli fosse rimasain fede la Sicilia nei turbamenti desti alla morte di Federigo; ondeil fe' conte di Catanzaro, gli prolungò il governo, e crebbegli labaldanza: chè superbamente ei reggeva, a nome del re, a comodoproprio; fattosi trapotente per dovizie e clientela, da osardisubbidire a faccia scoperta lo stesso monarca. Pertanto alla mortedi Corrado, a' rivolgimenti che seguitarono, duravane i primi impetiil conte di Catanzaro, e una certa autorità mantenea, non ostantequell'universale pendio alla repubblica; non contrastandolo, matemporeggiandosi, e procacciando in vista gl'interessi de' popoli.Anzi con la solita audacia, nel torbido aspirò a cose maggiori. Comepapa Innocenzo caldamente i Siciliani istigava {16} a gridare il nomedella Chiesa, e allettava Messina con le vecchie lusinghe diprivilegi, il vicerè intrigossi con gl'inviati delle città di Siciliaa trattare col papa; proponea, rifiutava patti; e mandò al papa congli ambasciadori di Messina, e col vescovo di Siracusa, un suo nipote;tramando sottomano farlo re di Sicilia, che dal pontefice la tenesse,e pagassegli il censo. Gonfio di questi pensieri, quando Manfredirisurto a Lucera chiamavalo all'antica obbedienza, non assentì ilconte che ad una confederazione con reciproci patti. E fidavasi tra 'lprincipato, il pontefice, e 'l popolo traccheggiar sì maestro, chedell'un contro l'altro s'aiutasse a' propri disegni.
Ma perchè non è felice poi sempre l'inganno, costui non valse araggirare a lungo le siciliane città: e porse egli stesso l'occasionea prorompere; perchè volendo coprirsi con le sembianze dellalegittimità, finchè non fosse matura l'usurpazione, battè moneta anome di Corrado secondo; ch'era un disdir netto la repubblica.Spezzata allora con esso ogni pratica, le città gridaron repubblicasotto la protezion della Chiesa: prima a ciò Palermo; seconda Patti,mossa dal vescovo; ed altre terre seguitaronle. Il vicerè spacciavaambasciatori a Palermo, ed eran respinti; vedea le città dell'Etnalevarsi tutte, e con esse Caltagirone, che pose a guasto e a sacco ivicini poderi della corona; non restava che a tentare la forza.Raccolto dunque di Messinesi, e di quanti rimaneangli in fede ungrosso di genti, il vicerè assalisce Castrogiovanni, che tentennava;e, dubbiamente difesa, la espugna. Ma quel dì medesimo Nicosiasollevasi, e poco stante molte altre terre; fino i Messinesidell'esercito levavano in capo: una stessa brama avea preso iSiciliani tutti, nè bastava a trattenerli il veleno delle divisionimunicipali. In tal disposizione d'animi, un picciolo intoppo die' iltracollo al conte di Catanzaro. Appena ributtato da uno assalto adAidone, {17} le genti sue stesse il costrinsero a tornarsi a Messina;e trovò a Messina una congiura, per disperder la quale invanoaffrettossi a entrare in città, invano fe' sostenere in palagioLeonardo Aldighieri[5] e parecchi altri cittadini de' quali più temea.Infellonisce il popolo; ridomanda gl'imprigionati; e ottenutili nons'acqueta, ma reca Leonardo in trionfo; capitan del popolo il grida;«Viva il comune, fuori il vicerè!» con lui fermansi i patti, che diaalcune castella in sicurtà, e libero sen vada con l'avere e lafamiglia. Così fu scacciata l'ultim'ombra della regia autorità.Partitosi il conte, il popolo saccheggiò le sue case; ed ei, nonosservati gli accordi, attese in Calabria ad affortificarsi. Ma quivilo inseguiano le armi di Messina; imbatteasi ancora in quelle diManfredi: e, com'e' meritava, cacciato dalle une e dalle altre,vagando senza aiuto nè consiglio, rifuggiasi in fine vergognosamentealla corte del papa.
La Sicilia intanto senz'altri ostacoli alla bramata condizione sicondusse. Messina affratellata nel comun brio, diessi tutta, comecittà rigogliosa, alle virtù e ai vizi delle italiane repubbliche.Volle un podestà straniero; al quale uficio primo chiamò Iacopo dePonte, romano. Presa poi dalla sete delle conquiste, assalse e spianòTaormina, ricusante d'ubbidirle; in Calabria occupò molti luoghi, etenne vivo il suo nome. E Palermo sospinta dagli stessi umori,occupava il castel di Cefalù, e certo anco alcun'altra terra di mezzo.Ma, quel che più rileva, intesa all'universale ordinamento, avea giàmandato oratore al papa a Napoli un Iacopo Salla, ad annunziare ilreggimento a comune sotto la protezion della Chiesa, assentitodall'isola {18} tutta. Incontanente il papa spacciò vicario Ruffin daPiacenza, de' frati minori: il quale era a grandissimo onore raccoltoin Palermo, in Messina, e per ogni luogo, e onorato con festepopolaresche; al venir suo tripudianti gli si feano incontrocittadini, e sacerdoti, e vecchi, e fanciulli; di palme e di ramid'ulivo spargeangli il sentiero, come a liberator del paese; tutti siinebriavan di gioia e di speranza nel nuovo stato. Richiamaronsiallora un conte Guglielmo d'Amico, un Ruggiero Fimetta, ed altriSiciliani usciti fin da' tempi dell'imperator Federigo, per umoriguelfi, o di libertà. Libertà gridavan tutti: le città, terre, ecastella si strinsero con patti reciproci: e su questa confederazioneil vicario pontificio comandava nel nome della Chiesa. Così intorno adue anni si visse in Sicilia, dal cinquantaquattro al cinquantasei. InPuglia e in Calabria, nel medesimo tempo, fu più contrastata ladominazione tra i principi, che bramata dai popoli la libertà; perchèmen disposti v'erano che que' di Sicilia, e il papa, e Manfredi, ambovicini, a vicenda sforzavanli a ubbidire.
E ciò sol si ritrae dagli storici de' tempi. Quali fossero gli ordinidelle novelle repubbliche di Sicilia, se popolani, se mistid'oligarchia, ne è ignoto. Forse nessuno ben saldo se ne statuì; forsecome i cittadini adunati a consiglio, deliberavano per l'addietro su inegozi municipali, come i maestrali per l'addietro li amministravano,fecesi allora in tutte le altre parti del governo. I vincoli scambievolidelle città, i limiti dell'autorità del papa e del legato, i consiglipubblici che a questo fosser compagni, non ricorda la istoria; se nonche abbiam documenti di concessioni feudali in Sicilia, fatte dal papa abaroni parteggianti per esso; la qual cosa dimostrerebbe piuttosto laconfusione o l'usurpazione dei poteri pubblici, che l'esercizio diquelli a buon dritto stabiliti. Nè alcuno scrittore ci ha tramandato{19} in che stato rimanessero i feudatari; ma li veggiamo qualeappigliarsi di gran volontà a questa novazione, e quale ubbidirla tacitoe torvo, aspettando tempo; talchè è manifesto, che gli umori guelfi eghibellini divideano già il sicilian baronaggio. Mezz'anarchia fuquella, e imperfetta lega di feudatari forti e parteggianti, di cittàaduggiate dalle radici dell'aristocrazia e del principato; e debolmenteil nome della Chiesa li rannodava. Potea il tempo consolidar quellostato, al par delle italiane repubbliche; ma il principato repenterisorto lo spense. E dalle novazioni i popoli voglion frutto piùprestamente che la natura non porta; e delusi gittansi allo estremoopposto; l'invidia morde i privati; la parte che ama gli ordini vecchirimbaldanzisce. Questo in Sicilia seguì. Risorgea Manfredi interraferma; la parte pontificia mancava; trionfava in fine la sveva. Aciò levaronsi i feudatari, che per costume, interesse e orgoglioteneano, la più parte, pel re; i repubblicani si sgomenarono; e sìrapido fu il precipizio, che pochi anni appresso, repubblica di vanitàl'appellava Bartolomeo di Neocastro.
Ondechè mentre Federigo Lancia riducea le Calabrie con un esercito perparte sveva, un altro se n'accozzò di feudatari in Sicilia. ArrigoAbate con esso entrò in Palermo; e imprigionò il legato del papa, equanti parteggiavano per lo stato libero. Corse per l'isola poivittorioso; ruppe a Lentini Ruggiero Fimetta, principal sostenitoredella repubblica, o de' feudi che per tal riputazione gli avealargamente dato papa Alessandro: ma a Taormina trovò Arrigo assai duroil riscontro; e si bilanciavan le sorti, se non era per la rotta chetoccarono i Messinesi in Calabria. Perocchè l'esercito loro, grosso dicavalli e di fanti, osteggiando in quelle province i manfrediani, fucolto con improvvisa fazione da Lancia, quando saccheggiata Seminarasbadatamente movea per lo pian di Corona; e attenagliato {20} tra dueschiere, e con grande uccisione fu sbaragliato. Federigo Lancia aquesta vittoria insignoritosi al tutto della Calabria, minacciavaMessina, e con sue pratiche fomentava per Sicilia tutta la parteregia. Prevalendo questa dunque in Messina, nè restando armi alladifesa, il podestà, per dappocaggine o necessità, si fuggia;rinnalzavasi il vessillo svevo; arrendeasi a Lancia la città. Pugnaronultime per la libertà Piazza, Aidone, e Castrogiovanni, e furonosoggiogate[6]. Così Manfredi tutti ridusse i popoli e di {21}terraferma, e dell'isola; e breve tratto per Corradino regnò. Poi loscettro ripigliato col valor suo, render nol seppe a un fanciullo; dièvoce che questi fosse morto in Lamagna; e creduto o non creduto,com'erede solo di Federigo, incoronossi in Palermo a dì undici agostomilledugentocinquantotto.
E fortemente regnò Manfredi; e placar non potendo a niun patto lacorte di Roma, disperatamente la combattea. Si fe' capo deiGhibellini: rinnalzolli in Lombardia; fomentolli in Toscana; in Romastessa ebbe seguito, la quale non sottomessa per anco ai pontefici, ereggendosi per un senatore, avea chiamato nuovamente a questo uficioBrancaleone, uomo di alto animo, che si era, per comunanza di nimistà,col ghibellino re collegato. Per le quali cose, non bastando ormai laromana corte alla tenzone, affrettossi a compiere un antico disegno.Già fin dalla morte del secondo Federigo, papa Innocenzo, perchè nonsentia nel sacerdotale braccio tanto vigore da regger Sicilia ePuglia, nè troppo affidavasi in su quegli umori repubblicani, aveacercato in ponente chi conquistasse con armi proprie lo stato, e connome di re dalla Chiesa tenesselo in feudo, e pagassele censo, eservigio militare le prestasse. Così innalzato avrebbe in Italia unpossente capo di parte guelfa, {22} e campion della Chiesa. Donde,mentr'ei qui chiamava i popoli a libertà, mercatavali come gregge,prima con Riccardo conte di Cornovaglia, fratel del terzo Arrigod'Inghilterra; poi con Carlo conte d'Angiò e di Provenza, fratel diLodovico IX di Francia; e in fine col fanciullo Edmondo, figliuolo delmedesimo Arrigo. Autentiche ne restano le bolle d'Innocenzo e deisuccessori suoi, le epistole dei re, che queste pratiche rivelantutte, dalla romana corte per sedici anni condotte a cauto passo,quand'ira o terrore non la stimolavano. E indefessa con brevi o legatia sollecitare i principi, tirare a sè i cortigiani, promettere di ognimaniera indulgenze, sparnazzare le decime ecclesiastiche dicristianità tutta alla occupazione di Sicilia e Puglia, a questobandir la croce, a questo commutare i voti presi da re e da popoli perla sacra guerra di Palestina. Spesso tra coteste pratiche, la corte diRoma per bisogno di moneta, e necessità di difendersi o vogliad'occupare alcuna provincia di Puglia, accattava danari con sicurtà sui beni delle chiese d'oltremonti; e que' prelati sforzava asoddisfarli; ai riluttanti mostrava la folgore delle censure. Alcunavolta prendeva a permutar la bolla d'investitura con somme assaigrosse di danaro: poi la brama più forte di abbatter Manfredi, rimanerla facea da cotesti guadagni. A lungo tuttavia si differì l'impresa,come superiore alle forze di cui la trattava, e disperata quasi per lapotenza e virtù di Manfredi.
Di gran volontà s'era accinto a questa guerra di ventura Arrigo,cupido dell'altrui, ma dappoco, e alla Gran Carta spergiuro, perciòcontrariato e travagliato da quegli indomiti propugnatori dellelibertà inglesi. Arrigo fermò i patti col papa, e la investituras'ebbe per Edmondo suo, e le armi faceasi a preparare; ma a tanti attine venne arbitrari e stolti, e tanto increbbero in Inghilterra leesazioni di Roma, che il parlamento pria trattenne il re dall'impresa;{23} poi richiamandosi di questi e di mille altri torti, lo spogliòdel governo, lo calpestò: e in aspre guerre civili s'avvolse il reame.Spezzavasi la pratica con Francia per niente simil cagione: chè quiviobbedienti i popoli, mite e non debole il re, d'alto animo, ristoratordelle leggi, savio moderator del governo, e di pietà sì rara, che allamorte sua fu canonizzato tra' santi. L'occupazione straniera menomavala Francia in ponente; la usurpazione de' grandi feudatari dagli altrilati; insanguinata riposava appena da una crociata infelicissima; purquello che più forte la distolse dalla siciliana impresa, fu l'animodel re, abborrente dal guerreggiar con cristiani, e dar di piglionell'altrui. Però pertinacemente ricusava quel giusto: a lungo laromana corte si dondolava tra lui e l'Inglese, da forza rattenuto, nonda coscienza. Ma quando vide costui prostrato, e sè stessa condottaagli estremi dai Ghibellini e da Manfredi, la romana corte, comedisperata, adoprò tutt'arti a sforzar Lodovico. Drizzavasi a Carlod'Angiò, e alla donna sua, che, sorella a tre regine, avrebbe dato lavita per cingersi un istante a fianco ad esse il diadema dei re[7]: emostrava a quegli ambiziosi animi spianato ogni ostacolo, fuorchèl'ostinazione di Lodovico. Il papa indettò con vari accorgimentitutt'uomo che più valesse a corte di Francia. Strinse il re dal latopiù fiacco. Ammonivalo con lettere sopra lettere: non indurasse il suocuore; esser ormai irriverente e {24} presuntuosa la ripulsa, e ch'eilaico dubbiasse a entrare in un'impresa chiarita onesta e giusta dalsuccessore degli apostoli, e da' cardinali suoi. Pennelleggiava laChiesa schiantata d'Italia per Manfredi, mezzo saracino, dissolutotiranno; l'eresia pullulante; profanati i sacri tempî; manomessivescovi e sacerdoti; spregiati gli anatemi; chiusa la via diTerrasanta finchè la Sicilia stesse ribelle al pontefice[8]. Cosìsvolsero {25} all'impresa il re di Francia. Si trattavano insieme ipatti della concessione, tra i quali il papa pretendeva il dominio nonsolo di Benevento e Pontecorvo co' loro contadi, ma quasi di tutta laregione ch'oggi comprendesi ne' distretti di Napoli, Pozzuoli,Caserta, Nola, Sora, Gaeta, e inoltre qua {26} e là per lo reame altrecittà e terre[9]: ma infine moderandosi da Roma il prezzo, Carlocomprò; e fu fermato il negozio con lo stesso Urbano IV; e per la suamorte, decretato solennemente da Clemente IV, francese, appena ei salìal pontificato. Urbano e Clemente seguivano entrambi l'antico studiodella romana corte a mutare per lo meno in signoria feudale quell'usodi consiglio e di protezione negli affari temporali, ch'era divenutoquasi comando in vari reami cristiani; la qual signoria tentò prima inInghilterra, poscia in Aragona, e più assiduamente su le italianeprovince a mezzogiorno del Garigliano. Clemente promulgò a venticinquefebbraio milledugentosessantacinque la bolla, per la quale «il reamedi Sicilia, e la terra che si stende tra lo stretto di Messina e iconfini degli stati della Chiesa, eccetto Benevento,» furono concedutia Carlo, in feudo dalla Chiesa, per censo di ottomila once di oroall'anno, e servigio militare al bisogno. Cento patti sottilissimidettò il papa a vietare l'ingrandimento del re: che nè allo imperoaspirasse, nè ad altra signoria in Italia, a sicurtà della {27} romanacorte, la quale il volea possente sì, ma non da soverchiare leistessa. Con ciò mutilati i dritti del principe nelle elezioni aivescovadi e agli altri beneficî ecclesiastici; toltigli i frutti dellesedi vacanti; tolta ogni partecipazione nelle cause ecclesiastiche, eriserbatene le appellazioni a Roma; fermata la franchigia de' chiericidalle ordinarie giurisdizioni e dai tributi; e altre condizioni menrilevanti. Tra quegli squisiti accorgimenti di regno, si risovenne purClemente degli uomini del paese non suo che vendea: stipulò per loro iprivilegi goduti già sotto Guglielmo II, il re più mite e giusto, etemperante dallo aver dei sudditi, che nelle siciliane istorie siregistrasse[10].
A furia allor si misero in punto le armi, e gli armati per la guerra aManfredi. Corsi erano ormai diciassette anni dalla sconfittadell'esercito crociato: ridondava la Francia {28} di baroni, ecavalieri, e uomini d'arme, fastiditi del viver civile sotto le leggi,bramosi di operare, e di acquistar gloria e sustanze. Veniano diFiandra per la cagione stessa altri guerrieri di ventura. Venian diProvenza, la quale appartenne negli antichi tempi al reame di Francia;spiccossene dietro la morte di Carlo Magno nel secol nono; fu feudodello impero; poi, rompendo il debil freno, si resse {29} per suoiconti sovrani; ed or da Beatrice, ultima di quel sangue, era statarecata in dote a Carlo d'Angiò. Quell'acerba signoria, onde la Pugliapoi pianse e la Sicilia insanguinossi, spaziavasi già in Provenza:fraude e forza aveano spogliato di lor franchige repubblicaneMarsiglia, Arles, Avignone: tra cupida dell'altrui avere, e tremantedel suo tiranno, correa Provenza alle armi per aggrandirlo. Smugneanladi danari Carlo e Beatrice; costei fino i suoi gioielli impegnò; altramoneta fornì re Lodovico; altra ne tolse in presto il conte d'Angiò daArrigo di Castiglia, e da mercatanti e baroni. Così raggranellando diche provvedere ai preparamenti, si raccolsono i guerrieri, ai quali ilbando della croce era pretesto, scopo l'acquisto: e venivano sotto lainsegna di ventura dell'Angioino, chi condotto per soldo, chiconducendo del suo un picciol drappello, quasi messa di gioco o dicommercio, per guadagnar poderi nell'assaltato reame. Sommavano atrentamila, tra cavalli e fanti: e però esercito lo appellano leistorie, non masnada di ladroni, congregati di là dei monti ariversarsi in Italia, a scannar per rubare, e comandar poi, eribellione chiamar la difesa.
Per arrisicato viaggio di mare, schivando l'armata fortissima diManfredi, Carlo con un pugno d'uomini venne in Italia: di giugnomilledugentosessantacinque prese l'uficio di senator di Roma,assentitogli temporaneamente dal papa: d'autunno le sue genti,valicate le Alpi, non trovarono {30} riscontro nei Ghibellinid'Italia; dei quali chi fu compro, e chi tremò. E così la fortuna, cheannulla d'un soffio gli umani consigli, volgea le spalle a Manfredi.Le divisioni d'Italia a lui nocquero fieramente, risorgendo i Guelfi aquelle novità; nocquegli la possanza della Chiesa; ma il voltabileanimo de' suoi baroni fu che disertollo; e la mala contentezza deipopoli, causata dalle spesse e gravi collette, dal piover deglianatemi, dai mali tanti che la lotta con Roma avea partorito. Sdegno enecessità di assicurarsi, aveano cacciato innanzi Manfredi in tutto iltempo del suo regno; nè avea ascoltato i richiami de' popoli, chelunghi anni si sprezzano, ma suona un'ora alfine che morte ne scoppiae sterminio.
Quest'ora già rapiva Manfredi: e sentiala il grande, ma volle mostrareil volto alla fortuna. Tedeschi e Italiani accozzava, e quantiPugliesi credea fedeli, e i Saraceni siciliani trapiantati interraferma, che odiosi a tutti teneano a lui solo: e attendeva aingrossare l'esercito, e temporeggiarsi col nemico, cui l'indugio eraruina. Correa rigidissimo il verno. Carlo d'Angiò con la regina, s'eraincoronato già in Vaticano a dì sei gennaio del sessantasei:stringealo la diffalta di danari a vincer tosto, o scioglierel'esercito. Ondechè difilato e precipitoso veniane, con un legato delpapa, con aiuti de' Guelfi: e a Ceperano pria si mostrò; dovetradimento o codardia sgombravagli il passo del Garigliano[11], e perlieve avvisaglia schiudeagli {31} San Germano et Rocc'Arce; e valicargli facea senza trar colpo il Volturno. Solo a Benevento si pugnò, adì ventisei di febbraio, perchè v'era Manfredi, nè Carlo udir volle dipace. Pugnaron, dico, i Tedeschi, e i Saraceni di Sicilia; fuggirongli altri; vinse con grande strage l'impeto francese. Allor Manfrediavventossi tra' nemici a cercar morte; e se l'ebbe. Tra mille cadaveritrovato il suo, gli alzarono i soldati nemici una mora di sassi; e poipur quell'umile sepoltura gli negò l'odio del legato pontificio: e leultime esequie dello eroe svevo, fur di gettarlo a' cani sulle spondedel Verde.
E Napoli fe' plauso al conquistatore: la ribellione, la rotta delloesercito, il fato del re, fecer piegare il resto di Puglia e diCalabria, e la Sicilia arrendersi; sol tenendo fermo que' Saracenifortissimi in Lucera. Alla grossa partironsi i tesori del vinto, traCarlo, Beatrice, e lor cavalieri: s'ebbono quei soldati di ventura,dignità e terre. E i popoli, che per mutar di signori rado mutano almeglio lor sorti, ne avean pure l'usata speranza; parendo che nellapace s'allevierebbero i tributi, ordinati a sostenere quellapertinacissima guerra contro la corte di Roma.
NOTE
[1] Manfredi nacque di Federigo, e di una nobile donna della famiglia de' Lancia, che poi vicina al morire fu sposata dall'imperatore, divenuto già vedovo. Con questo alcuni pretendeano legittimare Manfredi.
[2] Scorrendo rapidamente i preliminari, e toccando punti istorici notissimi, io lascerò indietro le citazioni infino al cominciamento della dominazione angioina. Le noterò solo in alcun luogo più importante. Così è questo delle pratiche di papa Innocenzo a fomentare gli umori repubblicani in Puglia e in Sicilia. Esse ritraggonsi non solo dagli storici contemporanei, ma sì da' brevi del papa, dati a 24 aprile 1246—23 gennaio e 13 dicembre 1251—18 ottobre e 2 novembre 1254, recati da Raynald, Ann. eccl., negli anni rispettivi, §§. 11—2, 3, 4—63, 64.Quod vobis sicut gentibus coeteris aliqua provenirent solatia libertatis:—universitas vestra in libertatis et quietis gaudio reflorescat:—habituri perpetuam tranquillitatem et pacem, ac illam iustissimam et delectabilem libertatem qua coeteri speciales Ecclesiæ filii feliciter et firmiter sunt muniti—queste e somiglianti son le frasi del papa.
[3] Il numero delle città grosse era considerevole in Sicilia, molto più che nel regno di Napoli, come io farò osservare in piè del Docum. II.
È da avvertire che il di Gregorio (Considerazioni su la storia di Sicilia, lib.2, cap. 7; lib. 3, cap. 5, e lib. 4, cap. 3) non sembra molto esatto nelle sue idee su l'importanza de' comuni siciliani, nei secoli duodecimo e decimoterzo. Forse i tempi sospettosi in cui scrisse questo valente uomo, l'indole morbida, i timori, le speranze, i riguardi di lui, ch'era istoriografo regio e prelato, lo portarono a presentare in tal guisa l'elemento democratico, se così può chiamarsi, dell'antica nostra costituzione. Sforzato dai molti documenti, egli accetta che alcune città avessero proprietà comunali, che le adunanze popolari deliberassero sopra alcuni negozi municipali, ed eleggessero alcuni officiali pubblici; accetta la tendenza, com'ei dice, pericolosissima delle nostre città alle forme repubblicane, e il sospetto che n'avea preso l'imperator Federigo, e le caute concessioni alle quali si mosse; e con tutto ciò, credendo commesso ad officiali regî il maneggio di faccende che piuttosto poteano appartenere a' magistrati municipali, conchiude assai frettolosamente, che infino a' tempi di Federigo imperatore non v'ebbero in Sicilia forme municipali propriamente dette; che quegli ne creò un'ombra; e che i comuni non presero stabilità e forza che ai tempi aragonesi. Io credo che ben altro risulterebbe da una ricerca de' documenti, da una investigazione delle tradizioni storiche, da una istoria infine delle municipalità siciliane, che con tempo, spesa, fatica, si potrebbe compilare. E pur mancando questo lavoro, parmi poter giudicare l'importanza di quelle municipalità nel secolo decimoterzo: in primo luogo dalla loro tendenza repubblicana, evidente ancorchè immatura; e in secondo dall'esistenza delle adunanze popolari, le quali son certamente l'elemento più forte di governo municipale, e poco importano del resto i nomi e gli ufici dei sindichi, giurati, borgomastri o somiglianti magistrati esecutivi. S'aggiunga a questo, che il di Gregorio cita i maestri de' borghesi ne' tempi normanni, e poi non ne fa più caso; e che il suo argomento, fondato su poche carte, potrebbe valere forse pei tempi nostri in cui la legge municipale è uniforme e universale, ma non per que' secoli in cui non v'erano che privilegi speciali, difformi l'un dall'altro, dati in tempi e in circostanze diverse. E ricordinsi infine le parole di Ugone Falcando egregio istorico del secol XII, che narrando la ripugnanza de' borghesi siciliani a soffrire i dritti pretesi da qualche novello barone francese, li chiamacives oppidanos,cives liberos; e nota espressamente ch'essi godeano libertà e franchige,non juxta Galliæ consuetudinem. Il vocabolocives liberos, usato con tal significazione, ci rende certi della esistenza delle corporazioni municipali.
Perciò io tengo per fermo, che le nostre municipalità, avanzo de' tempi greci, romani, bizantini, e forse non distrutte da' Saraceni, i quali non aveano la smania di vestir tutto il mondo alla lor foggia, furono parte dell'ordine dello stato nei tempi normanni: che anzi, crescendo gli umori municipali in Sicilia sì come nella terraferma italiana l'imperator Federigo pensò ripararvi dall'una parte con le minacce, dall'altra con le concessioni: che, falliti i disegni repubblicani del 1254, le municipalità sotto Manfredi e Carlo d'Angiò continuarono ad essere un utile strumento di governo, massime nella riscossione delle entrate pubbliche, nell'armamento delle navi, de' fanti, e simili bisogni pubblici: che nella rivoluzione del vespro senza dubbio si levarono a maggior potenza, senza mutare perciò i loro ordini semplici e gagliardi: e che sotto gli Aragonesi la esclusione de' nobili dagli ordini municipali, e la istituzione dei giurati, furono senza dubbio grandi passi, ma non costituirono l'importanza del governo comunale, che stava nelle adunanze popolari. I giurati furono dapprima un tribunato, o un pubblico ministero, che vegliava alla retta amministrazione della giustizia nel proprio comune, e alla condotta degli uficiali regi; nè amministravano in quella prima istituzione le cose del municipio, ch'è stato per lo più un uficio insignificante, e, come dicono gl'Inglesi, «servente il tempo,» e stromento docilissimo del potere assoluto.
Oltre a ciò è noto, che nelle monarchie feudali le nazioni furon piuttosto aggregati di vari piccioli corpi politici, che comunanza di uomini regolata dall'azione diretta del governo. Il poter sovrano in molte parti dell'ordinamento civile non operava su gl'individui, ma su i loro rappresentanti: volgeasi a ciascun corpo di vassalli feudali per mezzo del barone, a ciascun corpo di borghesi per mezzo della municipalità. Ondechè, se in tutt'altra monarchia feudale de' secoli XII e XIII era ormai necessaria la esistenza delle municipalità, sembrerà impossibile che mancassero in Sicilia, ove la feudalità nacque sì moderata; ov'erano molte proprietà allodiali, grosse e superbe città, e perciò una vasta massa di popolazione su la quale il governo non avrebbe saputo agire senza il mezzo de' corpi municipali, massime in ciò che risguardasse la contribuzione ai bisogni, pubblici, sia con servigio personale, sia con moneta.
[4] Chron. Mon. S. Bertini, presso Martene e Durand, Thes. nov. Anec. tom. III, pag. 732.
[5] Questo è il medesimo cognome di Dante, che si scriveaAldigherius nel secolo XIV, come veggiamo nel comento di Benvenuto da Imola. Ma non v'ha alcuna memoria del comun lignaggio tra Leonardo Aldighieri e 'l poeta fiorentino.
[6] La narrazione di questa repubblica in Sicilia è cavata da:
Saba Malaspina, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, pag. 726 a 736, e 753, e in Muratori, R. I. S. tom. VIII.
Nic. di Jamsilla, in Muratori, R. I. S. tom. VIII.
Cronaca di Fra Corrado, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, anni 1254 e 1255.
Appendice al Malaterra, in Muratori, R. I. S. tom. V, pag. 605.
Raynald, Ann. eccl., 1254, §§. 63 e 64, e 1256, §§. 30, 31, 32.
Breve di papa Alessandro IV ai Palermitani, dato a 21 gennaio 1255, tra' Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 2; pubblicato dal Pirri, Sic. sacra t. II, p. 806, dove si legge:ut per convenciones et pacciones inter civitates et castra et alia loca tocius loci Siciliæ inhitas, nec non et per privilegia super iis eis concessa, vobis in Ecclesiæ romanæ devocione persistentibus et civitati vestræ nihilum in posterum præjudicium generetur. Un altro breve di Alessandro al podestà, consiglio, e comune di Palermo, dato di Laterano l'8 gennaio an. 2º, li ammonisce alla restituzione del castello, rocca, e altri beni occupati da loro al vescovo di Cefalù. Ne' Mss. della Biblioteca com. di Palermo Q. q. G. 12; e citato dal Pirri, Sic. sacra, tom. II, pag. 806.
Breve dato di Napoli a 29 gennaio 1255, indirizzato a frate Ruffino de' minori, cappellano e penitenziere del papa, vicario generale in Sicilia e Calabria del cardinale Ottaviano legato.
Bolla data di Anagni a 21 agosto 1255, al medesimo frate Ruffino, che comincia così:Eximia dilecti filii nobilis viri Roglerii Finectae fidelis nostri merita sic preeminent et prefulgent, etc. Il papa, non sapendo abbastanza premiar questo Ruggiero Fimetta, gli concedeva in feudo Vizzini, Modica, Scicli, e Palazzolo, castelli che rendeano, dice la bolla, a un di presso dugento once all'anno.
Bolla del 27 agosto del medesimo anno al medesimo frate Ruffino. Concedesi in feudo a Niccolò di Sanducia, fratel cognato di Ruggier Fimetta e testè tornato in fede della Chiesa, il casale Scordiæ Suitan situm in territorio Lentini.
Questi tre diplomi, cavati da' registri Vaticani, Epistole n. 574 e 121, leggonsi in Luca Wadding, Ann. minorum, Roma, 1732, tom. III, pag. 387, 537 e 539.
Breve di Urbano IV, cavato da' diplomi della Chiesa di Girgenti, e pubblicato dal Pirri, Sic. sacra, tom. I, p. 704, nel quale si fa parola dell'imprigionamento del vicario frate Ruffino.
Di costui in fine dà notizia un altro breve del 13 novembre 1254, recato dal Pirri nello stesso luogo; nel quale diploma è notevole, che il papa concedea al vescovo di Girgenti alcuni dritti del regio fisco.
Il guasto dei poderi della corona in Caltagirone, si scorge da un privilegio in favore di quella città, dato da Manfredi, balio di Corradino; il quale è citato dal P. Aprile, Cronologia della Sicilia, cap. 27.
[7] Si narra che in una festa a corte di Francia, Beatrice, contessa di Provenza, fu cacciata dal gradino ove sedeano le due sorelle minori, regine, l'una di Francia, l'altra d'Inghilterra (la terza, ch'era assente, fu moglie di Riccardo d'Inghilterra, re de' Romani); ond'ella si tornò dispettosa e piangendo alle sue stanze; e Carlo, saputa la cagione di questo femminile cordoglio, baciandola in bocca, le dicea: «Contessa datti pace, che io ti farò tosto maggiore reina di loro:» e ciò lo stigava oltremodo all'impresa di Sicilia.
Gio. Villani, lib. 6. cap. 90. ed di Firenze 1323.
Ramondo Montaner, cap. 32.
Cron. di Morea, lib. 2, pag. 39, ed. Buchon 1840.
[8] Raynald, Ann. eccl., an. 1253 e seg.
Si vegga altresì Hume, Storia d'Inghilterra—Arrigo III, cap. 12, dov'è citato Matteo Paris.
Duchesne Hist Franc. Script. tom. V, pag. 869 a 873.
I documenti delle pratiche de' papi per la concessione del reame ad alcuno de' principi nominati, leggonsi presso:
Lünig, Codice diplomatico d'Italia—Napoli e Sicilia—tom. II, n. 30 a 42.
Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, ed. Londra, 1739, tom. I, pag. 477 e seg. ove son citati questi documenti:
3 agosto 1252.—Innocenzo IV, a re Arrigo III, tom. I, pag. 477.
28 gennaio 1253.—Diploma d'Arrigo III, pag. 893.
14 maggio 1254.—Innocenzo IV all'arcivescovo di Canterbury, etc., pag. 511.
Questo è il primo documento ove si parli della concessione al principe Edmondo. Il papa comanda si accatti danaro per la impresa, con sicurtà su i beni delle chiese d'Inghilterra.
14 maggio 1254.—Altri quattro brevi d'Innocenzo IV, pag. 512 e 513, dall'ultimo de' quali si vede che re Arrigo era stato dubbioso a muovere contro un principe congiunto suo, e che il papa il confortava.
22 maggio 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III. Che non ispenda danaro in cose profane, nè sacre, e tutto serbi alla impresa di Sicilia, p. 515. Allo stesso effetto ci è una epistola alla regina, una a Pietro di Savoia.
23 maggio 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.
31 detto.—Innocenzo IV ad Arrigo III.
9 giugno 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.
14 ottobre 1254.—Arrigo III, come tutore di Eduardo re di Sicilia a' prelati, conti, baroni, militi e liberi nomini di questo reame, p. 530.
17 novemb. 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.
…… 1255.—Alessandro IV. È uno scritto delle condizioni alle quali si concede il reame di Sicilia e Puglia a Edmondo, p. 893.
21 aprile 1255.—Alessandro IV ad Arrigo III. Perchè paghi una somma di danaro, spesa dalla corte di Roma per l'occupazione di Puglia, pag. 547.
3 maggio 1255.—Alessandro IV commuta nella impresa di Sicilia il voto preso da re Arrigo per Terrasanta, pag. 547.
7 detto.—Altra bolla sullo stesso soggetto, p. 548.
11 detto.—Alessandro IV scrive aver commutato alla impresa stessa il voto del re di Norvegia e de' suoi, pag. 549.
12 detto.—Altra bolla allo effetto stesso.
13 detto.—Alessandro IV ad Arrigo III, p. 550.
15 detto.—Bolla dello stesso perchè si riscuotessero da Arrigo per la impresa siciliana que' denari in cui erano stati mutati i voti presi da molte persone per guerreggiare in Terrasanta; e si richiedessero anche dagli eredi, p. 551.
16 detto.—Bolla dello stesso pel voto del re Arrigo III, pag. 552.
21 detto.—Per lo giuramento di Edmondo alla corte di Roma. Pag. 553
30 novembre 1255.—Per lo giuramento di Edmondo alla corte di Roma. pag. 573
5 febbraio 1256.—Alessandro IV al vescovo di Hereford, perchè sulle decime d'Inghilterra si pagassero i debiti contratti dal papa per l'impresa di Sicilia, pag. 581.
27 marzo 1256.—Arrigo III al papa. Scrive non potere, per le turbazioni del regno suo, mandar forze in Italia, nè fare al papa il pagamento, ch'ei volea prima di ogni altro, per le spese sostenute da Roma negli assalti del regno. Era di 135,541 marchi; e dice Arrigo:Non enim credimus quod hodie princeps aliquis regnet in terris, qui ita subito tantam pecuniam possit habere ad manus.
Altre lettere simili a vari cardinali leggonsi a pag. 587.
…. 1256.—Eduardo primogenito di Arrigo III, dà un giuramento per questo negozio di Sicilia, pag. 586.
11 giugno 1256.—Alessandro IV a re Arrigo III, pag. 593.
27 settembre 1256.—Bolla che proroga il termine dato ad Arrigo per l'impresa di Sicilia, pag. 608.
…. detto.—Bolla che obbliga i prelati di Scozia a pagare il danaro tolto in presto dal papa per la guerra di Sicilia, pag. 608.
6 ottobre.—Alessandro ad Arrigo III, pag. 611.
9 novembre.—….. pag. 612.
10 maggio 1257.—Arrigo III al papa. Scrive avere con l'arcivescovo di Morreale, legato del papa, ordinato l'impresa, e scelto il capitano, pag. 620.
.. Maggio 1257.—Arrigo al papa. A questo effetto ha fermato pace col re di Francia.
3 giugno 1257.—Alessandro IV al suo nunzio in Inghilterra. Riscuota il danaro tolto in presto sulle decime, non ostante il divieto del re, che già si noiava della spesa.
E moltissime altre, che sarebbe lungo e non utile a noverare.
Leggonsi anche questi ed altri documenti negli Ann. eccl. di Raynald, tom. II et III. Nè li ho citato, parendomi inutile replicare le autorità per fatti sì certi.
[9] Le trattative leggonsi in una bolla d'Urbano IV, data d'Orvieto il 26 giugno 1263, che contiene a un di presso le condizioni della bolla di concessione di Clemente IV; se non che il papa domandava o quelle ricche province col censo di due mila once d'oro, o, per tutto il regno, il censo di dieci mila; riserbandosi sempre Benevento. Si contentò poi di dare tutto il regno per once otto mila all'anno. Questa bolla sarà in breve pubblicata dall'erudito sig. Alessandro Teulet, che l'ha cavato dagli Archivi del reame di Francia, e me l'ha gentilmente comunicato.
[10] Lünig, loc. cit. n. 43.
Ecco il sommario di questa bolla, data di Perugia il quarto dì anzi le calende di marzo dell'anno primo di Clemente IV.
Discorso a lungo della concessione precedente a Edmondo d'Inghilterra, la quale si replica esser nulla, per le non adempiute condizioni, e per la mancanza di un atto in buona forma; il regno di Sicilia, con tutta la terra tra lo stretto e i confini dello stato della Chiesa, è dato a Carlo d'Angiò, che prima della festa prossima di san Pietro, vada a Roma per l'investitura, mentre il cardinale delegato a questo negozio in Francia gli darebbe un sussidio sulla decima delle chiese, e predicherebbe la croce contro Manfredi.
Le condizioni della concessione sono:
1. Resti Benevento alla Chiesa.
2. Carlo, e i suoi, e gli eredi non possano avere proprietà, nè autorità in alcuna terra appartenente alla Chiesa di Roma.
3. Diansi alcuni privilegi a Benevento.
4. Ordine della successione, con la ricadenza alla Chiesa, in difetto di eredi legittimi e del sangue.
5. Censo di ottomila once di oro alla Chiesa, in ogni anno; e scomuniche e caducità dal regno se non si paghi.
6. Dopo l'acquisto del reame, in tutto o in parte, Carlo paghi alla Chiesa 50,000 marchi per le spese sostenute da lei.
7. Presenti al papa un palafreno bianco ogni tre anni.
8. Ne' bisogni della Chiesa mandi 300 uomini d'arme (cioè da 900, a 1,200 cavalli) per tre mesi in ciascun anno; il qual servigio si possa rendere in vece con navi armate.
9. I re di Sicilia e Puglia prestin omaggio ad ogni papa.
10. Non dividano il territorio. Qui è la formola del giuramento ligio che debban rendere a Roma.
11. Non possano essere imperatori, nè re de' Romani, o di Teutonia, nè signori in Lombardia, o Toscana.
12. Gli eredi loro, se eletti ad alcuna di queste signorie, lasciala.
13. Le eredi del regno non si maritino a principi di quelle regioni.
14. Stabilito un giuramento per le condizioni dell'art. 12.
15. Se il re sia eletto imperatore, emancipi il figlio, e gli lasci questo reame.
16. Simile condizione per le donne eredi del trono.
17. La donna erede del trono non si mariti senza piacimento del papa.
18. Esclusi i bastardi dalla successione.
19. Il regno non si unisca mai ad altro d'Italia, nè all'impero.
20. Caducità e scomunica, se il re occupi terre della Chiesa.
21. Restituiscansi, sotto gli occhi di commissari del papa, i beni mobili e immobili tolti alle Chiese.
22. Libertà delle elezioni ecclesiastiche, salvo il padronato regio. Facciansi in Roma le cause ecclesiastiche.
23. Rivocazione degli statuti svevi contro le immunità ecclesiastiche.
24. Immunità degli ecclesiastici da' giudizi ordinari.
25. E dalle gravezze.
26. Restino alla Chiesa i frutti delle sedi vacanti.
27. I feudatari e i sudditi abbiano le immunità e i privilegi goduti sotto Guglielmo II.
28. Rientrino gli esuli a piacer della Chiesa.
29. Divieto di ogni lega contro la Chiesa.
30. Liberazion de' prigioni sudditi del papa. Restituzione dello stato al duca di Sora. Rivocazione delle concessioni di feudi o altri beni per Federigo, Corrado, e Manfredi.
31. Carlo venga all'impresa, con esercito non minore di 1,000 uomini di arme (contando 4 cavalli per ogni uomo di arme), 300 balestrieri, ec, ec.
32. Venga in tre mesi dopo la concessione.
33. Le condizioni scritte di sopra valgano pei successori di lui.
34. E compiuta che sia l'impresa, abbia il privilegio di concessione con la bolla di oro.
35. Non tenga per tutta la sua vita l'uficio di senator di Roma.
36. Lascilo anzi nel termine di anni tre; e intanto lo eserciti a favor della Chiesa, e disponga per lei i Romani.
[11] Tutti questi casi della conquista di Carlo ritraggonsi da:
Saba Malaspina, lib. 3, cap. 1.
Ricordano Malespini, cap. 179, ambo, presso Muratori R. I. S., tom. VIII, e da molti altri contemporanei.
Del resto ved. Muratori, Annali d'Italia, 1266.
E ricordisi in Dante:
A Ceperan, là dove fu bugiardo Ciascun Pugliese.Inf., c. 28.
L'ossa del corpo mio sarieno ancora In co' del ponte, presso a Benevento, Sotto la guardia della grave mora: Or le bagna la pioggia, e muove 'l vento Di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, Ove le trasmutò a lume spento.Purg., c. 3.
CAPITOLO III.
La vittoria di Carlo innalza parte guelfa in Italia. Risorgon pure iGhibellini, e chiaman Corradino all'impresa del regno. Sollevasi perlui la Sicilia. È sconfitto a Tagliacozzo, e dicollato a Napoli. Carlospegne la rivoluzione in terraferma con rigore, in Sicilia conimmanità. Eccidio d'Agosta. 1266-1268.
S'eran riscossi i Guelfi alla passata di Carlo, aiutato l'aveanoall'impresa, ed ora partecipando della vittoria, tutta Italiaingombravano, rafforzati dalla riputazione e dalle armi del re. Evacando tuttavia l'imperial seggio, papa Clemente, che alcuna autoritànon n'avea, dette al re il titolo di vicario dell'impero in Toscana,per aprirgli la strada a più larga ambizione. Così mutossi per parteguelfa lo stato di tutte le province italiane; al nome ghibellino nonrestando che Siena e Pisa: gli altri uomini di questa parte, attonitipiù che spenti, cedeano il campo, chi esule, chi acquattato in patria;e tutti covavan rancori. Ond'e' guardarono in Lamagna a Corradino,entrato già nell'adolescenza, e verace signore di Sicilia e di Puglia;i quali stati, com'or feano piegar le bilance pe' Guelfi, l'avrebbermandato giù, se renduti a casa sveva. Con loro s'intendeano gli uscitidi que' reami, e i partigiani che s'eran sottomessi a Carlo; i qualinon avean saputo difender Manfredi, ed or pensavano a rifar guerra.Rincoravali la mala contentezza di questi popoli, che sotto Carlo nonsentiano scemare i tributi, crescer anzi la molestia de' ministri edegli officiali infiniti del re, ingordi, inquisitivi, superbi, piùinsopportabili come stranieri, e in Sicilia peggio, perchè ai non domicon le armi peggio puzza un'insolente dominio. Amaramente piangeanManfredi, da loro lasciato correre alla morte come quei che toglieaparte {33} di lor sostanze, per trovar ora chi tutte rapiale, e perammenda le persone manomettea.
Entro un anno dunque dal subito conquisto, risvegliansi, congiurano eGhibellini, e usciti del regno, e baroni sottomessi a Carlo, estranieri principi. Adunan moneta i Ghibellini; volenteroso entraCorradino nell'impresa; il duca d'Austria il segue, giovanetto econgiunto suo; seguonlo per amor di parte o d'acquisto molti baroni euomini d'arme di Lamagna. Fin d'Affrica sursero per lui due perdutiuomini del sangue regio di Castiglia, Arrigo e Federigo; che di lorpatria fuggiti, combatteano a' soldi del re di Tunisi; e infastiditi,o a lui venuti in sospetto, rituffaronsi nelle brighe de' battezzati:ma Arrigo ancora cocea privato rancore contro Carlo, perchè avendoglidato in presto, quand'ei si preparava alla impresa, una grossa sommadi danari raccolta da lui in Affrica e serbata a Genova, Carlo, presoil regno, nè dette feudi o stati ad Arrigo, nè rendea la moneta, mamenzogne di cortesia; e stucco de' richiami dello Spagnuolo, gli parlòleonino[1]. Perciò Arrigo cercava vendetta. Ad annodar que' filigiravan di qua, di là i più vivi partigiani; Corrado Capece corse ericorse tra Lamagna e Tunisi. E fur sì destri, che l'anno stessosessantasette Corradino, con quattro migliaia di cavalli tedeschi eparecchie di soldati a piè, calava in Verona: Roma tumultuandochiamava senatore don Arrigo di Castiglia: si levavano da per tutto iGhibellini: tumultuava la Sicilia contro re Carlo.
Perchè don Federigo e Capece non prima sepper la passata di Corradino,che mosser d'Affrica, sì come s'era ordinato, a rizzare in quest'isolal'insegna sveva. Con una ventina di cavalli, e poche centinaia difanti raunaticci, spagnuoli, toscani, tedeschi, saraceni, posero sullespiagge meridionali {34} a Sciacca. Capece si promulga vicario del re;spaccia messaggi ai già disposti e consapevoli; bandisce laproclamazione di Corradino, esortante i popoli a sorger nella santacausa di lui: fanciullo, l'avevan tradito il fratel del padre suo, ilpastor supremo della Chiesa; or adulto, e in sull'armi, e affidatonella lealtà dei sudditi, veniva a scacciare l'oppressor loro,l'usurpatore del regno. Rapida corse dell'arrisicato sbarco la fama,gratissima ai nostri, poco formidabile dapprima a' Francesi, che fecersembiante di spregiarla; e Fulcone di Puy-Richard, reggitor dell'isolaper Carlo, tutto sdegnoso mosse con forte oste de' suoi e di miliziefeudali siciliane a schiacciare gli assalitori. I quali come videro ilnimico vicino, fidati nelle lor pratiche, escon tosto alcombattimento: e al primo scontro i feudatari siciliani s'infingon difuggire; poi s'arrestano, straccian le bandiere d'Angiò, spiegan lesveve, e minacciosi stringonsi a schiera. Fulcone allora, lasciato ilcampo, più che di passo si rifuggì in Messina. E questa, con Palermo eSiracusa, restaron sole in fede; nel rimanente della Sicilia divampòun subito incendio, gridando tutti il nome di Corradino: nè a lui peròubbidirono, nè a Carlo, ma a posta sua ciascun disordinatamente siprevalse. Sbigottite e poche le armi provenzali; poche e disordinatequelle di don Federigo e di Capece; il malo studio delle parti,entrato già in questa terra, non crescea forza ad alcuno de'contenditori, ma sfogavasi in particolari vendette. Perocchè allavenuta di re Carlo, un talento servile, o una speranza di guadagno eautorità, molti precipitò a prostrarsi alla nuova dominazione, lorviltà onestando sotto specie di parteggiare per quella; molti piùprofondamente l'abborrirono. Ferracani i primi, Fetenti s'appellaronogli altri: nomi d'ignota origine, che nelle nostre istorie son oscuri,e mertanlo; perocchè s'udian solo in questa rivoluzione, l'uno el'altro per villani misfatti. Il mal governo poi di re Carlo fu {35}amara ma certa medicina a dileguar queste fazioni in unferocissim'odio comune. E così nel vespro appena si vide un'ombra diparte; ma restò solo per detto di contumelia e villania il nome diFerracano; che traditor della Sicilia suonava, e partigiano de'tiranni stranieri.
Nè a particolareggiare i casi atroci di quest'anarchia delsessantasette, vo' dilungarmi or io dal bello argomento propostomi.Dirò solo quali odî seminassersi allora, che render doveano il vespropiù sanguinoso e più grande; perocchè spesso nasce il bene dai maliestremi; e convien sia colma la misura a far che gli uomini tra lormense, e amori, e guadagni, e ambizionucce, ed ozi onesti, ed ozivituperevoli, ricordinsi d'esser cittadini, talchè, arrischiando perpoco questa vita sì breve e amara, nella causa pubblica risorgano. Laquale altra è che lo sciogliersi a misfare senza modo nè grandeintento, come allora in Sicilia avveniva. Baroni, borghesi, vassallicon rapine e omicidî e violenze d'ogni maniera laceravansi tra loro: ideboli, al solito oppressi da' nemici e dagli amici, non sapeano cuiubbidire: era piena la Sicilia di sangue: di fame e di pestilenzaperivano i campati alla rabbia degli uomini. Invano qui venne perCorradino il conte Federigo Lancia con una armatetta di galee pisane.Invano per Carlo il prior Filippo d'Egly, degli Spedalieri, fraticombattenti, i quali in queste nostre risse mescolavansi piùvolentieri che nelle sacre guerre di Palestina. Avversi ai carlisti ipopoli; i tre capi corradiniani disputavansi l'autorità suprema; eloro forze dividendo, disertaron sè stessi e la causa del principe.Queste parti dunque, delle quali niuna potea vigorosamente ordinarsi emetter giù l'avversa, dilaniarono senza pro la misera Sicilia; finchè,spento Corradino, venner da Napoli a risanarla i carnefici[2]. {36}
Non uso a questi subiti italiani movimenti, sbigottì Carlo a vedermezza la penisola in romore per Corradino; la Sicilia perduta; laPuglia piena d'umori di ribellione; e Corradino, che per diffalta didanari era sostato dapprima a Verona, vincer sull'Arno, accrescersi inRoma pe' favori d'Arrigo di Castiglia, e, non curando scomuniche,minaccioso venire alla volta del regno con dieci migliaia di cavalli,e più numero di fanti, tra tedeschi, spagnuoli, italiani, e usciti diPuglia. Nè tanta moltitudine avea Carlo in sull'armi; ma eran Francesii più, e in migliore disciplina, e con altri capitani: ond'ei comeanimoso, fè testa ai confini. Presso a Tagliacozzo si pugnò, nel piandi San Valentino, a ventitrè agosto del sessantotto: ed era diCorradino la giornata, quando la terza schiera francese instrutta dalvecchio Alardo di Valery e da Guglielmo principe di Morea, diè dentro;e ruppe e mietè i disordinati per fidanza della vittoria. Presi imaggiori dell'esercito; scannata a frotte la plebe; nella qualetrovando parecchi Romani, Carlo {37} non fu contento della lor solamorte, in vendetta del toltogli uficio di senatore della città.Comandava nel primo boglimento di rabbia, che fosser mozzi i piè aquei prigioni; ma per timore che portassero miserando spettacolo, darinfocare contro di lui gli animi in Roma, l'ordine rivocò, e chiuderli fece entro una casa, e vivi brugiare. Quest'era il campion dellaChiesa! Corradino fuggendo fu conosciuto ad Astura, e preso atradimento. I partigiani ch'eran tuttavia grossi di numero, perdetterl'animo a quella rotta; si sbrancarono; pensò ciascuno a salvar sèsolo; e tutti furon perduti[3]. Quel d'Angiò, come avea preso tantostato, così il mantenne, per una sola battaglia. Ma per che modo sìassicurava e vendicava, m'è duro a narrarlo.
E comincio da Corradino, comechè pria del suo sangue scorresse giàquel de' sudditi a fiumi. Altri appone a Clemente il mal consiglio,altri lo scolpa; io penso che il papa e il re d'un animo volesser lamorte del giovanetto, stimolati entrambi da rabbia d'aver tremato, esospetto dell'avvenire. Nè sicari in carcere, ma rappresentanti dellanazione in faccia alla nazione e a Dio, bruttavansi del comandatoassassinio. Convocò re Carlo un parlamento di baroni, e sindichi, ebuoni uomini delle città di Puglia; a scherno osservar fece tutte delgiudizio le forme: talchè par vedere altri tempi a leggere con chesillogismi quella straordinaria corte dannava a morte Corradino e iseguaci suoi, come in tali casi è costume. Ed ebbe animo ad opporsi unGuidone da Suzara, famoso professor di dritto civile, che non erasuddito di re Carlo nè si curava della sua grazia; e lor coscienzerimordean gli altri; e piangeano in cuore i buoni; i Francesi stessiesecravano il crudele atto del re: ma il re volea, e tremavano igiudici, onde ogni schermo fu vano. Un fanciullo di sedici anni,ultimo erede di tanti imperatori {38} e re, dritto signore egli stessodi Sicilia e di Puglia, il dì ventinove ottobre del sessantotto,tratto era al patibolo in piazza di mercato a Napoli; seguendolo unafunata di vittime, perchè più largamente si vendicassero gli sturbatiozi della tirannide. A paro a paro con esso veniva il duca d'Austria,statogli compagno amantissimo dall'infanzia: biondi ambo e gentili,impavidi nel sembiante, a fermo passo andavano al palco. Di porporaera coperto il palco, quasi a regia pompa; con torvi armatiall'intorno; foltissimo il popolo in piazza; dall'alto d'una torreguardava quella tigre di Carlo. Salì Corradino, mostrossi, e lettagliin volto la sentenza che il chiamava sacrilego traditore, ne protestònobilmente al popolo e a Dio. A queste parole susurrava la moltitudineun istante; e poi ghiacciata di paura tacque; stupida e scolorataaffisò Corradino. Il quale nell'abbassar lo sguardo su quell'onda dispaventati volti infiniti, ghignò di amaro disprezzo, poi gli occhialzò al cielo, e ogni terren pensiero depose. Lo scosse un colpo: videil capo del duca d'Austria già tronco sul palco; ond'avidamente ilraccolse Corradino, se lo strinse al petto, il baciò cento volte,baciò gli astanti, baciò il carnefice, pose il capo sul ceppo; e lascure piombò. Narran che prima gittasse il guanto a significar lainvestitura de' reami a Pier d'Aragona, genero di Manfredi; narran cheil conte di Fiandra, marito d'una figliuola di re Carlo, non reggendoall'empio sagrifizio, di sua mano uccidesse Roberto di Bari fabbro edicitore della sentenza. Ben i bizzarri costumi dell'etàaggiugnerebber fede a cotesti fatti; ma più certi e atroci prendo io anarrarne, affrettandomi a uscir di tanti orrori[4]. {39}
In terraferma quanti eran rimasi fedeli a Carlo, o, dubbiosi finchè fudubbia la vittoria, or voleansi purgar dal sospetto, fecersi giudiciinsieme e carnefici degli scoperti ribelli. Il parlamento avea offertoregie vittime al re; gli uomini delle province immolavangli ipartigiani, e guadagnavan possessioni in premio della fedeltà o de'misfatti[5]. Presero i beni, rapirono, uccisero, accecarono,straziarono: fu tanto, che Carlo trattenne al fin lo immane zelo chefacea del regno un deserto, perdonò al fine[6]. Ma ai Siciliani nullamercè[7]. A farne macello manda i suoi baroni francesi: e Guglielmol'Estendard era il primo; uom {40} di guerra e di strage, che la pietàavea a scherno, più crudele d'ogni crudeltà, dice Saba Malaspina, e disangue ebbro, e tanto più sitibondo quanto più ne versasse. Costuivalicò lo stretto con un drappello di Provenzali fortissimi, e diforti Siciliani l'accrebbe a vergogna nostra; abbattè senza ostacolola parte di Corradino, cui speranza non restava alcuna. Ma in Agostamille cittadini in sull'armi, con dugento cavalli toscani, fieramentedifendeansi, aiutati dal sito inespugnabile; onde Guglielmo, postoviil campo, gran pezza indarno affaticossi: e a tanti doppi ne cresceaquella sua natural ferità. Sfogolla alfine senza battaglia, perchè seitraditori, schiusa di notte una postierla della città, indifesodiergli in preda quel valente presidio: ed ei nè valore rispettò, nèinnocenza, nè ragione d'uomini alcuna. Ivano i suoi per la città,contaminando ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercavanolor vittime per fin entro le cisterne e le fosse del grano. Ma dopo laprima strage, quando fu satollo il furor de' soldati, non si spensenel crudo animo del ministro del re. Chiama al macello un manigoldod'estrema forza: al quale adduconsi legati gli Agostani; e quegli lispaccia con un largo brando; e quand'è spossato gli si porgon colminappi di vino, che tracanna insieme col sudore e sangue di che grondatutto; e con fresche forze ripiglia l'opera scellerata. Alzò sullamarina una catasta di capi e di tronchi; dove tra le misere vittimeloro andavano a monte i sei figliuoli di Giuda, ben premiati così daGuglielmo. Non rimase persona viva in Agosta. Molti fuggendo al mare,sì precipitosamente accalcaronsi sopra un legnetto, che diè alla bandae si sommerse. Gavazzavano intanto i Francesi nella insanguinatacittà, che deserta e squallida fu poi per lunghissimi anni[8]. Nèqueste immani stragi, nè questi immani tripudi ricordavano {41} i piùdegli storici narrando con tanto studio la strage del vespro, chemisura fu per misura! A quella carnificina tenner dietro negli altriluoghi i supplizi. Corrado Capece s'affortificò in Centorbi: ma vistobalenare i suoi, uscì solo a darsi nelle mani di Guglielmo; e quegliil fe' accecare, e trarre a Catania, e per la gola impiccare. Marino eGiacomo fratelli di lui periano anco sulle forche a Napoli; per altricasi gli altri principali partigiani: sol campò Federigo di Castiglia,che si difese in Girgenti, ma Guglielmo come congiunto di re Carlo glidiè di partirsi con una nave. Sulle misere città di Sicilia, o stateribelli, o state fedeli, piombò intanto la rapace man d'Estendard, conimprestiti e altri mal dissimulati ladronecci[9]. Lucera di Puglia,ove i Saraceni siciliani fatto avean sì bella difesa, s'arrendè pocoappresso per gli strazi d'orribilissima fame: trionfò Carlo da pertutto senz'alcun freno. Così crescon per doma ribellione e peggioranoi principi, stimolati da sdegno e sospetto, nè mansuefatti da timorealcuno de' sudditi; i quali per diffidar l'un dell'altro e spossamentocomune, forz'è che lungo tempo servano, e stiansi.
NOTE
[1] Questa ragione della nimistà d'Arrigo di Castiglia è riferita da Bernardo D'Esclot, Istoria di Catalogna, cap. 60, ed. Buchon, 1840.
[2] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 3 e seg.
Bart. de Neocastro, cap. 8 e 9.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 20 al 23.
Raynald, Ann. eccl. 1267, §§. 2, 12 e seg., 1268, §§. 2 a 29.
Nic. di Jamsilla, in Murat. R. I. S. tom. VIII, pag. 614 e seg.
Veggansi anche i seguenti diplomi del r. archivio di Napoli:
Diploma di Carlo I, dato di Viterbo 11 aprile undecima Ind. (1268) al segreto di Sicilia, per le spese di fra Filippo d'Egly dello Spedale di S. Giov. di Gerusalemme. Reg. di Carlo I, segnato 1268, O fog. 18.
Altro dato dal campo sotto Lucera il 2 giugno undecima Ind. (1268) a Falcone di Puy-Richard vicario di Sicilia, perchè munisse con estrema cura Messina,tamquam portum et portam Sicilie. Ibid. fog. 18.
Altro dato di Capua a 10 dicembre duodecima Ind. (1268) pel castel di Licata, che avea sostenuto assai guasti da' ribelli. Ibid. fog. 22.
Conti resi da Bartolomeo di Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso, per l'amministrazione dal 14 ottobre 1268, a tutto novembre 1269. Ibid. fog. 75.
Da una partita di questo conto si scorge, che il giustiziere mandava al re, Nicolò di Marchisano a chiarirgli falsa la voce dello sbarco del re di Tunisi in favor de' ribelli; e che avea pagato un'oncia a Lorenzo di Trapani, il quale con la sua barca portò questo corriere da Palermo in Principato, ov'era il re.
[3] Gio. Villani, lib. 7, cap. 24 al 27.
Bart. de Neocastro, cap. 9.
Saba Malaspina, lib. 4, cap. 13.
[4] Bart. de Neocastro, cap. 9 e 10.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 28 e 29.
Saba Malaspina, lib. 4.
Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 9.
Ricobaldo Ferrarese, Hist. imp. an. 1268, etc.
Un verso di Dante, se bene o mal interpretato non importa, diè luogo ai primi comentatori poco discosti dal secol XIII a narrare un aneddoto intorno la morte di Corradino. Nella loro età dicessi, che Carlo I d'Angiò, per superstizione mezzo pagana venuta di Grecia, avesse fatto cuocere una zuppa, e mangiatola su i cadaveri di Corradino e degli altri guastati con esso; il quale rito s'avea per fermo che purgasse il peccato dell'omicidio, o troncasse il corso alla vendetta. Il verso è questo:
…. Ma chi n'ha colpa creda, Che vendetta di Dio non teme suppe.Purg., c. 33.
Io non rido di tal comento come fa il Biagioli, perchè tutte le memorie degli uomini portano superstizioni, empie e ridicole almen quanto il mangiare una zuppa sul cadavere dell'ucciso. Nè Carlo I d'Angiò fu spirito forte, come diremmo in oggi. Ma non trovando questo fatto in alcuno degli scrittori contemporanei di parte contraria a lui, conchiudo che, o la favola nacque dopo la loro età, o ch'essi come favola manifesta la tacquero. Perciò ho lasciato indietro questo, che pur sarebbe un forte tratto di pennello sul carattere di Carlo, su i tempi, e sulla natura della condannagione di Corradino. Su le opere di Guidone da Suzara, veg. Tiraboschi, Storia letteraria d'Italia, tom. IV. Suzara è città nel distretto di Mantova.
[5] Veggansi le molte concessioni di feudi e altri beni fatte da re Carlo in questo tempo, che leggonsi nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 1 ed 8. Tra gli altri si trova a fog. 6, a t. e duplicato al 114, a t. un diploma del 15 genn. tredicesima Ind. (1269) pel quale furon date all'arcivescovo di Palermo le case che possedeva in Napoli Matteo de Termulis, fellone.
[6] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 14.Misericordiam, etc.
[7] Capitoli del regno di Napoli, pag. 16. Nel preambolo si legge essere stati i ribelli di Sicilia,conculcati, et gladio ultori perempti.
[8] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
[9] Conto reso da Bartolomeo de Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso. Nel archivio r. di Napoli, reg. di Carlo I (1268), O, fog. 75.
Da questo si veggono gl'imprestiti sforzati fatti per ordinamento di Guglielmo Estendard, maresciallo e vicario generale in Sicilia, di Guglielmo di Beaumont, ammiraglio, e di Fulcone di Puy-Richard. Un altro argomento di estorsione, come si ricava da' medesimi conti, fu l'assedio di Sciacca, non so bene se quel del primo sbarco di Federigo di Castiglia, o un secondo quando trionfò la parte angioina. Richiedeansi le città di mandar forze a quest'assedio, e invece d'uomini si prendea da esse denaro. Sul cumulo di queste composizioni furono assegnate all'ammiraglio per ordine del re once 621.
Da' medesimi conti ricavasi, che in questo tempo il prezzo del grano montò a venti tarì a salma.
CAPITOLO IV.
Re Carlo continua e trapassa gli abusi della dominazione sveva.Immunità ecclesiastiche. Novello baronaggio. Gravezze, e modi delriscuoterle. Demani, e bandite. Servigi, e soprusi che nascon daquelli. Amministrazione della giustizia, crimenlese, matrimoni,violenze alle donne. Violazione dei dritti politici. Riscontro dellecondizioni di Sicilia e di Puglia. 1266-1282.
Temperavansi a vicenda nell'antica siciliana costituzione ilprincipato e 'l baronaggio; nè illimitati dritti avea questo sullepersone, nè gravissimi sulle facoltà: i villani men servi che altrove;non eran servi i rustici; i borghesi e cittadini, fin delle terrefeudali, sentivano lor libertà, lor immunità sosteneano[1]. Il potergiudiziale dipendendo direttamente dal principe, non serviva a tuttevoglie della feudalità. Comportabili le gabelle; miti i servigi;rarissimi gli universali tributi: e i parlamenti soli accordavanquesti; i parlamenti conoscean solennemente le leggi dal re dettate.In questi termini, dopo ondeggiar molto del potere tra i baroni e 'lprincipe, il buon Guglielmo ristorò gli ordini politici: la feudalitàdi nuovo turbolli: Federigo imperatore più monarchicamente li assestò,come nel capitolo {43} primo s'è detto. Molti statuti e savi ei dettò,fiaccando i baroni: bandì, or col voto dei parlamenti ed or senza, leuniversali contribuzioni, ch'erano per ordine fondamentale limitate ainoti quattro casi feudali[2], ed ei per violenza le rese piùfrequenti: moltiplicò le gabelle sulle derrate: di alcune merciriserbossi esclusivo lo spaccio; accrescendo così senza modo leentrate regie. Pentito in ultimo, o infigendosi, per testamento abrogòqueste violazioni alla costituzione: disdisserle anco i suoifigliuoli; e le praticaron pure, sospinti dai bisogni della guerra[3].Esse dettero a Manfredi il crollo; esse a Carlo d'Angiò preparavanlo.Giurato avea Carlo tra le condizioni della pontificia investitura, dicessar gli abusi, di ridurre il governo ai termini del Buon Guglielmo;e i tempi del Malo ricondusse, e fe' peggio, non sapendo astenersi datanto comando, da tanta moneta. Sottilmente anzi investigando tutti imal'usi, che dritti si dicean del fisco, accrebbe peso e molestia: poidalla ribellione per Corradino trasse pretesto a scioglier sè e' suoiad ogni misfare. Le leggi e i registri che ne restan di lui; quelleche dopo il nostro vespro a moderar la pessima signoria promulgaronsiin Puglia dagli angioini, da que' di Aragona in Sicilia; e lerimostranze de' Siciliani al papa; i brevi pontificî; gli attestatidegli storici contemporanei, fosser nostri o avversi, tutte nemostrano scolpitamente le calamità della Sicilia in quei tempi.Fremendo io le scrivo; ma ne racconterò la vendetta[4].
E prima dirò della slealtà con la Chiesa. Avea Clemente {44} concedutoil regno a patto che gli ecclesiastici godessero tutte lor pretesefranchezze, dagli Svevi negate; e che si rendessero i beni occupatidagli Svevi a chiese o usciti. Giurollo Carlo, e da re nol dovea:preso il regno poi, avarizia il vinse a romper la fede; non giànegando apertamente, {45} ma peggio, con cavillare in parole, epersister nei fatti. Perciò, lagnandosi invano papa Clemente, lecomuni gravezze ei riscosse dai chierici, e da lor case; nè sazio aquesto, ai beni ecclesiastici diè di piglio; i dritti dei porti diCefalù, Patti, e Catania occupati dagli Svevi nella guerra con Roma,nella pace ei ritenne[5]. E non potè contendere che un legato,inquisitore, o esecutore (così intitolavasi) della Santa Sede nelreame di Sicilia sopra la restituzione de' beni ad esuli, chierici, echiese, il quale fu dapprima Rodolfo vescovo d'Albania, rendesseragione d'autorità del papa; non seppe nè anco ricusare i rescrittiche dessero virtù esecutiva a quelle sentenze; ma lascionne la piùparte senza effetto, come avvenne per lo casal di Calatabiano, cheVassallo d'Amelina a nome del re prese violentemente alla chiesa diMessina, e per un altro casale e un podere della medesima, che ilfisco tenea, nè per decisione del legato, nè per ammonizion dei papi,e in particolare di Gregorio X, si disserravano a renderli le avaremani di Carlo[6]. Gli Spedalieri, e i Templari che nei {46} suoi reamiveniano, taglieggiò senza rispetto; alla corte stessa di Roma nonn'ebbe, quando giunse a vietar che i suoi sudditi con gli stati diquella mercatassero[7]. Così adoperava coi papi. La sicilianarepubblica dell'ottantadue, incontanente redintegrò la chiesa diMessina nel possesso di quei beni[8]: e la corte di Roma fieramentemalediva la siciliana repubblica, perchè si ristorasse la prepotenzadi Carlo[9]!
Di gran momento sembrami in cotesto nuovo principato la novazione delbaronaggio. Perchè il picciol signore d'Angiò e di Provenza, armandoper tanta macchina di guerra, avea tolto in presto molto danaro, molteschiere condotto di speranza più che di stipendio; onde gli era forzasoddisfare a' conquistatori e sostegni del suo trono; e appena messoviil piè, al gran lotto diede opera[10]. E nulla erano gli uficipubblici lucrativi, ancorchè a' soli suoi li serbasse; nulla ibenefici ecclesiastici, che conferiva a quei soli; di terreni, difeudi facea d'uopo. Entrò Carlo dunque in una inchiesta strettissimadei demanî, de' baronaggi tutti, delle sostanze di Manfredi e de'suoi; non a cercare, ma a trovare vero o supposto vizio nelpossedimento. A ciò {47} i veltri del fisco, affamati, sagaci,invidiosi, ivano in traccia, svolgean vecchie carte, su dritti eusanze cavillavano, vinceano in diligenza lo stesso re. A vetustà dipossesso, a prescrizione non s'attende; richieggonsi i titoli de'feudi tutti; minacciano spogliamento gl'ingordi ministri, e per danaroacquetansi. L'hanno, e all'inchiesta, all'espilazione dopo brevetratto ritornano: feudo non fu, nè baronia che due o tre volte non sifosse ricattato in tal guisa[11]. Con severità maggiore si ricercò de'regi demanî: orribili furono le confiscazioni per crimenlese, comeinnanzi dirassi. Perilchè occupando terre, e castella, e poderiinnumerevoli, largheggiavane re Carlo co' suoi per feudaleconcessione[12]; e tanti diplomi ce ne rimangon ora, che alcuno, senzabadare al rapace acquisto, nè alla sforzata liberalità coi maggioridell'esercito, magnifico ne dice il re. I novelli baroni poi a loruomini gratificavano con subalterne concessioni: così i condottieri, isoldati d'oltremonti prendeano stanza nelle nostre terre; sospettosi,odiosi, pronti a ripigliare le armi; e ritraente dalla primitivaoccupazione de' barbari, una feudalità novella sorgeva {48} appo noi.Essa fu incentivo grandissimo ai turbamenti dell'ottantadue, perchè el'insolenza portava della vittoria, e 'l dispetto di signoriaforastiera, e l'uso a dritti o angherie, radicati in Francia, ignotiin Sicilia[13]. Però insopportabili qui rendeansi i novelli feudatari.Con insolite esazioni aggravavano le industrie; rapiano apertamente;taglieggiavano vassalli, e viandanti; tenean private carceri peicolpevoli e più per gl'innocenti; intrigavansi di forza ne' negozi de'comuni; ad ogni eccesso le violente mani stendeano[14]. Del che piùlargamente diremo, divisando i soprusi de' famigliari e degli altriofficiali del re; ch'essi e' feudatari eran di una genía tutti, senzaragione nè patria, tutti accozzati di varie genti, Francesi,Provenzali, Fiamminghi, e trapiantati nell'inimico paese, presero comeventuriera masnada una sembianza propria e nuova, un'indole rapace,crudele, pessima; nè Francesi li direi, se non fossero stati i più, el'uso delle tradizioni e istorie nostre non mi sforzasse. Rimessi sene stavano intanto i baroni siciliani, dal re bersagliati e dai ferocicompagni, ed usi a vivere negli antichi termini co' vassalli. Quantodel baronaggio dico io dunque, s'intenda del nuovo. Nè maraviglialcuno a vederlo sì sfrenato sotto sì dispotico principe; avvegnachè,riguardo all'autorità regia, tenealo egli a segno; i dritti sovranigeloso {49} riserbavasi nelle concessioni[15], ed esercitavali, nonperdonando a tributo, nè a servigio; infino a sancir la morte controgli usurpatori de' demani, e a dichiarare, e per questo soltanto, cheregnicoli e Provenzali e Francesi senza distinzione ubbidissero[16].Abbandonava nel resto il freno, perchè diverso dagli altri principidell'età sua Carlo regnava. Quelli con la riputazione dellemunicipalità, sforzavansi a raffrenare i baroni; ei condottiero ancoradel suo baronaggio, da quello era mantenuto sul trono[17]. Nimici {50}ambo de' popoli, ambo s'affaticavano insieme a tenerli sotto il giogo,e 'l sangue sugger loro e i midolli, come vivamente dice, e famigliardel papa era e guelfo, l'istorico Saba Malaspina[18].
E meglio stan queste amare parole ove si risguardi allaamministrazione delle pubbliche entrate, levate non per bisognipubblici, ma da istinto d'avarizia e disegni d'ambizione; la qualerapacità copriano i partigiani di Carlo con dir ch'era uopo dimagrarque' contumaci sudditi, affinchè contro il principe non alzasser lacresta[19]. Era nei tempi feudali, altrimenti che ai nostri, ordinatal'azienda degli stati; e più discrete apparian le gravezze a cagionde' minori bisogni, e degli usi sotto i quali esse ascondeansi. Perchèi demani[20] somministravano la più parte delle spese della corte; aquelle del pubblico suppliano i popoli, non pur con danaro, ma soventecol servigio delle persone, e delle cose loro. Così gli eserciti, lenavi, dai feudatari forniansi e dalle città; così era debito albergarle corti del principe e de' maestrali; così ai lavori pubblici andavantenuti gli uomini di minor taglia, ai trasporti, e a somigliantidisagi. Servigi s'appellavan questi; e collette le contribuzionidirette e generali; gabelle poi le tasse sulle derrate, che perprivativa nella vendita sovente si riscuoteano. Delle quali partil'entrata dello stato componeasi in Sicilia ancora; ma la moderatacostituzione tutti i pesi rattemprava. Turbaron gli Svevi quellabilancia, sì come io notai: Carlo le diè il tracollo, arso, dicedolorando il suo istorico, arso d'idropica sete di danaro[21]; e nevenne quasi all'aperta rapina. {51}
Ne restan di Clemente quarto, a lui indirizzate nei primi principî delregno, due epistole, che son modello di politica prudenza e umanità; maCarlo sen rise, come fanno i despoti ad ogni buon consiglio. Toccatisiin quelle tutti gli ordini dell'amministrazion dello stato; e sulletasse illegalmente levate: «consigliamti, o figliuolo, scrivea il papa,che, chiamati i baroni, i prelati, e i maggiori uomini delle città, ituoi bisogni lor esponga, e l'utilità del difendersi, e conl'assentimento di essi stabilisca il sussidio a te dovuto. Di quellopoi, e de' tuoi dritti sia tu contento; lascia tu liberi i sudditi…Ordina col parlamento in quali casi richieder possa la colletta aivassalli tuoi o de' baroni»[22]. E il pio re, nè parlamenti adunando, nèmisura osservando alcuna, nè per bisogno pubblico, bandiva l'unsull'altro, più fiate entro un anno, quegli universali tributi; oraggravando e spesseggiando i consueti; ora speculandone nuovi einsoliti, come fu quello de' legnami e marinai: e talvolta tumido efrettoloso lasciava ai ministri suoi che a lor talento ordinasserli[23].Si promulgan {52} così gli editti; saltan fuora i riscotitori; nonbastando i {53} sudori della industria[24] alla gravezza diretta,spessa, immite, fuggono i miseri dai lor focolari[25]; e se non ne hancuore, strappansi il pan dalla bocca, pagano una parte, e veggonsi purerapir le suppellettili, e gli animali, e gli strumenti dellaagricoltura[26], e fin diroccare le case, le persone trarre in carcere.Ivi son incatenati con manette di ferro; lor negasi il cibo e il bere;popolani e nobili, {54} vecchi, fanciulli, adulti, donzelle serransialla rinfusa come un sol gregge; occasione, o pretesto a violenzemaggiori[27]. «Mille nuove arti (sclama, trasportandosi a' tempi delservaggio, una rimostranza de' Siciliani ammoniti dopo il vespro atornarvi), mille nuove arti insegnava a costoro l'inestinguibil sete, ilfurore dell'avarizia. Sulle liste dei riscuotitori gli uomini soncresciuti; ma ben le liste di proscrizione li scemano. Nostri non sono ibeni; per costoro ariamo il suolo. Oh si lasciasse ai coltivatori untozzo di pane! Oh mangiassero, ma non divorassero! Ma no; le persone nondifendono i beni; nè i beni salvano le persone. Tutto bevono, tuttosucchiano questi vermi insaziabili. Appena ci è concesso disputare aicorvi i brani delle carogne[28].»
Tra la moltitudine de' poveri straziata a tal modo, i ricchi noncompravano almeno la sicurezza delle persone col sacrifizio de' beni.Pagavan le tasse, e non bastava; ricusandosi dagli officiali lascritta del ricevuto, finchè non avessero una grossa mancia[29]. Il redal suo canto vuol da loro tutta la colletta del paese, immantinenti,in moneta; pensin essi a riscuoter dagli altri. Chi ricusa, inprigione, in catene, finchè non prenda l'uficio; nè esce poi perquesto, senza pagar nuova taglia per riscatto dalla prigione. Unon'esce; un altro sen trova, ch'è pelato con lo stesso argomentofiscale: strano ed esorbitante peso in quei tempi, in cui sì altomontavan le usure del danaro. Frequentissimi {55} inoltre i violenticomandi a giustizieri, a portulani, a segreti per anticipazioni delletasse da riscuotersi; e non meno eran gli imprestiti, che da privati,da comuni richiedea il re, e a sua voglia faceane i patti, e pagava asua voglia[30].
Peggiore, e universal danno recò l'alterazion delle monete, {56} tantoo quanto ben governate dagli Svevi, mentre nella più parte degli statid'Europa il fisco ne traea grossa entrata; che è a dir le magagnavagrossamente[31]. E Carlo, imitatore degli Svevi nel mal solo, seguì inquesto gli esempi di fuori, e andò oltre com'ei solea. Fa coniare inNapoli, in luogo degli antichi agostali, carlini e mezzi carlinid'oro, con vocabolo preso dal suo nome e pervenuto infino a questipresenti tempi, del medesimo valore degli agostali, com'affermava, edi metallo purissimo; e nello editto stesso smentiasi, affidando ilcorso di questo suo conio al terror de' supplizi; perchè comandava conla solita immanità, che dando o ricevendo carlini di oro per valorminore dello edittale, gli officiali suoi ne avessero pena lapubblicazion de' beni e 'l taglio della mano; i privati fossermarchiati in faccia con la propria moneta arroventata su i carboniardenti[32]. Ogni anno poi, e talvolta entro un anno più volte,stampava a Messina ed a Brindisi la bassa moneta, d'una trista lega dimolto rame con pochissimi grani d'argento, di quella specie chiamataun tempo erosa, ed or biglione; il qual conio addimandavasi danari, eperchè altrimenti non si potea mettere in circolazione, si dispensavaper forza agli abitanti di ciascuna terra o città, che dovean torseloal disorbitante valor edittale, e pagarne tanta buona moneta d'oro od'argento. Guadagnavaci il fisco l'ottanta per cento e più; perdeancii privati strabocchevolmente, {57} perchè nè comando nè supplizio maidie' valore a ciò che non n'ha; onde a capo a quattro o cinque giornicinquanta danari valean sei, passata la settimana calavano ad uno[33].I sinistri effetti di tali alterazioni credea menomare, ma liaggravava il re, con un divieto all'uscita degli schietti metalli, edi tutt'altra moneta che la sua[34]. Taglia questa non era, nèbalzello, ma pretta rapina {58} di falsario; e per giunta soffocava estruggeva i commerci: non pur pensando l'avarizia cieca aquell'avvenire non lontano, in cui invan farebbe prova a smugnere isudditi, condotti alle ultime stretture di povertà.
E quanto al commercio, nè era questo il sol danno, nè avea per misurai soli errori economici della età, l'ingordigia con la quale re Carlomercatava egli stesso di molte derrate, e il traffico delle altre inmille guise forzava. Riserbata al principe o da balzelli oppressa lauscita del sale, de' grani, e di tutta vivanda: infinite le esazionide' porti, le visite, le investigazioni, i riti molestissimi, iladronecci de' doganieri, il terror degli officiali maggiori, che co'beni e col capo doveano rendere ragione al re della osservanza ditutti quegli ordinamenti[35]. E mentre così il fisco tiene {59} itraffichi esterni, e li interdice agli altri, gl'interiori travaglia esoffoca con quei, che nuovi statuti chiamò l'imperator Federigo, enuovi balzelli eran per vero su varie derrate, e privativi dritti delvender sale, acciaio, seta, e altre merci[36]. Nei traffichi alloraaddentrandosi re Carlo con quella guida delle angherie baronali, quifabbrica mulini, e comanda non possa alcuno macinar altrove ifrumenti; qui spianando pane, se ne fa ei solo venditore ai sudditil'amorevole monarca[37]. Forni, e mulini, e antiche gabelle, balzellinuovi, terratichi, multe, esazioni dell'amministrazione dellagiustizia, ei dà in fitto ove il possa; ondechè l'ingordigia deipubblicani con la sua si mesce a travaglio de' popoli[38]. Ma, sepubblicani non trova, adocchia i più ricchi uomini; sforzali a toglierquegli ufici, come allor diceano, in credenza; cioè, che riscuotanoper loro, paghino al re quel tanto ch'ei ferma a suo arbitrio,ragionando in tempi sì mutati e calamitosi il {60} ritrattosull'ultim'anno del regno di Manfredi, nel quale al doppio e al triplodell'odierno sommava[39].
Nè mancò infine l'arte delle spugne di Tiberio. Da molti documentiritraesi che gli officiali, convinti di mal tolto nel dare i lorconti, componeansi per danaro col re; il quale in tal guisa nonsolamente rifaceasi del frodato a lui, ma anco partecipava de'ladronecci su i popoli; e spesso fingea il mal tolto contro un riccouficiale per aver, come pareagli, onesta cagione a pelarlo[40].
Possedea vasti demani re Carlo. E i cortigiani[41] anelanti a precorreil principe ne' suoi vizi, pieni di zelo con lui borbottavano:dilapidarsi da' coloni que' suoi poderi; niun frutto ritrarsene;essere i sudditi ricchi troppo; a questi addossasse il maneggio de'beni, con patti accorti: non era egli il signore di lor vita esostanze? Società d'industria agraria delibera dunque il re: agliagricoltori vicini dà in soccio a forza, tenute, e armenti, e greggi,e scrofe, e polli, e gli sciami fin delle api. La quantità delleproduzioni o de' parti che a lui si debba, stabilisce egli a suaposta: sia sterile poi l'anno o fecondo, mortifera o generativa lastagione, {61} riscuote quel tanto, nè a mercè piegasi mai. Di questinon dubbi guadagni anzi invogliato sempre più, non è nei poderi suoivil cosa cui non attenda; mette a entrata fine il letame dellegreggi[42], manda gli armenti a satollarsi nelle altrui terre, entro ipascoli non pure, ma nei seminati più belli: e tristo chi si lagni disofferto dannaggio[43]!
Volgeasi per le campagne il guardo, e da per tutto era bandita del re;non a sollazzo suo, a dispetto de' popoli. Occupansi a capriccio icôlti de' privati; tramutansi in foreste; proclamasi il fatal bandodella caccia; ed è uom perduto chi non pure un cervo uccida o uncamoscio, ma solamente in que' luoghi soggiorni o passi, e a'boscaiuoli regi non aggradi. Incessanti perquisizioni fan quelli, perfame e selvatichezza più intristiti: alla insolenza aggiugnendol'insidia, spesso ripongon di furto ne' tuguri alcuna pelle o altroavanzo di cacciagione; e frugan poi; s'infingon trovarlo, e la miserafamigliuola inabbissano. Lor parchi allargavan anco i baroni adesempio del re; con pari giustizia acquistandoli, con pari umanitàguardandoli. Infinita la molestia dunque: e ben era ragione che perprocacciar {62} un'ora di diporto a quegli eletti, lagrimasse eaffamasse lunghi anni la vile bordaglia[44].
Il gran Federigo, aggravando le tasse, disusato avea i servigi almeno;ineguali maniere di contribuzione, ai sudditi molestissime,disdicevoli al governo, e male accordantisi con quel sì ordinatodispotismo, ch'avea egli in mente. Or la nuova avarizia assottigliatain ogni parte, i servigi richiese, senza tor le gravezze poste inluogo di quelli. Onde non solo volle il militare servigio, el'armamento delle navi, non mai discontinuati per l'addietro, ma solotalvolta ricattati con la contribuzione ch'adoa appellavasi oadoamento; ma cento altri ne ricercò de' più riposti e strani.Scrivonsi a servir sulle regie navi marinai e non marinai: chis'asconde o fugge, è perseguitato senza mercede: i genitori, ifratelli, le sorelle imprigionansi, affinchè il contumace per amorloro si dia volontariamente nelle rabide mani de' commissari[45].Intanto costretti i comuni a mandar il danaro delle collette in ogniluogo ove al re piaccia[46]: costretti i cittadini a portarlo tra irischi e i disagi, fabbricati dal mal governo medesimo. Se attende uomquetamente a sua industria, il mandan corriero con lettere e spacci, oa custodir prigioni; e sol per danaro trar si può di briga[47]. Allevetture, alle barche dan piglio gli officiali, i famigliari del re,de' magistrati, dell'azienda pubblica, de' castellani, dei feudatari:e servigio gridan del {63} re, servigio del barone; traggon giù ipadroni; sforzanli a remigare o a far da guida; e dan percosse inmercede, e a lor agio s'accomodan essi[48]. Così senza prezzo lavivanda tolgono in mercato, ch'è mestieri, dicono, al fisco; i vinisuggellan così, toccando al re, a' suoi tutti la scelta, agli abbiettiproprietari il rifiuto: ma per danaro si mitigan poi[49]. In millecosì vilissimi aggravî, per le piazze, per le osterie, nel lezzo delletaverne la cupidigia degli infimi famigliari si spazia, rivaleggiandocon quella dei potenti. Grandi ed infimi, che in tante bisogne dellauggiosa signoria svolazzavan per Sicilia tutta a stormi, s'intrudeanonelle case de' cittadini, abusando quel già gravoso dritto d'albergo.Entrano a dritto o a torto; scaccian la famiglia; sciupan letti,masserizie, vestimenta, quanto trovano; poi, se lor talenta, il portanvia, se no, il buttano in faccia agli ospiti, e vanno[50]. L'ingiuriade' servigi personali passò ogni costumanza, ogni limite della stessaingiuria sociale della feudalità, e venne all'eccesso del capriccio,del più strano e brutale dispetto. Vidersi nobili e onorandi uominicostretti vilmente a recar su le spalle vivande e vini alle mensedegli stranieri; vidersi nobili giovanetti tenuti in lor cucine agirar lo spiedo come guatteri o schiavi[51]! {64}
Ma se di ragione alcun parla, se d'aggravio si lagna, se di presentenon ubbidisce, alzan lo staffile i protervi, snudano il ferro; diferro cinti essi sempre, inermi i nostri per feroce divieto: epercuotono, uccidono; o peggio del ferire, traggono in prigione glioltraggiati cittadini che osin parlare; e alla violenza privata allorsottentra la violenza pubblica, e se non si ripara con danaro, ilmagistrato invocando la legge e Dio condanna a morte, a prigione, adesiglio[52]. Di qui dunque ci avvieremo ad esaminar l'amministrazionedella giustizia.
Illustre fu dator di leggi l'imperator Federigo: le forme d'applicarleei dettò con senno e dottrina; se non che mescolovvi l'ingordigiafiscale. Così gli ordini giudiziali al governo angioino pervennero;nel quale essendo avarizia maggiore, e non altezza alcuna diconsiglio, il buono ei contaminò di quegli ordini, il tristo neaccrebbe; e i tempî d'Astrea fe' bordelli. A magistrati affidolli, dique' che ben allignano sotto la tirannide; e più venali allor erano,perchè a' giudici annuali delle terre, anzichè darsi stipendio,richiedeasi un dritto per la loro elezione[53]. Strani decreti {65}Carlo dettò secondo i parziali bisogni; ogni misura passò; ogni drittoconfuse. E già dissi come a' satelliti suoi la giustizia fossestrumento e non freno: onde suonano ipocrisia brutta quanti statuti nerestano, che fan sembiante di protegger persone e proprietà, da quellimanomesse a man salva[54]. Leggiamo così, nè per volger di secoli neinganna re Carlo, i severi gastighi da uno statuto suo minacciati aglioccupatori dei beni altrui per frode o forza[55]. Così ne rivelano glieffetti del mal reggimento, e non la cura o efficacia di quello, lepromulgate leggi contro i rubatori di strada: che prove qualunquebastassero a condannarli: che le città o terre ristorassero de' furtiavvenuti in contado: che non armandosi gli abitanti a scacciare imasnadieri, il comune si componesse per danaro col fisco: le ville, lecase rustiche arderebbersi ove que' trovassero asilo, o a denunziarlinon si corresse. Verghe, marchio, e bando pei furti infino al valor diuno augustale[56]; infino a un'oncia taglio della mano; oltre un'onciala morte[57]. Applicavasi al fisco la terza parte de' furtiricuperati[58]. {66} Una grossa multa in ragion della popolazione siriscuotea sulle terre, ove, seguito un omicidio, il reo non siscoprisse: per la occultazione studiata, gastighi maggiori[59]. Eavvenia che il magistrato (giustiziere chiamavasi, e girava per tuttala provincia) intendendo il misfatto, correa, minacciava, investigava;addottogli l'accusato, negava di rilasciarlo sotto malleveria, ch'erabeneficio della legge[60]; ma strettosel tra le ugne e pelatolo,l'assolvea spesso poi per moneta; e il re godeane, riscuotendo lamulta sul comune, come per non trovato delinquente[61]. Le prigioni dital giustizia penale ognuno le immagini, e condanni d'esagerazione poila rimostranza de' Siciliani che citammo di sopra! «Altri, essa dice,è inghiottito dall'abisso di perpetuo carcere; carcere non qualecostruì la giustizia, o la severità stessa delle leggi, a custodia,non a gastigo de' malfattori. È vinta la umana immaginativa dagliorrori ch'io vidi. Giace a Napoli sotto il pendio d'immensa rupe unaspelonca, fatta carcere da questi stranieri, tetra e negra oltrenatura, flagellata sempre dal mare che la circonda, scrollata eminacciata dalle tempeste. Orrida è di torture, di supplizi: chemostrano a' prigioni qual termine s'apparecchi a lor guai: un acerbodolore ti trafigge all'udirvi gemiti, stridi, sospiri, aneliti de'languenti in catene. Questo fu tanti anni il covile de' miseriabitanti del regno; il sollazzo de' tiranni. Lo costruì il furor dellaspada: or passiamo alla fame dell'oro,» dice lo scritto, e continua le{67} maledizioni[62], meritate dal governo in cui la trasgressionedelle leggi s'ammendava con la crudeltà; l'avarizia del fisco, lacorruzione de' magistrati, la rapacità de' lor famigliarimoltiplicando senza limite que' disordini, rendean prima sorgente dimali l'amministrazione della giustizia, che del viver civile esser deelegame e comodo primo[63].
E la detta fin qui parrebbe mansuetudine e clemenza, al paragone de'procedimenti contro i delitti di maestà. Vinto Corradino, il dicemmo,orribilmente vendicavasi il re; ma al superbo animo non bastava.Comandò che per volger di tempo non si lasciasse giammai la caccia de'ribelli: presi, s'impiccassero tosto per la gola: alle forche con lorochi pietoso li ricettasse: chi veggendoli non facesse la spia, adarbitrio del re sarebbe punito[64]. Generali intanto e parzialiinquisizioni criminali, sitibonde, infaticabili, inaccesse a pietà,sovr'ambo i reami si stendono[65]; fanno a gara con le inquisizionidell'azienda; alle persone miran dapprima, ai beni poi de' sospetti;registrano sottilmente tutte le entrate; rintracciano le decorse; aimobili dan di piglio[66]. Tutto confisca il re: divide la preda co'suoi; e {68} loro assicura il mal dato con una prescrizione brevissimaalle ragioni dei terzi su que' beni[67]. E i signori in questo mezzo,trucidati cadeano, o trafugavansi in esiglio; scacciate dalle avitecase le lor famiglie, nobili già e opulente, accattavan per Dio, o,dolor più acerbo, invan supplici al re per alcuno scarso sussidio[68];e il re il ricusava spesso; e spogliò d'ogni cosa una moglie che delleproprie sostanze l'esule sposo avea sovvenuto[69]. Questa rabbiainfine confondendo ogni principio, portò Carlo a una legge: che ifigliuoli de' rei di stato non potessero maritarsi senza espressalicenza del re, quasi razza d'animali feroci da non lasciarsiriprodurre senza pericolo[70]. Pari divieto, guidate dalla feudalragione, stabiliron già le nostre leggi normanne per le eredi de'feudi; usollo Federigo severamente; e a suo costume abusaval re Carlo.Ma congiunti or quei due statuti, davano all'autorità pubblical'assentir o vietare la più parte de' matrimoni. Qui perchè i feudiricadano al fisco, re Carlo condanna a celibato perpetuo le eredi.Qui, trapassandosi da abuso ad abuso, le più ricche o leggiadredonzelle sono sforzate a nozze con gli odiosi stranieri, coipartigiani loro vilissimi, o se talvolta si concede il matrimonio conuomo italiano, si tolgono i beni[71]. Natura, società, {69} religione,i più santi legami violava quella insensata tirannide!
Nè d'un solo essa era; del principe era, de' baroni, de' seguaci, deipartigiani suoi tutti. Supplivansi i vizi a vicenda, chè non nemancasse un solo a strazio de' popoli: onde se tra que' di Carlo nonsi noverava la libidine, l'ammendavano i suoi con usura; per unprincipe non licenzioso, dissoluti manigoldi a migliaia. Di seduzione,di violenza ogni mezzo è in lor mano. Le ospitalità forzate,l'esercizio e la riputazion del comando, e 'l vietar nozze oassentirle, e le perquisizioni, gl'imprigionamenti per casi di stato,per leve marittime, per debiti delle collette, per mille tortecagioni, e l'esser tra gli spolpati popoli sol essi ricchi, schiudonloro e case disoneste e case oneste; agli ingiuriosi amoreggiamentidan via. Qui alle arti di seduzione la violenza è sviluppo; rapisconqui senza maschera alcuna; insultan le donne al cospetto de' mariti;non riguardano a candor di donzella, a castità di vedova; minacciano,o feriscono i parenti, o col braccio dell'autorità pubblica liallontanano: ridonsi de' pianti; della virtù si fan gabbo; menano alparo le ingannate, le dubbiose, le riluttanti vittime; a quegliabbominevoli amori ritegno alcuno non è[72]. {70}
E il principe sì religioso e austero si fa sordo a' richiami; efieramente ributta chi si lagni di villania, di rapina, di mortalferita: dolenti vanno a lui i sudditi e dolentissimi sen tornano,quando in pena della temerità non li chiude il carcere, non li punisceil bastone, o non li calpestano i cavalli degli uomini d'arme, mentreessi si sforzano a giugnere sino ai piè del tiranno. Così larimostranza già citata. Carlo sorride ai focosi suoi sgherri:giovanili trapassi que' loro, o giuste vendette; le querele e'richiami son calunnie di gente ribelle[73]. Invano Clemente parlò,scrisse, mandò legati a Carlo più volte[74], fin pregò re Ludovico cheil moderasse: Gregorio X invano nel ripigliò in Toscana, e l'ira delcielo minacciogli, e 'l flagello d'inaspettato tiranno che piomberebbesu lui. «Che suoni tiranno, rispondea Carlo, io lo ignoro; ma so cheil sommo Iddio mi ha guidato, e così ho fidanza che mi regga sempre.»E raddoppiò i balzelli su i Templari e gli Spedalieri; e si rise dellerimostranze che Marino arcivescovo di Capua fea tuonar poco appressonel concilio di Lione; e dell'orrore desto tra quei prelati al suodire; de' legati che il concilio deputava a correggerlo; e delleepistole del papa a re Filippo di Francia[75].
Un dì avrebbe forse il sicilian parlamento chiesto riparazione a tantitorti; e '1 voto solenne de' rappresentanti della nazione, avria fattoimpallidire quel Carlo[76]; ma il {71} parlamento più non era, ch'ei nonl'adunò in Sicilia mai, come sopra si è detto. E più: se i re normannifuron tutti coronati ed unti in Palermo; se qui soggiornarono, coigrandi uficiali della corona, con la maestà tutta del regno; e se gliSvevi non mutavan punto di quegli augusti ordini, ancorchè secondo icasi delle guerre lungi dalla metropoli vagassero; or Carlo presa lacorona dell'usurpazione oltre il Garigliano, continuò bene a chiamarPalermo capo e sede del regno, a far protestazioni menzognere del grandeamor che le portasse[77], ma insieme trapiantava primo la regia sede inNapoli, non per legge, di fatto; perchè a Francia, a Provenza, allacorte del papa, alla agognata Italia di sopra, più vicin fosse, nèchiuso dai mari. Perciò non solamente offendea la dignità e 'l drittodella Sicilia, ma anco i materiali interessi. Spegnea le industrie,fondate in sul lusso della corte e de' baroni; quanti per gli ordiniantichi viveano d'un modo o d'un altro, dannava a squallida povertà; lericchezze traea fuori senza scambio; il danaro delle tasse sperdea, danon lasciarne ricader nè una gocciola sola a refrigerio de'contribuenti. E con ciò la pestilenza de' reggitori subalterni; ladisuguale amministrazione della giustizia; l'izza del governo, cheodiato odiava, tra i sospetti ognor travagliandosi. Pertanto più acerbiassai della Sicilia i mali, che delle province di terraferma, ancorchèle stesse mani governasserle, straniere e crudeli. Ma in terraferma ilnovello acquisto della sede {72} del governo rattemperava que' danni; equanto la Sicilia perdea, la Puglia acquistava. Fioria Napoli per losoggiorno della corte, per l'affluenza di tante faccende: ristorò Carlola sua università degli studi, la ornò di splendidi edifizi, di feste edi spettacoli la fe' lieta. Lagrime, e terrore nell'isola intanto.Manomessa la nazione, manomessi i privati; non magistrato che rendesseragione; non principe che riparasse i torti; nè un domestico asilorimanea dove l'abbominato accento straniero non penetrasse a ricordarepiù scolpitamente la servitù. Delle facoltà loro non eran padroni;vilipesi nelle persone; ingiuriati nelle donne; della vita in sospettosempre e in periglio. A tanto la Sicilia venne per le violate leggi, e'l dominio straniero! Tal era nel secolo decimoterzo una tirannide!
NOTE
[1] Non proverò con citazioni questi ordini notissimi del nostro dritto pubblico. Quanto a' doveri de' vassalli verso i feudatari, è bene ricordare ciò che scrive Ugone Falcando al proposito delle pretensioni d'alcuni novelli baroni francesi in tempo de' Guglielmi, cioè nel secol XII, e delle risposte de' vassalli siciliani.At illi libertatem civium oppidanorum Siciliæ prætendentes, nullos se reditus aiebant, nullas exactiones debere, sed aliquoties dominis suis, urgente qualibet necessitate, quantum vellent sponte et libera voluntate servire: e appresso: multorum civium et oppidanorum odia suscitarent, dicentes: id eum proponere ut universi populi Siciliæ reditus annuos et exactiones solvere cogerentur juxta Galliæ consuetudinem, quæ cives liberos non haberet. In Caruso, Bibl. sic. tom. I, pag. 475. Gli abusi feudali per altro furon seguiti in Francia dalla famosa rivoluzione comunale del secolo XII.
[2] Erano, come ognun sa: 1º. invasione o grave ribellione nel regno: 2º. prigionia del re: 3º. armamento a cavaliere di lui, o del figliuolo: 4º. nozze della figliuola, o sorella del re.
[3] Capitoli di re Corrado I, dati in Foggia di febbraio 1251.
[4] Non credo che in questo quadro generale si debba far parola delle leggi suntuarie della città di Messina, confermate da Carlo per diploma del 16 giugno 1272, sulla domanda che ne fe' il comune per ambasciadori apposta: Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 102; e Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2.
Tralascio ancora, come di niuna importanza, un frivolo privilegio di re Carlo I al comune di Palermo, al quale, per la sua dignità, e lealtà nelle recenti turbazioni di Corradino, lasciò la elezione dei maestri di piazza, catapani, e altri uficiali minori. Diploma dato di Napoli a 24 ottobre 1270, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2. Nello stesso volume si trova un altro diploma dei 28 settembre 1275 dato di Venosa, in cui re Carlo mezzo confermava e mezzo no un privilegio dell'imperator Federigo ai Palermitani, per le inquisizioni dei giustizieri nei delitti pubblici e privati.
Nè si farà menzione de' nomi dei vicari che ressero la Sicilia per Carlo, oscuri ministri di un pessimo principe, non segnalatisi nè anco per iniquità che passasse la volgare. Furono, se alcuno pur ama saperli, Fulcone di Puy-Richard, Guglielmo di Beaumont, Adamo Morhier, Erberto d'Orléans. Caruso, Storia di Sicilia, parte 1ª, tom. II.
Il Sismondi nella Istoria delle repubbliche italiane, tom. II, cap. 7, afferma, che sotto la dominazione di Carlo I, i baroni siciliani malcontenti furono spogliati e oppressi, ma nè tutti presi, nè tutti cacciati dall'isola; e che i Francesi facean soggiorno nelle città e su le costiere, ma osavan di raro addentrarsi nelle montagne interiori, ove i signori al par de' contadini serbavan tutta la loro indipendenza. A provar questi due fatti sì gravi non allega alcun documento; nè per vero ne potea; nè percorrendo le memorie del tempo sapremmo apporci quale abbia potuto dar luogo al Sismondi a credere limitata e contrastata la dominazione dei Francesi in Sicilia. Per lo contrario tutti gli avvenimenti, le leggi, gli atti di questo governo mostrano, che dal 1268 al 1281 senza la menoma eccezione o resistenza, levò per tutta la Sicilia quanti danari volle, fè concessioni feudali ai baroni francesi nei luoghi più riposti dell'isola, e per ogni luogo comandò, vessò, ingiuriò. Se dunque il Sismondi non parla de' baroni che malediceano e obbedivano, come tutti gli altri Siciliani, senza dubbio la inesatta narrazione del Villani intorno la congiura di Giovanni di Procida, e la ignoranza di molti particolari di Alaimo di Lentini, furon quelli che il portarono a conchiudere frettolosamente, che restassero nell'isola, dopo i tempi di Corradino, baroni in istato d'aperta ribellione. L'altro supposto, ch'è di molto più fallace, forse fu suggerito dalle parole di Saba Malaspina su gli abitatori «de' monti de' Lombardi» e la prontezza della colonia lombarda di Corleone a seguir il tumulto palermitano. Ma Saba Malaspina in quel luogo narra largamente gli aggravi sofferti da' Corleonesi al par d'ogni altro Siciliano, o peggio. E ciò mostra piuttosto quanto poco si godesse in quelle contrade la indipendenza che ci vede il Sismondi.
[5] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 2.
Per la chiesa di Cefalù Carlo ritenne i dritti del porto, a quella tolti dagli Svevi, come si legge in un diploma del 14 luglio 1266, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12, pubblicato dal Pirro, Sic. sacra, tom. II, pag. 806. Lo stesso ritraesi per Catania, da un diploma del 10 settembre 1266. Pirro, Sic. sacra, tom. I, pag. 535.
[6] Diplomi de' 24 marzo e 24 settembre 1267. Breve del 13 dicembre 1274. Nei Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. H. 4, fog. 83, 85, 91.
Il diploma in cui fu resa esecutiva e trascritta la sentenza del legato sopra la restituzione di vari beni alle chiese di Messina, Catania, ec. si trova nel r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1268, O fog. 19, a t. e fog. 6, che per mal accurata legatura del volume è la continuazione del detto foglio 19. La data del diploma è del 9 agosto undecima Ind. (1268).
[7] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 3.
Nic. Speciale, lib. 1. cap. 11.
[8] Diploma del …. 1282 ne' citati Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. H. 4, fog. 117.
[9] La rimostranza de' Siciliani, ch'io pubblico al doc. VII s'intrattiene lungamente su i torti fatti dal governo angioino agli ecclesiastici.
[10] Parecchi diplomi spargon luce su questo punto. Uno dato di Napoli a 20 febbraio tredicesima Ind. (1299), accetta che Elia di Gesualdo milite si fosse esposto a gravi pericoli per Carlo I nella guerra con Manfredi, e gli avesse fornito in prestito una grossa somma di danaro, senza la quale Carlo non avrebbe potuto compiere la impresa; ond'ei gli diè in merito la baronia di Gesualdo, confermata poi da Carlo II col presente diploma. Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, segnato 1299-1300, C. fog. 54, a t.
Si vegga ancora ciò che dicemmo a pag. 33 per lo imprestito di Arrigo di Castiglia, riferito dal d'Esclot.
[11] Saba Malaspina, lib. 6.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 23 di re Giacomo.
Epistole di Clemente IV a Carlo, in Raynald, Ann. ecc. 1267 §. 4 e 1268 §. 36.
Diploma del 14 luglio 1266, dall'archivio della chiesa di Cefalù, tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12.
Diploma di Carlo I dato il 13 giugno 1270, nel quale si comanda una inquisizione per le concessioni di Federigo dopo la sua deposizione, di Corrado, e di Manfredi. Dal r. archivio di Napoli, Papon, Hist. gen. de Provence, tom. III, Docum. 8.
[12] Gio. Villani, lib. 7, cap. 30.
Veggansi ancora i vari diplomi ricordati da monsignor Scotto nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 50 e 179, e que' che abbiamo tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2, tutti cavati da' registri del r. archivio di Napoli, e dati di Taormina 12 gennaio 1271, di Messina 23 gennaio 1271, di Monforte 23 settembre 1272. Moltissimi altri se ne trovano ne' registri del detto archivio di Napoli.
[13] Veggasi la nota in principio del presente capitolo sulla esorbitanza de' dritti feudali di Francia al paragon de' nostri in que' tempi; e Vivenzio, Storia del regno di Napoli, tom. II, pag. 12 e 13.
È da notare che que' medesimi atti dei quali si lagnano gl'istorici nostri e del continente d'Italia, come d'oppressioni insopportabili de' Francesi in Sicilia, riferisconsi dagli istorici del dritto pubblico francese, come leggi, dure sì ed ingiuste, ma ricevute universalmente in Francia ne' secoli di mezzo. E questa è un'altra prova del divario grandissimo tra la feudalità francese e la siciliana, di gran lunga men barbara, del secolo XIII.
[14] Capitoli del regno di Napoli, pag. 39 e 40, capitoli dati il 10 giugno 1282.
[15] Vo' notare, perchè mostri le condizioni di tutte le altre, una concessione fatta da Carlo I, a dì 8 luglio 1278 (o 1266), che leggiamo tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 4.
Il re dà in feudo nobile a Ponzio di Blancfort, milite e famigliare suo, il castel di san Pietro sopra Patti, che si tenessein capite dalla corona, per lo servizio di due militi e mezzo, ragionati a 20 once d'oro annuali per ciascuno, secondo gli usi del regno di Sicilia. Eccettuansi dalla signoria coloro che tenessero direttamente dal re feudi o altro in que' luoghi; e le saline, gli armenti regi, i demani, le spiagge fino al gitto della balista: riserbasi ancora il re il dritto al giuramento ligio; i giudizi criminali di morte, taglione, o esilio; e la imposizione delle collette o monete generali.
[16] Capitoli del regno di Napoli, an. 1272, pag. 8. Questa differenza che Carlo mettea tra sudditi francesi e italiani, senza saviezza politica, e certo senza giustizia, si scorge sempre, anche in fatti di minore importanza. Così nel chiamare i baroni al servigio feudale, distinguea gli uni dagli altri; e abbiamo da vari diplomi che una volta ai Latini ingiunse di recarsi a quest'effetto a san Germano il 26 dicembre 1275, a' Francesi il 14 gennaio 1276. Da' registri del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1260 O fog. 68 a t. e 69.
[17] Carlo non solamente volle una feudalità di gente francese nel reame di Puglia, che mirò ancora a stabilirvi intere popolazioni. Così a ripopolar Lucera, dopo aver domato que' fieri Saraceni, invitò con promessa di proprietà e immunità larghissime gli abitanti della Provenza, raccomandando portasser seco loro le armi. Diploma del 20 ottobre 1273 dal r. archivio di Napoli, in Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, Doc. 12. Veggasi ancora quant'altro scrive il Papon nello stesso tom. III, pag. 58.
Questo fatto è provato inoltre da' privilegi di colonia provenzale, che Carlo II nel 1300 concedette ai Catalani dell'armata. Diplomi del 3 gennaio tredicesima Ind. nel reg. del r. archivio di Napoli, segnato 1299-1300, C fog. 50 a t.
[18] Presso il Caruso, Bibl. sic., tom. II, pag. 780.
[19] Saba Malaspina, continuazione presso di Gregorio, Bibl. arag. tom. II, pag. 332.
[20] Così furon chiamati ne' mezzi tempi, per corruzione della voce dominio, le terre appartenenti propriamente alla corona.
[21] Saba Malaspina, lib. 6.
[22] Raynald, Ann. ecc. 1267, §. 4. La prima è senza data; l'altra di Viterbo, il 6 febbraio 1267.
[23] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 1 di re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 26.
Bart. de Neocastro, cap. 12.
I diplomi del r. archivio di Napoli ci forniscono più minuti ragguagli, dei quali accennerò qui alcuno.
1º. Le collette o sovvenzioni eran bandite per varie cagioni, e spesso se ne richiedean molte in un medesimo anno; come sovvenzioni generali: per gli stipendi de' soldati mercenari: per l'armamento delle galee: pei legnami e marinai, diversa dalla precedente: per la festa d'armar cavaliere il figliuolo del re; e simili bisogni reali o immaginari. Notisi che in un reame in cui il servigio militare era a carico dei feudatari, si levava un'altra imposta per le truppe mercenarie.
2º. La somma era esorbitante. Per esempio, nel 1276 la sovvenzione generale per gli stanziali montò ad once 60,170. 11. 11.
Questa somma scompartissi per le province nel seguente modo:
Abbruzzo 6573 13 16 Terra di Lavoro e Contado di Molise 8080 » » Principato e terra Beneventana 5566 12 17 Capitanata 3300 24 1 Basilicata 4286 29 1 Terra di Bari 5446 21 » Terra d'Otranto 3547 14 8 Val di Crati e terra Giordana 5725 27 16 Calabria 2631 28 12 Sicilia di qua dal Salso (Sicilia orientale) 7600 » » Sicilia di là del Salso (Sicilia occidentale) 7500 » »
Totale 60,170 11 11
come si legge in un diploma del 13 febbraio quarta Ind. (1276) nel registro di Carlo II segnato A, 1201, fog. 90. Lo stesso dì fu bandita in alcune province di terraferma un'altra imposta per le galee, come si vede da un altro diploma del 20 febbraio quarta Ind. (1276), ibidem. Altre once 1,674 per soldi della gente delle galee di guardia intorno la Sicilia, si veggon pagate, la più parte dalla città di Palermo, in tre diplomi del 24 e 25 gennaio e 2 febbraio quinta Ind. (1277) reg. 1268 O fog. 47.
Abbiamo oltre a ciò le scritte del danaro che appare ricevuto dai due giustizieri di Sicilia nei mesi di maggio e giugno 1277 per sovvenzioni generali, nella somma di once 10,801, che certo non appartiene all'imposta de' soldati; e perciò il danaro pagato dalla Sicilia in quell'anno passò di molto le 30,000 once. Non è dubbio che quelle partite appartengano a un medesimo anno, cioè alla quinta Ind. 1276-77, perchè gli editti si mandavan fuori prima del cominciamento della indizione, e il danaro s'incassava nel corso della medesima. Queste scritte trovansi nel registro 1268 A fog. 40, 41, 42, 43. Da quella data il 29 maggio, fog. 41 a t., si scorge che la sovvenzione pei soldi della gente delle galee nel giustizierato di qua dal Salso era da 800 a 900 once all'anno.
3º. La proporzione della colletta tra il reame dell'isola e quel di terraferma, era come di uno a quattro; il che fa argomentare che a un di presso la popolazione stava nella stessa ragione, che è anche quella d'oggidì.
4º. I magistrati preposti a riscuoter le collette o sovvenzioni erano i giustizieri.
Su quali elementi l'amministrazione angioina prendesse a scompartir la somma tra le varie terre, s'ignora. Forse avea qualche abbozzo di censimento, non sappiam se di beni o di popolazione; ma è certo che dalla corte veniva la distribuzione; e ciò veggiamo per la distribuzione della moneta nuova nel diploma del 12 agosto 1279, che si pubblica Docum. III. La somma poi gravata sopra ogni terra, si contribuiva dagli abitanti su i ruoli che stendeano gli oficiali, chiamati giudici nelle terre demaniali, e maestri giurati nelle feudali, che erano eletti a questo scopo di comun voto degli abitanti. Tra molti altri documenti, il prova il diploma del 13 agosto 1278, pubblicato Docum. II, e l'altro del 12 settembre 1277, registro citato, 1268 O fog. 1, nel quale si legge….precipias ex parte nostra universitatibus terrarum et locorum tam demanii quam ecclesiarum comitum et baronum jurisdictionis tue, sub pena unciarum auri decem per te a contumacibus exigendis, ut universitates terrarum demanii judices sufficientes, ydoneos et juris peritos si poterint inveniri in numero consueto, et universitates ecclesiarum comitum et baronum magistros juratos bonos, sufficientes, ydoneos et fideles, quilibet in dicta universitate….. unum in magistros juratos de comuni voto omnium eligant….. Questa era una lettera circolare a tutti i giustizieri delle province di terraferma e al vicario in Sicilia ne' due giustizierati dell'isola. Onde si scorge ancora che la cancelleria di Carlo I, ora scrivea direttamente ai due giustizieri di Sicilia, come a quei di terraferma, ed or facealo per mezzo del vicario, sedente allora a Messina. Il diploma del 13 febbraio 1276, citato di sopra, accenna la medesima forma di distribuzione della tassa, per sindichi eletti dalle università, ossiano comuni.
Da un diploma che leggesi in Vivenzio, Storia del regno di Napoli, tom. II, pag. 351, si ricava, che in Principato la proporzione ordinaria della sovvenzione generale era di un agostale a focolare, ossia famiglia.
[24] Nic. Speciale, lib. 1 cap. 2.
Bart. de Neocastro, cap. 12 e 13.
[25] Diploma dato di Melfi a 16 settembre 1269, dove si confessa, che gli abitanti di alcuni casali di Calabria appartenenti al monastero del Salvadore di Messina:de necessitate coguntur proprium deserere incolatum, dum nullatenus possint tam gravia onera sustinere. Dal r. archivio di Napoli, si legge nei Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2.
[26] Capitoli del regno di Napoli, anno 1272, pag. 4.
[27] Lettera de' Siciliani al papa Martino IV, nello Anonymi chronicon siculum, cap. 40, presso di Gregorio, Bibl. arag. tom. II, pag. 154.
D'Esclot, cap. 88. Questi assicura che si levavano infino a quattro collette in un anno, ed aggiugne un'altra crudeltà, non rapportata dai nostri, e perciò men da credersi; cioè che marchiavano in fronte cui non pagasse le collette, e che i riscuotitori portavano due collari colle catene appesi all'arcion della sella, e vi attaccavano pel collo i debitori.
[28] Docum. VII.
[29] Capitoli del regno di Napoli, pag. 26.
[30] Saba Malaspina, cont. loc. cit., pag. 333.
Bart. de Neocastro, cap. 12.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 8 di re Giacomo.
Diploma del 27 gennaio 1281, nel citato catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 227.
Diploma del 29 novembre tredicesima Ind. (1269) nel r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 203 a t.
I nomi de' cittadini palermitani da' quali si tolse in presto il danaro di cui tratta questo diploma, sono: Failla, de Pulcaro, Riccio, Tagliavia, ed Afflitto.
Diploma del 15 marzo 1278 per compensarsi col danaro dato in prestito dal comune di Caltagirone, il debito ch'esso avea per la imposta de' legnami e marinai, nella somma di once 727. R. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog.143.
Da molti diplomi si vede che re Carlo richiedea tali imprestiti a tutti i magistrati preposti all'amministrazione delle entrate pubbliche, cioè i giustizieri, i segreti, i portulani, e i maestri di zecca. Diploma dato di Viterbo il 15 novembre quinta Ind. (1276), nel quale si comanda ai giustizieri di terraferma di dare in prestito al re once 500 per ciascuno, e a que' di Sicilia 1,000 once per ciascuno; nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 1. Altro simile, ibid., fog. 2, dato di Brindisi, il 16 aprile (forse 1277). Altro, ibid., fog. 3, dato di Venosa il 1 giugno quinta Ind. (1277), pel quale si domandarono ai giustizieri di Sicilia once 2,000 per ciascuno. Altro, ibid., fog. 22, a t., ai segreti, portulani, e maestri di zecca. In Sicilia ci avea un segreto solo, un sol portolano, e ilSiclarius di Messina. Il pretesto dell'accatto era l'urgenza di pagare i soldati mercenari, e il censo alla corte di Roma. E in molti luoghi fu mandato, come era solito, a sollecitare il pagamento un Droetto da Genlis. Altri del 23 febbraio, 5 e 30 marzo (1276) per simili imprestiti. Richiedeansi ai giustizieri once 2,000 per ciascuno; nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1291, A, fog. 93, 94, a t. 95 e 102.
Diploma del 5 settembre, sesta Ind. (1277) a' giustizieri, che mandino incontanente danaro,tam de pecunia ipsa mutuanda per te, quam de recipienda mutuo a divitioribus et melioribus dicte jurisdictionis tue a quibus statim et brevi manu haberi possint, ita quod mutuum ipsum generale non sit nec in eo pauperes, etc. R. archivio di Napoli, reg. 1268 O, fog. 3.
Conto dei giustizieri di Sicilia, ibid., fog. 75, ove si parla d'altri imprestiti somiglianti.
Altri diplomi su imprestiti non restituiti da Carlo I, son citati dal Vivenzio, Storia di Napoli, tom. II, pag. 12.
[31] Memorie storiche ed economiche sopra la moneta bassa di Sicilia, di Antonino della Rovere, Palermo, 1814, cap. 3.
[32] Documento II.
Molti particolari per la monetazione d'oro in Napoli si trovano in un diploma del r. archivio di Napoli, reg. 1268, O, fog. 91.
[33] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 10 di re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282, pag. 25.
Saba Malaspina, cont. loc. cit., p. 332.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.
Bart. de Neocastro, cap. 12.
D'Esclot, cap. 88.
Diplomi del 18 e 25 maggio 1275, ai maestri della zecca di Messina, allegati dal sig. della Rovere nell'opera citata, cap. 4; ove si legge che nella nuova moneta di denari entravano 7 tarì e mezzo di argento in ogni libbra di lega; e sopra ciò si ragiona il guadagno dell'80 per 100, che risponde a' detti del Neocastro e del D'Esclot; il primo de' quali afferma che il valor edittale della nuova moneta montò a trenta volte sopra l'antico, non che sopra l'intrinseco; e il secondo attesta il rapidissimo calar di questa moneta dopo la distribuzione.
Moltissimi diplomi ci ha poi, su le sforzate distribuzioni della bassa moneta, nel r. archivio di Napoli; un de' quali dato il 13 agosto sesta Ind. (1278) si trova nel registro segnato 1268, A, fog. 127. Un altro del 5 settembre sesta Ind. (1277) per la distribuzione di libbre 8,830 di moneta nuova, alla solita ragione di 3 libbre ad oncia di valore, talchè se ne doveano ricavare, continua il diploma, once 2,943. 11. 10, reg. 1268, O, fog. 3; e parecchi altri veggonsi notati nell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli per monsig. Scotto, tom. I, Napoli, 1824.
Una di queste pergamene contien la distribuzione alle città e terre della Sicilia di là del Salso (regione occidentale); e questa, perchè mostra particolari importanti, l'ho io trascritto dall'originale, e la pubblico qui, Docum. III.
Che Carlo I d'Angiò avesse la monetazione come un capo di entrata pubblica, si ricava da molti altri diplomi del r. archivio di Napoli; un dei quali indirizzato al vicario in Sicilia Adamo Morhier per la zecca di Messina il 13 marzo 1278, si trova nel registro segnato 1268, A, fog. 142.
[34] Elenco citato delle pergamene, ec., tom. I, p. 181 e 184, diplomi del 4 e 31 agosto 1279.
[35] Bart. de Neocastro, cap. 12.
Capitoli del regno di Napoli, 26 gennaio e 20 febbraio 1274, pag. 1.
Alla tratta dei grani, e alle altre esazioni dei porti eran preposti i maestri portolani; e in Sicilia n'era di que' tempi un solo, come si scorge dai diplomi del r. archivio di Napoli, 10 giugno, quinta Ind. (1277), reg. 1268, A, fog. 22 a t.—10 e 15 aprile, sesta Ind. 1278, indirizzati a Giovanni di Lentini milite, e Matteo Rufulo di Ravella, portolani e procuratori in Sicilia (ma erano due individui che esercitavano, o per dir meglio avean preso in affitto, un solo uficio), ibid., fog. 96, 97.
De' dritti di tratta del grano si trova notizia in molti altri diplomi, e, per non citarne un eccessivo numero, veggasi quello del 15 marzo 1278, reg. 1268, A, fog. 142, e un altro del 26 novembre 1279, indirizzato al portolano di Eraclea in Sicilia. In questo si leggono tutte le estrazioni di grani da Eraclea, ossia Terranova, in quattordici mesi dal 10 luglio 1278 al 24 settembre 1279. Il dritto di estrazione era venticinque once ogni mille salme di frumento per fuori regno, e la metà pei luoghi del regno. Nel detto periodo si trassero da Terranova salme 11,709 di frumento e 3,690 d'orzo, delle quali 150 sole per Genova, 560 senza dichiarar luogo, e le une e le altre furono imbarcate con legni genovesi e oltramontani. Il rimanente con bastimenti siciliani o del regno di Napoli fu portato ad Amalfi, Gaeta, Napoli, e la più parte a Messina. I carichi per Napoli furono del frumento e orzo del re. Dal r. archivio di Napoli, reg. 1270, B, fog. 36 a t. Io ne ho depositato una copia nella Bibl. com. di Palermo.
[36] Veggasi di Gregorio, Considerazioni sulla storia di Sicilia, lib. 3, cap. 6 e 7.
Il segreto amministrava queste gabelle, ed era in Sicilia un solo, se non che talvolta più persone prendeano in fitto questo uficio, come il mostra un diploma del 29 ottobre ottava Ind. (1279) per alcune decime e prestazioni alla chiesa di Messina, nel cui margine leggesiAlaymo de Lentini et sociis secretis Sicilie, r. archivio di Napoli, reg. segnato 1270, B, fog. 9; e un altro diploma del 23 settembre dello stesso anno, ibid., fog. 8, per la elezione d'Arrigo de Riso e Arrigo Rosso da Messina a segreti di Calabria. Da un altro diploma del 27 marzo ottava Ind. (1270), ibid., fog. 3, si rileva, che le entrate della segrezia di Sicilia per la ottava Ind. montassero ad once 19, 310, 26, 10. Veg. anche diploma del 15 marzo 1278, ibid., reg. segnato 1268, A, fog. 142, indirizzato al segreto di Sicilia; e un altro al medesimo, ibid., reg. 1270, B, fog. 11, dato il 27 febbraio, ottava Ind. 1280, per dritti diriva e bucceria di Palermo.
[37] Diploma del 6 agosto 1281 nell'Elenco dalle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, p. 228.
[38] Ibidem. Ad ogni pagina si leggono diplomi riguardanti questi affitti.
[39] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 11 di re Giacomo.
Anon. chron. sic., cap. 40.
[40] Leggonsi moltissime di queste transazioni coi veri o supposti frodatori, nel registro del r. archivio di Napoli segnato 1283, A, fog. 96, 98, 103, 108 a t. 112, 113, a t. Si scorge ancora il mal uso dal diploma del 26 marzo 1284, ibid., fog. 125 a t., in cui fu mascherato sotto tal pretesto il riscatto di Arrigo Rosso da Messina, fatto prigione nel combattimento di Milazzo l'anno 1282.
[41] A proposito de' mali consiglieri di re Carlo, è da ricordare un diploma del principe di Salerno, dato di Nicotra il 22 giugno 1283. Dietro lo scoppio del vespro, la casa di Angiò volle gittar sui ministri tutto il carico del mal governo. Il principe dunque di Salerno, erede presuntivo della corona, denunziò a' popoli del regno di terraferma quattro Marra fratelli, e due Rufulo padre e figliuolo «inventori di tutti i modi di spogliare i popoli, pei quali la Sicilia s'era ribellata. Or io, conchiudea, li punisco.» Da' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1, pubblicato dal sac. Niccolò Buscemi nella vita di Giovanni di Procida, Docum. 5.
[42] Saba Malaspina, cont. pag. 331, 332.
Bart. de Neocastro, cap. 12.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.
Anon. chron. sic. loc. cit.
D'Esclot, cap. 88.
Al proposito della estrema cura di Carlo pe' suoi orti si legge un curioso diploma dell'8 febb. 1278 a Adamo Morhier vicario in Sicilia, cui il re raccomandava il palagio e il giardin di Palermo, e que' della Cuba, dell'Assisa, della Favara, e del Parco; nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 37 a t. Ivi a fog. 37 è un altro diploma del 5 febb. a un Giordano detto Marzono per la custodia de' palagi e giardini medesimi.
[43] Capitoli del regno di Napoli del 10 giugno 1282.
Il dritto di pascer gli armenti regi era certamente antico sui i feudi; ma Carlo l'abusò, come fece di ogni altra prerogativa della corona.
Saba Malaspina, cont. p. 357.
[44] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 28 e 64 di re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.
Bart. de Neocastro, cap. 12.
Saba Malaspina, cont. pag. 331.
[45] Bart. de Neocastro, cap. 12.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 44 di re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 26 e seg.
[46] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 13 di re Giacomo.
[47] Saba Malaspina, cont. pag. 333.
Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.
[48] Saba Malaspina, cont. pag. 334.
Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.
Epistola di Clemente IV, in Raynald, Ann. ecc. 1267, §. 4.
[49] Saba Malaspina, cont. pag. 334.
Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.
[50] Saba Malaspina, cont. pag. 333.
D'Esclot, cap. 88.
Anon. chron. sic. cap. 40, loc. cit. pag. 155.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 19 e 20 di re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 20.
Veggasi ancora il diploma di re Carlo I, a 31 luglio 1276, per le materasse che gli officiali prendeano ai giudici del comune di Messina, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 105.
[51] Nic. Speciale, lib. 1 cap. 11.
[52] Anon. chron. sic. pag. 154.
Bart. de Neocastro, cap. 14.
Nic. Speciale, lib. 1 cap. 2.
Saba Malaspina, cont, pag. 333 e 353.
Rade volte, com'avvien pure, il re prendea a riparare qualche caso particolare. Un diploma del 24 febbraio, non si vede di qual anno, fa scritto al vicario in Sicilia, per le violenze fatte al canonico Stefano d'Ala, e la sua prigionia arbitraria. Nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, O fog. 88 a t.
Un altro diploma del 7 maggio quarta Ind. (1276) riguarda un simil caso di Deponto da Nicastro, cui un Raoul de Teretis milite, con una sua masnada, avea cattivato, portato alla Catona, e indi nel castel di Scilla.
[53] Si sa che sotto Federigo imperatore i baiuli erano insieme giudici civili di prima istanza, officiali dell'azienda regia, e magistrati municipali. Par che siano stati sostituiti, forse da Carlo, a questi baiuli i giudici nelle terre demaniali, e i maestri giurati nelle feudali o ecclesiastiche. Questi pel rescritto della conferma della loro elezione pagavano, oltre le mance ai notai, un dritto di tarì d'oro diciotto e mezzo al fisco. Veg. diploma del 13 agosto 1278, docum. II. e conto del giustiziere della Sicilia oltre il Salso, nel reg. del r. archivio di Napoli segnato 1268, O fog. 75, ove è messo a entrata questo dritto.
[54] Che questa non sia una supposizione mia lo attestano tutti gli storici di sopra citati, e gli statuti stessi che promulgò Carlo appresso il vespro. Ricordisi la legge sulla occupazione de' demani citata di sopra, ch'è la sola obbligatoria anche pei Francesi e Provenzali.
In un diploma del 16 aprile 1274, re Carlo commette al vicario di Sicilia, che gli abitanti di Eraclea non sian molestati nè spogliati dai vicini,che non sono nè Francesi nè Provenzali; che è una diretta confessione, o almen prova quali suonassero i richiami del pubblico. Tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1.
[55] Capitoli del regno di Napoli, pag. 4, 15 marzo 1272.
[56] Questa moneta valea la quarta parte di un'oncia.
[57] Capitoli del regno di Napoli, pag. 10, anno 1269.
[58] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 42 del re Giacomo.
[59] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 45 del re Giacomo.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 21 e 22. Ved. anche un diploma nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, O fog. 75, nel quale si leggono i conti di un giustiziere della Sicilia oltre il Salso, e tra le altre partite d'entrata se ne trova una di multa per gli omicidi clandestini.
[60] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 15 di re Giacomo.
Epistola di Clemente IV, in Raynald, Ann. ecc. 1267 §. 4.
[61] Saba Malaspina, cont. pag. 333.
[62] Docum. VII. Par fuori d'ogni dubbio che si parli d'una prigione nel Castel dell'Uovo, che per altro era il carcere de' rei di stato, ove si ritenea Beatrice figliuola di Manfredi, Arrigo Rosso messinese preso il 1282, nel combattimento di Milazzo, ecc.
[63] È confessato ne' capitoli di re Carlo del 10 giugno 1282.
[64] Capitoli del regno di Napoli, pag. 15, 15 dicembre 1268.
[65] Epistola di Clemente IV, del 1267, loc. cit.
Scorgesi ancora da tutti gli storici da noi citati, e cento diplomi il confermano; de' quali per brevità noterò due soli del 1269 e del 1270. Il primo, tratto da' reg. del r. archivio di Napoli, si legge tra' Mss. della Biblioteca com. di Palermo Q. q. G. 1 fog. 102; l'altro nell'elenco delle pergamene dell'archivio stesso di Napoli, tom. I, pag. 34.
[66] Diploma del 29 gennaio 1269, da' reg. del r. archivio di Napoli, tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1.
Diploma del 10 novembre 1270, nell'elenco citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 41.
Altro del 7 maggio 1271, ibid. pag. 58, e altri dieci del 1275, ibid. pag. 100 a 112. Nel conto del giustiziere della Sicilia oltre il Salso, reg. del r. archivio di Napoli segnato 1268, O fog. 75, si veggono messe a entrata le terze parti de' mobili de' contumaci.
[67] Capitoli del regno di Napoli, pag. 16, 26 gennaio 1278.
[68] Diploma del 3 febbraio 1270, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. F. 70, pubblicato dal sac. Niccolò Buscemi nella vita di Giov. di Procida; e altri—del 20 febbraio 1271, nel catalogo citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 49—del 2 giugno 1271, ibid. pag. 63—del 1 novembre 1271, ibid. pag. 79.
[69] Ibid. diploma del 21 dicembre 1271, pag. 82.
[70] Capitoli del regno di Napoli, pag. 23, 22 novembre 1271.
[71] Epistola di Clemente IV, del 1267, loc. cit.
Nic. Speciale, lib. I, cap. 2 ed 11.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 22 di re Giacomo.
Rimostranza de' Siciliani, Docum. VII.
In un diploma del 14 luglio 1266, che cavato dagli archivi delle chiese di Cefalù abbiamo nella Bibl. com. di Palermo tra i Mss. Q. q. G. 12, si fa cenno di un censimento di tutte le contee, baronie, «e delle pulzellein capillo che vivessero nelle terre scritte in pie'.» Mi è corso alla mente che quella lista di fanciulle si stendesse anche per vegliare su i loro matrimoni.
I permessi di matrimonio, anche senza beni feudali, sono frequentissimi ne' reg. angioini del r. archivio di Napoli. Molti se ne trovano, per lasciar gli altri, nel reg. seg. 1268, O fog. 23 e 24, dati da aprile a giugno 1274.
[72] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Bart. de Neocastro, cap. 22.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2. ed 11.
Anon. Chron. sic. loc. cit. pag. 154.
Lettera di Clemente IV, a re Carlo, in Raynald, Ann. ecc. 1268, §. 36. Francesco Pipino, in Muratori R. I. S., tom. VIII, lib. 3, cap. 10.
D'Esclot, cap. 88.
Rimostranza de' Siciliani, citata di sopra.
[73] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2.
Saba Malaspina, cont., pag. 332 e 353.
Rimostranza de' Siciliani, citata di sopra.
[74] Raynald, Ann. ecc. 1267. §. 4, e 1268, §§. 36, 37.
[75] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 3, 4 e seg.
[76] Scrivendo queste parole non si è dimenticato la imperfezione di quegli antichi parlamenti, i quali non eran sempre generali, nè aveano il potere legislativo sì netto come in oggi, nè rappresentavano la nazione in quel significato ch'or suona appo noi. Ma secondo gli umori dei tempi (e son più costanti i parlamenti d'oggi?) raffrenavano anch'essi gli abusi; come nel progresso di queste istorie si vedrà de' parlamenti di Santo Martino e di Foggia nel reame di Napoli, e di quelli adunati in Sicilia sotto Giacomo e Federigo d'Aragona.
[77]Nos autem qui civitatem eamdem speciali prerogativa diligimus et fovemus, eo quod Caput et Sedes Regni nostri exsistit, etc. leggesi in un diploma di Carlo I, dato di Napoli a 29 ottobre 1270 in favore del clero palermitano, presso Inveges, Ann. di Palermo, tom. III, pag. 741.
CAPITOLO V.
Relazioni straniere di Carlo I d'Angiò. Crociata e trattato di Tunisi.Carlo aspira all'impero greco. S'ingrandisce in Italia. È raffrenatoda Gregorio X. Disegni di Niccolò III e nimistà di lui con Carlo.Pretensione di Pier d'Aragona al reame di Sicilia: supposte pratichedi lui per mezzo di Giovanni di Procida. Preparamenti di guerra inAragona. Esaltazione di Martino IV. Armamenti di Carlo per l'Oriente.Sentimento nazionale manifestato in Italia contro i Francesi. Novelliaggravi che soffrono i Siciliani: richiami, umori, disposizioni loro.1266-1282.
Dal governamento interiore or trapasseremo alle brighe di fuori, senzale quali non sarebbero tutte spiegate le cagioni del vespro; perchèl'infrenabile ambizione di re Carlo fu quella che gli suscitò contro ipotenti offesi o minacciati, e insieme condusse a disperazione isudditi, torturati per supplire a sforzi che di gran lunga passavanoil poter loro. Ebbe Carlo dalla liberalità di san Luigi la contead'Angiò; quelle di Provenza e di Forcalquier, dal matrimonio conBeatrice; i domini italiani, dal papa e dal proprio valore: e talprosperità invasò tutto d'ambizione l'animo suo, nato a questo;foltissimo e costante anzi caparbio nel volere; audacissimoall'eseguire; non risguardante a giustizia nelle cose politiche, emanco nelle civili e private; non mitigato dal più fugace sentimentod'umanità; per temperanza religiosa, o abitudine e disposizione delcorpo, non isvagato da amori; brusco nel tratto; spiacente e ingratofino ne' cattivi versi che dettò; avaro, rapace, durissimo al rendere;non severo però nè scarso co' satelliti della sua ambizione. Crebbe dafanciullo nelle armi; seguì il fratello alla prima impresa d'Affrica;acquistò chiaro nome in guerra per valore, e anco per le qualità dellapersona da spirar nella moltitudine fidanza o terrore: un robusto,{74} grande, dal volto nasuto, olivastro, spirante fierezza, noncomposto mai a sorriso, sobrio, vigilante; e solea dir che idormigliosi ne perdon tanto di vita. La quale austerità e attitudinealla guerra sembran le sue sole virtù: e più sarebbe stata lareligione, se non l'avesse inteso a suo modo: riverire il sacerdozioquando non gli contrastasse ambizione; donare a monisteri; ergerchiese; e credere che si serve a Dio con ciò solo, calpestando ilvangelo nei sublimi precetti della carità. Per tali vizi e virtudi efortuna era costui molto ridottato in cristianità, come potente,bellicoso, irresistibile [1]. Per le stesse cagioni, sospinto da suanatura e fatto cieco dalle prosperità, ei montò agevolmente, einaspettatamente cadde. Non prima occupò il trono di Manfredi, cheprese a guardar di là dal mare l'impero greco, di là dal Gariglianol'Italia superiore; lacerati, l'un da eresia, tirannide, e pretensionedi due schiatte di principi, l'altra dalle parti politiche; e la {75}potenza di Roma vedea presta ad aiutarlo, là col pastorale, qua con laspada guelfa. Pertanto si die' Carlo, dall'anno sessantaseiall'ottantadue, a novelle ambizioni, che senza tenerci strettamenteall'ordine dei tempi, ma più al legame de' fatti, discorreremo a partea parte.
E pria direm come da que' disegni re Lodovico il chiamò a sterileimpresa. Ardente di pio zelo faceasi Lodovico a ritentar l'affricanaterra, fatale a Francia; per tutta cristianità bandiva la crociata,sforzandosi a ricondurvi il secolo già inchinato ad altre brame, e ilfratello che amava meglio a spiegar la croce contro i ricchicristiani. Gli ambasciatori di Francia mandati a sollecitar Carlo allacrociata, richiedeanlo inoltre della restituzione del danarosovvenutogli quand'egli era povero principe del sangue reale, e nonreso or che il re di Francia si trovava in bisogni assai maggiori de'suoi [2]. Nè Carlo ebbe fronte di ricusar l'invito alla guerra; matemporeggiò, consigliando sotto specie del ben della impresa l'utilproprio: che si facesse il primo impeto sopra il reame di Tunisi,tributario a Sicilia infin da' tempi normanni, e allora ricalcitrantea quel peso. Infine ragunata in Sicilia l'armata, passò in Affrica re{76} Carlo, ad avvantaggiarsi ei solo nella perdita de' suoi. Trovòl'oste di Francia a campo a Tunisi, diradata da fame, pestilenza,ferro nimico: il fratel suo non trovò, il santo e forte Lodovico, ilquale colto dalla contagione, rendè l'ultimo fiato, pur mentre Carlosbarcava, il venticinque luglio milledugentosettanta. Delle cui bramenon curossi Carlo, nè del sepolcro di Cristo; e come nell'altracrociata, appena ricattatosi di prigione, avea abbandonato il fratelloper andare a molestar i novelli suoi sudditi di Provenza, così orpatteggiò col re di Tunisi: sgombrasse l'esercito battezzato, conrestar libero in quelle province il cristian culto; stipulò per sèstesso una grossa somma di danaro, e l'aumento del tributo[3]. Allordissero vendetta celeste dell'abbandonata guerra, una tempesta chefracassò nel porto di Trapani l'armata ritrattasi d'Affrica, sì chel'acquistato danaro rimase preda delle onde[4]. Peggio ne andò inpezzi per cristianità tutta il nome di Carlo, per aver dato di piglionelli avanzi di quel miserando naufragio; spogliato i guerrieri dellacroce, i fratelli suoi d'arme, sotto specie di uno statuto diGuglielmo il Malo, che appropriava al fisco le robe dei naufraghi[5].Ma a Carlo eran ciance: vedea solo i tesori via alla possanza; lapossanza via ai tesori.
Per isfrenata signoria di una corrotta corte e d'un clero {77}accanito in teologici assottigliamenti, l'imperio di Costantinopolicadeva in quel tempo: senza buone armi; nemico per fiero scisma aicristiani di ponente; da' barbari scemo di vastissimo paese. Un'ostecrociata di Veneziani e di Francesi s'era già impadronita dellacapitale stessa; avea locato un conte di Fiandra sul solio diCostantino. Ma, a danno maggiore, non pure allignando quella nuovadominazione, i principi greci fuggenti ripigliavan animo acombatterla: Michele Paleologo infine, usurpato per misfatti ilrinascente imperio di gente greca, rinnalzaval con animo e senno,occupando Costantinopoli nel milledugentosessantasette, e scacciandoal tutto gli stranieri; ma la forza e dignità dello imperio non potèristorare. Prendendo allor a peregrinare in ponente, Baldovino, illatino imperatore, dopo vano accattar aiuti dagli altri principiortodossi, gittavasi infine in braccio a re Carlo[6]. Innanzi lapassata a Tunisi, innanzi la guerra di Corradino, appena messo il pie'in Italia, macchinò Carlo l'occupazion dell'impero greco: chè ciò eranmanifestamente i patti, che a corte e nelle stanze medesime di papaClemente, ei fermò con Baldovino; vero accordo tra potente e mendico.Perchè riguardando, scrivea l'Angioino, alle calamità di Terrasanta,a' travagli della Chiesa, alla desolazione di Grecia, e commiserandol'abbietta fortuna dell'imperatore, promettea portare entro sei anniun esercito al racquisto dell'impero; ma da questo andavano scorporatia favor suo il principato di Acaia e Morea, e 'l reame di Tessalonica;e tornavagli dippiù la terza parte de' conquisti, e l'aspettativa delsolio stesso di Costantinopoli, mancando il sangue de' Courtenay;oltrechè la bambina Beatrice di Carlo fidanzavasi a Filippo unicoerede di {78} Baldovino[7]. Mirò pochi anni appresso al dominio utiledel principato di Morea, di cui per tal trattato avea acquistato ildiretto dominio; ond'avvenne che i Francesi quivi trapiantati, i qualimolto s'eran allegrati della vittoria di Carlo sopra Manfredi, allortutto sentirono il peso dell'amistà con un vicino forte e ambizioso,che non abborrì dall'arricchirsi delle spoglie della dinastia francesede' Ville-Hardoin. Perchè Guglielmo di questa gente, principe di Acaiae Morea, incalzato dal Paleologo, dandosi anch'egli in balía di Carlo,disposò a Filippo figliuol dell'Angioino, Isabella sua figlia ederede: e venuto esso a morte, e anco Filippo, i sovrani di Napolipresero il titolo di quel combattuto principato; ritennero la Isabellacome prigione in Napoli; e usurpavano il paese del tutto, traprotezione e alta signoria, se non era per la guerra di Sicilia[8].Nel medesimo tempo si apriva la strada Carlo I {79} alla selvaticaAlbania con le solite arti: si facea da quei turbolenti chiamare altrono: e legavasi ad essi col vecchio ludibrio de' giuramenti; con sìbella scambievole fidanza, che a sicurare i suoi uficiali e guerrierimandati in quelle regioni, richiedea statichi albanesi, e in Aversa licustodia strettamente[9]. Per tal modo approcciavasi alla sededell'impero greco, circondavala, insidiavala d'ogni dove[10].
E in Italia, spento Corradino, e con lui l'ardir novello de'Ghibellini, l'usato gioco fe' montar parte guelfa: per la cuiriputazione, e del papa, e della vittoria, s'aggrandiva re Carlo;ridendosi ormai de' limiti che la gelosia della romana corte aveagliassegnato nella investitura del reame. Ripigliò in Roma l'uficio disenatore: tornò a comandare in Toscana da vicario imperiale, e aperseguitare senza freno i Ghibellini[11]: saltò in Piacenza: inPiemonte molte cittadi occupò; molte in Lombardia, {80} talchè quivipoco mancò nol creassero principe. Genova dapprima insidiò con gliusciti; poscia assaltò scopertamente con le armi; e innanti chedenunciasse la guerra, spogliò i Genovesi che ne' suoi reamimercatavan sicuri: onde se la forte repubblica il fiaccava nellebattaglie di mare, non gli mancò pasto all'avarizia. I suoi intanto,non era violenza o ingiuria che non osassero. Guidone da Monteforte, aViterbo, nel tempio, tra i riti del sacrifizio di Cristo, levaval'empie mani a trucidare e trascinare Arrigo, principe reale inglese;e, sgridato più che punito, il sacrilego assassino campò. Altri adaltri misfatti si sciolsero, men ricordati dalle istorie perchèversavasi men illustre sangue[12]. Ma la rabbia delle parti accecavagli uomini a questi evidenti mali della signoria straniera; e in que'primi tempi della passata di re Cario, la fece {81} anzi richiedere invarie città. Ed egli alternando forza e frode, qui mettea piè dasignore, là da protettore; spogliata una provincia, con quell'oroassoldava masnade che ne occupassero un'altra; ai pochi e forti,perchè gli fosser sostegni, prostituiva le sostanze e i dritti piùsanti dei cittadini: e s'avanzava a gran passi al dominio di tutta lapenisola.
Tuttavia quella che l'avea suscitato cominciò a reprimerlo: la romanacorte, che di sgherro già sentival padrone. Clemente non fe' cheammonirlo, perchè poco visse oltre la vittoria. Vacò il pontificatopoi tre anni; ne' quali cresciuta la possanza di Carlo, i fratelli delsacro concistoro, non bastando a frenarla, ne colser odio e terrore.Indi esaltato Gregorio X nell'anno milledugentosettantuno, come vivutofuori d'Italia e delle parti, ed entrato ne' nuovi sospetti dellaromana corte, nuovi consigli tentò. Aveano i predecessori fomentato ledivisioni d'Italia, ed ei fe' ogni opera a risanarle; aveanodifficultato la elezione dell'imperatore, ed ei la procacciò; sì chefu data quella corona a Ridolfo d'Hapsburgo, picciol signore, ma uomodi grandissimo animo, fondator della grandezza della casa d'Austria.Il Paleologo intanto a schivare i colpi dell'avara pietà di ponente,sforzava i suoi che assentissero la processione dello Spirito Santodal Padre e sì dal Figliuolo, ch'era l'importanza dello scisma; e permaneggi e supplizi non persuase il clero greco, ma n'ebbe unasembianza di rassegnazione. Allor Gregorio potendo con onor delpontificato fermar la pace col Greco, onde si toglieva il pretestoall'ambizione di Carlo, correndo il settantaquattro ribenedì ilPaleologo nel concilio di Lione, e nel grembo della Chiesa l'imperioorientale raccolse. Mal potremmo apporci or noi qual deliro miscugliodi pensieri fervesse nel tempo di questo concilio nella mente diCarlo; religioso a un tempo, e ardente di tutte {82} tiranneschevoglie[13]. Gravi autorità portano[14] ch'un suo medico propinasseveleno a san Tommaso d'Aquino, morto nell'andata al concilio; perchèil re temea non si spiegasse a suo danno quel possentissimo ingegno,che il nimicava per odio di famiglia o abborrimento della pessimasignoria, e nel suo libro del governo de' principi, quantunquepartigiano della monarchia, avea sfolgorato con le più fiere invettivela tirannide d'un solo, e fattone uno specchio, nel quale Carlo poteaguardarsi e riconoscere le sue sembianze[15]. Reo o no Carlo,quest'accusa almen prova di che fosse tenuto capace. Più certa larabbia con che posava, sforzato da' decreti di Lione, le armiapprestate contro il Greco. Al tempo stesso vedeasi tagliati i passi{83} anco in Italia dalla riputazione di Ridolfo, per avviluppato checostui si trovasse nelle guerre tedesche. E fu tanto, che nelsettantaquattro, riscotendosi primi gli Astigiani dall'insopportabilegiogo, Carlo avea perduto il Piemonte e Piacenza; e negli altri dominîdell'Italia di sopra ormai vacillava. Il prudente ponteficel'abbassava, senza venir con esso a manifesta discordia[16].
Morto Gregorio nel corso di sì alto disegno l'anno milledugensettantasei,si rinfrancò l'Angioino; e pensando di qual momento gli fosse un papaa sua posta, ogni pessim'arte adoprò nelle elezioni de' tre pontefici,ch'entro un anno fur visti regnare e morire. Ripigliò i preparamentiallora della guerra col Paleologo: ravvivò le pratiche in Acaia, ovemandò innanzi picciole forze, dai Greci agevolmente oppresse[17]:infine il titolo di re di Gerusalemme a' tanti suoi aggiunse. Vanonome quest'era ormai, disputato da parecchi principi cristiani.Federigo II imperatore aveal preso in dote; passato era poi col drittoal reame di Sicilia ne' figli di Manfredi; e altri pretendeanvi, e traessi una Maria d'Antiochia, principessa tapina e raminga; dalla qualeCarlo il comprò per vitalizio di quattromila lire tornesi sul contadod'Angiò, parendogli scala a nuove grandezze, e nuovo pretestoall'impresa di Grecia, perchè teneasi che quell'impero, nidod'eresiarchi e sleali, tagliasse la via ai luoghi santi, e che indi ilre di Gerusalemme onestamente potesse assaltarlo[18]. Per tal {84}modo ripigliava con maggior vigore tutte le antiche ambizioni; ecircuiva a ciò ogni conclave con violenza ed inganno, quando l'annosettantasette, abbassata tra' cardinali la parte francese, valse piùdella malizia di lui l'italian consiglio, che condusse al pontificatoNiccolò III[19].
Di grande animo, di smisurati pensieri fu Niccolò[20]; superbo,sagace, chiuso nei disegni, veemente all'oprare, non curante dellagiustizia ne' mezzi purchè il fine conseguisse, ch'era ingrandir laChiesa per ingrandire gli Orsini; e a nobile effetto il menava:sgombrare l'Italia d'ogni dominazione straniera. In Italia disegnavafondar novelli reami, e darli ad uomini di sua schiatta: vedevaostacoli a questo l'imperatore e il re; battea dunque Carlo conRidolfo; Ridolfo con Carlo; ambo con l'autorità della Chiesa. AlTedesco strappò la concessione della Romagna, tenuta infino allorafeudo imperiale: tolse al Francese l'uficio di senator di Roma, ilvicariato di Toscana; e con forte mano il trattenne dall'impresa diGrecia, ch'egli sempre più affrettava; fomentando da un canto gliscandali tra i Greci intolleranti del domma nuovo, mal insinuato conle prigioni, gli accecamenti, e i patiboli; e dall'altro canto {85}accagionando il Paleologo di questi turbamenti medesimi, e slealechiamandolo, e falso nella ritrattazione dall'eresia. Contuttociò ilpontefice gli negò sempre favore alla impresa[21]: ond'ei si volse asfogar contro gli occupatori di Soria la rabbia e il natural talentodi rapacità: mandovvi Ruggier Sanseverino conte di Marsico, con titoldi vicario del reame di Gerusalemme, e genti e navi, che dalla presadi Acri in fuori, tornarono senza alcun frutto[22]. Tra Niccolò eCarlo privato sdegno rinvelenì l'odio di stato, quando chiesta dalpapa per un suo nipote una donzella di casa d'Angiò, ricusavala Carlo.«Perch'ei s'abbia rosso il calzamento, rispose stracciando le letteredi Niccolò, suo principato non è retaggio; non può il suo mescolarsicol sangue de' reali di Francia.» Que' detti, riportati, furon puntadi coltello al cuor del pontefice, che tenea la gente Orsina nienteinferiore a casa d'Angiò, e sè molto di sopra: onde serbolli arugumarne e alimentare lo sdegno; ancorchè durassero tra lui e 'l rele sembianze di pace[23], per mutua simulazione, e perchè quegli inogni altra cosa usò riverente col pontefice, ondeggiando sempre traambizione e paura del Cielo. Ma non era uom per {86} l'Orsino, ilquale sciolto d'ogni riguardo, maturava i colpi, e aspettava il destroa vibrarli[24]. Profonda intanto sembrava in tutta Europa la pace[25].
D'altra parte altri elementi sorgeano a conturbarla. Costanzafigliuola di Manfredi, sposa di Pietro re d'Aragona, pretendea,com'erede ultima degli Svevi, la corona di Sicilia e Puglia[26]; ePietro salito sul trono lo stesso {87} anno della esaltazione diNiccolò III, ancorchè in picciol reame più magistrato che principe,uom di mente e d'animo grandissimo era. Divisa la Spagna in quel tempoin parecchi stati: alcuno ne teneano i Mori; gli altri, riconquistatida' cristiani, con larghi ordini reggeansi, misti di monarchia,d'ottimati e di popolani, convenienti a liberi uomini, che per lanazionale indipendenza e la religione, mille pericoli avean duratoinsieme e duravano. Riconoscean lo stesso principe i reami di Aragonae Valenza, e la Catalogna o contea di Barcellona, ma la sovranitàpressochè tutta dalle corti di ciascuno di quegli stati esercitavasi;composte di prelati, baroni, cavalieri, e rappresentanti di città;altere di lor franchezze; scienti della propria possanza. Somiglianteagli efori di Sparta stava in Aragona a petto a petto col rel'inviolabileJustiza; il quale a nome dei baroni giuravagli il dìdel coronamento: «Essi che valeano ciascun quanto il re, tutti insiemeassai più di lui, ubbidirebbergli se lor franchezze mantenesse; e, seno, no[27].» Indi alti spiriti nei soggetti, miti costumi eran quivinei re; sopra tutt'altri di que' tempi, facili alle udienze,dimestichi, senza riti di sussiego o sospetto, compagnevoli, eumani[28]. Con questi {88} ordini, con questi sudditi, poverid'altronde e parteggianti, non potea Pietro divisare conquisti; e purle qualità dell'uomo vinsero gli ostacoli della società in cui vivea.Inoltre per indole imperiosa e severa, avea concitato contro a sèdurante il regno del padre i baron catalani, usi all'anarchia; aveamal purgato il suo nome dall'infamia del fratricidio di FerrandoSanchez figliuol bastardo di re Giacomo, ch'egli assediò, e presselfuggente, e il fe' annegare, scusandosi che Ferrando praticasse controla sua vita con Carlo d'Angiò[29]. Ma insieme s'era segnalatol'infante Pietro per coraggio e gran vedere nelle guerre di Valenza edi Murcia[30]; avea saputo adoperar la divisione degli ottimati; esalito in grande rinomanza militare, e dotato di quella forza cherapisce e costringe gl'intelletti minori, poteva egli bene adunar aun'impresa di ventura quei suoi avvezzi a star sempre in sulle armi,or contro i Mori, or contro le altre genti spagnuole, or tra sèstessi, ed or piratescamente assaltando questa e quell'altra città delMediterraneo. Picciol'oste sarebbe a fronte di re Carlo; maaudacissima, spedita, fatta a posta a guerre irregolari, e subitefazioni.
Le quali condizioni bilanciando in mente, taciturno, e come s'ad altroattendesse, ascoltava Piero le continue rampogne della sua donna.Perchè da lei non dileguandosi per volger d'anni il cordogliodell'ucciso padre, dello occupato reame, del patibolo di Corradino;l'acceso femminil {89} pensiero incusava di viltà ogni differimentoalla vendetta: e pregava Costanza, e sdegnavasi, e chiamava dappoco losposo, e ai figliuoli insegnava che careggiandolo, e abbracciandoglile ginocchia, ricordassero senza stancarsi l'invendicata mortedell'avolo[31]. Sorridea Pietro; e a disegni, non a querele, siristringea con Ruggier Loria, Corrado Lancia, e Giovanni diProcida[32].
Di questi il primo, nato di gran legnaggio, nella terra di Scalea inCalabria[33], imparentato colla siciliana famiglia de' conti d'Amico,e signor di feudi in Sicilia e in Calabria[34], venuto era fanciulloseguendo la regina Costanza, con madonna Bella madre sua, nutricedella reina; e a corte d'Aragona si era educato nelle armi e nelleastuzie. Pietro molto amore gli pose; il fe' cavaliere con CorradoLancia, giovanetto congiunto della reina; e una sorella di Corrado aRuggiero sposò. I due cognati prestantissimi {90} si fecero in armi: eavvenne che Corrado, pria dell'altro che tanto dovea vantaggiarlo digloria, ebbe nome, e segnalossi capitan di navi catalane, in fattiaudacissimi sopra Saraceni[35]. Giovanni di Procida per altra via piùcombattuta venne in grazia al re d'Aragona. Nacque costui, o fuallevato in Salerno; ebbe alto stato appo l'imperator Federigo eManfredi, e oltre il feudo di Procida molti beni allodiali in Salerno;fu medico assai riputato[36]; e tradusse dal greco in latino, ocompilò in latino, le massime di filosofia morale degli antichisapienti[37]. Narrano alcuni, {91} a ringrandir Giovanni e rendere piùpatetici i suoi casi, che volontario ivane in bando, trafitto dimortal rancore perchè uomini francesi per violenza contaminasser lamoglie e la figliuola di lui, uccidessero il figlio che difendeale; edi tanto misfatto negassegli giustizia il re[38]. Ma non sì drammaticoappar questo esilio dai documenti, che attestan Giovanni fatto ribelleinnanzi il milledugentosettanta, probabilmente per la guerra diCorradino, e se gittan qualche barlume su i suoi domestici torti, dan{92} luogo a tal sospetto più tosto dopo l'esilio che innanzi[39].Come noto nella corte di Manfredi, Giovanni cercò asilo appo la reinaCostanza in Aragona; ov'ebbe da Pietro le signorie di Luxen,Benizzano, e Palma; cortigiano suo fidatissimo divenne, econsigliere[40]: ch'uomo fu di molta saviezza e dottrina, aguzzatoanco la mente da un intenso odio, e dalle aspre sue vicendeammaestrato a maneggiare questi sì vari e sfuggevoli animi degliuomini. Quegli usciti, dall'amaro soggiorno in corte straniera nonvolgendo altro nell'animo che la patria loro e la vendetta controquella rea mano che li cacciò, forte stigavano il re. Tritavan insiemecon esso le condizioni delle cose; la mala contentezza de' popoli inSicilia e Puglia; la tirannide stolta di Carlo; i disegni del papa; itimori del Paleologo: aver {93} questi oro e non armi; Aragona ilcontrario; Roma saette d'altra tempra: s'accozzerebber pure; battessel'ali questo Carlo, gli aggiusterebbero il colpo. E spiavan,vegliavano; ad ogni nuovo eccesso di Carlo, spuntava nel cupoconsiglio d'Aragona un sorriso[41]. Memorabil epoca in cui i quattroprincipi che tenean la più parte delle regioni europee bagnate dalMediterraneo, furono ad un medesimo tempo di gran valore, e di grandivizi, degni se non di lode, certo di fama. In Oriente il Paleologo,usurpatore, ma ristorator d'un impero, fraudolento più che forte,tremava di re Carlo. Questi agognando a tal vastità di dominio,distruggea col mal governo la propria base in Sicilia ed in Puglia. Diponente il re d'Aragona più giovane, più sagace e meno potente, torvoe cheto pigliava lena per islanciarsi addosso al conquistatore.Inaccessibile a timore sulla cattedra di san Pietro, rigoglioso nellasmisurata autorità, e non meno nel proprio ingegno, e nella non benacquistata ricchezza, l'italiano pontefice guardava le passioni diquegli stranieri: e chi sa a quali speranze non ne saliva? Forse unviver più lungo di Niccolò III avrebbe spento in altra guisa ladominazione angioina, e mutato le sorti d'Italia. Ma volle il Cieloche re Carlo non fosse umiliato da' potenti, ma sì dalla plebe; e chela sua rovina si consumasse nel modo che men poteva uomo immaginare:per una rissa di volgo, in Palermo!
Pietro ordinavasi a sforzo di guerra, sì come è mestieri, diceMontaner, con amistà, danari, segreto. Fe' tregua di cinque anni colre di Granata[42]: con Castiglia lega; e meglio se n'assicuròprendendo due giovanetti principi più vicini alla corona che non eraSancio loro zio, chiaritone erede, onde il re d'Aragona potea così aogni piè sospinto {94} sturbare il vicin reame[43]. Provossi da unaltro canto a serbare l'antica benivolenza con Filippo di Francia,marito della sorella, statogli amicissimo in gioventù, e or molestocoll'occupazione di Montpellier[44]. Con lo stesso re Carlo o coprì idisegni e mostrò l'odio, come scrive il Montaner, che sarebbe stataanco arte sopraffina, o dissimulò gli uni e l'altro, come Carlo stessopoi rinfacciavagli, venendo a dimostrazioni d'amistà, e trattato dimatrimonio tra un figliuol suo con una figlia dell'Angioino[45]. Conciò messe in punto gli arsenali di Valenza, Tortosa, Barcellona[46]; emaneggiò sì accortamente i suoi baroni e borghesi, che richiestili disussidi per tale impresa, dicea, da tornarne grande utile al reame,con insolita docilità porgean essi il danaro[47]. Queste disposizioni,e i preparamenti d'armi e di navi che ne seguitarono, attestangl'istorici più degni di fede.
Taccion del rimanente le pratiche con l'imperator di Costantinopoli ecoi baroni siciliani, da altri storici meno autorevoli composte comein azione drammatica. Giovanni di Procida, al dir di costoro, esulevolontario per la supposta ingiuria atroce, n'è protagonista;rassomiglian ombre gli altri personaggi, che la istoria figura benaltrimenti: Pier d'Aragona, Michele Paleologo, Niccolò III, {95}Alaimo da Lentini, e più altri nobili uomini di Sicilia. Non pensan,non osan essi senza Procida: al sol vederlo ogni fiata rompono inlagrime come fanciulli; ei solo, sospinto da amor di patria e desio divendetta, va, torna, muta sembianti, ignoto ha credenza da' grandi; eisolo disegna, comincia, e fornisce l'impresa. Ignorando che Giovannifosse esule dal sessantotto o sessantanove, come il mostrano idiplomi, e fatto uom di re Pietro, favoleggian costoro che venutogliin mente il disegno di tor la Sicilia a re Carlo, da sè solocominciava a trattarlo con principi di fuori, e congiurati in casa. ACostantinopoli si portò l'anno settantanove, com'uscito che cercassein quella corte asilo e stipendio; spacciandosi medico, ed uom distato, delle cose di Sicilia espertissimo. Trovò sì piana la via appoil greco imperadore, che quegli in segreto luogo sopra una torre vennead abboccamento con esso: e quivi Procida il tentò con favellar degliarmamenti di Carlo a' danni suoi; a lui perduto d'animo e piangentefe' balenare innanzi agli occhi una speranza. Onde Michele, chel'imperio vedea sossopra, e Carlo sì intento e minaccioso a mala penatrattenuto da papa Niccolò, avidamente abbracciava il partito diturbargli i reami; e profferia centomila once d'oro: fermatal'impresa, le porgerebbe. Si infinse allor Procida scacciato dallabizantina corte. Vestiti i panni di frate minore, furtivo in Siciliaentrò, che per esser più oppressa, o più disposta per le città piùgrosse, l'indole degli uomini, e la difesa dei mari, più opportuna gliparve al gran colpo. Appena Procida a' noti suoi del sicilianbaronaggio disse di congiura, deliberati vi si tuffarono. Con luivengono a parlamento Gualtier da Caltagirone, Alaimo da Lentini,Palmiere Abbate, ed altri valenti baroni: Procida accenna la viad'uscire dall'insoffribil servaggio: rivela gli aiuti dell'imperatoregreco; i disegni sullo aragonese: ordina con loro che annodate tutte{96} le fila, sollevin la Sicilia a ribellione: e richiedeli dilettere credenziali, che della congiura re Pietro certificassero.Avutele, sotto i panni stessi di frate, passa a corte di Roma.
Correa già l'anno milledugentottanta, e papa Niccolò a castel Sorianosoggiornava, quando un fraticello gli fe' chiedere occulta udienza; eraccolto, incominciò ad avvolgersi in misteriosi parlari, toccando laeccessiva potenza di Carlo, le ingiurie private al pontefice, lecondizioni d'Italia. Procida nominossi alfine: all'attonito ponteficeaperse quant'erasi ordito. Aggiungono, e par fola manifesta, ch'ei conl'oro bizantino comperasse l'assentimento del papa; il quale sìaltamente ambiva, nè facea di mestieri corromperlo, perchè si volgessea' danni di Carlo[48]. Dicono, e la credo dello stesso conio,ch'entrato nella congiura, Niccolò per segretissime lettereconfortasse l'Aragonese; e del siciliano reame investisselo. Maguadagnato il papa, sopraccorrea Giovanni in Catalogna; trovava rePietro lontano, così continuano quegli storici, da ogni speranzadell'impresa; ed egli ne presentava il pensiero, esponea le trameordinate, mostrava i trattati e le lettere. Così svolse a' suoiintenti il re d'Aragona. A ragguagliarne gli altri congiurati,ripiglia il viaggio: sbarca a Pisa; rivede il pontefice a Viterbo; isiciliani baroni a Trapani; quinci una galea veneziana sconosciuto ilreca a Negroponte; di lì a Costantinopoli. E vien ultimato colPaleologo il trattato della guerra contro Carlo: a dar guarentigia piùsalda, un altro se n'appicca di parentado tra le {97} corti di Greciae d'Aragona; il quale non si nasconde, ma serve di colore al Paleologoper mandar legato un suo cavaliere, messer Accardo di Lombardia; cuison affidate trentamila once d'oro delle promesse, che a Pietro lerechi. Accardo e Procida insieme entrarono in nave.
In questo la morte di papa Niccolò fu per distrugger tutto l'ordito.Per viaggio seppela Giovanni da una nave pisana, e a messer Accardo laoccultò. Approdarono a Malta, come s'era ordinato prima co' baronisiciliani: in segreto luogo i cospiratori adunaronsi. Ed eran muti,ansiosi, parlavan sommesso della perdita del congiurato pontefice; echi temporeggiar volea, chi lasciar ogni pensiero della ribellione,quando Procida surse a rampognarli, a confortarli: fosse amico oavverso il papa novello, ormai non mancherebbero le forze: Accardo, eloro il mostrava, non venirne ozioso spettatore: qui il sussidiobizantino; pronti in Aragona guerrieri e naviglio; e che temeano?perchè con animi sì femminili entrare in congiure? Ma a loro, giàintinti sì profondamente, non gioverebbe lo starsi; risaprebbesi latrama, e morrebber da cani. Con tai rimbrotti li rapì seco all'estremaconclusione. Fu in Aragona da poi; rappresentò a Pietro l'ambasciatoredi Grecia, e l'oro; vinse i rinascenti timori del re. Gli armamentiaffrettaronsi allora; il dì fermossi e il modo che la Siciliasorgerebbe a vendetta[49].
Tale il racconto della congiura, che dicon si conducesse per due o treanni. I particolari nè niego, nè affermo io, perchè non ne hofondamenti; ma non mi sembran verosimili {98} al tutto. Che tra Pietroe 'l Paleologo si maneggiasse un trattato per togliere a Carlo ilreame di Sicilia, il tengo io certo, per quel che disse e fece poicontro ambidue papa Martino; e perchè Tolomeo da Lucca afferma averveduto l'accordo; essere stato trattato da Giovanni di Procida eBenedetto Zaccaria da Genova, con altri Genovesi dimoranti in terradel Paleologo; e aver questi fornito danari allo Aragonese[50]. Letrame con alcuni baroni di Sicilia, non rafforzate di valida autoritàistorica, il replico, probabili mi sembrano, ma non certe. Falso è chela pratica, si strettamente condotta, fosse a punto riuscita a produrrelo scoppio del vespro; perchè questi compilatori della congiura cipongon fole da romanzo, e imbattonsi in cento errori manifesti; perchèi successi discordan dalla supposta cagione; perchè gli scrittori piùautorevoli il tacciono, come nel capitol seguente diremo, e piùlargamente nell'appendice. Vagliate tutte le memorie de' tempi tornanoa questo: che Piero agognava alla corona di Sicilia: che s'armava: chepraticò per aiuti di danaro con l'imperator di Costantinopoli,minacciato da re Carlo; che Procida fu tra i suoi messaggi: che sitramò forse con alcun barone siciliano: ma che maturavano epreparavano tuttavia, quando il popolo in Sicilia proruppe. In questointendimento al fil della istoria io torno; il quale non si smarrisceper la dubbiezza di quelle pratiche tenebrose, che nella rivoluzionepunto o poco operarono[51]. {99}
Riseppersi innanzi la morte di papa Niccolò gli appresti del red'Aragona. Era nei porti suoi e di Majorca una fervid'opra acostruire, a spalmar galee e navi da trasporto; fabbricar armi; adunarvittuaglie: scriveansi i marinai; si prometteano stipendi per un annoa chi militar volesse a cavallo o a pie': talchè per quanto Piero sistudiasse a far chetamente, il romore s'udiva da lungi. Onde i Mori diSpagna e d'Affrica, avvezzi a questi aragonesi assalti,affortificavansi alla meglio; nè stavan senza sospetto i cristianiprincipi: tra i quali Carlo assai per tempo avvisò aversi a guardaresì in questi domini italiani, e sì in Provenza; oppressa al paro,vicina alla Spagna, e dai Catalani osteggiata altre volte[52].Apparecchiava Carlo in questa stagione la detta impresa di Soria; manon lasciò di munirsi in casa con forze navali, che guardasser lecostiere; e in Sicilia aumentò oltre il doppio le provvedigioni delleregie fortezze[53]. Intanto bramoso d'investigar l'animodell'Aragonese, {100} a Filippo di Francia ei scrisse: e questi perlegati e lettere amichevolmente domandò a Pietro la cagion di tanto{101} armamento; se contro infedeli, proffersegli aiuti d'uomini edanari. S'avvolse allora in ambagi lo Spagnuolo: non accennare al redi Francia per certo, nè a suoi collegati: a chi, vedrebbesi ai fatti:ma prima, nol saprebbe persona al mondo: ch'ei s'armava senz'aiuti diniuno, onde a niuno dovea spiacere il silenzio. Somiglianti risposteebber da lui il re di Majorca fratel suo, quel di Castiglia, queld'Inghilterra[54]. Invano il ritentò più vivo Filippo, con mandarglianco moneta nel supposto dell'impresa contro i Mori[55]. Onde il re diSicilia incerto pur dello scopo, inviò in Provenza Carlo figliuol suoprincipe di Salerno, in voce ad adunare armati per l'impresad'Oriente, in realtà per vegliar da vicino, e guardare il paese[56].
In questo momento la fortuna arrise a Carlo l'ultima volta. Tra que'sospetti ch'egli avea di Pietro, ira contro il Paleologo, dispettodella nimistà del papa, vide trapassare il papa d'agostomilledugentottanta: e respirando, e non istando un attimo apensarsela, se alla morte di Gregorio avea tant'osato a governare ilconclave, or gittavasi ai più rotti partiti. Sommosse il popol diViterbo, sì che traea fuor dal conclave tre cardinali di casa Orsina.Serrò il rimanente; tolse loro ogni cibo fuorchè pane e acqua[57]; e{102} forse di furto, come in una elezione antecedente, recar fecealtre vivande ai cardinali francesi perchè stessero più forti a negareil voto a quei di parte italiana[58]. Per queste arti, di febbraiomilledugentottantuno, Martino IV di nazione francese fu papa, oministro di Carlo. Congiunta dunque nel re la sua possanza, e lasmisurata del roman pastore, a grandi eventi si dava principio.Divampò d'un subito in Italia la guelfa rabbia. Affidò il papa aFrancesi i governi tutti di Romagna; rifece Carlo senator di Roma; conuna crudele persecuzione de' Ghibellini servì a sue ambizioni[59].Duro viso mostrava intanto a re Pietro. Come gli oratori di luiveniano a complire per la esaltazione del papa, e sollecitavan lacanonizzazione di frate Ramondo da Pegnaforte, santo uomo spagnuolo,gittando anco qualche parola su i dritti della Costanza al sicilianreame, brusco replicava Martino: non isperasse il re d'Aragona maigrazia alcuna dalla santa sede, se non pria soddisfattole il censo; ilquale la romana corte pretendea, interpretando per ligio omaggio lapia peregrinazione d'un di quegli antichi principi a Roma[60]. Di lì apoco, tentando nuov'arte, parve più dolce Martino. Mandò a Piero unfrate Jacopo dei predicatori, a richieder, tra autorevole e benigno,contezza di quel sì occulto disegno; inibire ogni atto ostile controprincipi cristiani; contro infedeli profferire benedizioni e sussidi.Ma chiuso, e pur non mendace, ringraziavalo Piero: pregasse il Cieloper l'esito della guerra; lo scopo nol domandasse. «Tanto ho caro,conchiudea, questo segreto, che se la mia manca il sapesse, con ladritta la mozzerei.» All'ostinato silenzio crebber nella {103} partefrancese i sospetti. Ma poco vi stette sopra re Carlo, che teneasiormai secondo a Dio solo; onde sfogò con superbe parole: saper benefalso e sleale questo Pietro; ma nascondesse il segreto a sua posta,ei, Carlo d'Angiò, non curare sì picciol reame, nè principe sìmendico[61].
E parendogli già sua la Grecia sospirata per dieci anni, smisurateforze apparecchiava: bandìa la guerra; e la croce prendea, la crocedel ladrone, sclama Bartolomeo de Neocastro, non quella di Cristo[62].L'afforzò il papa di scomuniche, e di danari; le prime contro ilPaleologo e i Greci indurati nello scisma; i danari presi dalle decimeecclesiastiche, pretestandosi rivolte al racquisto di terrasanta lepie armi del re[63]. Si collegaron con esso i Veneziani, per brama dipopol mercatante a tornar signore in quelle regioni sì commode a'commerci: e forniano una flotta; e patteggiavano partizione de'conquisti[64]. La Sicilia e la Puglia intanto s'empian di guerrieri:suonavano di preparamenti di guerra. Immensi materiali raccolgonsinell'arsenal di Messina, e in altri porti dell'isola e di terraferma:{104} sudano i valenti artigiani di Messina e Palermo a fabbricar armeed arnesi: scemansi a fornir la cavalleria gli armenti di val diMazzara; munizioni d'ogni sorta s'apprestano in ogni luogo[65]. Centogalee di corso, dugento uscieri, che navi eran da trasporto, e teride,e altri legni assai metteansi in punto. Capitanati da quaranta conti,ben diecimila cavalli e un'oste innumerevole di fanti s'istruivano algran passaggio[66]. Debolmente potrebbe resistere il Paleologo;sarebbe occupata Costantinopoli, la Morea, tutto l'impero; darrebbesicorpo ai titoli regî d'Albania, di Gerusalemme. Non delirava Carlo, sepensava a questo; e immaginava l'Italia spartita tra lui e il papa; evedea brillare nelle sue mani la spada di Belisario e lo scettro diGiustiniano.
Ma l'Italia ch'era base a que' vasti disegni, già mancava a Carlod'Angiò. Dico di tutta l'Italia dal Lilibeo alle Alpi, perchè in tuttaveggo sparse uguali opinioni. L'amor patrio di municipio, che tantogiovò, e tanto nocque alla Italia, per sua natura sdegnava ledominazioni straniere; e tendeva a scacciarle, quando le avea messo sul'interesse d'una fazione. I Guelfi stessi e i Ghibellini, mentrenimicavano la nazione contraria a lor nome, non troppo si fidavanodell'amica: e similmente la corte di Roma chiamava gli oltramontaniper signoreggiar l'Italia col mezzo loro, e non altro. Così tra iltumulto di tante passioni di municipio, di parte, e del pontificatostesso, parlava agli animi la segreta voce del sentimento nazionalelatino. La schiatta, il clima, le usanze, la postura de' luoghi, leleggi di Roma, le lettere latine, le splendide tradizioni istoriche,tutto destava questo pensiero; che non può sconoscersi {105}nell'Italia del medio evo: ed era argomento ad alte speranze; perchègl'Italiani si sentian cuore quanto gli altri popoli, e civiltà assaimaggiore. I più vasti intelletti pertanto pensavano, che unite leforze dell'Italia, si sarebbe non solo racquistata l'indipendenza, mafors'anco la gloria di Roma antica; e faceansi a sciorre il problemain vari modi. Niccolò III divisava quattro reami italiani; Dante, pocoappresso, sospirava la ristorazione dell'impero romano sotto i re disangue germanico; Niccolò di Rienzo, non guari dopo, intraprese larigenerazione della repubblica in Campidoglio, e il Petrarca conmaschio canto esaltava l'impresa. Nè mancò nell'universale ildesiderio di quei grandi intelletti; che anzi s'era assai propagato a'tempi della lega lombarda sotto il colore guelfo contro la schiattatedesca; e tutto si volse contro la francese, quando Carlo d'Angiò lafece stanziare in Sicilia e Puglia, e in molte altre parti d'Italia, ediè luogo al contrasto de' costumi, all'invidia dei privilegi, allainsolenza degli uni, alla intolleranza degli altri, alla superbiadelle due genti venute a contatto. Cooperaronvi la resistenza misuratadi Gregorio X, la passione di Niccolò III, e per contraria ragionel'ambizione di Carlo, la connivenza di papa Martino. S'accostavaquesto novello sentimento agli umori di parte ghibellina, tendeatemporaneamente allo stesso scopo, ma in sè stesso era molto piùgrande, più nobile, più puro. Esso rapì Dante a parte guelfa; essotrovò un nome diverso dal ghibellino, come diversa era l'indole. Ledue genti con antichi vocaboli si chiamavano i Latini e i Gallici; edevocavano tutte le nimistà de' tempi di Brenno, anche quando avvenivache si combattesse sotto una medesima bandiera guelfa, nelle relazionipolitiche di tanti piccioli stati.
Spicca negli scritti siciliani, si vede manifestamente ne' fatti diquel tempo, il sentimento nazionale latino. Esso {106} fu che nelprimo assedio di Messina, nella tempesta dello assalto universale chedava l'esercito angioino, misto d'oltramontani e di abitatori delreame di Napoli e d'altre province italiane, consigliò ai Messinesi dirisparmiar nei tiri le schiere italiane, che certo combatteano conuguale riguardo. Veggiamo indi Pier d'Aragona cogliere l'util politicodella carità latina, e liberare i prigioni di questa nazione. Veggiamoi popoli in Calabria e in Puglia sforzarsi per tanti anni a seguire larivoluzione siciliana. Nè ricorderò le parole degli altri scrittori,che sono noti, e si allegheran sovente in appresso; ma, quelle dellarimostranza de' Siciliani contro la prima bolla di papa Martino che liammonì a tornare sotto il giogo, sono sì opportune e significative,che meritano special menzione. Perchè l'orgoglio del lignaggioitaliano anima e infoca tutta questa epistola, che s'indirizzava alcollegio de' cardinali quasi fosse il senato di Roma. Gl'improvera ilfavore dato ai Francesi contro gl'Italiani; mette a riscontrodistesamente i costumi delle due nazioni; incolpa gli stranieri delloro clima, della barbarie delle nazioni vicine; e di libidine,d'avarizia, d'ebbrezza, di crapula, d'ogni torto che aveano, d'ognitorto che non aveano. Si compiace al contrario a ricordare la doppianobiltà del lignaggio d'Italia, che allude all'etrusco e al troiano, oal romano e al greco; a notar la prudenza, il contegno, la prontezzadegli intelletti, la serenità de' volti, e con aperto errore anche latolleranza degli animi italiani; chiama in aiuto Lucrezia, Virginio,Scipione; motteggiando i Francesi perchè prendessero a imitare piùtosto le ispide genti del settentrione, che la civile moderazione elibertà degl'Italiani; e mostrando che la sorte dà i regni, ma lavirtù li mantiene, e che più si guadagna con la saviezza che con laforza. Questo scritto batte con una stessa sferza i governi angioinidi Sicilia, di Napoli, di Romagna; allude al vespro col {107} vantoche gli stranieri non avesser dato il guasto impunemente alle campagned'Italia: sclama al papa con veemenza: «Sdegna, o padre, l'Italia,sdegna le dominazioni straniere!» L'autore imbrattò questo nobilpensiero con l'arroganza tutta e la ferocia de' Quiriti; com'eimescolò alla giusta difesa della rivoluzione, l'apologia di orrori chedovea condannare; ma non men fortemente ciò prova che il sentimentolatino era sparso in Italia[67].
E che l'antagonismo di nazione fosse reciproco, e che fosse sentito intutta l'Italia, si vede, tra cento altri fatti, dalle parole diGuglielmo l'Estendard, vicario di re Carlo in Roma; il quale, pocoinnanzi l'ottantadue, ascoltando un nobile romano che si lagnava dellamisera condizione della patria, non ebbe rossore a risponder preciso,squarciando il velo della tirannide: non credesse al fine che spiacevaal re veder consunto e dissipato quel popolo turbolento; Roma fattauna bicocca[68]. In quel medesimo tempo una rissa accesa in Orvietotra Latini e Francesi, divenne tumulto; e vi si gridò morte aiFrancesi; e Ranieri capitano della città, portato dagli umori dinazione più che da que' dell'uficio, negossi con un pretesto dalracchetarla[69]. Non andò guari che in Forlì cadeano da due milaFrancesi, o per una frode di guerra, o per una meditata vendetta, chenon si sa bene, ma in ogni modo è manifesto l'odio più che di giustaguerra che portò questa strage; e le favole stesse che l'attribuironoa Guido Bonati astrologo e filosofo, mostrano in che bollore fossel'opinione pubblica[70]. S'era insinuato l'odio di nazione già da grantempo ne' penetrali della corte di Roma, tra il contegno e la senileprudenza de' fratelli del sacro collegio; {108} che si divisero non inGuelfi e Ghibellini, ma in Latini e Francesi; e lottavano nelleelezioni de' pontefici; ed erano a tale innanti l'esaltazione diMartino, che senza la scoperta forza di Carlo, qualche altro fierlatino succedeva a Niccolò III. Nel pontificato di Niccolò, la romanacorte s'era data già a lacerare apertamente il nome francese. Tra glialtri un Bertrando, arcivescovo di Cosenza, uom di lettere, praticodel mondo e dabbene, nel biasimar severamente i soprusi della gente diCarlo, si fece una volta a profetarle sterminio. «Chi avrà vita, disseBertrando, chi avrà vita vedrà masnadieri abietti sorger contro questisuperbi, e scacciarli dal regno, e abbatter loro dominazione: e tempoverrà che si creda offrir olocausto a Dio al trucidare unFrancese[71].» Così la politica romana o presagiva o affrettava ilpassaggio da' pensieri alla vendetta e alle armi! I pensieri erancomuni a tutta l'Italia: particolari cagioni ne fecero scoppiare inSicilia la rivoluzione del vespro.
Con gli appresti alla guerra di Grecia, crebbero le estorsioni,crebbero gli aggravî; e quindi a dismisura la mala contentezza de'popoli. Sono sforzati i baroni a fornir non solo le milizie feudali,ma anco le navi; se alcun tarda, gli si occupano i beni[72]; nobili evassalli, obbligati e non {109} obbligati al militare servigio,strascinansi all'esercito. Cominciarono indi in Sicilia a proromperedisperate voci; lagnandosi il popolo, che dovesse portar guerra allaGrecia amica, in servigio dell'oppressor francese; e mormorando loscarso stipendio per tre mesi soli, al quale si darebbe fondo prima digiugnere in Romania, senza lasciar pure di che vivere alle famiglie inSicilia. Ripugnavano alla impresa; ma tremavan al re. «Oh fuggiamo!gridavano; fuggiamo dalle case nostre, per asconderci in boschi e incaverne; e sarà viver men duro. Anzi di Sicilia si fugga, ch'è terradi dolore, di povertà, di vergogna. Non fu più schiavo di noi il popold'Israello sotto re Faraone: e risentissi, e spezzò le catene. E nenarran poi le glorie degli antichi nostri! Vili bastardi siam noi;snervati dalle divisioni, da' vizi: noi di cristianità il popol piùabbietto![73]»
E quanti si tenean da più del volgo impetuoso, non isgannati dasperienza, ritentavan pure la ignobil via delle querele. A Roma sivolsero, non ostante le ostili opinioni che la Sicilia avea contro lacorte di Roma più che tutto altro popolo cristiano, senza perciòvacillare nella fede di Cristo. Sì fatte opinioni eran sì vive, che iFrancesi per villania chiamavanci paterini[74]; e segno non men dubbione {110} danno gli scritti nostri di quel tempo, ne' quali il rozzostile, al toccar della corte di Roma, rinfocasi a un tratto, sfavillad'immagini scritturali, suona le aspre parole del ghibellin poeta. Ilche nascea in parte dagli universali umori d'Italia; e dalla culturadelle lettere, in cui primo tra gli altri popoli italiani s'esercitòquel di Sicilia sotto gli Svevi[75]; in parte dall'antica indipendenzade' nostri principi dal papa, dagli spessi contrasti loro, dallespregiate censure, dalle vicende stesse della repubblica delcinquantaquattro, messa su dai papi e abbandonata dai papi; e daltristo dono infine di quest'angioino re. Nondimeno, perch'ei, comeusurpatore, conoscea feudal signore il papa, e la religione a quei dìteneasi come pauroso fantasma, non patto di giustizia e di pace, parveai nostri, che il sommo pontefice solo riparar potesse lor torti,pastor egli e sovrano. Perciò allo scoppiare del vespro i Sicilianipoi gridavano il nome della Chiesa. Perciò al francese Martinosupplici or ne venivano a nome di Sicilia tutta, due sacerdoti elettitra i più venerandi e savi del regno. Bartolomeo vescovo di Patti, efrate Bongiovanni de' predicatori fur questi. Forniano con grandeanimo la missione consigliata da credula miseria. A corte del papa,presente Carlo, orarono: e «Mercè, Bartolomeo cominciava, mercè ofiglio di David; il demonio la figliuola mia fieramente travaglia:» etra pianti e rampogne sponea la grave istoria. Superfluo è a dire chesi fe' sordo Martino. Carlo dissimulò: ma usciti i due oratori dalpalagio, i suoi scherani li circondarono; trasserli in duro carcere.Macerato da quello il frate espiò a lungo la sua virtù cittadina;corruppe i custodi il vescovo di Patti, e fuggissi[76].
E niente domato dalla violenza, tornò in Messina; e contò {111} i suoicasi: e la gente all'udirli, piangea di rabbia. In questo mezzo quantivengan da Napoli affermano essere al colmo l'ira del re, per quellacontumace ripugnanza alla guerra di Grecia, per quella missione alpapa; ch'ei volgerebbe l'adunato esercito contro la Sicilia; chevorrebbe sterminar questa genia querula e incontentabile; dar la terraad altri abitatori, e farla colonia[77]. Queste voci spargeansi perinsensata iattanza di cortigiani, o tema di popol tiranneggiato; ederan se non altro misura dell'odio. Il quale, per comunanza di mali edi brame, avea dileguato ogni ruggine tra le nostre città, tra lefamiglie, tra i vassalli e i siciliani feudatari. Pochi pel reteneano; talchè accresceangli l'odio, non le forze. Il clero seguiva oprecorrea l'opinione pubblica; com'è manifesto dalla missione diBartolomeo e Bongiovanni, e dallo zelo con che andò in tutto il corsodella rivoluzione, ad onta delle infinite scomuniche papali. I nobilisiciliani, pochi e oppressi, non potendo far parte da sè medesimi,ingrossavan la popolare: quanti eran complici, s'anco si voglia, di rePietro, ammalignavan le piaghe, suggeriano sommesso qualche speranza.Il malcontento mise in un fascio le persone de' governanti e iprincipî del governo, e die' alla parte popolare tal forza, talnumero, che avanzava d'assai le condizioni ordinarie, e che sollevavala Sicilia mezza feudale alle idee de' più democratici popoliitaliani. Faceansi a ricordare i tempi del buon Guglielmo, tempi dipace, e dovizie, e franchezze; a deplorare la svanita repubblica delcinquantaquattro; e abbellito dall'immaginativa, con invidia adipingere il viver lieto delle italiane cittadi, senza re, senzafeudatari, senza Francesi. Nè solo travagliavali il martello dipovertà, e gli aggravî nell'avere e nelle persone, e 'l timore delpeggio; ma sopra tutto la gelosia delle donne, usurpate {112} daglistranieri per forza, o prezzo, o seduzione di vanità e di fortuna. Erastampato in tutti gli animi inoltre quel Carlo, brusco, vecchio,avaro, crudele, spregiator d'ogni dritto, alla Sicilia nimicissimo. Ilviver di violenza, in sedici anni avea potentemente operatosull'indole niente morbida del sicilian popolo, e n'avea tramutato lesembianze. Di festevole si fe' tetro: increbbero i conviti, i canti,le danze: «e mute pendeano (scrissero i Siciliani poscia a papaMartino ) pendean mute l'arpe dal caprifico e dal saliceinfruttuoso.»—«Febbrili battean tutti i polsi, dice un'altrarimostranza del misero popolo; dubbiosi scorreano i giorni, ansie lenotti, e fino i sogni conturbati dalle minacciose sembianze deglioppressori; nè viver si potea, nè pur morire tranquillo.» Quel poeticobrio degli animi siciliani, a cupa meditazione die' luogo, atristezza, a vergogna, a nimistà profonda, a brama ardentissima divendetta. Feroci passioni, che propagaronsi da chi soffriva leingiurie in sè, a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a'tardi; dagl'iracondi ai miti; dagli animosi a' dappoco; e invasaronoogni età, ogni sesso, ogni ordine d'uomini. La foga delle passioniprivate, l'abbaco de' privati interessi, tacquero un istante, oanch'essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più possente diogni macchina di congiura, perchè spregia il vegliar sospettoso de'governanti, e li soperchia a cento doppi di forze[78]. Così entrava inSicilia l'anno milledugentottantadue. Alcuni cronisti, pargoleggiandocol volgo, notavano, che di febbraio, mentr'era papa Martino inOrvieto, una foca presa alle spiagge di Montalto, e portata a cortedel {113} papa come nuova generazione di belva, mise muggiti sìlamentevoli e paurosi, che la gente n'agghiacciò di orrore; e dietro isuccessi di Sicilia, non restò dubbio esser venuto quel mostro apresagire al papa le calamità che pendeano[79].
NOTE
[1] D'Esclot, cap. 64.
Cronica di Morea, lib. 2.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Paolino di Pietro, in Muratori R. I. S. tom. XXVI, ag.
Montaner, cap. 71.
Benvenuto da Imola, comento alla Divina Commedia, al verso:
Cantando con colui dal maschio naso.Purgat., c. 7.
Carlo d'Angiò, con quest'indole niente poetica, fece pure qualche verso, perchè n'avea sempre agli orecchi nella corte di Provenza. Il sig. C. Fauriel, ne' cenni biografici intorno a Sordello, Bibliothèque des Chartes, tom. IV, nov. et déc. 1842, ha dato una traduzione della risposta ritmica di Carlo ad alcuni versi di Sordello che il tacciavano d'ingratitudine. Sordello vivea alla corte del conte di Provenza; l'avea seguito all'impresa contro Manfredi; ma ammalatosi in Novara di Piemonte, vi restò lungo tempo dimenticato, in preda alla malattia e alla povertà. Le istorie di Francia ci danno molti esempi della sfacciata avarizia mostrata da Carlo in Francia, prima che la potesse spiegare in più vasto campo sul trono di Sicilia e di Puglia; e ci attestano insieme la giustizia di san Luigi che l'obbligava a rendere il mal tolto.
[2] Diploma senza data d'anno, negli archivi del reame di Francia, J. 513, 51. È il ragguaglio che davano a san Luigi l'arcidiacono di Parigi, e il maresciallo di Francia, incaricati di questa missione. Essi trattarono: 1º. della crociata, richiedendo Carlo d'andarvi e procacciar soccorsi di navi, d'uomini e di vittuaglie: 2º. del pagamento di 8,000 marchi per la dote della regina moglie di san Luigi (su la contea di Provenza); di 7,000 marchi dovuti per testamento del conte di Provenza (Raimondo Berengario); e di 30,000 lire sovvenutegli al tempo dell'altra crociata e della sua prigionia: 3º. dell'affare d'una gabella, che non si spiega altrimenti.
Gli ambasciatori davan conto della missione compiuta a voce, insistendo per una risposta categorica; e fin qui il diploma corre in francese. Trascriveano poi la carta lasciata a re Carlo negli stessi sensi, la quale è in latino, lingua diplomatica del tempo. Vi si legge ch'essi avean trattato sino al martedì infesto inventionis sancte crucis.
[3] Raynald, Ann. ecc. 1270, §. 23.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 37.
Muratori, Ann. d'Italia, 1270.
Saba Malaspina, lib. 5, cap. 1.
Gesta Philippi III, di frate Guglielmo de Nangis, in Duchesne Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 516.
[4] Gio. Villani, lib. 7, cap. 38.
Raynald, 1278, §. 24.
[5] Annali genovesi, in Muratori R. I. S., tom. VI, pag. 551.
Diploma di Carlo I, dato di Trapani a 2 settembre decimaquarta, Ind. (1270), tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 2, fog. 60.
[6] Gibbon, Decline and fall of the Roman Empire, cap. 62, e i contemporanei citati da esso.
[7] Questo trattato dato di Viterbo il 27 maggio 1267, è pubblicato dal Buchon, in annotazione alla Cronica di Morea, lib. II, ed. 1840, pag. 148 e seg. Il matrimonio tra la Beatrice e Filippo si mandò ad effetto nel 1273. Morto Baldovino si confermò tra Carlo e il genero, divenuto imperatore titolare, il trattato del 1267, per un atto dato di Foggia il 4 novembre 1274, una copia del quale data da Filippo il Bello nel 1306, e autenticata col suggello reale di Francia, si trova negli Archivi del reame di Francia, J. 509, 15, ed è pubblicata dal Du Cange, Histoire de l'Empire de Constantinople, Docum., pag. 24. Questo genero poi vivea a spese di re Carlo, come il mostrano i diplomi del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 3, 5, 6, 7, 10, dati a 2 maggio 1277, 4 settembre e 10 dicembre 1276; ultimo febbraio e 23 maggio 1277, e 6 ottobre 1276; pei quali porgeasi danaro a Filippo, allora titolato imperatore di Costantinopoli per la morte del padre.
[8] Cronica di Morea, citata di sopra, lib. 2.
Raynald, Ann. ecc. 1269, §. 4.
Saba Malaspina, cont., loc. cit., pag. 336.
D'Esclot, cap. 64.
E i diplomi accennati nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98, nota 4.
In un altro diploma del medesimo archivio segnato 1268, A, fog. 152, dato il 8 maggio 1278, si legge un Eustasio capitan generale di Carlo in Acaia.
[9] Diplomi indicati, e un d'essi pubblicato nel citato catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98 e 120.
In un altro diploma dato di Napoli il 25 febbraio, non si sa di quale anno, nel r. archivio di Napoli reg. segnato 1268, O, fog. 87 a t. si legge:
«Karolus Dei gr., rex Sicilie et Albanie, Gazoni Chinardo militi, in regno Albanie vicario generali, etc.» Ed altri due diplomi della stessa data a Guglielmo Bernardi marescalco di quel regno.
I diplomi risguardanti il regno d'Albania sono citati ancora dal Papon, Hist. de Provence, tom. III, pag. 52 e 68.
[10] Fornisce intorno a questi preparamenti qualche particolarità un diploma dato di Napoli il dì 8 aprile tredicesima Ind. 1270. Per questo è condotto al servigio di re Carlo, con soldo di 8,000 lire tornesi per un anno, Ferrando di Sancio del sangue reale di Aragona (forse dee dire Castiglia) con 40 militi a cavallo, 40 scudieri e 20 balestrieri a cavallo, a condizione di militare nel regno o nell'impero di Costantinopoli, e di trovarsi in punto a Trapani il 1 agosto di quell'anno. Ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2, fog. 17.
[11] Diploma di Carlo I al comune di Siena perchè facesse diroccare le case dei Ghibellini che rifiutavano di sottomettersi. È dato del 1272, e pubblicato dal sig. Buchon, Nouvelles recherches historiques sur la Principauté française de Morée, tom. I, pag. 27 e 28.
[12] Muratori, Ann. d'Italia, 1268 a 1272, ossia i contemporanei quivi citati da lui.
Saba Malaspina, lib. 4 e 5.
Annali genovesi, lib. 9, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 554 e seg.
In un diploma dato del 1277 dal r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 29, leggesi questo titolo:Regnante domino nostro Karolo, Dei gratia illustrissimo rege Sicilie, Ducatus Apulie et principatus Capue, Alme Urbis Senatore, Andegavie, Provincie et Forcalquerii comite, ac Romani Imperii in Tuscia per Sanctam Romanam Ecclesiam Vicario generali.
Quanto all'assassinio del principe Arrigo, è indubitata la colpevole indulgenza di re Carlo verso gli omicidi. Benvenuto da Imola nel comento su la Divina Commedia al verso: «Mostrocci un'ombra dall'un canto sola, ec.» Inf., c. 12, riferisce il dilemma che si facea a biasimo di Carlo: «Se il sapea fu un ribaldo; se no, perchè nol punì?»
Ma quanto men volea punire, tanto più romor ne fece, anche per riguardo alla corte di Roma. Un diploma del 23 marzo (1271) nel r. archivio di Napoli, reg. 1268, O, fog. 99, porta queste parole: che il re volea vendicare tal misfatto come se commesso in persona d'un suo figliuolo. Nondimeno il provvedimento contenuto in questo diploma è di staggir le castella e i beni feudali de' fratelli Simone e Guidone da Monteforte; ch'era un gastigo non molto spiacevole al re, il quale per lo momento incamerava que' beni.
[13] Muratori, Ann. d'Italia 1271 a 1274, e i contemporanei ivi allegati, che sarebbe superfluo citare altrimenti.
Gibbon, cap. 62.
Raynald, Ann. ecc. 1271 e 1275.
[14] Gio. Villani, lib. 9, cap. 218, di maggiore autorità in questo, perch'ei fu guelfo:
Carlo venne in Italia, e per ammenda Vittima fe' di Corradino, e poi Ripinse al ciel Tommaso per ammenda. DANTE,Purg., c. 20.
e il comento di Benvenuto da Imola, che accredita il sospetto dell'avvelenamento. Io l'ho posto in dubbio, non trovando noverato questo tra i misfatti di Carlo dagli scrittori che non glien'avrebbero perdonato punto, come sono il Neocastro, lo Speciale, Montaner, D'Esclot. Ma dall'altro canto la innocenza non mi par dimostrata sì netta, come crede il cav. Froussard nella dissertazione su Pietro Glannone, e 'l regno di questo Carlo I.—Atti dell'Academia di Lucca, tom. VIII.—Il sig. Froussard si lascia trasportar dalla gloria militare di Carlo, fino a scagionarlo de' vizi suoi più noti. Chiama ambizioso e superbo, ma non crudele, colui che facea mozzare i piè a' disertori, arder vivi i presi in battaglia, e marchiar colla moneta rovente gli accorti cittadini che non passassero al valor edittale i suoi carlini d'oro. Nel modo stesso siamo assai lontani dell'accettare l'apologia del Froussard per la iniqua condannagione di Corradino.
[15] De regimine principum ad regem Cypri, san Tommaso d'Aquino, opusc. 20, nel tom. XVII della ediz. Venezia, 1593.
[16] Muratori, Gibbon, Raynald, loc. cit.
[17] Saba Malaspina, cont., p. 336 e 337.
[18] Saba Malaspina, cont., pag. 336.
Mss. della vittoria di Carlo I di Angiò, pubblicato in Duchesne, Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 850.
Joannes Iperius, Chron. monast. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, p. 754.
D'Esclot, cap. 64.
Raynald, Ann. ecc. 1272, §. 19, e 1277, §. 16.
Giannone, Ist. civ., lib. 20, cap. 2.
E i diplomi citati nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 137, con la nota di monsig. Scotto; e tom. II, pag. 151 e 225.
Tra questi son da notarsi il diploma del 26 dicembre 1294, alla citata pag. 151, per pagamento di once 800 all'anno a questa Maria,dicte quondam domicelle de Hierusalem; e l'altro del 21 agosto 1292, dal quale si ricava, con un certo divario dall'attestato de' cronisti, che il primo accordo con Carlo d'Angiò s'era fatto per 400 lire tornesi e 10,000 bizantini saraceni d'oro all'anno; che la corte di Napoli tardò i pagamenti; che Maria n'ebbe ricorso al papa; e che così si prese una via di mezzo a pagarla, con molto suo discapito.
[19] Saba Malaspina, cont., pag. 337.
[20] Il suo nome anzi di salire al pontificato, era Giovanni Gaetani di casa Orsina.
E veramente fui figliol dell'Orsa, Cupido sí per avanzar gli Orsatti, Che su l'avere, e qui me misi in borsa. DANTE,Inf., c. 19.
[21] Muratori, Ann. d'Italia, 1277 a 1280.
Raynald, Ann. ecc., 1277 a 1280.
Saba Malaspina, cont., pag. 338.
[22] D'Esclot, cap. 64.
Questa impresa d'Acri ci attestan anco moltissimi diplomi del r. archivio di Napoli, dati a 3, 4, 12 e 28 febbraio 1278, e molti in marzo, aprile, maggio, giugno, luglio e agosto seguenti: registro segnato 1268, A, fog. 136, 138, 71 a t. 130, 141, 142, 78, 84, 144 a t. 135 a t. 85, 86, 87, 99, 100, 165. Ma resta in dubbio se tutti quegli armamenti, dei quali non è espresso lo scopo, fosser volti alla impresa di Siria, o se parte si volea serbare alla custodia di Sicilia e di Puglia; su di che veggasi il seguito di questo medesimo capitolo.
[23] Ricordano Malespini, cap. 204.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 54.
Cronaca sic. della cospirazione di Procida, in di Gregorio, Bibl. arag. tom. I, pag. 254.
[24] Da tutti gli storici contemporanei, e meglio dai fatti si ritrae ciò manifestamente.
Si ricordino ancora i versi di Dante:
Però ti sta che tu se' ben punito, E guarda ben la mal tolta moneta Ch'esser ti fece contro Carlo ardito. Inf., c. 19.
[25] Saba Malaspina, cont., pag. 339.
[26] Credeasi allora che i figli maschi di Manfredi fossero morti, perchè Carlo d'Angiò li tenea in carcere, forse con grandissimo segreto, accreditando la voce della morte, per toglier qualunque speranza ai partigiani di casa sveva. I figli di Manfredi eran bambini quando Carlo prese il regno; nè egli si volle bruttare di quattro assassinî di tal sorta, d'altronde non utili, e ben suppliti da una prigionia segretissima e sepolcrale. Così gli storici contemporanei portano spenta la discendenza maschile di Manfredi, e sol di lui rimasa Costanza, e la seguente sorella Beatrice, che fu liberata nel 1284 per la vittoria dell'armata siciliana nel golfo di Napoli. La diplomatica, la quale sovente corregge le tradizioni istoriche, ci ha mostrato che vivessero a lungo dopo la morte di Manfredi i suoi figliuoli Arrigo, Federigo ed Enzo. Alcuni istorici napoletani trassero dagli archivi di quel reame dei diplomi per gli alimenti che forniansi in carcere a quegli sventurati principi sotto il regno di Carlo II; e il Buscemi nella vita di Procida ne pubblicò uno dato di Melfi il 30 giugno settima Ind. (1294), nel quale, forse per errore di chi l'avea copiato da' registri di Napoli, l'ultimo de' giovanetti è chiamato Anselmo in vece di Enzo. Io mi sono avvenuto rifrustando que' registri in due documenti, che sembranmi più importanti perchè attestano che i detti principi vivessero insino al 1299, e che allora si ordinasse di escirli dalla prigione, e liberi mandarli a Carlo II con un cavaliere. Ciò avvenne al tempo che Giacomo di Aragona aiutava gli Angioini contro il fratello Federigo e i Siciliani, e appunto pochi giorni anzi la sua vittoria del Capo d'Orlando; talchè sarebbe da congetturarsi che il re di Napoli volle far cosa grata a Giacomo, ch'ei cercava in tutti i modi a tenersi amico ed ausiliare. Ma par che quest'atto di generosità tosto si fosse dileguato, e che fossero tornati in altra prigione i figli di Manfredi. Giacomo andò via da Napoli poco men che nemico: e Carlo non avrebbe osato turbare il governo di Federigo in Sicilia con questi altri pretendenti, che poteano ben sollevare contro di lui lo stesso reame di Napoli.
I due citati diplomi del 1299 leggonsi, Docum. XXIX e XXX.
[27] Ved. Surita, Ann. d'Aragona.
Blanca, Comment. rer. Aragon.
Mariana, Storia di Spagna.
Robertson, Vita di Carlo V. Introd. sez. 3, note 31, 32.
[28] Montaner, cap. 20, vivamente rappresenta che i re di Aragona viveano assai familiari co' loro sudditi, con giustizia ed affabilità. Ma in fatto sotto questo linguaggio accenna le libertà del paese, dicendo che ognuno era sicuro della proprietà e persona: e perciò «i Catalani e gli Aragonesi sono più alti di cuore, vedendosi così trattati a lor modo; e nessuno può esser valente uomo di guerra se non è alto di cuore.» Aggiugne, che ognuno a suo piacere fermava per via i re, e parlava ad essi, o li invitava a nozze, o desinari, e ch'essi sovente albergavano nelle case private.
[29] D'Esclot, cap. 68, 69, 70.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica di Baluzio, ed. 1688.
[30] Montaner, cap. 10, 13, 14.
D'Esclot, cap. 65, 67, 74.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 16.
Veggansi anche, Montaner, cap. 37.
Saba Malaspina, cont., pag. 342.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
[32] Saba Malaspina, cont., pag. 340 a 342.
Per vero egli non scrive il nome di Corrado Lancia, ma solo di Loria e Procida, e, aggiugne, altri usciti italiani. Ma ritraendosi dal Montaner la grande riputazione di Corrado a corte d'Aragona per armi e consiglio appunto in questo tempo, non è dubbio che quel nobile siciliano avesse partecipato in tutti i disegni.
[33] Diploma negli archivi della corona aragonese, citato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, Paris, 1827, tom. I, pag. 93.
[34] Bart. de Neocastro, cap. 87.
Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II segnato 1291, A, fog. 88, si legge un diploma dato il dì 8, forse di gennaio 1275 o 1276, ch'è un attestato del servigio feudale prestato a Capua da Riccardo Loria per sè, Giacomo, Roberto, Ruggiero, e due donne tutti della stessa famiglia, che aveano diviso tra loro i castelli di Loria, Lagonessa e Castelluccio in Basilicata.
Ruggier Loria fu nipote di Guglielmo d'Amico, primo marito di Macalda Scaletta. Villabianca, Sicilia nobile, part. 2, lib. 3, pag. 528 e 529.
[35] Montaner, cap. 18, 19, 30, 31.
[36] Di Gregorio, Annotaz. alla Bibl. aragon., tom. 1, pag. 249 e250.
Ved. altresì il Giannone, Ist. civ. e Buscemi. Vita di Giovanni di Procida, e i documenti da noi citati nel cap. XV, intorno i beni del Procida.
È noto il marmo della chiesa di Salerno, dato il 1260, pubblicato dal Summonte, e trascritto dal Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 249, dal quale si hanno i titoli di Giovanni di Procida, e ch'ei facesse costruire quel porto. Un altro pregevol monumento per Giovanni di Procida ha trovato il mio concittadino Francesco Saverio Cavallari, egregio artista, zelante e infaticabile nel ricercare, abilissimo nel delineare, e intelligente nello illustrare gli antichi monumenti d'arte, non solo per tutta la Sicilia, ma sì in parte della terraferma italiana. Nella cappella di san Matteo della cattedrale di Salerno, sotto la effigie del santo in mosaico, il nostro artista s'accorse di una picciola figura in ginocchio ch'ei ritrasse diligentemente, in pie' della quale si leggono questi due versi:
Hoc studiis magnis fecit pia cura Johannis De Procida, dici meruitque gemma Salerni.
A' documenti fin qui pubblicati per dimostrare l'alto stato ch'ebbe Giovanni di Procida presso Manfredi, aggiugnerò la notizia d'un altro che si legge nel r. archivio di Napoli, reg. 1269, D, fog. 9. È un diploma di Carlo I dato il 22 giugno tredicesima Ind. (1270), nel quale se ne cita un di Manfredi del 25 agosto ottava Ind. (1265), dato perJoannem de Procita, e indirizzato a Risone Marra intorno l'uficio di maestro segreto e portulano di Sicilia. Questo diploma conferma che Giovanni fu cancelliere di re Manfredi.
[37] Ho veduto tra' Mss. della Biblioteca reale di Francia, nel volume segnato 6,069. V. un manoscritto latino del secolo XIV che porta il titolo:Incipit liber philosophorum moralium antiquorum et dicta seu castigationes Sedechie, prout inferius continetur, quas transtulit de greco in latinum magister Johannes de Procida. È una raccolta o compendio delle massime che correano sotto i nomi di Sedecia, Hermes, Omero, Solone, Pitagora, Diogene, Socrate, Platone, Aristotile, Alessandro, Tolomeo, Gregorio, ec., e finisce con un capitolo, intitolatoSapientium dicta. Io la credo piuttosto una compilazione che una traduzione. Il titolo dimagister mi accerta della identità della persona dell'autore col nostro G. di Procida, il quale non par che guadagni in fama letteraria quanto ha perduto in fama politica. È qui da ricordare qual fosse la corte di Federigo imperatore e di Manfredi. Federigo, educato fin dalla sua fanciullezza in Sicilia era perito negli idiomi tedesco, francese, latino, greco, arabo; poetò in volgare; amò gli studi filosofici; dettò un opuscolo di storia naturale; e promosse gli studi in tutta l'Italia. A lui forse si deve il pronto sviluppo della lingua illustre d'Italia. Manfredi fece alcune aggiunte al libro di Federigo, scrisse versi italiani, favorì molto i letterati e gli studi. Sul particolare delle lettere greche e dello studio de' filosofi greci, noi sappiamo che Bartolomeo di Messina per comando dell'imperatore voltò dal greco in latino l'etica d'Aristotile, e un libro su la cura de' cavalli, e che Moisè da Palermo nello stesso tempo scrisse una somigliante traduzione d'un libro d'Ippocrate. Veg. Tiraboschi, Stor. lett. d'Italia, tom. IV; di Gregorio, Discorsi. Dopo ciò si comprendrà più facilmente come Giovanni di Procida fosse avviato a questi studi; e senza dubbio si riferirà al ministro di Federigo, di Manfredi e di Pietro e Giacomo d'Aragona la citata raccolta di sentenze degli antichi filosofi.
[38] Petrarca, Itinerario Siriaco.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Boccaccio, De casibus virorum illustrorum, lib. 9, cap. 19.
Veg. altresì il cominciamento della istoria anonima della cospirazione del Procida, tralasciato dal di Gregorio nella sua Biblioteca aragonese, che leggesi tra' citati Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. e si trova pubblicato nell'opera di Buscemi, doc. n.4.
[39] Diploma del 29 gennaio 1270 per la inquisizione de' beni confiscati a una lunghissima lista di ribelli, tra i quali si legge Giovanni di Procida.
Diploma dato di Capua del 3 febbr. 1270, pel quale Carlo I die' un sussidio, su i confiscati beni dotali, a Landolfina moglie di Giovanni di Procida da Salerno, come non partecipe della colpa del marito, «il quale per alto tradimento commesso, come dicesi, contro la maestà nostra, allontanossi dal regno.» Questi diplomi cavati dal. r. archivio di Napoli conservatisi ne' Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. F. 70, e sono stati pubblicati dal Buscemi, nella Vita di Procida, docum. 2 e 3.
Quantunque sembri favola che l'ingiuria alla moglie fosse cagione della fuga del Procida, non è improbabile che durante il suo esilio la moglie, per nome Landolfina di Fasanella, avesse dato ascolto allo amore di alcun barone della corte di Carlo; e che da ciò fosse nato quello episodio nel romanzo storico (tale io il credo) di Giovanni di Procida. Traggo questo concetto da tre diplomi: 1º. quello or ora citato del 3 febbraio 1270 pel sussidio a Landolfina; 2º. un altro della stessa data che le accordò salvocondotto e sicurezza a dimorare in Salerno, che leggesi in fine della presente opera, docum. I; 3º. un altro che fe' pagar dall'erario regio once cento prestate a Landolfina da un Caracciolo, che è citato ne' Discorsi di don Ferrante della Marra, Napoli, 1641, pag. 154, ed è tratto come i precedenti dal. r. archivio di Napoli, reg. segnato 1269, C, dove quelli si leggono a fog. 118 e 214, e questo a fog. 211.
[40] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 13.
[41] Saba Malaspina, cont., pag 340 a 342.
[42] Montaner, cap. 37, 44.
[43] Montaner, cap. 40.
Bernardo d'Esclot, cap. 76.
[44] D'Esclot, loc. cit.
Montaner, cap. 38, 39.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
[45] Montaner, cap. 38, 42. L'asserzione contraria si legge in un manifesto di re Carlo I recato da Muratori, Ant. Ital. Dissert. 39, tom. III, pag. 650; e ve n'ha un cenno nel Memoriale dei podestà di Reggio, Muratori, R. I. S., tom. VIII, p. 1155.
[46] Montaner, cap. 36.
[47] Ibid., cap. 41.
Veggansi ancora per questi particolari Bart. de Neocastro, cap. 16; Cron. del mon. di S. Bertino; Surita, Ann. d'Aragona, ec.
[48] Alcuni han creduto legger questo nei versi di Dante:
E guarda ben la mal tolta moneta, ec. Inf., c. 19.
Nell'appendice, io tento d'accostarmi ad una migliore spiegazione di questo luogo della Divina Commedia.
[49] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57, 59, 60.
Ricordano Malespini, cap. 206 a 208.
Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 249 a 263.
Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 952 e 953.
Cronica di frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 11, 12, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 686.
[50] Tolomeo da Lucca, lib. 24, cap. 4, in Muratori, R. I. S. tom. XI, pag. 1186-87.
Pachymer, lib. 6, cap. 8, parla di una grande alterazione nella moneta d'oro fatta in questo tempo dal Paleologo, per fornir sussidi agliItaliani.
Che i Genovesi mischiassersi molto a favore di lui, l'attesta Caffari negli Annali di Genova, Muratori, R. I. S. tom. VI, pag. 576, ove è detto che i Genovesi mandarono una galea a posta al Paleologo per avvertirlo degli armamenti di re Carlo.
[51] Veg. l'appendice.
[52] Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.
Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.
[53] Questi preparamenti son taciuti dagli storici contemporanei, che anzi accagionan Carlo di soverchio disprezzo. Ma ne' registri della sua cancelleria trovansi date nel 1278 delle provvisioni che non si possono in alcun modo attribuire all'impresa di Soria. Perchè, lasciando i molti armamenti navali citati in questo capitolo, pag. 85, nota 2, che possono anche parer troppi, considerate le poche forze che in fatto andarono in Asia, leggiamo evidentemente ciò che ho detto nel testo, in due diplomi, l'un del 13 marzo sesta Ind. 1278, e l'altro del 6 agosto medesimo anno, r. arch. di Napoli, reg. di Carlo I segnato 1268, A, fog. 95 e 89.
Quel di marzo risguarda le galee destinate alla custodia delle marine di Principato e Terra di Lavoro; l'altro è per le provvedigioni di miglio nei castelli di Sicilia.
Il re comandava di aumentarle dal 1 settembre vegnente in questo modo:
Fortezza di Messina da salme 112½ a 240 di Scaletta 20 » 48 di Milazzo 45 » 100 di San Marco 30 » 99 di Odogrillo 27 » 55 Castel di Siracusa 27 » 57 Palagio di Siracusa 9 » 60 Castel superiore di Taormina 27 » 77 Castello inferiore 22½ » 50 di Agosta 10½ » 57 di Cefalù 85½ » 325½ Palagio di Palermo 18 » 200 Castell'a mare di Palermo 29 » 100 di Licata 40 » 90 di Monteforte 27 » 104 di Vicari, che non avea provvedigione » » 50 di Caronia » » 27 di Castiglione » » 30 di Lentini » » 100 di Marineo » » 100 di Geraci » » 60 di San Filippo » » 100 di Caltanissetta » » 30 di Santo Mauro » » 30 di Avola » » 30 di Caltabellotta » » 30
Varie cose sono da notarsi in questo documento. La prima che non si vittovagliavano tutte le fortezze regie di Sicilia, ma a un di presso due terze parti delle medesime, tralasciandone molte sì in monte e sì in maremma. La seconda che per la provvedigione si preferiva il miglio al frumento; o per lo minor caro, o per lo minore rischio di ribollire e guastarsi. Lo stato delle fortezze regie sei anni innanzi si legge in un diploma del 3 maggio 1272 cavato anche dal r. archivio di Napoli e pubblicato dall'er. Michele Schiavo nelle memorie per la storia letteraria di Sicilia, tom. I, parte 3, pag. 49 e seg. In questo leggonsi oltre i notati nel diploma del 1278 che or ora trascrissi, i castelli di Rametta, San Fratello, Nicosia, Castrogiovanni, Mineo, Licodia, Modica, Garsiliato, Calatabiano, Corleone, Sciacca, Girgenti, Carini, Termini, Favignana, Camerata; ma vi mancano quelli di Odogrillo e Castiglione, e il castel disottano di Taormina. Si scerne di più dal diploma del 1272, che erano affidati alcuni a castellani col soldo di due tarì al giorno, altri a castellani scudieri col soldo di tarì uno e grana quattro, e vi eranoconsergî col medesimo stipendio, e servienti con grana otto al giorno. La maggior forza de' servienti, o vogliam dire soldati a pie', era nei 1272 nelle fortezze di Messina, Castrogiovanni, Cefalù, e Nicosia. Ma nel 1278 par che si volesse adunare più gente in quelle di Cefalù, Palermo, Messina, Monteforte, Milazzo, Lentini, Marineo, San Filippo; nè la posizione geografica basta a spiegare questa mutazione di disegni militari. Forse gli umori delle popolazioni, lo stato delle fabbriche di queste fortezze, e altre circostanze meno a noi note vi contribuirono, e l'essersi dato in feudo (che di tutte non fu certamente) alcuna di quelle terre.
[54] Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.
Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.
[55] Ric. Malespini, cap. 208.
Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 261.
[56] Saba Malaspina, cont., pag. 345.
[57] Saba Malaspina, cont., pag. 346.
Ric. Malespini, cap. 207, e gli altri contemporanei citati dal Muratori, Ann. d'Italia, 1281.
[58] Saba Malaspina, lib. 6.
[59] Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 762.
Saba Malaspina, cont., pag. 349, 351.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 58.
[60] Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 13 e 16.
[61] Cron. sic. della cospirazione di Procida, l. c., pag. 262.
Ric. Malespini, cap. 208.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 60.
Montaner, cap. 42, con qualche diversità. Al capitolo 49 porta come data da Pietro al conte di Pallars quella risposta del mozzar la mano sinistra se sapesse il segreto.
[62] Bart. de Neocastro, cap. 13.
[63] Raynald, Ann. ecc. 1281, §. 25, e 1282, §§. 5, 8, 9, 10, e nota del Mansi al §. 13.
Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186.
La scomunica del Paleologo si legge altresì nella cronaca di Eberardo, pubblicata dal Canisio, antiche lezioni, tom. I, pag. 309.
[64] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Saba Malaspina, cont., pag. 350.
Il trattato di Carlo I con Venezia fu stipulato a 3 luglio 1281, e si trova negli archivi di Francia, citato dal Buchon, Recherches et matériaux pour servir à une histoire de la domination française aux XIIIe, XIVe et XVe siècles, dans les provinces démembrées de l'empire Grec. Première partie, p. 42.
[65] Saba Malaspina, cont., pag. 350.
[66] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Ric. Malespini, cap. 206.
Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 251.
[67] Docum. VII.
[68] Saba Malaspina, cont., p. 352.
[69] Nangis, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 357 e seg.
Muratori, Ann. d'Italia, 1282.
[70] Muratori, ibid.
[71] Saba Malaspina, cont., pag. 338, 339.
Le parole della profezia son queste:Tempus adhuc videbit qui vixerit, quod Scarabones ejicient de regno Gallicos et in multitudine, etc. Io ho creduto cheScarabones suoni in italiano masnadieri, saccardi, soldati irregolari; perchè questa parola, che non si trova nel glossario del Du Cange, è identica aScaranii,Scaramanni,Scamari,Scarani,Scarafonus, vocaboli che vengono dalla radiceScara (acies,cuneus copiæ militares), o piuttosto daScara, una delle angherie feudali, onde si dicevanoScaranii, ec. i famigliari de' magistrati, i fanti incaricati della riscossione di alcuni balzelli, e in generale gli armigeri della più disordinata e spregevole maniera di milizia. Indi l'italianoscherani.
[72] Diplomi dell'8 novembre 1280, 21 aprile e 27 giugno 1281 nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 218, 222 e 227.
[73] Saba Malaspina, cont., pag. 350, 351.
[74] Ibid. pag. 355.
Anonymi Chr. sic., loc. cit., pag. 147.
Le leggi dell'imperator Federigo II, contro le eresie portano una ventina di nomi diversi d'eretici; tra i quali v'hanno i paterini. In un diploma suo dato di Padova il 22 febbraio duodecima ind. si spiega così l'origine di quel nome di paterini:Horum sectæ veteribus vel ne in publicum prodeant non sunt notatæ nominibus, vel quod est forte nefandius, non contentu, ut vel ab Arrio Arriani, vel a Nestorio Nestoriani, aut a similibus similes nuncupantur; sed in exemplum martyrum qui pro fide catholica martiria subierunt, Patarenos se nominant, velut expositos passioni. In Luca Wadding, Ann. Minorum, tom. III, p. 340, §. 13.
[75] Dante Alighieri, De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12.
[76] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
[77] Bart. de Neocastro, cap. 13.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
[78] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2 e 4.
Epistola de' Siciliani a papa Martino, nell'Anonymi Chr. sic., cap. 40, l. c.
Bart. de Neocastro, cap. 13.
Docum. VII.
[79] Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., T. III, pag. 609.
Mss. della vittoria di Carlo d'Angiò, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 851.
Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd. tom. III, pag. 762.
Francesco Pipino, Chron. lib. 4, cap. 29, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
CAPITOLO VI.
Nuovi oltraggi de' Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica.Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardiche prende. Lettere de' Palermitani ai Messinesi, i quali seguon larivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si preparaalla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione.—Marzoa giugno 1282.
I Siciliani maledissero e sopportarono infino a primavera delmilledugentottantadue. Nè gli appresti di guerra in Ispagna si vedeanforniti; nè in Sicilia, se alcun era che li sapesse, potea aver luogoa prossime speranze. Stavan sul collo al popolo gli smisuratiarmamenti di re Carlo contro Costantinopoli: l'isola imbrigliavano daquarantadue castelli regi, posti o in luoghi foltissimi, o nelle cittàmaggiori[1], e più numero che ne teneano i feudatari francesi[2]:raccolti e in sull'arme gli stanziali: pronte a ragunarsi a ogni cennole milizie baronali, ch'erano in parte di suffeudatari stranieri. E intal condizione di cose, che i savi meditando e antiveggendo nonavrebbero eletto giammai ad un movimento, gli officiali di Carloprometteansi perpetua la pazienza, e continuavano a flagellare ilsicilian popolo.
La pasqua di resurrezione fu amarissima per nuovi oltraggi in Palermo;capitale antica del regno, che gli stranieri odiarono sopra ogni altracittà, come più ingiuriata e {115} più forte. Sedeva in MessinaErberto d'Orléans vicario del re nell'isola: il giustiziere di val diMazzara governava Palermo; ed era questi Giovanni di San Remigio,ministro degno di Carlo. I suoi officiali, degni del giustiziere e delprincipe, testè s'erano sciolti a nuova stretta di rapine e diviolenze[3]. Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini diPalermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entratiin un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione diCristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovarono più crudelioltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delletasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono alcarcere, ingiuriosamente gridando in faccia all'accorrentemoltitudine: «Pagate, paterini, pagate.» E il popolo sopportava[4]. Ilmartedì appresso la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo[5], unafesta si celebrò nella chiesa di Santo Spirito. Allora bruttooltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi di sopportare.Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni di feden'han tramandato.
A mezzo miglio dalle australi mura della città, sul ciglion delburrone d'Oreto, è sacro al Divino Spirito un tempio[6]; del quale ilatini padri non lascerebber di notare, come il dì che sen gittava laprima pietra, nel secol dodicesimo, per ecclisse oscuravasi il sole.Dall'una banda {116} il dirupo e il fiume; dall'altra corre infino acittà la pianura, la quale in oggi ingombrasi per gran tratto di murie d'orti, e un chiuso, negro di cipressi, tutto scavato di tombe, esparso d'urne e di lapidi rinserra la chiesa con giusto spazio inquadro; cimitero pubblico, che si costruì al cader del decimottavosecolo, e la dira pestilenza del milleottocentotrentasette, esiziale aSicilia, in tre settimane orribilmente il colmò. Per questo allorlieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso ereligione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti lebrigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavanolor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da' reitravagli un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero,e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l'usato piglio veniano glistranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nellebrigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne: equi una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle piùlontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente ammonilli sen'andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma irissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean traloro: «Armati son questi paterini ribaldi, ch'osan rispondere»; e peròrimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispettofrugarli indosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi adalcun cittadino. Già d'ambo i lati battean forte i cuori. In questouna giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto[7], con losposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta{117} o licenza, a lei si fa come a richiedere d'armi nascose; e le dàdi piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; losposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una voltaquesti Francesi!» Ed ecco dalla folla che già traea, s'avventa ungiovane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forsecade ucciso al momento, restando ignoto il suo nome, e l'essere, e seamor dell'ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimopensiero il movessero a dar via così al riscatto. I forti esempi, piùche ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavidel lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e 'lgrido, come voce di Dio, dicon le istorie de' tempi, eccheggiò, pertutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittimedell'una e dell'altra gente: e la moltitudine si scompiglia, sispande, si serra; i nostri con sassi, bastoni, e coltellidisperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè;cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchifestivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza delpopolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la stragede' nostri: ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento[8].
Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassandole rapite armi, gridando l'onta e la vendetta: {118} «Morte aiFrancesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola,l'arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popoltutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè condottiero,Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: e il popolo ingrossava; spartito astuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogniangolo, ogni latebra: «Morte ai Francesi!» e percuotonli, esquarcianli; e chi non arriva a ferire, schiamazza ed applaude. S'erail giustiziere a tal subito romore chiuso nel forte palagio: e in unmomento, chiamandolo a morte, una rabbiosa moltitudine circonda ilpalagio; abbatte i ripari; infellonita irrompe: ma il giustiziere lesfuggì, che ferito in volto, tra le cadenti tenebre e 'l trambusto,inosservato montando a cavallo con due famigliari soli, rapidissimos'involò. Intanto per ogni luogo infuriava la strage; nè posò per lanotte soppraggiunta; e rincrudì la dimane; e l'ultrice rabbia non puresi spense, ma il sangue nemico fu che mancolle[9]. Duemila Francesifurono morti in quel primo scoppio[10]. Negossi ai lor cadaveri lasepoltura de' battezzati[11]; ma poi si scavò qualche carnaio aimiserandi avanzi[12]; e la tradizione ci addita la colonna sormontatadi ferrea croce[13], che pose in un di quei luoghi la pietà cristiana,forse assai dopo il tempo della {119} vendetta. Narra la tradizioneancora, che il suon d'una voce fu la dura prova onde scerneansi inquel macello i Francesi, come loshibbolet tra le ebree tribù; e chese avveniasi nel popolo uom sospetto o mal noto, sforzavamo col ferroalla gola a profferirciciri, e al sibilo dell'accento stranierospacciavanlo. Immemori di sè medesimi, e come percossi dal fato glianimosi guerrieri di Francia non fuggiano, non adunavansi, noncombatteano; snudate le spade, porgeanle agli assalitori, ciascuno agara chiedendo: «Me, me primo uccidete»; sì che d'un gregario solo sinarra, che ascoso sotto un assito, e snidato coi brandi, deliberato anon morir senza vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turbade' nostri disperatamente, e tre n'uccidesse pria di cader eglitrafitto[14]. Nei conventi dei minori e dei predicatori irruppero isollevati; quanti frati conobber francesi trucidarono[15]. Gli altarinon furono asilo: prego o pianto non valse; non a vecchi si perdonò,non a bambini, nè a donne. I vendicatori spietati dello spietatoeccidio d'Agosta, gridavano che spegnerebber tutta semenza francese inSicilia; e la promessa orrendamente scioglieano scannando i lattantisu i petti alle madri, e le madri da poi, e non risparmiando leincinte: ma alle siciliane gravide di Francesi, con atroce misura disupplizio, spararono il corpo, e scerparonne, e sfracellaronmiseramente a' sassi il frutto di quel mescolamento di sanguid'oppressori e d'oppressi[16]. Questa carnificina di tutti gli uominid'una {120} favella, questi esecrabili atti di crudeltà, feanregistrare il vespro siciliano tra i più strepitosi misfatti dipopolo: che vasto è il volume, e tutte le nazioni scrisserviorribilità della medesima stampa e peggiori; le nazioni or più civili,e nei tempi di gentilezza, e non solo vendicandosi in libertà, nonsolo contro stranieri tiranni, ma per insanir di setta religiosa ocivile, ma ne' concittadini, ma ne' fratelli, ma in moltitudine tantad'innocenti, che spegneano quasi popoli interi. Ond'io non vergogno,no di mia gente alla rimembranza del vespro, ma la dura necessitàpiango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coisupplizi, consunta dalla fame, calpestata e ingiuriata nelle cose piùcare; e sì piango la natura di quest'uom ragionante e plasmato asomiglianza di Dio, che d'ogni altrui comodo ha sete ardentissima, ched'ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rabido allavendetta, sciolto in ciò d'ogni freno quando trova alcuna sembianza divirtù che lo scolpi; sì come avviene in ogni parteggiare, di famiglia,d'amistà, d'ordine, di nazione, d'opinion civile o religiosa.
La ferocità del vespro, togliendo ai mezzani partiti ogni via, fu pursalute a Sicilia. Quella insanguinata notte medesima del trentunomarzo, tra la superbia della vendetta, e lo spavento del proprioaudacissimo fatto, il popolo di Palermo adunato a parlamento sislancia di lunga più innanti: disdice il nome regio per sempre:statuisce di reggersi a comune, sotto la protezion della romanaChiesa. Alla quale deliberazione il mosse quel mortalissim'odio {121}contro re Carlo e suoi governi; e la rimembranza del duro fren degliSvevi; e per lo contrario quella sì gradita della libertà delcinquantaquattro; e l'esempio delle toscane e lombarde repubbliche; eil rigoglio di possente cittade, che infranto da sè stessa il giogo,nella propria virtù s'affida. Il nome della Chiesa s'aggiunse adisarmar l'ira papale, o piuttosto a tentar l'ambizione, o ad onestarla ribellione sotto specie che scacciando il pessimo signoreimmediato, non si violasse lealtà al sovrano onde quegli teneva ilregno. Ruggier Mastrangelo, Arrigo Barresi, Niccoloso d'Ortolevacavalieri, e Niccolò di Ebdemonia, furono gridati capitani del popolo,con cinque consiglieri[17]. Al {122} baglior delle faci, sul terrenoinsanguinato, tra una romoreggiante calca d'armati, con la sublimepompa del tumulto s'inaugurò il repubblican magistrato; e i suonatoridìer nelle trombe e nei moreschi taballi; e migliaia di vocigioiosamente gridarono «Buono stato e libertà!» L'antico vessillodella città, l'aquila d'oro in campo rosso, a nuova gloria fuspiegato; e ad ossequio della Chiesa v'inquartaron le chiavi[18].
A mezza notte Giovanni di San Remigio si restò dalla rapida fuga aVicari[19], castello a trenta miglia dalla capitale; dove a fretta efuria picchiando, la gente del presidio avvinazzata nelle medesimefeste che avean partorito tanta strage in Palermo, a stentoriconobbelo; e ammettendolo, stralunava a veder il giustiziere fuor dilena, insanguinato, senza stuolo, a tal'ora venirne. Tacque allorGiovanni: la mattina a dì appellava alle armi i Francesi tutti de'contorni, agguerrita gente, e vera milizia feudale; e, rotto ilsilenzio, confortavali a scansare e vendicar forse il fato dei lorcompagni. Ed ecco l'oste di Palermo, che a cercar del fuggente s'eramossa co' primi albori, entrata sulla traccia, a gran passo a Vicarigiugne. Accerchiò confusamente la terra: bruciava di slanciarsi, e nonsapea veder modo all'assalto: perciò diessi a minacciare, e intimar laresa; profferendo salve le persone, e che Giovanni e sua gente, postegiù le armi potessero imbarcasi per Acquamorta di Provenza. Essisdegnando tai patti, e spregiando l'assaltante bordaglia, fanno impetoin una sortita. E al primo {123} l'arte soldatesca vincea; esparpagliavansi i nostri: se non che entrò nella battaglia una potenzamaggiore dell'arte, il furor del vespro, rinfiammatosi a un trattonelle sparse turbe, che arrestansi, guardansi in viso: «Morte aiFrancesi, morte ai Francesi!» e affrontatili con urto irresistibile,rincacciano nella rocca laceri e sgarati i vecchi guerrieri. Vanaprova indi fu de' Francesi a riparlar d'accordo. Sconoscendo tuttaragion di guerra, i giovani arcadori di Caccamo saettarono ilgiustiziere affacciatosi dalle mura; e lui caduto, avventossi la gentetutta all'assalto; occuparon la fortezza; trucidarono tutti i soldati;i cadaveri gittarono in pezzi ai cani e agli avvoltoi. Tornossi l'ostein Palermo[20].
Intanto volando strepitosa la fama di terra in terra, fu prima in que'contorni Corleone a levarsi, come principale di popolazione eimportanza, e anco per cagion de' molti lombardi nimici al nomeangioino e guelfo[21], e degli insoffribili aggravî che le aveaportato la vicinanza de' poderi del re. Questa città, soprannominatapoi l'animosa, gittandosi certo con grande animo appresso allacapitale, mandavale oratori Guglielmo Basso, Guglielmo Corto, eGuigliono de Miraldo, ad offrir patti di unione, fedeltà e fratellanzatra le due cittadi; scambievole aiuto con arme, persone, e danaro;reciprocità de' privilegi di cittadinanza, e della franchigia di tuttegravezze poste su i non cittadini. Ignoriamo or noi se venne da'reggitori repubblicani di Palermo o dai patriotti di Corleone ilpensiero della lega, ma a chiunque si debba, esso per certo dà a vederpreponderante in que' primi principî l'elemento municipale, esostituito alla connessione feudale il legame federale {124} de'comuni, che fu il vessillo sotto il quale la rivoluzione del vesprooccupò tutta l'isola. Convocato il popol di Palermo, assente a unavoce que' patti; e per suo comando, i capitani e 'l consiglio dellacittà giuranti sul vangelo co' legati di Corleone a dì tre aprile, estendonsi in forma d'atto pubblico[22]; promettendo anco Palermoaiutar l'amica città alla distruzione del fortissimo castel diCalatamauro[23]. Intanto un Bonifazio eletto capitan del popolo diCorleone, con tremila uomini uscì a battere il paese d'intorno: dovefur messi a ruba e a distruzione i poderi del re; domati all'uopodella siciliana rivoluzione gli armenti che si nudriano con tanta curaper l'esercito d'Oriente; espugnate le castella dei Francesi;saccheggiate le case; e tanto spietata corse la strage, che al dir diSaba Malaspina, parea ch'ogni uomo avesse a vendicar la morte d'unpadre, d'un fratello o d'un figlio; o fermamente credesse far cosagrata a Dio a scannare un Francese[24]. Così {125} propagavasi inpochissimi dì il movimento per molte miglia all'intorno, da medesimitàdi umori, prepotenza d'esempio, e vigor de' sollevati. Ebbe pure inparecchi luoghi una sembianza, che inesplicabile sarebbe a chi volessenon ostante il detto di sopra trovar ordimento e cospirazione incodesti tumulti. Perchè le popolazioni di gran volontà mettevano altaglio della spada gli stranieri, ma dubbiavan poi a disdire il nomedi re Carlo[25]. Per altro pochi giorni tentennarono, che le rapìquell'una comun passione, e la forza dei ribelli: onde a mano a manochiarironsi anch'esse, scelsero i condottieri di loro forze acombattere i Francesi, scelsero lor capitani di popolo; e questi allacapitale inviarono, la cui riputazione le avea fatto sì audaci, etutte in essa or affidavansi e speravano[26].
Raccolto in Palermo questo nocciol primo dei rappresentanti dellanazione, ispirolli quel valor medesimo onde in una breve notte erasiinnalzato a grandezza di rivoluzione il tumulto palermitano.Rincoravanli col brio dei maschi petti la plebe, mescolata de'sollevati di tutte le altre terre, che discorrea la città raccontandoimpetuosamente d'uno in uno i durati oltraggi e la vendetta, e altogridando: «Morte pria che servire a' Francesi.» Onde appena congregatoil parlamento de' sindichi della più parte di val di Mazzara,assentiva il reggimento a repubblica sotto il nome della Chiesa,«Evviva, romoreggiava il popolo interno, evviva! libertà e buonostato;» e tutti ad osar tutto accendeansi, quando Ruggier Mastrangelo,a rapirseli sì innanzi che potesser dominare gli eventi, risolutosorgeva ad orare in questa sentenza:
«Forti parole, terribili sagramenti ascolto, o cittadini, maall'operare niun pensa, come se questo sangue che si versò, compimentofosse di vittoria, non provocazione a {126} lotta lunga, mortale! ECarlo, il conoscete voi, e i manigoldi suoi mille, e vi trastullate adipingere insegne! Lì in terraferma le genti, le navi pronte allaguerra di Grecia; lì brucian di vendetta i Francesi; entro pochi dì sunoi piomberanno. Trovin porti schiusi allo sbarco; trovin l'aiuto de'nostri vizi; ed ecco che si spargono per la Sicilia; gl'incerti popolisforzano con l'arme; ingannanli co' nostri odî malnati; seduconli apromesse; li strascinano a tutt'obbrobrio di servitù, e a impugnarcontro noi l'armi parricide. Libertà o morte or giuraste; e schiavitùavrete, e non tutti avrete la morte: chè stanchi alfine i carnefici,serbano a lor voglie il gregge de' vivi. Siciliani! ai tempi diCorradino pensate. Sterminio ne sarà lo starci; l'oprare, gloria esalvezza. Col nerbo di nostre forze, bastiamo a levar tutto infino aMessina il paese; e Messina or no, non sarà dello straniero: comuniabbiano legnaggio, e favella, e glorie passate, e ignominia presente,e coscienza che la tirannide e la miseria delle divisioni son frutto.Insanguinata la Sicilia tutta nelle vene degli stranieri; forte nelcuor dei suoi figli, nell'asprezza de' monti, nella difesa de' mari,chi fia che vi ponga pie' e non trovi aperta la fossa? Il Cristo chebandìa libertà agli umani, ei che ispirovvi questo santo riscatto, eivi stende il braccio onnipossente se da uomini or voi vi aiutate.Cittadini, capitani dei popoli, io penso che per messaggi sirichieggan tutte le altre terre di collegarsi con esso noi nel buonostato comune: che con le armi, con la celerità, con l'ardire s'aiutinoi deboli, si rapiscano i dubbiosi, combattansi i protervi. A ciòspartiti in tre schiere corriam l'isola tutta a una volta. Unparlamento generale maturi i consigli poi, unisca le volontà, edecreti gli ordini pubblici; chè Palermo, ne attesto Iddio, Palermonon sogna dominio; ma la comun libertà cerca, e per sè l'onor solo de'primi perigli.»
«E il popolo di Corleone, ripigliò Bonifazio, seguirà {127} le sortidi questa generosa città, della Sicilia ornamento e presidio. Tremilasuoi prodi Corleone qui manda, a vincere o morir con voi. Sì, ma semorir dovremo, cada insieme chiunque patteggi per lo stranieronell'ora del sicilian riscatto. Ruggiero, animoso tu nella pugna,savio tu nel consiglio, la parola di salvezza parlavi. Orsù tradiscela patria chi tarda; prendiamo l'armi, ed andiamo.[27]»
«Andiamo andiamo!» risposegli tonante la voce del popolo[28]: e conmeravigliosa prestezza cavalcarono i corrieri, s'adunarono gli armati,e in tre schiere spediti mossero. L'una a manca ver Cefalù, l'altra adritta su Calatafimi prese la via, la terza s'addentrò nel cuordell'isola per Castrogiovanni[29]: e le insegne spiegavano del comune,con le chiavi della Chiesa dipinte intorno intorno; e la famaprecorreale, e il desio degli animi. Indi senza contrasto ogni terradisdisse il nome di re Carlo; con una concordia bella, se non era anconello spargimento del sangue francese. A' Francesi dieron la cacciaper monti e selve; li oppugnarono ne' castelli; perseguitaronli incento guise, con tal rabbia che ai campati dalle mani dei nostri vennein odio la vita, e dalle più munite rocche, dagli asili più riposti sidier nelle mani del popolo che chiamavali a morte; taluno dall'alto diuna torre si lanciò. In qualche luogo per vero furono, per virtù loroo fortuna, {128} scacciati soltanto, spogli sì d'ogni cosa; erifuggiansi questi a Messina[30]. Ma avrà eterna fama il caso diGuglielmo Porcelet, feudatario o governatore di Calatafimi, statogiusto ed umano tra lo iniquo sfrenamento de' suoi. Nell'ora dellavendetta e nei primi impeti, giunta a Calatafimi l'oste di Palermo,non che perdonar la vita a Guglielmo e ai suoi, lo confortò e onoròmolto, e rimandollo in Provenza: il che mostri come il popolo deglieccessi suoi n'ha ben d'onde[31].
A guadagnar Messina in questo mezzo ogni sforzo fu posto[32], nonessendo chi non vedesse l'importanza del sito, del porto, della grossae opulenta città; nella quale stava il nodo della guerra; e necessitàstringea di trarsela amica, o piombar tutti disperatamente su lei. DiMessina temeasi per le ruggini antiche; ma se ne sperava per essersiaperti gli animi nelle afflizioni recenti, ed anco per aver moltiMessinesi in Palermo soggiorno, e cittadinanza, e appicco di commercie parentele. Si die' opera alle pratiche dunque; che delle private epiù efficaci non è passata infino a noi la memoria; delle pubbliche neresta una lettera data di Palermo il tredici aprile, che fu spacciataper messaggi, e incomincia: «Ai nobili cittadini dell'egregia Messina,sotto re Faraone schiavi nella polve e nel fango, i Palermitanisalute, e riscossa dal servil giogo col braccio di libertà. E sorgi,dice l'epistola, sorgi o figliuola di Sionne, ripiglia l'anticafortezza…. abbian fine i lamenti che partoriscon dispregio; dà dipiglio alle armi tue, l'arco e la faretra; sciogli i vincoli dal tuocollo;» e Carlo or va chiamando Nerone, lupo, lione, immane drago; eor volta {129} alla città di Messina sclama: «Già Iddio ti dice: togliin collo il tuo giaciglio e va, che sei sana,» or i cittadini esorta«a pugnare con l'antico serpente, e rigenerati nella purezza de'bambini, succhiare il latte di libertà, cercar giustizia, fuggirecalamità e vergogna[33].» Mentre i Palermitani con tai favillebibliche tentavano que' cittadini, Erberto d'Orléans s'afforzava nellearmi straniere, e nei nobili Messinesi di parte angioina, che s'eranprevalsi in cento soprusi contro i lor concittadini, ond'orastrettamente per lo vicario teneano. E dapprima inviò ad osteggiarPalermo sette galee messinesi, sotto il comando di Riccardo Riso,colui che nel sessantotto con poche navi aveva osato affrontar tuttal'armata pisana, e or correa nella guerra civile a perder l'onore dicittadino e il nome di prode. Perchè congiuntosi con quattro galeed'Amalfi, che ubbidiano a Matteo del Giudice e Ruggier da Salerno, abloccare il porto di Palermo si pose: e com'altro non potea,approcciato {130} alle mura facea gridare il nome di Carlo, e a'nostri minacce e villanie. Ma rispondean essi nella mansuetudine deiforti: «Nè le ingiurie renderebbero, nè i colpi: fratelli i Messinesie i Palermitani; sol nemici i tiranni: quelle armi contro i tirannivolgessero.» E inalberavan su i muri a canto all'aquila palermitana,lo stendal della croce di Messina[34].
E la città di Messina, o que' ne teneano il municipal governo, adimostrazione di lealtà, il dì quindici aprile mandavano cinquecentolor balestrieri capitanati da un cavalier Chiriolo messinese, a munirTaormina, che non l'occupassero i sollevati[35]. Il popolo alcontrario, sentendosi bollire il sicilian sangue nelle vene,com'incalzavan gli avvisi del tumulto di Palermo, e degli altri, edello eromper de' sollevati per l'isola, delle stragi, delle fughe,de' mille casi accresciuti o composti dalla fama; e come i Francesivedea pavidi e ignudi riparar anelando in Messina, cominciò adigrignar contro i soldati d'Erberto[36], ch'erano un grosso disecento cavalli tra francesi e calabresi, condotti da Pier diCatanzaro; e pareano al vicario sì duro freno che il popolo non seltrarrebbe giammai[37]. Onde il popolo che ciò sapea, una voltaproruppe in ferocissime parole, che per poco si rimase da' fatti: equei vedendosi mal sicuri in città, parte si ritraeano nel castel diMatagrifone, parte nel real palagio presso Erberto, il quale in malpunto volle far mostra di gagliardo; con che {131} il popol dubbio sidoma, il risoluto s'affretta. Perchè mandati novanta cavalli conMicheletto Gatta ad occupare le fortezze di Taormina, quasi nonfidandosi de' Messinesi del presidio, costoro che li vedean salire sìalteramente in ostile sembianza, stimolati da un cittadino per nomeBartolomeo, li salutarono con un grido di ingiuria e una grandine disaette; e appiccarono la zuffa. Caddervi quaranta Francesi: gli altria briglia sciolta si rifuggiro nel castello di Scaletta: e i nostri,abbattute le insegne di Carlo, su Messina marciarono a sforzarnela aribellione.
Dove tra' mille che voleano e non osavano, Bartolomeo Maniscalcopopolano, con altri molti congiurò a dar principio ai fatti. Intantopreparandosi le armi a respingere i sollevati di Taormina, deploravanoi cittadini più posati la imminente effusione del civil sangue; ilpopolo stava a guinzaglio[38]; nè erano neghittosi i cospiratori.Forse allor fu, ch'entrata in porto una galea palermitana, dandosi atrucidar alcuni Francesi, affrettava l'evento[39]: ma raro avviene incosì fatti incendi scerner netto qual fosse la prima scintilla. Era ilventotto aprile. Scoppian tra la commossa plebe le grida «Morte aiFrancesi, morte a chi li vuole!» e incominciano gli ammazzamenti:pochi allora, perchè il minacciar sì lungo avea sgombrato dalla cittàla più parte de' Francesi. Maniscalco in questo coi suoi fidati,innalza in luogo dell'abborrita insegna d'Angiò la croce messinese:per poco ei capo del popolo; ma fosse modestia sua, o forza de'cittadini maggiori che prevalson sempre nell'industre Messina, perloro consiglio la notte stessa risegna il reggimento al nobil uomoBaldovin Mussone, poche ore innanzi tornato con Matteo e Baldovin deRiso dalla {132} corte di Carlo. La dimane poi ragunato in buona formail consiglio della città, Mussone fa salutato a pien popolo capitano:e invocando il nome santo di Cristo, si bandì la repubblica sotto laprotezion della Chiesa: con grandissima pompa fu spiegato il gonfalonedella città. Eletti insieme a consiglieri del nuovo reggimento, igiudici Rinaldo de' Limogi, Niccoloso Saporito, l'istorico Bartolomeode Neocastro, e Pietro Ansalone; e gli officiali tutti, financo icarnefici, quasi a mostrare che la spada della giustizia sottentrassea disordinata violenza; ma troppo presto era ciò per tantorivolgimento. Richiamaronsi il dì trenta aprile le galee da Palermo;inviaronsi in vece messaggi di amistà e federazione[40].
Erberto, non più sicuro nella sua rocca, all'intendere que' casiripigliò il vecchio ordegno delle divisioni, senza migliore fortuna.Della famiglia Riso[41], che s'era con lui {133} serrata per coscienzadi colpe, spacciò Matteo a tentare il Mussone. Al quale venuto Matteo,dinanzi gli altri consiglieri {134} ammonivalo con le parole d'unatorta politica: ripensasse alla smisurata possanza del re: questopazzo tumulto rapire a Messina il premio che già se le apparecchiavaper la ribellione palermitana: che gli erano i Palermitani ch'avesse ainsanir con loro? in che re Carlo avea offeso lui o la città? «Tu,diceagli, poc'anzi leale al re, a noi amico, e nel viaggio compagno,tu quest'odio covavi nel cuore! E or, non che trattenere il popol datanta ruina, furibondo lo sproni! Per te, per la patria ormai fasenno; tempo ancor n'è[42].» Ma sdegnoso gli die' in sulla voceBaldovino, meglio intendendo l'onore e gl'interessi della città, chequei medesimi della Sicilia erano; nè i consiglieri e' cittadinidubbiarono tra il far Messina meretrice dello straniero, o liberasorella delle altre siciliane città. Rigettati però que' volgariinganni, Baldovino solennemente innanzi al Riso rinnovava ilgiuramento di mantenere la siciliana libertà o morire; ed esortollo aseguir egli stesso la santa causa: conchiuse, tornasse ad Erberto aoffrir salva la vita a lui e ai soldati, se lasciato armi e cavalli etutt'arnese, dritto ad Acquamorta navigassero, promettendo non toccarterra di Sicilia, nè altra vicina. I quali patti assentì il vicario; eli infranse appena con due navi ebbe valicato mezzo lo stretto; che inCalabria tutto pien d'ostili disegni approdò, a congiungersi[43] con{135} Pier di Catanzaro; il quale avvisato di quanto s'ordiva, s'eragià prima imbarcato co' suoi Calabresi, abbandonando sì cavalli ebagaglio all'ira del popolo[44].
Alle condizioni medesime del vicario s'arreser poi con tutte lor gentiTeobaldo de Messi, castellan della rocca di Matagrifone, e Michelettoco' rifuggiti a Scaletta: de' quali il castellano, imbarcato sur unaterida, più volte dal porto fe' vela, e i venti o il suo fato velrisospinsero; l'altro nel castello fu rinchiuso, e i soldati suoi nelpalagio della città, a sottrarli al furor della moltitudine. Nècampavan essi perciò. Ritornavano il dì sette maggio le galee daPalermo, portando prigioni due di quelle d'Amalfi state lor compagne,e gli animi o dallo esempio accesi, o esacerbati dal dispetto dellasnaturata e inutil fazione contro Siciliani: onde a sfogarli chiedeanosangue francese. I cittadini rinnaspriva intanto la rotta feded'Erberto. Perilchè, come la galea di Natale Pancia, entrando inporto, rasentò la terida del castellano, fattole cenno di terra, saltala ciurma su quella nave, afferra e lega i prigioni, e li scaglia aperir miseramente in mare. A tal esempio ridesto subitamente il furorein città, corresi al palagio; i soldati presi a Scaletta popolarmenteson trucidati. A stormo suonavano le campane; i radi partigiani de'Francesi tremando rannicchiavansi; armato e insanguinato il popolcalava a torrenti. Al suo furore non fecero argine i maggiori dellacittà: chè anzi, scrive il Neocastro partecipe al certo de' consigli,presero a camminare più franchi nelle vie della rivoluzione, vedendovisì intinta e ingaggiata la moltitudine[45]. {136}
Per tal modo entro il mese di aprile[46], cominciata in Palermo condisperato coraggio, comunicata a tutta l'isola con attività econsiglio, si fornì in Messina questa memoranda rivoluzione, chedall'ora del primo scoppio s'addimandò il vespro siciliano. Vi furmorti, dice il Villani[47], da quattro mila Francesi; e, qualunque siastato il numero, che non abbiamo da più sicure fonti, certo vastacorse e miseranda la strage, ma necessaria in quel tempo; onde aragione il popol nostro orgogliosamente serba infino ad oggi lememorie di quell'antica feroce virtù. E ben gli scrittori d'Italiacontemporanei, disserla, chi maravigliosa e incredibile, chi operadiabolica ovvero divina; quando non solamente franse il potere di reCarlo, tenuto fino allora invincibile; ma nella stessa primaconflagrazione, invano tentarono i governanti di ridur Palermo con leundici galee, invano di fortificare o tener in fede {137} gli altriluoghi più vicini a Messina: e non vi fu inespugnabil fortezza che noncadesse sotto le mani de' liberatori, non città o terra che non liseguisse. Ricorda pur la tradizione, e d'oggi in poi il proverà ancheun documento, come il castel di Sperlinga, capitanato da PietroLamanno, solo in tutta l'isola facesse lunga difesa, per virtù delpresidio, e fede de' terrazzani; che passò poi in proverbio: «Ciò cheai Siciliani piacque, Sperlinga sola negò;» e il popolo tuttavia pungecon tal motto chi discordi da un voler comune. Onde i soldati delpresidio e i terrazzani n'ebbero sorte diversa; e ciascun secondo suomerto: i primi lodati e guiderdonati dal governo angioino[48]; isecondi passati appo la nazione con ingrata memoria, per talpertinacia in un reo partito, che non merta dirsi costanza. Ma daqueste poche centinaia in fuori, è maravigliosa la unanimità di quegliantichi nostri; tanto più, quanto eran prima, e furon appresso delricordato periodo, straziati da divisioni municipali, e tutte nelvespro si tacquero; anzi Messina generosamente si die' al movimentocomune, non ostante che allora il vicario di re Carlo sedesse inMessina, e che dopo il vespro Palermo ripigliasse l'influenza anticanel governo dell'isola. Ma la unanimità nelle grandi masse agevol èper uguaglianza di brame e forza di esempio. E per tal cagione i fattidi Palermo con le medesime sembianze nacquero successivamente in ogniluogo, e si ebbero i medesimi ordini, de' quali or faremo parola.{138}
Il reggimento a comune sotto il nome della romana Chiesa, prendean,come s'è narrato, tutte le città e terre[49], fors'anco le baronali,di cui molte avean cacciato i feudatari francesi, tutte godeano ilprivilegio di municipalità, secondo gli ordini pubblici de' tempinormanni e svevi. Fatte dunque repubbliche, il popolo elesse, doveuno, dove parecchi capitani, e vario numero di consiglieri; i qualidapprima furono popolani, o nobili senza grandi vassallaggi, militi,che è a dir cavalieri, scelti come ogni altro cittadino per propriariputazione; e se alcun d'essi nascea d'illustre sangue, il poco averee l'ambizione il rendea popolano[50]. E ciò intervenne in un reamestato due secoli feudale, perchè i baroni stranieri e nuovi, abborritiper quegli aggravî ch'erano inusitati in Sicilia, caddero involtinella medesima ruina del governo regio; i baroni antichi, pochi dinumero, battuti delle proscrizioni e dalla povertà, non eran fortiabbastanza. Per tali cagioni, e per l'impeto del movimento che nacquedal popolo, par siano stati democratici al tutto quegli ordinamentirepubblicani d'aprile milledugentottantadue. E in vero ledeliberazioni più importanti si presero dal popol convocato inpiazza[51]. Come le città libere d'Italia, le nostre si tenner l'unadall'altra indipendenti; ma ammonite dal pericolo che ognun vedeasovrastare, si strinsero in lega a mutua difesa e guarentigia[52]; seper marche o province {139} o unitamente nell'isola tutta, non ben siritrae da' pochi diplomi avanzati infino a' nostri tempi, nè da'cronisti, che dir delle leggi o non sapeano, o sdegnavano. Dubbio indiè se per deliberazione della lega venissero sostituiti agli antichigiustizieri, o se fossero stati eletti capitani di popolo da tutti icomuni d'una o più province, que' che Saba Malaspina registra:Alamanno[53], capitano in val di Noto e poi in tutta l'isola; Santoroda Lentini, in val Demone e nel pian di Milazzo; Giovanni Foresta, inquel di Lentini; Simone da Calafatimi nei monti {140} de' Lombardi; ealtri in altre regioni e città[54]: uomini ed ordini oggi oscuri,perchè nulla operarono, o perchè poco durarono; sendo sopraggiunto acapo di cinque mesi re Pietro, e prima prevalsa la fazione che, messagiù la repubblica, chiamollo al trono. Nè sembra che questi, o altrisiano stati rivestiti della potestà che or chiameremmo esecutiva;perchè niun vestigio di loro autorità abbiamo nelle carte pubblichenostre[55], o nelle fiere invettive della corte di Roma; ma in tutti iricordi del tempo si scorge che le città, soprattutto Palermo eMessina, che vantaggiavano ogni altra di riputazione e di forza,operassero come corpi politici, collegati con le altre e noncontaminati da discordia, ma independenti. I Palermitani infattimandavano oratori al papa a ragguagliarlo de' successi, e impetrare laprotezione della Chiesa[56]. I Messinesi più gradito messaggiospacciarono all'imperador Paleologo, un Alafranco Cassano da Genova,che per amor del popolo di Messina navigò tra gravi pericoli infino aCostantinopoli[57]. Nelle altre parti del governo dello stato, dasovrani operarono i magistrati del comune. Molti accordaron franchige:e quel di Messina rendeva all'arcivescovo il castel di Calatabiano, e{141} altri beni tenacemente negati dal fisco sotto la signoria di reCarlo[58].
Del rimanente certissimo appare che gl'interessi comuni dell'isola simaneggiassero per un'adunanza federale; la quale per l'antico uso sichiamò parlamento, ma in altro modo che i soliti parlamenti sicompose; mancandovi il principe, e fors'anco i baroni: poichè nelprimo principio di questa repubblica, sol veggonsi legami tramunicipio e municipio, sol dicono gli storici di congregati sindichidelle città, d'invito a tutte le terre ad entrare per sindichi nelbuono stato comune, e simili parole che suonano rappresentanzacittadinesca e non baronale. E come i parlamenti regi, senza tempo nèluogo certo, in quella età a comodo del re si adunavano; così questi,secondo i bisogni della nazione, in Palermo o in Messina[59].Sovrastando le armi di re Carlo, i parlamenti prendean opportunedeliberazioni: si fornisse di vittuaglia per due anni Messina: ivalenti arcieri e balestrieri de' monti rafforzasser quella città: conuomini e navi si custodissero Catania, Agosta, Siracusa, importanticittà sulla costiera di levante; e su quella di settentrione, Milazzo,Patti, Cefalù. Nascean tali appresti dall'uno irremovibil proposito dinon tollerar mai più il giogo francese, nel quale tutti accordavansi,ancorchè nei mezzi si dissentisse; {142} quando chi pensava accostarsialla Chiesa più strettamente e ribadir gli ordini di repubblica, e chichiamare alcun principe straniero con giusti patti[60]. Ma senzasangue, senza accanite fazioni ciò si trattava. Bello indil'immaginare questa siciliana famiglia, rinata a vita novella, chesenza gelosia, senza veleni d'interiore nimistà, fervea nell'operadella comune difesa, strigneasi ne' consigli, adunava le forze, epacata deliberava ad ordinare più stabile reggimento. Sperandosidurevole il presente, si pensò contar nuov'era dal gran fatto dellarivoluzione; talchè in parecchi diplomi leggiamo l'intitolazione: «Altempo del dominio della sacrosanta romana Chiesa e della felicerepubblica, l'anno primo[61].»
A Procida, alla congiura, come nel capitol dinanzi accennammo, davanoalcune cronache l'onore di questa nobil riscossa; e l'han seguito ipiù, talchè istorie e tragedie e romanzi e ragionari d'altro nonsuonano ormai. Io sì il credea, finchè addentrandomi nelle ricerche diqueste istorie, mi accorsi dell'errore. Degli autori primi d'esso,pochi sono contemporanei, gli altri qual più qual meno posteriori,tutti sospetti da studio di parte, e vizio manifesto in alcuni fatti.Ma i contemporanei di testimonianza più grave, e italiani e stranieri,alcuno de' quali candidissimo, segnalato tra tutti Saba Malaspina, chefu pur marcio guelfo, e segretario di papa Martino, e informato meglioche niun altro de' casi di Sicilia, dicono al più di vaghi {143}disegni di Pietro; della cospirazione con Siciliani non fan motto;molto manco de' congiurati raccolti in Palermo: e portan comegl'insulti de' Francesi in quel dì, e più la «mala signoria che sempreaccora i popoli soggetti, mosser Palermo»; che è la sentenza delsovrumano intelletto d'Italia[62], contemporaneo, veggente più chealtr'uomo, e rigorosamente verace. Nè le scomuniche e i processi deipapi, nè gli atti diplomatici susseguenti contengon l'accusa dellacongiura motrice immediata del vespro; ma biasman Pietro d'aver presoil regno dalle mani de' ribelli, e averli sollecitato per messaggidopo la rivoluzione. Concorre con l'autorità istorica la evidenzadelle cagioni necessarie d'altri fatti che son certi: Pietro nonessere uscito di Spagna, nè pronto, allo scoppio della rivoluzione: inquesta nessuno scrittore far menzione del Procida: niuno de' maggiorifeudatari primeggiar ne' tumulti, o nei governi che ne nacquero: larepubblica, non il regno di Pietro, gridarsi, e per cinque mesimantenersi: popolani tutti gli umori: Pietro passar dopo tre mesi, enon in Sicilia, ma in Affrica: allora, stringendo i perigli, i baroniimpadronitisi dell'autorità chiamarlo alfine al regno. Da questi e datutti gli altri particolari, si scorge essere stata la rivoluzione delvespro un movimento non preparato, e d'indole popolana, singolarenelle monarchie dei secoli di mezzo. Se no; baroni che congiurano conun re, e gridan repubblica; cospiratori che senza essere sforzati dapericolo, danno il segno quando non hanno in punto le forze; fazioneche vince, e abbandona lo stato ad uomini d'un ordine inferiore,sarebbero anomalie inesplicabili, contrarie alla natura umana, nonviste al mondo giammai. Le varie narrazioni degli istorici, e iricordi diplomatici leggonsi nell'appendice. A me par se ne raccolga:che Pietro {144} macchinava: che i baroni indettati con esso aizzavanoforse il popolo, ma non si sentivano per anco forti abbastanza, ebilanciando e maturando forse non avrian mai fatto ciò che lamoltitudine compì senza rifletterci. Il popol era mosso senza saperlodall'antagonismo nazionale; ma ben sapea i suoi mali, e che rimedio cen'era un solo. Gli aggravî per l'impresa di Grecia, gli oltraggi dellasettimana innanzi pasqua in Palermo, l'intollerabile insulto diDroetto colmaron, colmaron la misura: si trovò tra le tante migliaiauna mente o leggiera o profonda, con una mano risoluta, che cominciò.Prontissimo il popol di Palermo di mano e d'ingegno, si lanciò in unattimo a quell'esempio, perchè tutti voleano a un modo, da parercongiura a mediocre conoscitore, che non pensi come sendo disposti glianimi, ogni fortuito caso accende sì eguale, che trama od arte nolpuò. Que' che si fecer capi del popolo allora preser lo stato;ordinaronlo a comune, come portavano gli umor loro; per la riputazionedel successo il tennero, finchè la influenza de' baroni lentamentespiegossi, e il pericolo si fe' maggiore. Allora la monarchiaristoravasi; allora esaltavan re Pietro; allora, io dico, operava lacongiura, se v'ebbe congiura; nel vespro non mai. Al meravigliosoavvenimento poi tutto il mondo cercò una cagione meravigliosa delpari: dopo breve tempo, il fatto del vespro e quel della venuta diPietro si ravvicinarono e si confusero: scorsi alquanti più anni,trapelava qualche pratica anteriore: alcuno forse l'accrebbe,vantandosi. E nel reame di Napoli, e nell'Italia guelfa, e in Franciacon maggiore studio si propalò quella voce della congiura; parendogittar biasimo su i Siciliani, e scemarne al reggimento angioino. Cosìvia corrompendosi il fatto, si passò dalla congiura di Procida con trepotentati, a quelle strane favole della uccisione di tutti i Francesiin Sicilia in un dì, anzi in un'ora, della cospirazione di una interanazione per {145} molti anni; non che non vere, impossibili cose.L'ignoranza, le difficili comunicazioni, la rarità delle cronache, glianimi inchinati sempre più al meraviglioso che al vero, diffusero ancol'errore; come nei tempi nostri, in condizioni materiali che son tuttoil contrario, avviene ancora. Gl'istorici successivi copiaronsi l'unaltro; molti riferirono, senza dar giudizio, le due opinioni dellacongiura, e della sommossa spontanea. Tacendo qui gli altri, noteròcome Gibbon dubitò, e solo perchè fu ingannato da uno anacronismo;Voltaire della congiura si rise. Non è baldanza dunque se affidato intutte queste ragioni e autorità, la espressata opinione iosostengo[63].
NOTE
[1] Veggansi le liste de' castelli regi a p. 99 e seg.
[2] Parlandosi di tempi feudali questo non ha bisogno di prova. Nondimeno ricorderò il castel di Calatamauro, alla cui distruzione collegaronsi i Corleonesi e i Palermitani; e quel di Sperlinga, ove i Francesi fecer testa: i quali erano fortissimi senza dubbio, e pur non leggonsi nella lista dei castelli del re.
[3] Bart. de Neocastro, cap. 14.
[4] Anon. Chron. sic., cap. 38.
[5] È certo che in quell'anno la pasqua si celebrò a dì 29 marzo. Giovanni Villani porta il fatto di Palermo il lunedì 30 marzo, lib. 7, cap. 61; Bartolomeo de Neocastro similmente il 30 marzo, capit. 14. Ma Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 4, dice il 31; la storia anonima della cospirazione di Procida, e Bernardo D'Esclot, cap. 81, il martedì appresso la pasqua; e l'Anon. Chron. sic., l. cit., p. 145, e gli Annali di Genova, Muratori R. I. S., tom. VI, portano espressamente il 31 marzo, martedì appresso la pasqua. Ho seguito dunque questa autorità.
[6] Allora apparteneva a un monastero di Cisterciensi.
[7] I contemporanei tacciono il nome di costei, e della famiglia. Mugnos, scrittor del secento e favoloso, la disse figliuola di Ruggier Mastrangelo. Perchè ei non cita autore alcuno de' tempi, nè d'altronde si raccomanda per alcun lume di critica, nol citerò nè in questo, nè in altro luogo della narrazione.
[8] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
Bart. de Neocastro, cap. 14.
Saba Malaspina, cont., pag. 354.
Montaner, cap. 43.
D'Esclot, cap. 81.
Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S. Tom. VI, pag. 576.
Giachetto Malespini, cap. 209.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit, pag. 264.
Nello Speciale si legge l'insulto del Francese altrimenti, e con troppa chiarezza:temerarius illam in…. titillavit.
Veggansi ancora gli altri contemporanei citati nell'appendice.
[9] Bart. de Neocastro, cap. 14 e 15.
Saba Malaspina, cont., pag. 355.
Veggansi ancora Montaner e d'Esclot ne' luoghi citati.
Il palagio di Palermo era una importante fortezza, come si scorge dal diploma del 6 agosto 1278, citato sopra a pag. 99, nota 2.
[10] Bart. de Neocastro, cap. 22.
La Cron. anonima della cospirazione dice tremila, a pag. 265.
[11] Bart. de Neocastro, cap. 15.
[12] Fazello, Istoria di Sicilia, deca 2, lib. 8, cap. 4.
Ai tempi del Fazello si mostravan di queste sepolture presso la chiesa di San Cosmo e Damiano.
[13] Questa colonna restò lungo tempo in piazza Valguarnera; e oggi, rimossa dal centro, si vede nell'angolo orientale dell'isolato del convento di Sant'Anna la Misericordia. È assai rozza, nè gli artisti la credono del secolo XIII. Ma ciò non dee toglier fede alla tradizione; perchè la colonna potè essere alzata, o rinnovata molto tempo appresso.
[14] Saba Malaspina, cont., pag. 355.
[15] Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 264, ove leggesi: «Andaru, a li lochi di frati minuri, e frati predicaturi, e quanti ci ndi truvaru chi parlassiru cu la lingua francisca li aucisiru 'ntra li clesii.» Ciò si riscontra con la tradizione dell'uccider cui parlava con l'accento straniero.
[16] Saba Malaspina, cont., pag. 355 e 356.
Cron. anon., loc. cit., pag. 265.
Bart. de Neocastro, cap. 14.
Chron. S. Bert. in Martene e Durand, Anec., tom. III, pag. 762.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.
Franc. Pipino, ibid., pag. 686.
Giachetto Malespini, cap. 209.
E gli altri citati nell'appendice.
[17] Bart. de Neocastro dice Mastrangelo capitano con parecchi consiglieri. Questi furono, Pierotto da Caltagirone, Bartolotto de Milite, notaio Luca di Guidalfo, Riccardo Fimetta milite, e Giovanni di Lampo. I quali nomi e quei degli altri tre capitani di popolo, si leggono nel diploma riportato, Docum. IV.
Questo diploma, inedito e poco o niente conosciuto, ci mostra anche il principio della federazione tra le nascenti repubbliche siciliane, e la forma del novello governo municipale di Palermo.
Il bajulo, negli ordini normanni e svevi, era il magistrato d'ogni comune, con giurisdizion civile, e carico della riscossione delle entrate regie, e di quella che in oggi si dice amministrazione civile. Nell'esercizio della giurisdizione l'assisteano uno o più giudici. Su le faccende più rilevanti, deliberavano talvolta i cittadini adunati a consiglio. Nella rivoluzione, preso dal popolo il poter politico, la parte esecutiva s'affidò a quegli stessi capitani di popolo che l'imperator Federigo avea vietato tanto severamente, e ad alcuni consiglieri. In fatti la proposta della lega con Corleone è fatta a questi nuovi magistrati, stando presenti soltanto il bajulo e i giudici; ma questi ultimi poi nella stipolazione dell'atto federativo che contenea anche reciprocità di franchige dalle tasse municipali, non restarono spettatori oziosi, nè intervennero per la sola forma come il notaio e i testimoni, ma insieme col capitano e i consiglieri, e tutti a nome e per mandato del popolo, fermarono i patti, e giuraronli. Anzi i loro nomi sono scritti immediatamente dopo que' de' capitani e prima de' consiglieri. Donde è chiaro che nell'affidarsi il novello potere a' nuovi magistrati, si lasciò agli antichi il maneggio della parte amministrativa, perchè era tempo da pensare ad altro che a riforme di questa natura.
Del capitan del popolo di Palermo dopo il vespro, d'Esclot non dice il nome, ma che fu un cavaliere savio e valente. Saba Malaspina nomina il Mastrangelo, che forse fu il principale, ed ebbe tutta la riputazione. Montaner lo confonde con Alaimo da Lentini.
[18] Bart. de Neocastro, cap. 14.
Anon. Chron. sic., pag. 147.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
[19] Il castel di Vicari in fatto si legge tra le fortezze regie di Sicilia nel citato diploma del 6 agosto 1278.
[20] Bart. de Neocastro, cap. 15; e con errori la Cron. anon. sic., a pag. 264.
[21] Veggasi il diploma del 20 febbraio 1248, citato qui appresso, cap. 13.
[22] Veggasi il documento IV. Corleone era città di molta importanza. Oltre le tante memorie che ne dà l'istoria, non è superfluo notare che addimandavasi di Corleone un antico ponte su l'Oreto, del quale gli avanzi ritengono l'antico nome, e si veggono a mezzo cammino a un di presso tra i novelli due ponti della Grazia e delle Teste. Si ricordi che nella distribuzione di moneta del 1279 (Docum. III), Corleone fu tassata poco men che il terzo di Palermo, e quasi al paro di Trapani. Questo rincalza la testimonianza del Malaspina pe' 3,000 nomini che Corleone mandò in oste pochi giorni dopo il vespro.
[23] Castello a dieci o dodici miglia da Corleone, tra i comuni di Contessa e Santa Margherita; e or i contadini il chiamano Calatamaviri. Se ne veggono le rovine sulla sommità di un poggio di base triangolare, inaccessibile da due lati, aspro ed erto del terzo, che sta a cavaliere alla strada tra quei due comuni, a manca di chi dal primo vada al secondo. Due ordini di grosse mura cingeano per tutta la larghezza quella sola costa accessibile del monte; sorgea sulla cima una torre, della quale restan le vestigia, e sì delle case sparse ne' due ricinti. Entro il secondo v'ha una cisterna capace, ben costruita, e ben conservata. Da tai ruderi si può anche argomentare la importanza di questa fortezza, che tenea in molto sospetto i vicini.
[24] Saba Malaspina, cont., pag. 356.
[25] Bart. de Neocastro, cap. 18.
[26] Saba Malaspina, loc. cit.
[27] Questi discorsi di Ruggiero e Bonifazio son portati da Saba Malaspina, cont., pag. 356 a 358, non sappiamo se per uso istorico, o perchè ei li seppe veri. In ogni modo mi è parso conservarli; e molte inutili frasi n'ho tolto, poco o nulla aggiuntovi del mio.
[28] Saba Malaspina, cont., pag. 358.
Di questa mossa parla anche d'Esclot, cap. 81, con minore esattezza nei particolari, ma sano giudizio dell'intento; scrivendo come que' di Palermo rifletteano che non uscirebber salvi da questa rivoluzione, se non procacciando il medesimo effetto per tutta l'isola.
Anche Montaner, cap. 43, accenna questo progresso della rivoluzione; ma al solito suo con molti errori.
[29] Anon. chron. sic., pag. 147.
[30] Saba Malasplna, cont., pag. 358.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
La uccisione progressiva de' Francesi è anche riferita dal Montaner, cap. 43.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 15.
[32] Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
[33] È pubblicata questa epistola dall'Anon. chron. sic., pag. 147 a 149, nella Bibl. arag. del Gregorio, tom. II; dal Lünig, Codex Italiæ diplomaticus, tom. II, n. 49, ma con errore di data; e in altri libri.
Mi è parso pregio dell'opera trascrivere nel docum. V questa epistola, importantissima per l'argomento e per lo stile.
Essa fu tenuta in molto pregio in que' tempi, e si trova in molte collezioni epistolari. Avvene una copia nella Bibl. reale di Francia, MS. 4042, ch'è un volume di epistole di Pietro delle Vigne, del card. Tommaso da Capua e d'altri. È seguita immediatamente dalla prima bolla di scomunica di Martino IV, e da una risposta a quest'atto del papa, indirizzata a' cardinali, che io pubblico al docum. VII.
L'autenticità di questo documento per altro è convalidata dal d'Esclot, cap. 81, il quale ne porta una parafrasi, sovente con le medesime parole del nostro originale; se non che la data, certo erronea, è del 14 maggio.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, dice ancora di tali pratiche «di quegli di Palermo contando le loro miserie per una bella pistola, e ch'elli doveano amare libertà, e franchigia, e fraternità con loro.»
Bart. de Neocastro a cap. 19 e 20 foggia a suo modo, lontanissimo da ogni verosimiglianza, e l'epistola e la risposta, con quella che gli pareva arte oratoria, e quel che gli pareva amor della sua patria.
[34] Bart. de Neocastro, cap. 15.
Anon. chron. sic. pag. 147.
Fazzello, deca 2, lib. 1, cap. 2, racconta una battaglia tra queste navi messinesi e le palermitane, capitanate da Orlando de Milio esule di Palermo. Seguendo il mio proposito di non prestar fede che ai contemporanei, ho taciuto questo fatto, niente certo e brutissimo.
[35] Bart. de Neocastro, cap. 24.
[36] Bart. de Neocastro, ibid.
[37] Saba Malaspina, cont. pag., 358.
[38] Bart. de Neocastro, cap. 24.
[39] Anon. chron. sic., pag. 147.
D'Esclot, cap. 81, porta troppo brevemente la rivoluzione di Messina, e non senza inesattezze.
[40] Bart. de Neocastro, cap. 24, 25, 30.
I nomi di quei giudici si ritraggono da un diploma del 10 maggio 1282, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116, trascritto dal tabulario della chiesa di Messina. Ivi si legge l'intitolazione:
Tempore dominii Sacrosanctæ Romanæ Ecclesiæ et felicis communitatis Messanæ anno I. Residente Capitaneo in Civitate Messanæ nobili viro domino Baldoyno Mussono una cum suscriptis judicibus civitatis ejusdem, etc. Or questouna cum, fa comprendere che i detti giudici, nome che allor davasi a tutti i legisti, fossero compagni nel governo al capitano, cioè i consiglieri de' quali parla il Neocastro, ch'era un d'essi appunto.
[41] Da tutte le memorie del tempo appare, che questa famiglia de Riso da Messina fu nobile, e potente, e piena d'uomini valorosi, ancorchè sventuratamente si fossero gittati al tristo cammino di parteggiare contro la patria. Di ciò fu punita severamente questa schiatta: spentane la più parte; gli altri condotti a mendicare un pane da' nemici del lor paese. De' tre fratelli di cui fa menzione il Neocastro, per nome Riccardo, Matteo, e Baldovino, questi ultimi furono morti a furia di popolo in Messina di giugno 1282; il primo dicollato sopra una galea alle bocche del golfo di Napoli dopo la battaglia del 6 giugno 1284, nella quale avea portato le armi contro i suoi concittadini. Giacomo e Parmenio loro nipoti, de' quali anche parla il Neocastro, e Arrigo, Niccoloso, un altro Matteo, Squarcia, Scurione, e Francesco, di cui veggonsi i nomi in parecchi diplomi, si rifuggirono in terra di nimici, e da loro ebbero sussidi, ufici lucrativi, e aspettativa di feudi. Mi par bene porre qui una lista di documenti risguardanti questa famiglia.
1274.—Niccoloso de Riso era giustiziere in Bari. Diploma del 27 maggio quinta Ind. (1277), r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 29, a t.
1286, 9 luglio.—Diploma di re Giacomo di Sicilia. Concede a Guglielmo Conto, e a Venuta da Messina alcuni beni di maestro Palmiero (forse Parmenio) de Riso, fellone, e di Niccoloso de Riso figliuolo del fu Corrado; il qual Niccoloso era stato preso nella battaglia del porto di Malta, ed era prigione tuttavia. Pubblicato dal di Gregorio, Bibl. arag., tom. II, pag. 500.
1287, 15 gennaio.—Sussidio di once dodici all'anno, dato da' governanti di Napoli alla famiglia di Parmerio de Riso uscito di Sicilia. Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 21.
1292, 8 luglio.—Sussidio di once due al mese ad Arrigo de Riso, che per fedeltà al re avea perduto ogni cosa. Ibid., pag. 94.
1298, 29 settembre e 10 ottobre.—A Squarcia de Riso, giustiziere d'Apruzzo oltre il fiume di Pescara. Ibid., pag. 207.
1299, 19 marzo.—Diploma di Carlo II, pel quale è concedutoSquarcie de Riso Messane militi dilecto familiari et fideli suo il castello e terraSancti Filadelli situm in valle Demonis (San Fratello) in luogo di quel di Sortino datogliolim serviciorum tuorum intuito, ma non occupato dalle armi regie. Reg. del r. archivio di Napoli. 1299, A, fog. 48, a t. 1299, 9 aprile.—Per consegnarsi della moneta dalla zecca di Napoli ad Arrigo de Riso da Messina fedele del re, ec. Ibid., fog. 31, a t.
Detto, ultimo aprile.—Mattheo de Riso militi statuto super recollectionem presentis donj in Aversa. Ibid., fog. 66.
Detto, 2 maggio.—Henrico de Riso de Messana militi, per altre faccende di re Carlo. Ibid., fog. 66.
Detto, 5 maggio.—Assegnata una rendita di 30 once all'anno in dote a Cecilia de Riso, figliuola di Squarcia, in merito della fedeltà di costui, e dei gravi danni sostenuti ne' suoi beni. Ibid., fog. 55, a t.
Detto, 9 giugno.—Accordate cent'once in dote alla figliuola di Scurione de Riso milite, ch'era esule e soffrente per lealtà.—-Ibid., fog 90, a t.
Detto, 23 giugno.—Conceduta a Squarcia de Riso la terra di Melise in val di Crati. Ibid., fog. 96.
Detto, 14 luglio.—Conceduta a Matteo ed Arrigo de Riso militi, e a Francesco de Riso da Messina la terra di Geremia in Calabria. Ibid.
[42] Son le parole stesse del Neocastro voltate in italiano, e in qualche luogo abbreviate.
[43] Bart. de Neocastro, cap. 25, 26.
Alcuni istorici de' secoli appresso affermarono che Erberto fosse stato ucciso a Messina. La verità della testimonianza di Bartolomeo de Neocastro è confermata da vari diplomi, che mostrano Erberto vivente e al servigio di Carlo, dopo la rivoluzione di Messina. Leggonsi nel r. archivio di Napoli, il primo nel reg. 1283, A, fog. 81, ch'è dato di Napoli il 21 giugno duodecima Ind. (1284); l'altro a fog. 50 dato di Cotrone il 19 agosto dello stesso anno; e tra il fog. 15 e il 18 parecchi altri indirizzati a questo Erberto giustiziere di Principato, o riguardanti lui stesso.
[44] Saba Malaspina, cont., pag. 358.
[45] Bart. de Neocastro, cap. 27, 28, 29, 30.
Conferma che Teobaldo de Messi sia stato castellano del castello di Messina, appunto come dice il Neocastro, un diploma del 21 marzo 1278; dal quale anco si vede che al presidio di quella rocca eran posti cavalieri e fanti oltramontani, pagati i primi alla ragione di un tarì d'oro, gli altri di grana otto al giorno. R. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 143.
Sembra che vi fossero stati, ancorchè pochissimi, oltre la famiglia Riso altri partigiani de' Francesi.
In un diploma di Carlo I dato il 20 settembre duodecima Ind. (1283) è ordinato al capitano di Geraci di fornir sei once d'oro a Francesco de Tore da Milazzo, che per seguire il re avea perduto tutti i suoi beni in Sicilia; il qual danaro si dovea togliere da' beni de' traditori in Geraci. Dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A fog. 56, a t.
Un altro diploma del 24 settembre 1299 accordava l'uficio di giudice in Girgenti, al momento che quella città si ripigliasse pel re, ad Arrigo d'Agrigento, esule e spogliato d'ogni cosa per amor del re. Reg. 1299-1300, C. fog. 70, a t. Ma resta in dubbio se costui fosse uscito fin dall'82, o ribellato nel 99.
Per un altro del 19 maggio tredicesima Ind. (1300) Carlo II raccomandava a Roberto guerreggiante in Sicilia, di rendere ragione a Benincasa da Paternò, spogliato de' suoi beni per fedeltà al re. Il padre di costui anche fedele, e perciò preso da Corrado Capece, avea venduto, per riscattarsi, alcuni beni dotali senza assentimento della moglie e de' figli, che or li voleano rivendicare. Ibid., fog. 368.
[46] Anon. chron. sic., pag. 147.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
[47] Lib. 7, cap. 61.
[48]Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit, ho inteso dire cento volte da quei che amano i motti latini. Il popolo con maggior vivezza suol dire solamente: «Sperlinga negò.» E questo proverbio parmi testimonianza istorica sì valevole da correggere gli scrittori contemporanei che tacquero il caso di Sperlinga; i nazionali per non perpetuare una memoria spiacevole, gli stranieri per non saperla. Il docum. XIII. mostra che alcuni soldati di Carlo si eran lungamente difesi nel castel di Sperlinga, il che sarebbe stato difficilissimo senza la volontà degli abitanti.
[49] Anon. chron. sic., pag. 147.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
Saba Malaspina, cont., pag. 358 e 359.
[50]Eriguntur in terris populares rectores, et capitanei fiunt in plebibus ad Gallicos persequendos, etc. Malaspina, cont., pag. 336.
[51] Diploma del 3 aprile 1282, docum. IV.
Bart. de Neocastro, cap. 27, 37, 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 356, ec.
[52] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576. Ivi si legge:Et missis sibi invicem nuntiis, conjuraverunt se ad invicem.
Saba Malaspina, cont, pag. 358.
Bolla di Martino IV, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §§. 13 a 18. Per questa son disciolte le confederazioni per avventura fatte tra i comuni di Sicilia ribelli. È notevole che si parla sol di comuni di Sicilia, anche nelle ammonizioni a tornare all'ubbidienza, e nelle minacce di gastighi; quando il divieto d'aiutar questi ribelli è fatto largamente a principi, conti, baroni, e comuni esteri. Novella prova dell'indole tutta popolare della rivoluzione del vespro, e della condizione de' ribelli, che già si sapea a corte di Roma il 9 maggio, data della bolla.
D'Esclot, cap. 81, e Saba Malaspina, loc. cit., suppongono che le altre città di Sicilia avessero giurato ubbidienza al comune di Palermo. Tra quelle non fu per certo Messina: e i diplomi citati nel corso di questo capitolo, e tutte le altre autorità portano piuttosto a confederazione, che a dominio di Palermo. Forse l'avea di fatto, non di dritto, come prima nella rivoluzione, come antica capitale, e più forte di popolo.
[53] Troviam del nome di Lamanno o Alamanno molti uomini e di parte nostra e di parte angioina nelle memorie di questi tempi. Il docum. XIII mostra che un Alamanno era il castellano di Sperlinga assediata da' nostri, e un altro dello stesso nome tra i guerrieri del presidio. Un diploma del 9 febbraio 1278 dal r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 63, a t., è indirizzato a Guidone di Alemania giustiziere di Capitanata. Un Bertoldo Alemanno si legge tra i guerrieri di Messina fatti prigioni nel combattimento di Milazzo a 12 giugno 1282, veg. il capitolo seguente. Raimondo Alemanno nel 1287 fu con Giacomo all'assedio di Agosta, veg. il cap. 13.
Per altro è probabile ch'esistessero diverse famiglie di tal cognome, preso, com'era solito in que' tempi, dalla patria di questo o quell'altro Alemanno che veniva ad abitare in Italia.
[54] Saba Malaspina, cont., pag. 358.
[55] Dal Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 18, sappiamo che Bartolomeo de Neocastro, in una sua storia in versi, riferiva essere stati dal parlamento generale che si tenne in Messina, eletti sei uomini al governo provvisionale dell'isola in questo tempo. Gli altri storici non ne fanno motto; nè lo stesso Bartolomeo nella sua cronaca in prosa. Indi non mi è parso per questo sol barlume allontanarmi dalle altre memorie tutte. Forse Neocastro mal espresse l'uficio de' capitani delle province; forse Surita mal comprese quel gergo latino, che se è oscuro in prosa, peggio dovea invilupparsi in poesia. Chi ami più minuti ragguagli di questo perduto poema o racconto, vegga il di Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 11 e 12.
[56] Bart. de Neocastro, cap. 18.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.
Giachetto Malespini, cap. 210.
[57] Bart. de Neocastro, cap. 50.
[58] Diploma del ….. 1282 dal tabularlo della chiesa di Messina ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. II. 4, fog. 117. Questo è dato certo di luglio o agosto, perchè vi si legge il nome di Alaimo capitano della città, e la decima Ind. Vi son contrassegnati come testimoni Gualtiero da Caltagirone, Bonamico, Natale Ansalone, e altri nomi noti in queste istorie.
[59] I parlamenti tenuti in Palermo si son citati sopra, e un altro se ne leggerà nei capitoli seguenti. Quel che deliberò gli appresti alla difesa fu tenuto in Messina, come si può congetturare da un luogo di Saba Malaspina citato qui appresso; e da un altro della perduta istoria in versi di Bartolomeo de Neocastro, del quale fa menzione Surita, negli Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 18.
[60] Saba Malaspina, cont., pag. 359 e 360.
[61] Diploma del 15 agosto 1282, recato dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.
Atto del 10 maggio 1282, cavato dal tabulario della chiesa di Messina, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116.
Diploma del….. 1282, ibid., fog. 117.
Fors'anco si scrisse negli atti l'anno primo della repubblica, seguendo l'uso della corte di Roma e di tutti gli altri principati del tempo, ove si notava la indizione e l'anno del principe, e anche talvolta del feudatario, piuttosto che l'anno dell'era volgare.
[62] Paradiso, canto 6.
[63] Veggasi l'appendice.
CAPITOLO VII.
Dolore e rabbia di Carlo all'annunzio della rivoluzione. Ordina lapassata in Sicilia, con l'esercito disposto alla guerra di Grecia.Bolla del papa contro i ribelli; risposta loro, e legazione delcardinal Gherardo da Parma. Preparamenti di Carlo, e de' Messinesi.Rotta dei nostri a Milazzo. Sbarco di re Carlo. Principî dell'assedio.Pratiche del cardinale entrato in Messina. Assalti minori. Stormogenerale contro la città. Respinti i Francesi. Tentata la feded'Alaimo capitano del popolo di Messina. Aprile a settembre 1282.
A corte del papa, ebbe Carlo dall'arcivescovo di Morreale l'annunziodella siciliana strage; che il colpì di presentimento di ruina, e fènascere in quel superbissimo animo, prima dell'ira stessa, unadisperata rassegnazione; ond'ei si volse tutto umile al cielo, e fùudito pregare: «Sire Iddio! dappoi t'è piaciuto farmi avversa la miafortuna, piacciati che il mio calare sia a petitti passi[1].»Sopraccorse ansando a Napoli; e trovate le nuove del progredimentodella ribellione, diessi a furor bestiale, senza serbar contegnoalcuno di re. A gran passo misurava le stanze; forsennato, muto, torvoagli sguardi, rodendo un bastone come cane in rabbia; finchè prese asfogarsi in parole: andrebbe, sì, gli parea mill'anni, andrebbe inSicilia a schiantar città, a bruciar contadi, a sterminare con orrendisupplizi tutta la ribalda generazione; lascerebbe quello scogliospopolato, ignudo, esempio della giustizia d'un re, terrore alle etàpiù lontane. E i Siciliani, certo innocenti, ch'erano in Napoli percagion di commerci, furon costretti a nascondersi o fuggire. Intanto{147} egli mettea insieme i soldati scritti per l'impresa di Grecia;facea rassegne, esortava, preparava, e attendea impazientissimo glialtri avvisi; che tutti furon sinistri, finchè venne quell'ultimodella rivoluzione di Messina, che il fece prorompere a nuovi eccessidi rabbia[2]; ma nel fondo del cuore, l'agghiacciò. Spacciòincontanente al re di Francia, dettata certo da lui stesso, unalettera che mal cela l'animo sconfortato e abbattuto: essere rivoltatala Sicilia; sovrastar grandi mali se non vi si correa con grossoesercito; piacesse al re di Francia mandar subito cinquecento uominid'arme col conte d'Artois, o altro valente capitano, e fornir lespese, delle quali sarebbe ristorato senza ritardo[3].
Mentr'egli, in tal subito rovescio di fortuna, implorava soccorso digente dalla madre patria, la corte di Roma aiutavalo di consigli, didanari forse, di preghiere al cielo, e di maledizioni su i ribellisenza misura[4]. Il dì dell'Ascenzione, Martino IV bandiva da Orvietoa tutta la cristianità: che niuno s'attentasse a favorir questarivoluzione; i disubbidienti, se vescovi o prelati, sarebber deposti,se principi o signori, spogliati de' feudi e sciolti lor vassalli dalgiuramento; cassate e annullate quante confederazioni si fossero fattetra le città di Sicilia; aspramente ammoniti i Palermitani e gli altricapi del movimento, che tornassero sotto re Carlo; minacciati, a chis'indurasse {148} nella fellonia, mille gastighi nell'avere, nellapersona, e nell'anima[5].
Ma gli fu risposto con parole riverenti, e fermo proposito; sì cheMartino, uditi gli oratori di Sicilia, replicò ch'e' facean come imanigoldi intorno a Cristo: «salutavanlo re dei Giudei, e davangli unoschiaffo[6].» E tal era alla corte di Roma, se non la primaambasciata, certo una rimostranza indirizzatale dopo la suaammonizione o dopo la prima scomunica, la quale rivolgesi ai padricoscritti, così chiama i cardinali, partecipi della piena potestà delpontefice, sedenti nel sacro collegio per tener le bilance dellagiustizia, e intendere all'util pubblico, spogliandosi d'ogni privatoriguardo; e, con stile spesso ridondante, talvolta confuso, e piùspesso vivo e poetico, duolsi che la romana corte favorisse gl'iniquigoverni di Carlo d'Angiò, venuto dall'estremo Occidente fino allespiagge della Sicilia, e comandasse ai Siciliani di tornar sotto laservitù d'Egitto e il giogo che aveano scosso per ispirazione e aiutodivino; barbarico giogo, che il papa non conoscea, e volea rimetterlosul collo gonfio e insanguinato dall'averlo portato tanti anni. Conpari intemperanza di rettorica, mette a confronto le due gentifrancese e latina, esagera il biasimo dell'una, la lode dell'altra.«Costoro, dice, ci dovean reggere, costoro amministrar la giustizia!Chi sosterrebbe le loro mani pronte alle ingiurie e al sangue, i trucivolti, i minacciosi aspetti, l'arrogante parlare, l'alito stesso? Omorte, speranza de' tribolati, riposo ancora ai felici, ti sospiravanole anime nostre, impazienti d'esser tratte al cielo o all'inferno,finchè questi condannati nostri corpi nulla servirono al ben dellapatria! Non è ribellione, o padri coscritti, quella che voi mirate;non ingrata {149} fuga dal grembo d'una madre; ma resistenzalegittima, secondo ragion canonica e civile; ma casto amore, zelodella pudicizia, santa difesa di libertà. Rivanghiamo la voragine de'nostri mali; traggiamo a riva l'alga corrotta nel profondo del mare.Ecco le donne sforzate al cospetto de' mariti; viziate le donzelle;accumulate le ingiurie, sì che par non resti luogo ad altre nuove:ecco le battiture su le spalle; le mani che s'alzano a percotere unafaccia ritraente l'immagine del Creatore; gli omicidî; le prigionie;le rapine; il disprezzo; l'occupazion de' beni delle chiese; la brutalforza che comanda; il principe fatto solo arbitro de' matrimoni. Nè lacorte di Roma ignorava, nè potea ignorar questi mali, notissimi allegenti più lontane. Avvi, o padri coscritti, un estremo furore dellasventura, una forza di necessità, una reazione dell'umana libertà: eallora nessun eccesso di crudeltà è tanto immane, che non giovi conl'esempio, reprimendo i malvagi. Fu squarciato il corpo alle donne;furono uccisi i bambini anzi che nati: la storia il narrerà ai secolipiù lontani; e così periscano i vizi prima di venire alla luce; sidissipi il veleno con la prole de' serpenti.» A queste empie parolenon manca la sublimità della disperazione e della ferocia. «A voi,ripiglia l'ignoto autore, lasciando i cardinali e addentando il papa,a voi si volge ora il sermone; su voi voterò il calice. Fremono d'ogniintorno le guerre; minacciano i nemici; tremano le nazioni, laceratedalle guerre civili e dalle straniere: son questi, o padre, i fruttidelle opere vostre!» E qui tocca la connivenza alla sommossa diViterbo, e tutti gli abusi di re Carlo in Roma; e ritrova non pochitorti a Martino; e gli ricorda che, seguendo un interesse di parte,menomasse l'autorità del pontificato; che i misfatti permessi perchèpiacciono, portan poi i misfatti che spiacciono; ch'ei non doveapromuovere i suoi partigiani, e trascurar le altre faccende {150}della Chiesa; che i disordini consuman sè stessi: «la scure è alzata;accenna di percuotere; fate d'impugnarla voi stesso pria che tronchil'albero alla radice.» Con queste, e molte altre parole è esortatopapa Martino a mutar via, se gli preme la sua salvazione. Alle idee,allo stile, agli eccessi della passione, l'autore sembra chierico, nonignorante, e patriotta audacissimo. Niuno potrebbe o affermare onegare che tal rimostranza si mandasse a corte di Roma, quando siconobbe chiusa la via del perdono, e altro non restava che protestarefortemente. Ma se i governanti della Sicilia non scrissero in quelleparole, scrissero per certo in que' sensi: e in ogni modo il documentoche ci resta è irrefragabilmente del paese e del tempo; ha la roventeimpronta della rivoluzione; estinto quel fuoco, non si poteacontraffare[7].
La corte di Roma, vedendo che i Siciliani nulla non rimoveansi da'loro proponimenti, tentò nuovi consigli. Deputò con autoritàstraordinaria il cardinal Gherardo da Parma pontificio legato nelregno[8]. «Mossi, dicea la bolla, da sviscerato amore alla Sicilia, edolentissimi degli scandali con che il nemico dell'uman genere la vienturbando, te mandiamvi, o fratello, angiol di pace; e svelti tu,struggi, dissipa, sperdi, edifica, pianta; tutta usa l'autorità nostraad onor di Dio e riformazion del reame[9].» L'accorgimento de'consigli sacerdotali trasparisce ancora da uno statuto promulgato diquel tempo da Carlo, dove accagionando del mal governo gli officialiinferiori, moderava i più grossi aggravî del fisco, dei magistrati, edi lor famigliari; e sì la crudeltà di alcuna legge, le usurpazioni{151} de' castellani nelle faccende municipali, e lor violenze neicontadi[10]. Lusinghe a' Siciliani eran queste; blandimenti ai popolidi Puglia e Calabria, che, dalla medesima signoria travagliati, non simuovessero all'esempio, ma grati e soddisfatti aiutassero il re. E pervero assai difficoltà nel raccorre quelle feudali milizie ebbe egli avincere con la sua passione e potenza[11]. Aggiunsevi mille Saracinidi Lucera, co' fanti e' cavalli di Firenze e d'altre città guelfe diLombardia e Toscana; i Francesi, tra vassalli e stipendiati, furono ilnerbo dell'esercito. Genova e Pisa mandaron galee; quelle del regnos'accozzaron tutte; altre ventiquattro chiamonne di Provenza il re,poichè la più parte delle preparate alla impresa d'Oriente era chiusanel porto di Messina. Forniti inoltre uscieri, teride, trite quantiabbisognassero a traghettar le genti. Ordinò Carlo che si ritrovasserle genti a Catona, picciola terra di Calabria, posta sullo stretto dicontra a Messina, ch'egli volea prima assaltare; e mandò innanziquaranta galee, e gran copia di grani e altra vivanda, e ogni cosabisognevole all'esercito. Quivi poi rassegnò pronti a servir suavendetta da quindicimila cavalli e sessantamila pedoni, concencinquanta o dugento legni, tra di trasporto e di corso[12]:macchina {152} enorme di guerra, che non parrà esagerata riflettendoesser Carlo apparecchiato di già a grande impresa, e aiutato da mezzaItalia, dalla Francia e dalla corte di Roma; e che pria della lottatra principato e baronaggio, e dell'uso delle bande stanziali che neseguì, gli eserciti d'Europa si poteano adunar numerosi poco menoch'ai nostri tempi, con un sol bando a' baroni per la cavalleria, epoca moneta per lo scarso stipendio de' pedoni. Un cardinale armato dicensure e di piena balìa; un re uso a vittoria, indurato nellebattaglie; un esercito grossissimo, ansioso di vendetta, assetato dipreda; un bollor francese, un'astuzia di Roma, un furor d'offesotiranno, tutte l'arti di guerra, tutte l'arti di regno a conquiderl'isola ribelle, minacciando si raggrupparono sulla estrema puntad'Italia.
Reina del Faro, siede tra due mari in faccia ad oriente, maestosa elieta Messina; che a manca, il Peloritan promontorio sta contro ilTirreno; a destra, il braccio di san Ranieri sì ardito mette nel mareIonio, rientrando come punta in falce contro la curva del lido, che unvasto cinge, e profondo, e da tutti venti sicurissimo porto. In marbagnansi le falde de' colli, talchè parte non poca della città {153}s'appoggia su la pendice; donde il seno, lo stretto, l'oppostaCalabria magnifico teatro spiegano alla vista. Largheggia un po' dipianura a settentrione; e più vasta ad ostro, amena per vigneti eville: boscosi i poggi, e più di que' tempi ch'ai nostri. Non è mutatadel resto la sembianza del paese, nè il sito della città, quantunquepiù d'una catastrofe l'abbia percosso; e poco men che spiantata da'tremuoti del millesettecentottantatrè, si sia murata nuova dallefondamenta.
Questa nobil città gli animi e le braccia apprestava a difesa; piùintenta a munirsi nel porto che altrove, perchè non s'aspettava sìpronto un esercito ad assaltarla di terra. Rispianano a settentrionela campagna, svelte le viti, e abbattuti gli sparsi casolari; dellegname di questi risarciscono le mura; fabbrican macchine ed armi:oper non sì compiute, da non dovercisi affaticare e sudar poi nelmaggior uopo. Ma salde catene di ferro, legate a travi galleggianti,gittavan a traverso l'imboccatura del porto, a chiuderlo contr'ostilinavigli: il braccio di san Ranieri afforzavano d'eletta gioventù,sotto il comando di Niccolò Bivacqua, e Giacomo de Brugnali, stanziatanella chiesa del Salvadore, sulla estrema punta, ov'oggi è unafortezza del medesimo nome. E un buon augurio fu principio allaguerra, quando il due giugno, viste far vela da Catona quarantanimiche galee, i Messinesi ne mandavano trenta allo scontro. I nemicinon aspettandole, in fretta rifuggironsi a Scilla; e sbarcarono leciurme, spiegandosi a lor protezione in battaglia i cavalli d'Erbertod'Orléans, e del conte di Catanzaro: ma la traversia che levossi, nonla mostra del nemico, fu quella che rattenne i nostri, anelanti a dardentro, e abbruciare le navi[13].
L'animo d'un frate siciliano ammiraron gli stessi nemici in queltempo. Veniva re Carlo il dieci giugno alla Catona {154} con un grossodi genti; arrivavan da Brindisi ogni dì le allestite navi; e a tantoromor del nemico, i Messinesi struggeansi di saperne a punto le forzee i disegni. Allora a' preghi del consiglio della città, Bartolomeo daPiana de' frati minori, uom litterato, di specchiati costumi, e digran nome, prese a esplorarli; non vile spiatore d'eserciti, macittadino, ch'all'uopo della patria affronti la mannaia, com'altri laspada. Nè furtivo, nè dimesso va dunque in Calabria il frate; doveaddotto a Carlo: «A che da' miei traditori ne vieni?» bruscodomandavalo il re. Ed ei più fermo: «Non io traditor, disse, nè terradi tradimento lasciai. Mosso da religione e coscienza vengo ad ammonirqui i frati minori, che non seguano queste tue ingiustissime armi. LaProvvidenza ti commise un'innocente popolo, e tu lo lasciavi adilaniare a lupi e mastini: tu indurasti il cuore alle querele, a'pianti: e allor noi ci volgemmo al Cielo; e il Cielo ne ascoltò, e cife' vendicare santissimi dritti. Ma se speri oggi vincendo chiamar ciòfellonia, sappi, o re, che indarno tant'armi a' danni de' Messinesiaduni. Torri hanno e mura, e forti petti rinfocati dal divin raggio dilibertà; onde maggiori che uomini, ti aspettan pronti a morire. AFaraone tu pensa!» Per terror di lassù, o istinto d'accarezzarMessina, il re si ritenne dall'offendere il frate. Die' sfogo all'iracon ordinare una prima fazione: e Bartolomeo tornandosi a' suoi,narrava la potenza dell'oste, e le truci voglie di Carlo[14].
Contro Milazzo quell'assalto si drizzò, perchè traeane Messina levittuaglie, che il parlamento avea deliberato di provvedersi; e mals'era fatto tra l'universale sospezione e penuria. I conti di Briennee di Catanzaro, Erberto d'Orléans, e Bertrando d'Accursio, capitani diquesta fazione, aveano a bruciar le messi, dar guasto al paese, rapiregli armenti per uso dell'esercito, e occupar indi Milazzo: {155} iquali a dì ventiquattro giugno, con cinquecento cavalli e millepedoni, sur una sessantina di barche salpavano dalla Catona. Controtal forza, e cento altri legni che si vedean surti alla spiaggia, ilcapitan della città non volle mettere a rischio la sua poca armata, mapiuttosto sull'asciutto far testa. Frettoloso armò dunque cinque centocavalli, e grosse bande di fanti; co' quali, poichè la flotta francesegirava il capo, ei valicò i colli della Peloriade, e lunghesso lasettentrionale riva, a Milazzo conducea le genti, come i nemici aquella volta pur via navigavano. Molte miglia da Messina si dilungancosì i nostri; non usi all'andar in ischiera; trafelanti dal caldo,dalla via, dal peso dell'armi, ciascun dassè, sparsi chi a cercarombre o acqua, chi a chiamare ad oste i contadini: quando presso ilcanneto di San Gregorio, alla fonte d'Aleta, il nimico vedendoli sìmal presi tra quelli scogli, d'un subito approda. Baldovino pensavasostare, e, raccolti gli sbrancati, mandare per rinforzo a città; madandogli sulla voce Arrigo d'Amelina per nimistade privata, tuttiappigliaronsi al partito che parea più generoso. Audaci sì, ma radi estanchi, investono il nimico: il quale ordinato e fresco, li sbaragliòal primo scontro. Quell'Arrigo stesso d'Amelina, Anfuso de Camulio,Bertoldo Alamanno, Pietro Cafici, cavalieri; Bartolomeo Mussone,Martin di Benincasa, Abramo d'Ambrosio, Niccolò Rosso, e di minor nomemille a un di presso, nella zuffa o nella fuga fur morti. Assain'andar anco prigioni; tra' quali notan le istorie i nomi di Robertode Mileto cavaliere, che perì ne' ceppi francesi, e d'Arrigo Rossomercatante, ricattatosi per mille once d'oro dopo la finedell'assedio[15]. {156}
Come la sconfitta si riseppe in città, il popolo infellonito darammarico, e più stigandolo Baldovin Mussone, l'inesperto capitano chea discolparsi gridava tradimento, levasi a romore in cerca ditraditori. Chiama al supplizio i partigiani de' Francesi, gli odiatide Riso: tratti Baldovino e Matteo dalla rocca di Matagrifone, ove liavea chiuso da pria, li mette in pezzi; Giacomo decollato per man delcarnefice; strascinati i cadaveri per la città; senza tomba gittati;con tanto eccesso d'ira, che gli amici non osavano pur piagnerli, e icongiunti a mala pena si sottrassero. La moltitudine intanto, come sequelle morti fosser vittoria, {157} scordata già l'infelice fazione,girava tripudiando intorno le mura della città, e per le stradegavazzava. Ma in brev'ora il popolo stesso a una voce, persuadendolforse i più savi, deposto d'uficio il Mussone, gridò capitano Alaimoda Lentini, nobil di sangue, nobil di fama, vecchio robusto e animoso,espertissimo in guerra. Fu somma ventura di Messina e di tuttal'isola. Ei, preso appena il comando, con più alto militare argomentoordinò le difese della città, riparò, sopravvide, indefesso addestròil popolo all'armi[16]. Catania e i comuni tutti del vasto tratto dipaese da Tusa ad Agosta, il crearon anco, ignorasi se prima di Messinao appresso, lor capitano di popolo[17].
Nei preparamenti d'ambo i lati un altro mese volgeasi: poscia contutto il pondo dell'oste il re mosse a dì venticinque {158}luglio[18]. Le salmerie, le vittuaglie, i cavalli, indi le gentiimbarcò; ultimo egli ascese la sua nave superbamente parata diporpora, che parea tenere in pugno le sorti del mondo; e con tuttociò, schivato quel formidabil porto di Messina, fe' porre a quattromiglia ver mezzodì, alla badia di Santa Maria Roccamadore; nuovamentesperando trar lungi i cittadini alla pugna. Ma Alaimo affrenòl'intempestivo ardore, che s'era pur desto. Deluso dunque, attendavasiCarlo; e trucidar fea, dice Neocastro, i monaci della badia, che ionol credo, perchè taciuto dagli altri istorici, e dissonante daiconsigli del re, che cominciarono con simular clemenza. Ben lasciò amarinai e soldati metter a guasto il paese, sperando che i Messinesiper salvar le facultà chiedessero accordo; ma fe' il contrarioeffetto. Come da Roccamadore infino al torrente di Cammàri sparve ilridente giardino, tagliati gli alberi, stralciate le vigne,saccheggiate masserie e canove, diroccate le case, quanto rubar nonpoteasi distrutto; e come il dì appresso, mutati gli alloggiamenti, losterminio s'avvicinò, i Messinesi che a niente guardavano fuorchèall'onore e alla libertà, con tanto maggior dispetto si fecero aprovocar l'Angioino. Appiccan fuoco a settanta galee delle costruitecontro i Greci; fabbrican armi delle ferrerie tratte dalle ceneri;{159} disfatte altre navi, ne riattano mura e steccati; il borgo diSanta Croce, posto a mezzodì ove in oggi è quel di Zaera, non potendolfortificare, abbandonano. Occupollo al terzo giorno re Carlo; daquella banda ponendo il campo, sì stretto alla città, ch'appena nelpartiva il picciol torrente di porta de' Legni. Egli alberga nelmunistero de' frati predicatori che sorgea sul poggio, da ciò chiamatovigna del re; e fa alzar su i comignoli una torricella di legno, perispecolare dentro la città, e anco offenderla con macchine. Ma iMessinesi se n'avvidero appena, che dato di piglio a' mangani, a furiadi pietre sconficcaron la torre[19]: e furon questi i primi salutiall'antico lor principe.
Or se la città debbasi assaltare impetuosamente pria che s'avvezzi alpericolo, o travagliar tanto d'assedio che stanca ed affamatas'arrenda, agitano tra loro i capitani, ristretti a consiglio. I piùfocosi diceano andarne, l'onor di tant'oste contro una plebe assiepatacon legni e macerie, non muta: l'impeto vincer le guerre: a chetardare sì giusta vendetta? Dubbio altri opponea il successodell'arme: grossa la città: presa d'assalto, metterebberla a sacco iribaldi[20] del campo; e qual pro al monarca? Senza sanguecertissimamente s'avrà per tedio o paura. A questo appigliossi Carlo,contro la sua natura feroce; perchè il vinse avarizia, e lusinga cheMessina si lascerebbe prender sempre a lusinghe[21]. {160}
Perciò rimanendosi alla espugnazione dei posti più avvantaggiosi difuori, il dì sei agosto movea possente stormo contro il monistero delSalvatore, chiave di quell'assedio, per tener la bocca del porto.Cento Messinesi il difendeano: i quali nè sbigottiti dal numero degliassalitori, nè scossi dal battito della prima affrontata, fieramentecombattendo dalle soglie e da' muri, li ributtarono; tantochè Alaimovenia con freschi combattenti dalla città: e allora più aspramescolandosi la battaglia, con morti ed onta si ritrasse alfine ilFrancese. A questa prima vittoria l'animo de' cittadini oltremodo sirinfrancò. Indi il dì otto, con pari fortuna fu combattuta maggiorfazione al monte della Capperrina; il quale signoreggiando la città dalibeccio, l'avea fortificato Alaimo di steccato e fosso e giustaguardia d'arcieri. Or avvenne ch'essi, come nuova milizia, quel dì aun rovescio di gragnuola e di pioggia spulezzaron da' posti; onde iFrancesi e i Fiorentini, colto il tempo, pronti saliano per gliuliveti, e guadagnavan già l'erta. Seppelo Alaimo; comprese ch'a unaltro istante era perduta Messina; e di tutto fiato si lanciò allariscossa, traendo con sè il popolo: e urtò; e ripigliò il ridotto; ein faccia a' nemici affranti per molta strage, caduta già la notte, alume di fiaccole risarcir fe' le barrate. La notte del Campidoglio fuquesta a Messina. S'eran gli ufici ordinati per tal modo nella città,che scritti in drappelli, dì e notte s'avvicendasser gli uomini avegliare in scolte e poste; girassero in pattuglie le donne.Ritentando i Francesi a notte scura l'assalto della Capperrina,superati chetamente i ripari, abbattonsi in una delle donnescheguardie. {161} Dina e Chiarenza, donnicciuole di cui l'istoriaingiusta ne tramanda appena il nome, salvaron allora la patria: e fuprima la Dina a gridare all'arme, scagliando insieme un masso cheatterrò parecchi soldati; l'altra a martellare a stormo le campane:onde il romore si leva, si spande: «Alla Capperrina il nemico» altroil popol non sa, e nel buio, nel rovinio, non misura il periglio, sìil cerca. Sugli attoniti e delusi nemici piombò col suofortissim'Alaimo; nè solamente rincacciolli, ma saltando fuor dalridotto, borghesi i nostri e a piè, incalzavano fin sotto ilpadiglione di Carlo quei fanti vecchi spalleggiati da cavalli[22].
L'insperata virtù di codesti scontri miracol parve a' nemici, e a'nostri stessi: il che accrescea i miracoli veri e naturali. Donna inbianco paludamento sorvolar lunghesso le mura; stender soave un velocontro a' colpi, e ribatterli; innanti sue divine sembianze cascarl'animo agli assalitori; presi d'un ghiaccio volgersi in fuga; esaette inchiodarli, che il feritor non vedeasi; tribolato anco ilcampo di mortifera epidemia: tanto narravano i nemici soldati a'nostri, facendosi sotto le mura a parlamentare. L'attestavano consacramento per lo Iddio adorato da tutti gli umani, i Saracini stessidi Lucera; e chiedeano una volta qual fosse la diva, e più diceano, senon che surto un subito allarme dileguaronsi. Pertanto tenacissimasurse in Messina, sprone a fatti più egregi, la fede di quest'aitasoprannaturale della Vergin Madre, nella quale teneansi inespugnabili.Sgombro poi che fu l'assedio, alla celestiale proteggitrice alzavanoun tempio nel lieto nome della Vittoria: il miracol tramandossi digenerazione a generazione, e la facile istoria il registrò[23]. {162}
Or narrinsi i miracoli umani: fornite le fortificazioni nel tempestardell'assedio: fatto un popol di soldati: nè età, nè sesso provarsiimbelle: null'opra dura a niuno: vigilie, interminabil disagio,penuria sostenuti senza fiatare: uno scherzo la morte: e più, invidiae discordia incatenate: pensiero in tanta moltitudine un solo, farsalva Messina. In pochi dì, là dov'era accostevole a scale, arduodrizzasi il muro; ove fiacco, si rassoda; ove il luogo nol comporta,steccati, argini di botti, fascine: a giusta distanza dalle cortineesteriori fabbricano un contramuro. E cavan fondamenta, e murano, eassestan travi, e insieme combattono, quanti son umani nella città;vincendo lor passione gl'infermi corpi, le schive usanze, le vanitàdegli ordini. Nobili, giuristi, mercatanti, artigiani, infima plebe,sacerdoti, e frati, e vecchi, e fanciulli all'opra tutti secondo lorposse; intenti ed ansiosi, dice Saba Malaspina, quale sciamech'affatichi intorno a suoi favi. Donne cresciute in dilicatissimovivere, d'ogni età, d'ogni taglia fur viste a gara sudar sotto il pesodi pietre e calcina; e lì, tra il fioccar de' colpi, recarne a'lavoranti; girare per le mura dispensando pane e polenta, dissetandolid'acqua, mescendo vini; e più di belle parole confortavanli: «Animo,cittadini! Nel nome della Beata Vergine, durate alle fatiche. Vi serbialla patria Iddio. Egli il vede e difenderà Messina.» In questo glialtri Siciliani, eludendo l'oste pe' tragetti de' monti, aiutavano lacittà di gente, d'armi, e di vittuaglie. Crebbe la virtù de' Messinesicon l'uopo e coi rischi, durò tutto l'assedio, e più valida ognigiorno rendea la difesa[24]. {163}
Perseverando siffattamente i cittadini, e stando fermo Carlo neldisegno di ridurli senza battaglia, s'aprì una pratica per mezzo delcardinal Ghepardo, ch'entrovvi, richiedente o richiesto (varian su diciò le istorie),[25] e carico certamente di clemenze del papa e delre; ma uom non era da maneggiarle con inganno. Il preso reggimentoportò che i cittadini l'accogliessero con onori di principe, comelegato del pontefice; onde fu condotto tra' plausi alla cattedrale;appresentategli le chiavi della città, e da Alaimo il baston delcomando. Pregavanlo prendesse lo stato nel nome della santa romanaChiesa; desse un reggitore alla città; a questi pagherebbero i tributidebiti al sovrano; ma lungi, lungi i Francesi; dalla terra dellaChiesa li scacciasse per Dio. A che Gherardo, secondo suoi mandati,rispondea: gravissime lor peccata; pure la Chiesa richiamarli conaffetto di madre; a lui commesso di riconciliar {164} Messina col suore, e lietamente il farebbe; ma non parlasser di patti, che non n'èluogo tra sudditi e monarca; sperassero in Carlo, magnanimo, clemente,il quale perdonar saprebbe alla città, serbare i gastighi a' soliefferati omicidi; vano architettar altre pratiche; ubbidissero, e nerimarrebber contenti. «Messina, conchiudea, s'affida nel grembo dellaChiesa; in suo nome la risegno io a re Carlo.» E Alaimo: «A Carlo no,»con voce di tuono proruppe, e gli strappava il baston del comando:«No, padre, vaneggi: i Francesi mai più, finchè sangue e spade avremnoi!» Somiglianti parole in suon di varie voci scoppiarono dallamoltitudine; alla quale invan replicava Gherardo, invan essa a lui:perilchè cessando il negoziato a pien popolo, deputaronsi trenta de'più notevoli cittadini, a cercare in ragionar più queto, qualchestrada agli accordi.
Venian proponendo patti al re disdicevoli, a Messina pericolosissimi,e peggio al rimanente della Sicilia: perdonasse Carlo alla città; glibastasser l'entrate de' tempi del Buon Guglielmo; nè soldato nèministro francese in Messina mettesse pie'; la si reggesse per uomlatino a scelta dal re: dai quali termini il legato non valse arimuoverli un passo. Onde, o ch'ei se ne riferisse al re, e questiricusasse tutt'altri patti che di resa a discrezione, com'alcunoscrive; o che il cardinale conoscesse la mente di Carlo sì addentro danon averla a ricercar nuovamente, risoluto ei disdisse l'accordo; conisdegno grandissimo de' cittadini. E tra i popolani più ardenti, chefremeano e schiamazzavano a tal niego, alcuno drizzandosi a Gherardoil rimbrottò[26]: «Vedi candor di pastori che consiglianti ignudo{165} porgere il collo al manigoldo perch'abbia clemenza! Quante oredura la clemenza di Carlo? Lungi da noi cuor di selce, torti ingegni,insidiose lingue: voi ne vendeste al Francese; ci riscattammo conl'arme noi; ed or che vi offriamo temperata signoria della bellaSicilia, la schifa Martino, e si fa mezzano al Francese, non vicariodel Cristo di mansuetudine e amore. Oh temete, temete la giustizia delCristo! E tu riedi al tiranno angioino, per dirgli che nè lioni nèvolpi mai più entreranno in Messina!» Allibito al minaccevole aspettodel popolo, frettoloso uscia Gherardo; scomunicata pria la città; eingiunto a tutti chierici che in tre dì ne sgomberassero; ai rettoridel comune, che in quaranta dì comparissero a corte del papa[27].
Tacqui d'una epistola di Martino, che Giachetto, il Villani, e laStoria della cospirazione portan come letta da Gherardo a' Messinesi,non riferita punto dagli scrittori degni di maggior fede, e zeppad'ingiurie, fuor dal sonante stile della romana curia, da' concettidella bolla che deputava Gherardo, e dall'oprar tutto del papa e diCarlo in que' primi tempi. Fabbricata la giudico perciò da' dettiautori, che mal intrecciano, com'altrove notai, queste istorie delvespro. Nè meglio regge l'altro supposto[28], che Gherardo suggerissea Carlo d'assentir l'accordo con Messina, {166} e violarlo,insignorito che fosse della città; perocchè s'ai Messinesi spiacquenel caldo di loro speranze la ripulsa del legato, ammirava tutta laSicilia poi, com'afferma Speciale, quel suo onesto e franco negoziare;talchè se l'ebbe in rinomanza di santo[29].
Com'ei scornato e mesto fe' ritorno al campo, tanto furor prese isoldati, assetati della vasta preda della città, che, non aspettatocomando, tumultuosi diero a stormeggiar le mura: e venner indi con piùagevolezza respinti[30]. Bella prova anco feano i nostri ne' minori maordinati assalti rinnovellati poscia ogni dì; perchè Carlo, vedendoche per sole minacce non si piegava la città agli accordi, volle farlesentir più viva la punta del coltello alla gola. Ma ne seguì l'effettocontrario; perchè la vigilanza de' nostri deludea tutt'ingegnidell'inimico; il loro saettame l'affliggea di morti e ferite; lafortuna favorevole in ogni fazione a' cittadini dava a' loro animi lasicurezza della vittoria; ne togliea la speranza ai soldati di Carlo.E invano il re, fatte venir le genti da Milazzo, poneale a campo nelborgo di San Giovanni, ov'oggi, estesa la città oltre l'anticocerchio, è il Priorato e indi il borgo di San Leo, e cosìl'accerchiava da settentrione e da mezzogiorno, ove il terreno pareapiù comodo alle offese; lasciando libero solo l'aspro colle guardatodal castel di Matagrifone. Questo a' Messinesi fu nulla; se non chetemendo pei difficoltati sussidi qualche stremo di penuria, mandaronvia, duro ma inevitabil partito, la minutaglia più inetta all'arme; laquale tapinando per le campagne, cadde, inutil preda, in man deinemici. Con molto lor sangue ritentavan essi poi con forti impeti, ildì quindici agosto la Capperrina, il due settembre le mura asettentrione. Ributtati sempre, sfogarono risarchiando con nuovescorrerie il contado; {167} steser fino alle chiese le mani ladre;manomisero i sacerdoti; trascinarono al campo il sacro arredo, lacroce, la effigie della divina madre, e li barattarono vilmente[31]:atti d'impotente furore, che dovean mostrare a' più veggenti comeCarlo disperasse già dell'impresa.
Acerbe novelle conturbavano l'animo di Carlo: venuto d'Affrica conforte stuolo di navi Pier d'Aragona; cintagli in Palermo la corona delreame; gli animi de' Siciliani avvalorarsi; adunarsi le forze;riguardare all'assediata città, che non fiaccavasi nè per insulto diguerra, nè per fame. A un assalto pertanto si deliberò, universale edestremo[32]. Era il quattordici di settembre. Allo schiarire del dì,appresentossi l'oste a cerchio, dal piano, dal monte in ordinanza, conmacchine e infiniti ordegni; splendenti in lor armature cavalcano perle schiere i baroni; Carlo esorta i suoi a combatter no, sclamava, maa far macello de' vili borghesi. A un tempo l'armata con unatramontana gagliarda, a golfo lanciato investia la bocca del porto; edera primo in fila uno smisurato naviglio, pien d'uomini e di macchine,guernito di cuoia contro i fuochi, il quale col possente urtospezzasse {168} la catena. Ma questa Alaimo avea con maravigliosa curaaffortificato. Schieravansi dentro dalla catena quattordici galeearmate di strenua gioventù, e tramezze sei navi cariche di mangani ealtri ingegni; fuori, s'ascondean tese sott'acqua, grosse reti cherompessero il momento degli ostili navigli: sorgea sulla riva unridotto di forte legname; e in quello munitissimi d'arme i combattentipiù feroci.
Quivi la prima zuffa appiccossi. Difilandosi la maggior nave sopra ilridotto d'Alaimo, impigliasi nelle reti, con sassi e dardi tempestanlai nostri, le gittano i fuochi, le squarcian le vele; e mentre purtenea la battaglia, saltato il vento a ostro, tutta sdrucita esgomenata fu forza che si ritraesse, e la flotta con lei. Il perchètutta la virtù de' difenditori alla parte di terra fu volta; oveterribile e diverso tante turbe portavan l'assalto. Qui a far brecciadrizzano i gatti[33] contro la muraglia, o sottentrano a zapparla dapie'; qui ov'è più bassa, appoggian le scale, approcciano lecicogne[34]; gli altri stuoli co' tiri delle saette fan prova acacciar dallo spaldo i Messinesi. Ed essi rispondeano virilmente conun grandinar di ciottoli e frecce; versavan olio e pece bollente su ipiù innoltrati: gittavan massi e fuoco greco alle scale.Nell'ondeggiar della sorte in sì accanita {169} lotta, asceseroalquanti sul muro; ma non n'ebber che diversa la via della morte, nonbersagliati da lungi, spacciati da petto a petto co' brandi. Alaimosfavillante in volto, corre per ogni luogo, agli steccati, aglispaldi, ov'è maggior l'uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede imovimenti del nimico, regge tutta la difesa, rifornisce gli stanchico' freschi guerrieri, supplisce l'arme, esorta, e combatte. Con essoi condottieri, i cittadini di maggior nome adopran tutti secondo laprova estrema e disperata: in tutto il popolo è una virtù. «VivaMessina e libertà;» e torna la lena a' petti, e s'addoppia il vigorealle braccia, e non è chi curi di colpi e di morte. Nel fitto nembode' tiri vedeansi le donne sopraccorrer franche, piene i grembiali disassi, cariche di saette a fasci, di fiaschi e cibi a ristorare iforti fratelli. E quali mostrando lor bambini in braccio, ricordavanoche li sgozzerebbe quello spietato straniero; e che vedrebbero rapitele sacre vergini, contaminati i casti letti, strage e vergogna, espianata Messina, se fino al l'ultimo fiato non si pugnasse. Cosìinfiammati i nostri da' più santi affetti dell'animo, i nimici daavarizia e paura de' duci, travagliavansi da mattino a vespro; ma lafuria dello assalto indarno contro la nobil cittade si consumò.Stendeasi a pie' delle mura spaventosa ghirlanda di fracassatemacchine, spezzate armi, cadaveri mutili e abbronzati atteggiati inogni più strana convulsione di morte; e fu maggiore assai il macellode' Francesi che degli Italiani dell'oste, perchè, noti alle insegne,men li bersagliavano i nostri. Il re sul limitare della chiesa diSanta Maria, rodeasi di rabbia agli impotenti assalti, quando undottor Bonaccorso[35] l'imberciò dalle mura con bel tiro di {170}mangano. Cadderne due cavalieri francesi, fattisi innanti inquell'attimo per caso, o eroic'atto; e il re lasciava precipitosamenteil luogo, perdendo nell'avversa fortuna quell'indomito suo coraggio.Alfine visto ch'anelanti e sanguinosi d'ogni dove piegavano i suoi eil tristo dì volgeva a sera, fece suonare a raccolta. Un gridorintronò a questo per tutta la corona de' muri; e impetuosamente icittadini saltando fuora, inseguiano i ritraentisi come in rotta,motteggiavanli e ammazzavanli; che infin sotto gli occhi del respogliarono i cadaveri. E seguiva in città un abbracciarsi a vicenda,un lagrimar di gioia, un tripudio cui null'altro al mondo agguaglia.Alaimo, l'eroe di Messina, ricordava le geste, rendea merto a' piùvalorosi a nome della patria, e tra i più valorosi alle donne, dellequali alcuna riportò onor di ferite in quella tenzone. Poco lutto aqueste gioie si mescolò, per aver pugnato i nostri da' ripari. Lanotte uno stuolo condotto da Leucio arrisicatissimo combattitore, connuova strage si saziò dei nemici, sorprese gli assonnati, i desticontenne con la paura, e tornossi carico di bottino.
Indi quanta esultanza nella città, rammarico e spavento lasciava quelsanguinoso giorno nel campo. Qual toro sgarato, dice il Neocastro,gittossi Carlo a giacere, men da fatica che dal cruccio dell'animo: egirava intorno lo sguardo, e vedea scoramento; ripensava a Messina,alla Sicilia, a Piero, e maggiori dispetti il dilaniavano. L'assaltonon rinnovò più mai; ma con forti posti occupò le uscite; pose imangani a scagliar contro le porte una tempesta di sassi[36]. Sceseanco il superbo a tentar la fede {171} d'Alaimo, senza comprendere cheda tanta altezza di virtù non si precipita al più schifo ed esecrandovitupero della tradigione. Offrivagli occultamente: perdonata ognicolpa a Messina, fuorchè a sei de' più facinorosi; a lui diecimilaonce d'oro, rendita di annue once dugento, onori e dignità a suogrado: mandavagli pergamena bianca col suggello reale: Alaimoscrivesse. E Alaimo, fattagli fiera risposta, tornava ad esortare icittadini; tornava a provveder le difese: e a rallegrar la plebeafflitta dallo stretto blocco, apriva i granai occultati daantiveggenza nei primi tempi. Del resto non si patì penuria;sovvenendo anco la pescagione, sì abbondante che Bartolomeo deNeocastro l'appone a miracolo[37]. Messina vincitrice rideasi ormaidell'assedio, quando l'avvenimento di Pier d'Aragona l'accelerò alietissima fine.
NOTE
[1] Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, 62. Queste son le parole, ch'egli mette in bocca a re Carlo.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit. pag. 265.
Giach. Malespini, cap. 210.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 31.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
[3] Docum. VI. La rivelazione di Messina era accaduta il 28 aprile; il 9 maggio Carlo scrisse questa lettera a Filippo l'Ardito. Abbiamo nella citata raccolta di Rymer, tom. I, part. 2, pag. 204, l'avviso che Ferrante di Castiglia dava a re Eduardo d'Inghilterra il 26 maggio della rivoluzione di Sicilia, ma senza particolareggiare i fatti.
[4] Saba Malaspina, cont., pag. 361.
Gio. Villani, Giachetto Malespini, e Cron. della cospirazione di Procida, ne' luoghi citati di sopra.
[5] Bolla in Raynald, Ann. ecc. 1282, §§. dal 13 al 18.
[6]Ave rex Judeorum, et dabant ei alapam; ave rex Judeorum, et dabant ei alapam. Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.
[7] Docum. VII.
[8] Saba Malaspina, cont., pag. 361, Villani, Giachetto Malespini, e la Cron. della cospirazione nei luoghi citati.
[9] Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 20.
La bolla è data d'Orvieto a 4 giugno 1282.
[10] Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.Post corruptionis amara discrimina, pag. 26 e seg.
[11] Saba Malaspina, cont., pag. 367.
[12] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64, 65.
Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, pag. 88.
Anon. chron. sic., cap. 39.
Saba Malaspina, cont., pag. 367, 368, 381.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 270.
Montaner, cap. 43.
Bart. de Neocastro, cap. 32.
D'Esclot, cap. 82.
Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
Diversamente essi riferiscono il numero dell'oste. Barlolomeo de Neocastro, magnificator delle lodi messinesi, porta 24 mila cavalli e 90 mila fanti. Speciale novera soltanto le navi a 300. L'Anonymi chron. sic. dice solo:cum magno, immo cum maximo exercitu. Il Villani dà a Carlo «più di 5 mila cavalli e popolo senza numero», e 130 legni grossi, senza contar gli altri di servigio. Saba Malaspina, cont., pag. 381, 60 mila fanti dopo le stragi dell'assedio. Montaner 15 mila cavalli, e 100 navi, e fanti senza numero. D'Esclot 15 mila cavalli, 150 mila fanti, e 80 tra teride e galee, senza i legni minori, nè le grosse navi. Il frate autore delle Geste de' conti di Barcellona, a cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio, dice 14 mila i cavalli di re Carlo. Scrivean 60 mila fanti e 22 mila cavalli gli Annali di Genova, aggiugnendout comuniter fertur ab omnibus. In questo luogo degli Annali di Genova è da notare che, certo per error di copia o di stampa, si dice portato quest'esercito dalDictus vero rex Petrus, quando il capitolo parla dell'Angioino, e dello sbarco a Santa Maria di Roccamadore; e di re Pietro avea già narrato l'arrivo a Trapani, e tante altre particolarità da non lasciar luogo a dubbio. La Cron. an. sic. porta 15 mila cavalli.
[13] Bart. de Neocastro, cap. 31.
[14] Bart. de Neocastro, cap. 32 e 34.
[15] Bart. de Neocastro, cap. 33, 35, 36.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.
Dei quali il primo porta 500 cavalli e 5,000 fanti su 35 tra teride e galee; il secondo con maggiore verosimiglianza, 1,000 uomini su 60 navi; e l'altro 800 cavalieri e più pedoni.
Saba Malaspina, cont., pag. 373, porta 500 cavalli e 1,000 pedoni, ma riferisce questa fazione come avvenuta dopo il cominciamento dell'assedio di Messina. In questo s'accordan con esso Gio. Villani, e la Cron. della cospirazione, loc. cit., pag. 266.
A me è parso, quanto al tempo, seguir Neocastro e Speciale, sì per esser nazionali, e sì perchè non è probabile che i Messinesi quando furono assediati da tanto esercito, volessero o potessero mandar gente alla difesa di Milazzo.
I documenti che è venuto fatto di trovare ai tempi presenti, aggiungono molta fede all'autorità del Neocastro e dello Speciale, attestando irrefragabilmente molti particolari riferiti da loro. Tale il riscatto di Arrigo Rosso, di cui il Neocastro. Si ritrae dal diploma ch'io pubblico nel docum. XII, e da un altro dato di Avellino il 26 marzo 1284, che al par di moltissimi altri citerò senza pubblicarlo, per non raddoppiar la mole di questo libro, che non è codice diplomatico. La somma di tal diploma del 26 marzo, tratto come il primo dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A. fog. 125, a t. è questa: «per misericordia» abbiam liberato Arrigo Rosso da Messina, preso nel conflitto di Milazzo: egli ha domandato quetanza dall'amministrazione della Segrezia di Calabria che un tempo maneggiò, ed ha offerto a ciò mille once: accettiamo il danaro, e accordiam la quetanza.
Ma notisi che l'ordine della liberazione è dato il 29 marzo, e la quetanza per le mille once il 26, nella quale si dice, per salvar le apparenze, essersi già messo in libertà il prigioniero. Il ripiego fu trovato naturalmente perchè non volea confessarsi riscatto per un cittadino non preso, come credeano gli angioini, in giusta guerra, ma ribelle colto con le armi alla mano.
[16] Bart. de Neocastro, cap. 36 e 37.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
[17] Diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.
Diploma del ….. 1282, nei Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 117.
Si ritrae che questo nobil uomo era stato nel 1274 giustiziere in Principato e terra Beneventana, da un diploma di agosto 1274, pubblicato dal sacerdote Buscemi nella vita di Giovanni di Procida, docum. 4, sopra una copia ms. della Bibl. com. di Palermo, cavata dal r. archivio di Napoli; nella quale è l'errore:Alaymo de Lentini militi Justitiario Principatus et Terræ Laboris in vece diTerre Beneventane, come dice l'originale, ch'io ho riscontrato nel registro segnato 1273, A, fog. 267 a t.
In un altro diploma del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1270, B, fog. 9, a t. in data del 29 ottobre 1279, per alcune prestazioni alla chiesa di Messina, si legge al margine:Alaymo de Lentini et sociis secretis Sicilie. Donde si conferma che Alaimo era nobile uomo, adoperato ne' maggiori ufici dello stato, e ricco da prender in affitto quel della Segrezia. Un altro diploma del penultimo febbraio 1278, r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 141, è indirizzato a Giovanni di Lentini milite, consigliere e famigliare del re: e questo Giovanni si vede portulano e procuratore di Sicilia in molti altri diplomi dello stesso anno 1278, reg. citato, fog. 96, 137, 138, ec.
[18] Bart. de Neocastro, cap. 38.
Gli Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, portan lo sbarco a 3 agosto, forse confondendolo col cominciamento degli assalti.
Saba Malaspina, cont., nota come le ciurme si dessero a mangiar le uve già mezzo mature per la bella esposizione del luogo; il che ne' primi di luglio non potea certo avvenire.
E ciò sempre più mi conferma della poca fede che meritino il Villani e i suoi guidatori, o seguaci in queste istorie del vespro.
D'Esclot, cap. 82, dice senza data lo sbarco aSanta Maria de Rocha-Mador.
[19] Bart. de Neocastro, cap. 38.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5 e 7.
Saba Malaspina, cont., pag. 368 e 369.
D'Esclot, cap. 82.
Il Neocastro dice, che in questa torricella si ascondeva unpantaleone. Forse era nome proprio di quelli che si davano alle macchine, come oggidì alle navi e alle campane. D'Esclot, cap. 42, e Buchon, nota, pag. 597, ed. 1840.
[20] Ribaldi si diceano i saccomanni, o i soldati più vili. Questa voce appunto in sua latinità adopra lo Speciale.
[21] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 6.
Saba Malaspina, cont., pag. 369-70.
Giachetto Malespini, cap. 211.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 68.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 268.
Fra Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 21, cap. 6, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
[22] Bart. de Neocastro, cap. 39. Si noti che qui e in altri luoghi io talvolta riporto le parole medesime dello storico contemporaneo, là dove mi sembrano più vivaci.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 68.
[23] Bart. de Neocastro, cap. 40.
Rocco Pirri, Sicilia Sacra, tom. I, pag. 407.
[24] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 7.
Saba Malaspina, cont., pag. 372.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 6º.
Giachetto Malespini, cap. 211; i quali due trascrivono il principio della canzone:
Deh com'egli è gran pietate Delle donne di Messina, Veggendole scapigliate Portando pietre e calcina. Iddio gli dea briga e travaglia A chi Messina vuol guastare, ec.
Bart. de Neocastro, cap. 42, narrando un assalto dato alla città, fa menzione degli stessi particolari.
Gli aiuti delle altre città confermansi da un diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131, nel quale si legge il titolo:Tempore dominii sacrosanctae Romanae Ecclesiae, et felicis Communitatis Messanae anno primo. Nos Alaimus de Leontino, Miles, Capitaneus civitatum Messanae, Cataniae, et a Tusa usque ad Aguliam Augustae; consilium et comune praedictae civitates Messanae, etc.
Per questo fu accordata ai cittadini di Siracusa nel comune e distretto di Messina, la franchigia delle dogane, dritti di pesi e misure, e altre gravezze, in merito d'aver mandato giusta forza di cavalli e di fanti, nel presente assediodell'ingente esercito di re Carlo, e d'aver tenuto fede a Messina.
[25] Bart. de Neocastro tien la prima di queste opinioni; Giachetto Malespini, seguito dal Villani e dalla Cron. an. sic., la seconda; Saba Malaspina, senza dir nè l'uno nè l'altro, porta il fatto della venuta del cardinale a Messina.
[26] Saba Malaspina, cont., pag. 371, scrivequidam Antropi cives archipopulares. Alla interpretazione dell'Antropi indarno mi sono affaticato. L'egregio mio amico G. Daita, professor di eloquenza in Palermo, giovane d'alto ingegno e molta perizia nelle lettere latine, pensa che con quella voce, che in greco suonauomo, Malaspina volesse significar filantropi, o veramente scaltri, bravi, uomini di tutta botta. Io aggiognerei che forse l'Antropi (che si vede così con la prima lettera maiuscola nel testo pubblicato dal di Gregorio) potrebbe essere nome proprio di qualche famiglia.
[27] Bart. de Neocastro, cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag 370-71.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 66 e 67.
Giachetto Malespini, cap. 211.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 267.
Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.
La risposta d'Alaimo, e le rampogne de' Messinesi al legato quando si ruppe il trattato, l'ho cavato in gran parte da Neocastro e da Malaspina.
[28] Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.
[29] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.
[30] Saba Malaspina, cont., pag. 371.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 371-72-73.
Di questo tempo v'hanno nel r. archivio di Napoli pochi diplomi, com'è ben naturale. Ne noterem tre, i quali se non ispargon molta luce su i fatti che narriamo, servono ad attestare la permanenza di re Carlo nel campo. L'uno è datoin castris in obsidione Messane, a 3 settembre undecima Ind. (1282) per armenti in terraferma; l'altro nello stesso luogo il 10 settembre per alcuni cavalieri mercenari, reg. segnato 1283, E, fog. 1 e 14. Ibid., a fog. 14 si legge un diploma più importante, con la stessa data del campo sotto Messina a 7 settembre. Carlo rifiutava tre galee di Marsiglia che voleano entrare ai suoi soldi, e diceva egli averne pur troppe. Su queste galee la principessa di Salerno sua nuora, era andata da Marsiglia fino alla riviera di Genova, ove sbarcò per venire a Napoli per terra col marito. Le galee erano andate anco a Napoli, e s'offrivano ai servigi del re.
[32] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
[33] Stromento da batter le mura, che terminavasi in un capo di gatto, come appo gli antichi l'ariete.
Chiamavasi anche gatto una fortissima tettoia mobile su ruote o altrimenti, di che coprivansi gli assalitori mentre percotean le mura. Era la tettoia di grosse travi a graticcio, coperta di assi, e foderata di cuoio, e talvolta anche sormontata di uno strato di terra, da scemare e sostener l'urto di ciò che gettasser d'in su i muri gli assediati. Vedi d'Esclot, cap. 161 e seg., e Bartolomeo de Neocastro, cap. 110, che ne fanno menzione, l'uno nell'assedio di Girona, l'altro in quel d'Agosta.
[34] Torricciuole di legno mobili su ruote interiori. In cima v'era congegnata una lunga trave, che serviva di ponte agli assalitori, calandosi sul muro quand'era approcciata la torricella. Questa così somigliava a una cicogna che stenda il lungo collo; e propriamente si chiamava cicogna o telone la trave. Veg. Niccolò Speciale, lib. 3, cap. 22, nell'assedio del Castel d'Aci.
[35] Bartolomeo de Neocastro dicemaestro. Questo vocabolo aggiunto a titoli d'uficio era dignità: maestro giustiziere, maestro de' conti; aggiunto ad arte avea il significato che oggi conserva in Italia. Ma par che ai soli dottori in medicina o altra scienza si dicesse assolutamente maestro, in titolo d'onore: di che, per lasciar le tante memorie pubblicate e notissime de' secoli XIII e XIV, citerò solo le numerose cedole reali ad avvocati, medici, e cerusici, chiamati tutti assolutamentemagister, ch'è appuntoil dottore o professore d'oggidì.
[36] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
Bart. de Neocastro, cap. 42.
[37] Bart. de Neocastro, cap. 43.
CAPITOLO VIII.
Cagione della debolezza del governo preso nella rivoluzione. Si pensaa Pier d'Aragona. Sua partenza di Catalogna per Affrica; fattimilitari; ambasceria a Roma. Parlamento in Palermo, che sceglie Pietroa re. Com'ei guadagna gli animi de' suoi, e accetta la corona. Viene aTrapani. È gridato re in Palermo. Disposizioni per soccorrer Messina;oratori di Pietro a Carlo; ultimi fatti d'arme nell'assedio. Carlo senritrae con perdita e onta. Giugno a settembre 1282.
Degno argomento è di considerazione come venendo re Carlo sopra laSicilia, debolmente qui si reggesse lo stato, poco appressorivoluzione sì violenta, e mentre le municipalità vigorosamenteoperavano. Perciocchè in queste gli uomini, vedendosi in viso,s'intendean tra loro molto vivamente ne' bisogni comuni; e i capitanie i consigli di popolo lor forze drizzavano a pronti fatti. Ma nellanazione, i parlamenti gridando il nome della Chiesa s'eran rimasti dalcreare una signoria, o, come oggidì suona, potere esecutivo; e indimancava nel maggior uopo la virtù del comando. Non ebbela ilparlamento, perchè non si fe' permanente; e perchè d'altronde lariputazion dello stato, passando in questo tempo dai popolani ne'nobili, nell'atto del mutamento non era forte in alcuno. Dapprima, ildicemmo, tutto fu brio di repubblica, e ordini democratici. Poi,dileguandosi quella spinta, la parte baronale preponderò, perl'avvantaggio delle sostanze, e le consuetudini degli uomini; e perchèall'ostil contegno di Roma, agli armamenti di re Carlo, il popolo nonpensò più a tenere il governo dello stato, ma soltanto a fuggirl'empio giogo; onde affidossi a coloro che sopra ogni altro pareansavi e possenti. Perciò al primo capitan di Messina succedea Alaimo, echiamavanlo allo stesso uficio tutte le terre per gran tratto dellecostiere di settentrione {173} e levante; perciò Macalda, moglied'Alaimo, ne tenea le veci in Catania[1]; perciò se nei primiparlamenti leggiam solo di sindichi e capitani di popolo, vantaSpeciale in cotesti successivi la frequenza degli adunati nobili esavi personaggi[2]. La quale mutazione condusse a un'altra maggiore.Degli ottimati, alcuni per le pratiche anteriori tenean forse aPietro: riconosceano i più il dritto della Costanza: tutti lamonarchia più che la repubblica amavano; nè vedeano in tanto pericoloaltro migliore partito che ubbidire ad un solo. A chiamarlo inteserodunque; e in ciò affidati si rimaser da tutt'altro generosoimprendimento, mentre Messina fortuneggiava, e con lei la comunlibertà. Solo con le forze che vi s'eran chiuse, e con quegli spessiardimenti di trafugarvi armati e vivanda[3], soccorreanla, chè tenessecontro l'esercito nemico infino all'avvenimento del re d'Aragona.
Questi diversi umori de' popolani e de' nobili, questo mutamento dellostato da' primi ne' secondi, richiedendo e tempo e opportunecircostanze al pien loro effetto, ne seguì che irresoluti e divisiondeggiarono i Siciliani a lungo sul partito di chiamar l'Aragonese.Le pratiche s'incominciaron private ed occulte da' partigiani, non inmodo pubblico dalle città. Indi vaghe notizie abbiamo del primoappicco di quelle; che i diversi scrittori diversamente narrano,perchè pochi potean saperne, o amavano a dirne il vero[4]. Ma certo e'pare che Pietro dopo la rivoluzione caldamente {174} si fece a brigarqui coi suoi partigiani per usarla a suo pro; e ch'ei della Siciliaavea brama assai più ardente, che non la Sicilia di lui.
S'armava e tacea tuttavolta il re d'Aragona, quando l'isola sisollevò; restando sepolti per sempre in quel cupo animo i primitividisegni; che tal non sembra la finta guerra d'Affrica, perch'ei nonavrebbe operato da savio a tacerla sì pertinace al papa e a reFilippo, con certezza di fomentare i sospetti. Ritraesi inoltre, chesegretissime pratiche avesse ei tenuto col principe di Costantina; ilquale minacciato dal re di Tunisi, gittavasi a implorar cristianiaiuti, e a Pietro[5], profferia riconoscerlo per signore, e aprirglila via a larghi acquisti in Affrica, dove alle armi d'Aragona sisarebber voltati i moltissimi cristiani che a' soldi di Tunisimilitavano[6]. Sia dunque che Pietro tentasse doppio gioco, d'Affricae di Sicilia, o che macchinasse quella impresa come scala aquest'altra, cominciò a scoprirsi alquanto con mandare un oratore achieder al papa aiuti per guerra contro Saraceni: a che nonrispondendo Martino[7], l'Aragonese in fin di primavera, {175} quandogli erano pervenuti senza dubbio gli avvisi de' fatti di Sicilia,affrettò ogni suo apparecchiamento alla guerra. L'opra d'un mese, diceMontaner, in otto dì fornivasi sotto gli occhi del re. Adunossipicciola forza di cavalli, e molta di eletti fanti leggieri[8]: la piùparte dell'oste si trovò a porto Fangos presso Tortosa il dì ventimaggio[9]: e allor Pietro con estrema cura ogni cosa ordinòall'assetto della regia casa e del regno. Accelera il matrimoniod'Alfonso suo con Eleonora figliuola d'Eduardo I d'Inghilterra;deputando i vescovi di Tarragona e di Valenza a dare per lui ilpaterno assentimento[10]. Destina a reggenti dello stato il medesimoAlfonso e la regina Costanza. Fa testamento, con istituire Alfonsoerede de' reami d'Aragona e Valenza e del contado di Barcellona: eleggiamo ancora che di presente ne cedea la sovranità al figliuolo,chiamando in gran segreto testimoni alla rinunzia, Pietro Queralto,Gilaberto de Cruyllas, Giovanni di Procida, Blasco Perez de Azlor, eBernardo de Mopahon; atto consigliato da antiveggenza dì ciò cheavrebbe fatto contro di lui la corte di Roma, o piuttosto finto dopola deposizione, per eluderla nelle forme, e mostrar ceduta la coronaal figliuolo, innanzi che il papa si avvisasse strapparla alpadre[11]. Il tre giugno {176} infine[12], accomiatatosi dalla reina,e benedetti con molta tenerezza i figliuoli, salpa con l'armata: edera tuttavia {177} segreta l'impresa. Discosto che fu venti miglia,l'ammiraglio percorrendo sur un battello tutte le navi, fè volgere aporto Maone; diè ad ogni capitano un plico suggellato da aprirsi poiall'uscir da quel porto. Stettervi pochi dì finché, avuti avvisi daCostantina, Pietro comandò di far vela: e allora l'almossariffo diMinorca, saracino e minacciato sempre dalle armi d'Aragona, appostosial vero disegno dal corso delle navi e altri indizi, ne mandò avvisoin Affrica per una saettia, che passò inosservata oltre la flottacatalana[13]. Arrivò questa il ventotto di giugno[14], con dieci ododici migliaia tra fanti e cavalli[15], al porto di Collo[16] nellaprovincia di Costantina. {178}
Trovò Pietro mutata quivi ogni cosa per l'annunzio precorso, oloquacità del Saraceno alleato, o tradimento altrui. Abbandonato erain Collo il porto, e la città: e da mercatanti pisani seppe indi apoco, ucciso il signore, e Costantina in man dei nemici: ma quanto piùperduta parea l'impresa, tanto più per grand'osare e gran vedere eirifulse innanti i Catalani, e con la gloria si cattivò quegliindipendenti animi. Al veder solinga e muta la spiaggia, il soldatotemea frode de' barbari; esitava fino al predare; e negava entrarnella terra, se non era pel re. Tutto solo con un compagno si fa eglialle porte; smonta di cavallo, mette l'orecchio a fior di terreno percoglier qualche leggiero rimbombo: e fatto certo che persona viva nonv'ha, rassicurando i suoi, entra egli primo. Solo indi, o con pochi,cavalcava a riconoscere il paese; con pronte arti rafforzava il campo;guardava i passi; spiava ogni movimento dei nemici: e venendosi allemani, tra i più feroci quasi temerario pugnava. Le geste non ci faremoa narrare, scorgendone le memorie maravigliose tutte, e diverse traloro; perchè gli ambasciadori mandati al papa, o i soldati cheraccontaronle o scrisserle, ingrandian favoleggiando le migliaia dimigliaia di barbari; gli spaventevoli scontri; il macello; la virtùdei fedeli; i memorabili fatti de' baroni dell'oste. La somma è, cheda religione e abborrimento di violenza straniera, le torme de'cavalli arabi piombaron su i Catalani, che li avanzavano d'arte ed'animo e li respinser indi con molta uccisione. Ma non bastavan essinè ad espugnar Costantina, nè ad innoltrarsi altrimenti nel nimicopaese[17]. {179}
Dopo questi fatti d'arme, nuov'arte, suggerita da Loria e dagli altriusciti italiani, divisava il re ad aggirar le genti sue; e insiemetener a bada il papa, che non vibrasse anzi tempo i suoi colpi;onestare appo gli altri potentati la meditata impresa; vincer leultime dubbiezze in Sicilia. Chiamati i principali dello esercito, diloro assentimento inviò al papa con due galee Guglielmo di Castelnuovoe Pietro Queralto, che sponessero la sconfitta degli infedeli, echiedessero i favori soliti in tali guerre: legato apostolico; bandodella croce; protezion della Chiesa sulle terre del re e de' suoi inIspagna; e le decime ecclesiastiche, raccolte già e serbate. Questegrazie, ei pensava, consentite renderebbel sì forte da potersi scoprirsenza pericolo, negate darebber pretesto a volgersi ad altraimpresa[18]. Ma gli oratori navigando d'Affrica a Montefiascone, ovepapa Martino fuggiva il caldo della state, o i romori già surti inItalia contro parte guelfa[19], approdarono, come se sforzati da'venti, in Palermo; mentre i baroni e i sindichi delle città ragunati aparlamento, in gravissima cura si travagliavano[20].
Nella chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio, bel monumento de' tempinormanni, ch'or addimandasi della Martorana, sedeva il parlamentocosternato e ansioso per {180} l'assedio di Messina, trovando scarsitutti i partiti, e dall'uno correndo all'altro, com'avviene negliestremi pericoli. E parlava alcun già da disperato di fuggir dallamisera patria, quando il Queralto, testè arrivato, appresentossi inparlamento a mostrare una via di salvezza: chiamassero al regno Pierd'Aragona, principe di gran mente, di gran valore, vicino con genteagguerrita, spalleggiato da indisputabili dritti alla corona. Messoquesto partito dunque tra i consapevoli e gli sbigottiti, d'un subitofu vinto; deliberandosi d'offrire a Pietro la corona, a pattoch'osservasse tutte leggi, franchige, e costumi del tempo di Guglielmoil Buono, e soccorresse la Sicilia con le sue forze fino a scacciarnei nimici[21]: del quale messaggio mandavansi apportatori in Affricacon lettere e pien mandato di tutte le siciliane città, NiccolòCoppola da Palermo e Pain Porcella catalano[22]. Bartolomeo deNeocastro aggiugne {181} fede alle sollecitazioni del re d'Aragona ealle disposizioni degli animi nel parlamento, col narrarsemplicemente[23], che Giovanni Guercio cavaliere, il giudiceFrancesco Longobardo professor di dritto, e il giudice Rinaldo de'Limogi, inviati già prima da Messina a Palermo per trattar la chiamatadi Pietro, avvenutisi in Palermo con gli oratori del re, speditamenteil negozio ultimavano. Mentr'ei così scrive, il semplice Anonimo portail Queralto approdato per caso in Palermo; e il cortigiano Speciale ofavoleggia o simboleggia d'un vecchio ispirato, fattosi di repente nelcosternato parlamento ad arringare. Ma niuno non vede che nè fortuitocaso fu, nè miracolo questo meditato colpo di scena, sviluppo dellepratiche de' nostri ottimati con re Pietro. Se tramaron essi fin daitempi di Niccolò III, se v'ha parte di vero ne' maneggi del Procida inSicilia, trionfava in questo parlamento, non già nel vespro, l'anticacongiura.
Giunti Castelnuovo e Queralto a Montefiascone, lietamente li udì ilpapa; per vero credendo rivolto addosso a' Mori quel sospettatoarmamento del re; ma non assentia di leggieri le inchieste,avvolgendosi negli indugi della romana curia; e dicea le decimeecclesiastiche servire a' soli luoghi santi, non a tutta guerra controSaracini: tanto che gli ambasciadori, sdegnati o infingendosi, toltocommiato appena, tornavansi in Affrica[24], ammoniti forse dacardinali nimici a parte francese, che Pietro nulla sperasse da papaMartino, ma pensasse egli a' suoi fatti[25]. E in Affrica già aveanogli oratori siciliani con accomodate parole {182} offerto a Pietro iltrono[26]; ed ei sceneggiando avea replicato: gradire questa lealtà alsangue svevo: stargli a cuore la Sicilia: pure gli desser tempo arisolversi su partito sì grave. Rappresental tosto, dissimulando quelsuo ardentissimo desiderio, agli adunati baroni e notabili delloesercito; tra' quali chi consigliava l'andata al bello e facileacquisto, e chi dissuadeala, mostrando: provocherebbe sul reamed'Aragona l'ira del papa, le armi di Francia; per ambizione di novellacorona metterebbesi a repentaglio l'antica; essere Carlo potentetroppo; e le genti di Aragona use a battagliar co' Mori, non controcavalleria sì forte; rifinite chieder la patria e il riposo; ripugnarea una aggression sopra cristiani: e d'altronde come prenderebbesiguerra sì grande senza la sovrana autorità delle corti di Catalogna eAragona? A quegli ostacoli tacque parecchi dì Pietro, nè fiatò perchèmolti, senza tor pure commiato, facean ritorno in patria[27]: malavorando occulto, prese a poco a poco gli animi de' principalidell'oste. Quando ne fu sicurato, rispondeva agli oratori di Sicilia:accettar la corona secondo gli ordini del buon Guglielmo, e prometterela difesa[28]; scrivea al re d'Inghilterra, e forse {183} anco adaltri potentati, lasciare pe' nieghi del papa la guerra soprainfedeli, e chiamato in questo dalle città di Sicilia, andarvi arivendicare i dritti della Costanza e dei suoi figli[29].Risolutamente poi comanda la partenza, con ciò che libero sia ciascunoa rimanersi; che se i compagni d'arme l'abbandonino, ei solo andrà.Per queste arti, seguito da' più, con ventidue galee, una nave, ealtri legni minori, e poche forze di terra diè ai venti le vele[30].
Il dì penultimo d'agosto, dopo cinque di viaggio, prese terra aTrapani, con giubilo grande del popolo, e maggiore de' nobili,affaccendati a gara nelle cerimonie della corte che quel dì risorgeanoin Sicilia: e baroni montarono sulla nave del re, lo addussero acittà, resser su quattro lance il pallio di seta e d'oro sotto ilquale egli incedeva; e fu più lieto chi tenne le redini del destriero;gli altri a piè seguianlo, e con essi giovanetti e donzelle, danzandoe cantando al suon di stromenti; il popolo a gran voce: «Benvenuto,gridava, il suo re, mandato dal Cielo a liberarlo dall'atroce nemico.»In queste prime allegrezze Palmiero Abate il presenta di ricchi doni,e largamente dispensa grano alle soldatesche. Pietro cavalcò ilquattro settembre alla volta della capitale: mandovvi con l'armata ele bagaglie Ramondo Marquet. E quivi a maggiori dimostrazionis'abbandonò il popolo, più frequente, e stato primo nella rivoluzione,onde peggiore aspettavasi la vendetta angioina. Per ben sei miglia sifece incontro al principe, il menò a trionfo, e all'entrare in cittàsì forte surse {184} il plauso della moltitudine, il grido de'soldati, e lo squillo delle trombe, che rintronò, scrive SabaMalaspina, fin a Morreale, città a quattro miglia in sul poggio alibeccio di Palermo. Con tal gioia andò Pietro in palagio; ebber lesue genti larga ospitalità per le case de' cittadini[31].
Ma da' festeggiamenti, le luminarie, le ferie de' lavorieri, e ipresenti di danaro, che Montaner dice ricusati dal re, si venne asolennità più augusta. Al terzo dì, scrive d'Esclot, adunavasi inPalermo il parlamento de' baroni, cavalieri, e rappresentanti dellecittà e ville. Ai quali Pietro domandava, se per vero deliberatoavessero la profferta della corona fattagli in Affrica dagliambasciadori: e un cavaliero rispondea di sì; e poichè tutto ilparlamento a una voce l'assentì: «Degnisi ora il re, ripigliava quelcavaliero, accordar le franchige de' tempi del buon re Guglielmo, elascerà memoria di sè gratissima, eterna, e cattiverà i Siciliani aogni voler suo.» Pietro accordolle; e ne promesse i diplomi. Alloratutti i parlamentari levandosi in piè, gli giuravano fedeltà; un granbanchetto imbandivasi al re e a' cavalieri[32]. Ma non credo vero,com'altri scrive, che indi si cingesse a Pietro la corona {185} dei redi Sicilia, e che tal cerimonia fornisse il vescovo di Cefalù[33].Allora a nome della Sicilia indirizzossi al papa un {186} altro nobilescritto, più misurato della prima rimostranza; come portava il novellogoverno regio e baronale. In esso, replicate a lungo le enormezzedella tirannide straniera, toccossi della signoria profferta dopo ilvespro al sommo pontefice, e ricusata; onde la nazione s'era volta adaltro principe; e il sommo Iddio, in luogo del vicario di san Pietro,un altro Pietro, scherza così lo scritto, aveale mandato. Con ciòricordarono a Martino severamente, ch'ei francese, sulla cattedradell'apostolo dovea ascoltare la verità, non le passioni di parte; nèa dritta piegar nè a manca; nè proceder contro i Siciliani sìtempestosamente[34]. {187}
Ristretti in questo mezzo col re i più intinti nella rivoluzione, etutti gli esuli del regno di Puglia, affollantisi pieni di speranzaalla nuova corte, deliberavan sulle fazioni da imprendere contro ilnemico[35]. Del che eran tanto più solleciti, quanto ne' privatiragionari si mormorava già la trista sembianza della gente catalana;male in arnese; lacera e abbronzata ne' travagli d'Affrica; ondechè inostri poc'aiuto la estimaron dapprima contro i cavalier francesi, nèse ne sgannarono che ai fatti[36]. E però avvisatisi di farassegnamento sulle lor sole braccia, e su' militari consigli del re,ansiosamente chiedeano i Siciliani d'esser condotti a Messina; che atutti tardava liberar la generosa città[37]. Pietro usando questoardore, allor mandò intorno la grida: che tutt'uomo da' quindici annia' sessanta si trovasse in Palermo entro un mese, armato, e convivanda per trenta dì[38]. Ed ei con molta prestezza con le miliziepiù spedite mosse per la strada di Nicosia e Randazzo; seguendolo,ciascuna come potea, le altre schiere che s'ivano adunando: e feceveleggiare il navilio alla volta del Faro. Manifesto disegno eradunque affamar Carlo nel campo, tagliandogli per mare le comunicazionicon la Calabria, e su pei monti ogni via a foraggiare nell'isola; ilqual consiglio appone a Giovanni di Procida chi il fa protagonistadella tragedia del vespro. Con certezza istorica si sa che Pietro,disposte così le forze, bandiva solennemente la guerra; e a Carlo aquest'effetto spacciava Pietro Queralto, Ruy Ximenes de {188} Luna, eGuglielmo Aymerich, giudice di Barcellona, con giusta scortad'armati[39].
Per due frati carmelitani domandaron costoro salvocondotto a reCarlo[40]; il quale sognando potere in brev'ora parlar da vincitore,ai frati rispondea darebbelo a capo a due dì; e comandava quelgenerale assalto del quattordici settembre, che gli tornò sì funesto.Al secondo dì dalla battaglia, ancorchè giacesse in letto, tuttorappigliato, spossato, affranto, arso d'infermità e peggio dirabbia[41], assentì a veder gli ambasciatori, che già venuti al campo,e cortesemente raccolti con grossiera ospitalità, sotto guardiastrettissima aspettavano[42]. Ammesso Queralto dinanzi al re sedentein letto su ricchissimi drappi di seta, presentò le credenziali; eCarlo a lui, troncando le cerimonie: «Alla buon ora di' su;» e datagliun'altra lettera di Pietro, senza guardarla, gittavala sulle coltri;ardea tutto d'impazienza {189} aspettando il dir del Catalano. Perciòquesti brevemente si fe' ad esporre l'ambasciata del suo signore,richiedente il conte d'Angiò e di Provenza che lasciasse la terra diSicilia, a torto occupata, atrocemente manomessa, in cui aiuto il red'Aragona s'era mosso come signor naturale, pel diritto dei suoifigliuoli. A queste parole, i brividi della febbre preser l'anticomonarca; convulso ammutolì. Poi rosicando il bastone, com'ei solea persoperchio furore, interrotto e minaccioso rispondea: non esser laSicilia nè sua, nè di Pietro d'Aragona, ma della santa romana Chiesa;ei difendeala, e saprebbe far pentire il temerario occupatore. Questeed altre superbissime parole, secondo altri cronisti, scrisse aPietro[43]. E intanto per far sembiante di non curare, o per ingannarloro e i Messinesi, lasciò {190} andar alla città gli ambasciadoristessi a profferir tregua d'otto dì. Fu vano, perch'Alaimo nonconoscendo i legati, {191} li ributtava; ond'eglino tornavano al campofrancese, ed eranvi senza risposta intrattenuti finchè il campo silevò. {192} I Messinesi poi, che non avean creduto a Queraltol'avvenimento del re d'Aragona[44], n'ebber certezza entro pochi dìper Niccolò de' Palizzi messinese e Andrea di Procida, entrambi nobiliusciti, mandati dal re in lor soccorso con cinquecento balestrieridelle isole Baleari. Costoro, valicati {193} per tragetti e alpestrisentieri i monti a ridosso alla città, da quella banda non istrettaper anco da' nemici, di notte appresentaronsi alla Capperrina; ericonosciuti i condottieri, e con grande allegrezza raccolti,spiegavan su i muri lo stendardo reale d'Aragona[45].
Già fin dal primo arrivo degli ambasciadori, teneano i nemici novelloconsiglio, a disputare non più dell'assalto o blocco della città, madella lor propria salvezza. Perciocchè sapendo per sicura spia uscitedal porto di Palermo molte galee sottili armate di Catalani eSiciliani, Arrighin de' Mari, ammiraglio di Carlo, rimostravaglivivamente non potersi difendere; in tre dì sarebbegli addosso ilnemico ad affondare e bruciare i trasporti[46]. Quant'aspro il caso,apparvero diverse allora le menti. Affrontar la flotta ad un tempo, ecorrer sopra il re d'Aragona: accamparsi in alcun forte sito presso lacittà co' balestrieri mercenari, accomiatando le milizie feudali:prender pria de' nemici i passi de' monti: star all'assedio tuttaviacon l'esercito intero, finchè consumasser la vivanda, che n'avean ancoper due mesi; tra disegni sì fatti vagavano i parlatori più feroci.Pandolfo conte d'Acerra, e molti con lui, mostran all'incontrodileguata ogni speranza di ridur la città con quell'esercitoscoraggiato, stracco, assottigliato per morbi {194} e partenza di grangente ch'avea fornito il servigio feudale: ma le genti nemicheinanimirsi, ingrossare per la riputazion del re d'Aragona: ben costuisaprebbe adoprare i Siciliani su le montagne: e il mare, il mare trale autunnali tempeste il terrebbero i nimici, padroni di sicurissimoporto: romperebbero i legni napoletani su quelle aperte spiagge: eintanto chi raffrenerebbe Reggio, invasa già dagli umori dellaribellione? E come ritrarsi poi se la estrema Calabria tumultuasse?Esausta aggiugnean la Calabria di viveri: il paese intorno Messina,fatto da loro stessi un deserto: per fame e avvisaglie perirebbel'esercito, assediato alla sua volta tra 'l mare, i monti, e quellaindomabile Messina. Per tali ragioni, dietro dibatter lungo,deliberossi il ritorno[47]; ma per allora si tacque.
E Carlo sfogò il dispetto con atti disperati ed assurdi. Sguinzaglia isuoi a un ultimo sterminio delle campagne; che cadde su i luoghisacri, poich'altro non rimaneva men guasto; e andò sì oltre, che finle colonne e le travi strascinarono al campo; e nel monistero dinostra Donna delle Scale spogliarono gli altari, e ruppero econtaminarono ogni cosa. Poi il re saltando all'estremo opposto, offreai Messinesi di rimetter tutte lor colpe, consentir tutte inchieste,sol che tornino sotto il suo nome: ed essi con onta e schernorifiutano[48]. I tradimenti anco tentò, praticando col giudice Arrigode Parisio, il notaio Simone del {195} Tempio, GiovanniSchaldapidochu, e un Romano, che di furto mettesser in città le suegenti; i quali furono scoperti e puniti nel capo. L'insospettitopopolo di Messina allora, tumultuando chiamava al supplizio Federigodi Falcone, che forse avea consigliato la resa, brontolando «il malfatto ne basti;» e minacciava anco Baldovin Mussone, il depostocapitano, che intendendo la venuta di Pietro, occultamente era uscitodalla città per andarne al re; ma i contadini di Monforte, credendolindettato coi nemici, l'avean preso e condotto a Messina. Alaimo salvòentrambi, imprigionandoli nel castel di Matagrifone[49].
Soprastato in questi vani pensieri alcun dì, intese Carlo con maggiorerammarico l'esser della città da un Morello, ch'uscito in sembianza dipaltoniere, e preso da' soldati, affermava il tenacissimo proponimentoalla difesa; e aggiugnea sue favole di sterminate provvedigioni divittuaglie; bande novellamente scritte; disegni contro la vita del re,imminenti, atroci, ordinati con cinquecento cavalieri spagnuoli eduemila pedoni messinesi, che giurato avvessero al comune d'irromperedisperatamente nelle regie tende in una improvvisa sortita de'cittadini, nella quale il grido di guerra sarebbe «al campo, alcampo[50].» Fosse arte o caso, questo dir del prigione che parvecominciato ad avverarsi in pochi giorni, diede la pinta al re; ilquale ripugnando a partirsi, aspettava e differiva.
A toglier ch'altri stuoli entrassero in città sull'orme di Palizzi ed'Andrea Procida, il dì ventiquattro settembre re Carlo avea fattooccupare il palagio dell'arcivescovo, poco lungi dalle mura. Un de'suoi più fidati mandovvi con dugento soldati, che muniti di steccato efosso nello edifizio per sè fortissimo, teneano il passo della via diSant'Agostino a ponente della città. Ma Alaimo incontanente divisa{196} un bel colpo. Di suo comando, Leucio e altri condottieriarrisicatissimi, in gran segreto con iscelte bande di giovani, uscitia notte da Messina, per vie diverse giungono intorno al palagio; e treda tre lati si appressarono; Leucio dall'altra banda, tenutosiindietro, in un uliveto imboscossi. Come il disco della luna spuntòdai monti di Calabria, ch'era il segno prefisso da Alaimo, i primimettendo altissimo un grido «Cristo già vince,» dan dentro ferocementene' ripari; tagliano a pezzi il presidio; il capitano colto nel suoletto stesso, vergheggiano a morte. Quanti di lor mani fuggonoall'uliveto, son dalle genti di Leucio ammazzati. E repente da'silenzi della città uno scoppio di voci «Al campo, al campo,» unostormeggiar di campane, un dar nelle conche e nelle trombe, unpercuotere caldaie e panche, rintronano orrendamente: schiuse leporte, accanite turbe prorompono. Sorse atroce scompiglio nell'oste.Senz'ascoltar comando o rampogna, mezz'ignudi fuggian qua e là per glialloggiamenti; e chi ai poggi, e alla marina i più, sentendosi già sulcollo il formidato re d'Aragona. Saltando dal sonno, Carlo corse grantratto con gli altri al mare, percosso dal presagito grido: «Al campo,al campo;» finchè tornato a sè stesso, vergognando sostò, e si fece aracchetare il tumulto. Carichi di preda rientrano i Messinesi incittà: e raggiornando, ostentano su per le mura il tronco braccio delcapitano del ridotto, con villanie appellando Carlo coi suoi tutti chevengano a rimirarlo[51]. {197}
Allor Carlo non più soprattenne la levata dell'assedio, che divulgatanon ostante il segreto, finì di rovinare i soldati; al segno che nèonta de' nimici li raccendea, nè per militare orgoglio almeno serbavancontegno. Al primo dì valicò la regina, venuta a questo campo come ateatro: e le macchine da guerra e' lavorieri fur traghettati, tanto oquanto posatamente. Ma imbarcatosi il re[52], nei due giorni appressole altre genti si precipitarono al passaggio con tal pressa, e confusiordini, e obblio di lor cose e di sè stessi, che rassembravasconfitta. Un andare e tornar di vele per lo stretto, un abbaruffarsiintorno le barche, un bestemmiar gli avari marinai, e lor nolieccedenti il pregio delle cose; e abbandonati come portava il caso,per gli alloggiamenti, per la marina, cavalli disciolti o uccisi daipropri padroni, e arnesi, e robe, e botti di vini, legnami damacchine, grani, vittuaglie accatastati o mezzo arsi per pressa,attestavan la condizione di quel dianzi fioritissimo esercito. Inostri martellaronlo nella ritirata con impetuose sortite; talchè aprotegger l'imbarco si costruì alla meglio un riparo, e ordinovvisiforte banda di cavalli sotto il conte di Borgogna. Con tutto ciò dacinquecento uomini furon trucidati, e salmeria grandissima di predariportata in città[53]. Recarono tra le altre spoglie il padigliongrande {198} del comune di Firenze, nella cieca fuga mal difeso ogittato; e l'appendeano in voto nel maggior tempio[54].
Ebbe questo memorabil esito l'assedio di Messina. Tra le gare,fanciullesche sì ma parricide, onde la patria nostra cadde lacera eschiava, splende indivisa la gloria delle due maggiori città nellarivoluzione del vespro. Ne levò l'insegna Palermo; rapì seco laSicilia intera al gran fatto: non assestato il reame per anco, eminacciato da tant'oste, Messina il salvò con quella eroica difesa.Indi la fama a celebrar di Messina il capitano, i cittadini, le donne;e di codeste animose e gentili cantava la rinascente musa d'Italia; ele altre siciliane spose e donzelle, come da ammirazione si fa,prendeano ad imitare il lusso di lor fogge e ornamenti; che dileguatoil pericolo, ripigliossi ogni dilicato vivere tra i commerci, leindustrie, le ricchezze della valente città[55]. Di stranieri nonpugnavano per lei nello assedio che sessanta Spagnuoli: v'eran dacento Genovesi, Viniziani, Anconitani, Pisani[56]. Del resto nècittadini esercitati all'arme pria dell'assedio, nè aveafortificazioni, se non che rovinose, e slegate tra loro[57]: onde inmolte parti fu mestieri supplirvi con le barrate; e pressochèsenz'avvantaggio di luogo molti affronti si combatterono. Diversa invero da quella dei nostri dì, e men {199} dura agli oppugnati, l'artedegli assedi allor era; men destre e compatte che i nostri stanzialiquelle antiche milizie; ma quant'arte di guerra fiorì in queiguerrieri tempi, l'avea esercitato, può dirsi fin da fanciullo, tra ilsangue delle battaglie, il vincitor di Manfredi; sperimentati i suoicapitani; ferocissimi quegli oltramontani avventurieri; i soldatid'Italia nè inesperti in quella età nè inviliti. Provveduti di tuttemacchine, obbedienti, ordinati, sommavano a un di presso asettantamila al cominciar dell'assedio: nè a tanto numero forsegiugneano, presi tutti insieme d'ogni sesso coi poppanti e idecrepiti, quanti umani rinserrava la città. Per sessantaquattrogiorni la campeggiò tanto esercito, venuto in sua baldanza, checopriva il mare; e tornossi sgomenato, mutilo, a fronte bassa,ingozzando oltraggi, poco men ch'a dirotta fuggendo. Altri dirà chenell'assedio della città, che ne' disegni della guerra contro l'isola,fallava in molte parti re Carlo; ma posto pur ciò, non son da supporresì grossolani gli errori, nè che ei non sapesse ripararli: e certo èche molti assalti diede con tutte le forze di mare e di terra, ne'quali la virtù de' cittadini fu che il rispinse. A questa dunque sidia la vittoria dell'assedio. Alla vittoria di Messina, alledifficoltà de' monti e del mare, al cuor degli altri Siciliani, e alleforze ormai concentrate per la riputazione di Pietro si dia, chenull'altro danno tornasse al rimanente dell'isola da tanta mole diguerra, e primo furor di vendetta[58].
NOTE
[1] Bart. de Neocastro, cap. 43.
[2] Lib. 1, cap. 8 e 9.
[3] Questi aiuti, che il Neocastro dissimula un poco, sono accennati da Speciale, lib. 1, cap. 7 e 16.
[4] Non merita piena fede Bartolomeo de Neocastro, che le attribuisce (cap. 21) ai Palermitani, narrando come sbigottiti a veder nimico il papa, e Messina leale ancora a casa d'Angiò, deliberassero, persuasi da un Ugone Talach, di gittarsi in braccio all'Aragonese, con tanta prestezza, che Niccolò Coppola orator loro, sciogliea per Catalogna il dì 27 aprile. Il Neocastro incespa nel computo del tempo, con dir che giunto Niccolò in otto giorni alle Baleari, una fortuna di mare spingealo sulle spiagge d'Affrica; dove s'avvenne in re Pietro, che egli medesimo afferma partito di Spagna il 17 maggio, e per più autorevole testimonianza si sa approdato in Affrica il 28 giugno. Segue a intessere il suo racconto: che non volendo il re entrare in quella impresa senza intender l'animo dei Messinesi, rispondea manderebbe a ciò suoi fidati, ma nulla prometteva intanto. Così dà tempo e sembianze a questa pratica, a maggior vanto di Messina sua; senza pure accorgersi che Messina splendea di tanta gloria verace, da doversi sdegnar l'accattata.
Lo Speciale, il d'Esclot, il Montaner, e Saba Malaspina non parlan d'altro, che dell'ambasceria pubblica, della quale ora diremo.
I racconti del Villani, lib. 7, cap. 69, e della Cronaca anonima della cospirazione son sì lontani da tutte queste testimonianze istoriche, da nemmeno farsene parola. Essi non mancano di mandare orator dei Siciliani a Pietro il loro protagonista Giovanni di Procida.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 361.
Cron. S. Bert., in Martene e Durand, Thes. Nov. An., t. III, p. 762.
[6] Montaner, cap. 44.
D'Esclot cap. 77 e 78.
[7] Diploma di Pier d'Aragona del 19 (agosto?) 1282; Docum. VIII.
[8] D'Esclot, cap. 77 e 78.
Montaner, cap. 46, 4º.
[9] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 13.
Veg. anche Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio.
[10] Diploma dato di Port Sangos o Fangos il 1 giugno 1282, in Rymer, atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 210.
[11] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.
Parecchi documenti confermano l'esistenza di questa donazione segreta; lasciandoci sempre nel dubbio, se il re l'avesse fatto veramente in giugno 1282, o finto nel 1283. Sono essi:
1º. Un breve di Martino IV a Filippo l'Ardito, d'Orvieto 10 settembre 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 5. Il re avea mandato due ambasciatori per sapere se la concessione del regno d'Aragona ad uno de' suoi figliuoli, che allor si trattava, potesse incontrare ostacolo nella rinunzia di Pietro in favor d'Alfonso. Il papa rispondea che non s'era allegata questa eccezione, ma che in ogni modo egli e 'l collegio de' cardinali, la teneano come futilissima e di niun valore.
2º. Una rimostranza degli arcivescovi, vescovi e altri prelati, de' maestri de' Templari, Ospedalieri e altri ordini religiosi militari, de' conti, visconti, baroni, delle università di città e ville e di tutti i popoli infine de' reami d'Aragona e Valenza e della contea di Barcellona, indirizzata a papa Onorio IV, e a tutto il collegio de' cardinali, scritta in carta bombicina, con la nota d'essersi copiata inquatuor foliis papiri, e mandata alla corte romana; negli archivi del reame di Francia J. 588. 27. La nazione Aragonese e Catalana chiedea la rivocazione della concessione, che Martino ingannato avea fatto a favore di Carlo di Valois; e pregava il papa che non la sottomettesse alla dominazione francese, ma lasciasse pacificamente regnare Alfonso. Tolta la rettorica, le ragioni erano: che Giacomo il Conquistatore, con assentimento di Pietro suo figliuolo allora infermo, avea fatto donazione de' regni al nipote Alfonso: che il dì della coronazione di Pietro in Saragozza, tutti i baroni aveano giurato di ubbidire dopo la sua morte ad Alfonso: che Pietro, secondo gli usi di Spagna, donòinter vivos i suoi stati al figliuolo, e dichiarò che li terrebbe da lui in usufrutto durante la propria vita: che infine li avea lasciato per testamento al medesimo Alfonso: e che tutti questi atti erano antecedenti all'impresa di Sicilia, e a qualsiasi altra offesa che Pietro avesse recato alla santa sede. Sostenuto così il dritto perfetto d'Alfonso, si allega ch'egli non n'era punto decaduto, perchè non avea avuto alcuna parte all'impresa di Sicilia. S'aggiugne che la nazione anche ignorava questa impresa, e di buona fede credea preparato l'armamento contro i nemici del nome cristiano;maxime cum hoc idem Dominus P. (Petrus) aperte diceret se facturus, ac se hoc velle facere ipso facto probaret, dum ad partes Sarracenorum, cum decenti bellatorum societate se contulit, et pro debellandis inimicis fidei, romane Ecclesie auxilium postulavit.
3º. Finalmente si fa parola della donazione ad Alfonso nella bolla di Bonifazio VIII, data il 21 giugno 1295, per la quale furon resi a Giacomo i regni, come li tenea Pietro,antequam Ecclesiam offendisset in aliquo, et de predictis regnis et comitatus in quondam Alphonsum primogenitum ejus, donationem, ut dicitur, contulisset. Raynald, Ann. ecc., 1295.
[12] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.
Per le date ho seguito, ancorchè non contemporaneo, questo autore, che potè correggerle compilando gli annali su i contemporanei e i diplomi.
[13] Montaner, cap. 49, 50.
D'Esclot, cap. 79, 80.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20. Almossariffo era il titolo del feudatario, o principe saraceno di Minorca; forse da un vocabolo arabo che suonerebbe in italiano: nobile, esaltato, salito a dignità.
[14] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, e Geste dei conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit., i quali ho creduto seguire piuttosto che Neocastro, che porta la partenza di Spagna il 17 maggio, e Villani, lib. 7, cap. 69, il quale seguendo Giachetto Malespini, la differisce infino a luglio.
All'autorità degli Annali genovesi e del contemporaneo catalano per queste date, aggiungon fede il testè citato diploma del 1 giugno 1282, e il testamento di re Pietro, del quale è una copia tra i Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, fog. 119, dato di porto Fangos il 2 giugno.
[15] Gli Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, dicono 10,000 fanti, 350 cavalli, 19 galee, 4 navi, ed 8 teride. Saba Malaspina, cont., pag. 364. allegando per questa impresa d'Affrica una relazione presentata al papa, porta 1,400 cavalli, e 8,000 fanti con le picche, oltre i balestrieri. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, dà a Pietro 50 galee, molti legni di carico, e 800 cavalli. Bartolomeo de Neocastro, ch'è sempre in sull'ingrandire, dice 900 cavalli, 30,000 fanti, 24 galee, 10 navi, e 10 vascelli a remi. D'Esclot 800 cavalli, 15,000 fanti, e 140 vele. Montaner 20,000 fanti, 8,000 balestrieri, oltre i cavalli, e 150 vele. A me è parso tenermi piuttosto agli Annali di Genova, ch'han maggiore autorità, s'accostano a d'Esclot, e portano il numero più credibile.
[16] Il nome di questa terra è storpiato diversamente ne' diversi ricordi de' tempi; de' quali un la dice Ancalle, uno Antola, altri Altoy; i più esatti Alcoyl o Alcolla, che è il giusto nome preceduto dall'articolo arabicoal.
[17] Saba Malaspina, cont., pag. 361 e 367.
Bart. de Neocastro, cap. 17.
D'Esclot, cap. 80, 83, 89.
Montaner, cap. 51, 53, 55, 85.
[18] Saba Malaspina, cont., pag. 375.
Montaner, cap. 52.
D'Esclot, cap. 84, 85.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Diploma di Pier d'Aragona, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 208.
Surita, lib. 4, cap. 21.
Il Montaner e il d'Esclot portan come sincera e schietta questa missione al papa.
[19] Saba Malaspina, cont., pag. 376.
[20] Anon. chron. sic., cap. 40.
Queste sollecitazioni a' Siciliani sono apposte a Pietro dal Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 539; e sì da papa Martino nel processo, che leggesi appo Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 21.
[21] Queste condizioni, taciute dagli altri, e pur necessarie, son riferite dal d'Esclot, cap. 90, 91.
[22] Anon. chron. sic., cap. 40.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 8 e 9.
Saba Malaspina, cont., pag. 373, 374.
Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, agg. pag. 37.
D'Esclot, cap. 87.
Montaner, cap. 54.
Giach. Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 269. Questi tre ultimi, in loro errore, portano Giovanni di Procida ito ambasciador de' Siciliani a re Pietro.
Lasciando da parte il Montaner, che nulla dice della deliberazione del parlamento siciliano, e racconta l'ambasciata in modo assai strano, è notevole che il d'Esclot porta espressamente questo parlamento in Palermo nel tempo dell'assedio di Messina, e lo accordo generale nella esaltazione di Pietro, a proposta del capitano del popolo. Non dice la persona, nè indica l'uficio di costui in modo più particolare. Potrebbe indi supporsi che presedesse in quell'incontro al parlamento, il primo de' capitani del popolo di Palermo, Ruggiero Mastrangelo, che alla esaltazione di re Pietro ebbe, forse in merito di tal servigio, la carica di giustiziere ne' territori di Geraci, Cefalù, e Termini. Diploma dell'8 febbraio 1283, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 12.
[23] Cap. 44.
[24] Saba Malaspina, cont., pag. 378, 379.
Montaner, cap. 56.
D'Esclot, cap. 86.
[25] D'Esclot, loc. cit.
[26] Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Montaner, cap. 54 e 57, narra assai goffamente questa ambasceria de' Siciliani, che fa venir con vele negre alle navi, in vesti negre, e dirottamente piangendo ai piè dello Aragonese, implorarlo con parole di paura e servitù. Non s'addicean certo queste abbiette dimostrazioni ai Siciliani del vespro, venuti ad offrire a Pietro una sovranità assai limitata. In fatti D'Esclot, cap. 88, presenta in ben altre sembianze gli ambasciadori, e riferisce i patti della esaltazione. Le testimonianze degli altri istorici portano anche a questo.
[27] Bart. de Neocastro, cap. 23.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 12 e 13.
Surita lib. 4, cap. 22.
Montaner, cap. 57, e d'Esclot, cap. 88, da partigiani del re, tacendo i dispareri, dicon presa la guerra di Sicilia con grande accordo e gioia di tutta l'oste, che fu a un di presso l'esito della faccenda.
[28] D'Esclot, cap. 90.
[29] Docum. VI.
[30] Bart. de Neocastro, cap. 23 e 46.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
Anon. chron. sic., cap. 40.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
Veggansi anche Montaner, cap. 58, e d'Esclot, cap. 90.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 45.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
D'Esclot, cap. 90 e 91.
Montaner, cap. 60.
Gio. Villani, e Giachetto Malespini, loc. cit., Cron. della cospirazione di Procida, pag. 270.
I particolari non leggonsi tutti a un modo, in ciascuna di queste cronache.
[32] D'Esclot, cap. 91.
Del parlamento fa cenno il Montaner, cap. 60.
E più distintamente lo scrittore delle Geste dei conti di Barcellona, le cui parole, cap. 28, loc. cit., son queste:Apud Palermum cum regnicolis omnibus in genere celebre curiam celebravit, in qua omnibus pristinis libertatibus siculis restitutis, ac de thesauro regio muneribus elargitis, etc.
[33] Afferman la coronazione Giachetto Malespini, cap. 212, e Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, che copia il Malespini.
Montaner, cap. 63, la scrive anche, senza espressare qual vescovo l'avesse fatto.
Finalmente ne darebbe testimonianza una dipintura a fresco, che sbiadata e guasta si vede tuttavia nel muro a rimpetto il lato occidentale della cattedral di Palermo, in quell'antico edifizio ov'era la cappella di Santa Maria Incoronata, detta così perchè vi s'incoronavano i nostri antichi re. Di questa dipintura e de' versi che vi sono scritti, fece una descrizione sul cominciamento del secol passato il chiarissimo canonico Mongitore; la quale si legge tra i suoi Mss. nella Biblioteca di Palermo, e io la pubblico al docum. XLV.
Con tutto ciò ho dubbi validissimi intorno la coronazione di Pietro d'Aragona. E il primo è il silenzio di Niccolò Speciale, Saba Malaspina e Bernardo d'Esclot, che trattan tutti i particolari dell'avvenimento di re Pietro in Palermo; e il d'Esclot, cap. 91, dice del parlamento, e dell'omaggio fatto al re, e del banchetto che seguì; ma non fa parola nè punto nè poco del coronamento, che in que' tempi, come sa ognuno, era tenuto essenziale e impreteribile.
Aumentano il sospetto l'Anon. chron. sic., cap. 40, parlando del titolo di re di Sicilia preso da Pietro il 30 agosto 1282, e non già del coronamento; e Bartolomeo de Neocastro, cap. 45, scrivendo che Pietro in Palermo,novi diadematis titulo coronatur; la quale circollocuzione sarebbe assurda per riferire il coronamento, ma è un'ambage non straniera al Neocastro, nel supposto che ci volesse significare come, senza la material cerimonia dell'imposizione del diadema, il re fu abbastanza esaltato con quel titolo che gli dava il voler della nazione.
La Cronaca siciliana, in Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 270, dice espressamente che, per l'assenza degli arcivescovi di Palermo e Morreale, Pietronon fu coronatu si non chiamatu di lu populu.
E quanto alla dipintura della cappella di Santa Maria l'Incoronata, oltre che lo stile, per quanto io ne sappia vedere, non è del secolo XIII, e molto meno appartiene a quel tempo la forma de' caratteri, mi par manifesto che essa sia piuttosto rappresentazione simbolica, che di un fatto vero e reale. Perchè son dipinti nell'alto dell'incoronazione Pietro e Costanza; quando si sa dalla Istoria, che Costanza venne in Sicilia nel 1283, mentre Pietro era in Calabria; e che queste due persone reali non si trovaron giammai insieme in Palermo. Di più, in cima del dipinto si vede l'addogato giallo e rosso di casa d'Aragona inquartato colle aquile sveve, che fu la divisa di Federigo II, re di Sicilia, ma non mai di Pietro suo genitore. Per queste ragioni io credo l'affresco fattura degli ultimi del secol XIV; e che forse si volle con esso figurare il coronamento di Pietro e di Costanza, perchè realmente non era stato giammai, e parea bene riparare questa interruzione e mancanza nella serie dei re legittimi coronati in quella cappella. Certo egli è che questo dipinto, non contemporaneo e con due anacronismi, non è tal monumento da aggiugner fede al fatto taciuto o negato dai cronisti nazionali e dal d'Esclot.
D'altronde è naturale che Pietro cominciando a camminare con molto riguardo verso la corte di Roma, si rimanesse dall'aizzarla con questa altra cerimonia, che si potea volgere a carico di lui in sacrilegio. E per vero il papa ne' suoi processi contro Pietro, ricordando di avergli vietato di nominarsi re di Sicilia e di servirsi del suggello reale con tal nome, e accagionandolo fin delle più minute colpe, non toccò mai del coronamento; nè abbiamo memorie di scomunica al vescovo che il coronò, quando ci restano quelle fulminate contro i prelati che fornirono tal cerimonia con Giacomo e Federigo.
Ognun vede che dopo questa disamina su i contemporanei e i monumenti, non mi trattengo a parlare di ciò che scrivono del coronamento di re Pietro il Surita, il Pirri, il Fazzello, il Maurolico, e gli altri moderni.
[34] Si legge questo documento nell'Anon. chron. sic., cap. 40, e altrove; ed è accennato in Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 19.
Il Pirri, tom. I, pag. 150, non saprei su quale autorità, dice mandata la lettera con Pietro Santafede arcivescovo di Palermo. Per lo contrario io crederei piuttosto che quell'arcivescovo fosse stato tutto di parte angioina. È valido argomento a supporlo dimorante in Napoli in questo tempo, un diploma dato di Napoli a 2 maggio duodecima Ind. (1284), in quel r. archivio, reg. seg. 1288, A, fog. 117, dal quale si vede che tra gli altri danari tolti in prestito dalla corte angioina, v'ebbero once 200 dagli esecutori del testamentovenerabilis patris quondam Petri Panormitani archiepiscopi.
[35] Saba Malaspina, cont., pag. 379.
[36] D'Esclot, cap. 91.
Montaner, cap. 64, dicon ciò; il primo de' Palermitani, il secondo de' Messinesi.
[37] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16.
[38] Montaner, cap. 62.
D'Esclot, cap. 92, dice data la posta a Randazzo.
[39] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16 e 17.
Bart. de Neocastro, cap. 45.
Anon. chron. sic., cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
D'Esclot, cap. 92.
Montaner, cap. 61 e 63.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 70.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 271.
Ho scritto secondo il d'Esclot i nomi degli ambasciadori, de' quali alcuno è diverso in altri autori de' citati di sopra.
Il consiglio di affamar Carlo mandando la flotta aragonese, è dato a Giovanni di Procida dal Malespini, dal Villani, e dalla Cronaca della cospirazione.
[40] D'Esclot, cap. 92.
Bart. de Neocastro, cap. 45.
[41] Bart. de Neocastro, ibid.
Saba Malaspina, cont., pag. 380.
[42] D'Esclot, loc. cit., descrive l'albergo dato in una chiesa, senza letti, nè coltri, se non che trovaron fieno a ufo; e la imbandigione di sei pani bruni, due fiaschi di vino, due maiali arrosto, e un caldaio di minestra.
[43] Questa prima ambasceria è rapportata dagli scrittori contemporanei in vario modo, ma tutti tornano a questo: che stando Carlo d'Angiò all'assedio di Messina, Pier d'Aragona, già salutato in Palermo re di Sicilia, mandava a ingiungerli che subito si partisse dall'isola; e Carlo fremente per dispetto, ritorcea su lui questa intimazione con molte minacce.
Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 17, Bartolomeo de Neocastro, cap. 45 e 49, Montaner, cap. 61, Bernardo d'Esclot, cap. 92 e 93, dicon di sola ambasciata, senza riferire le lettere. Secondo essi la somma delle ragioni di Pietro era: il dritto della moglie e de' figli, e la elezione de' Siciliani; onde a lui appartenendo il reame, facea avvertito Carlo a sgombrarlo, e levarsi dalle offese di Messina. Poco scrivon della risposta di Carlo; forse non amando a ripetere ingiurie contro il re di Aragona.
Saba Malaspina, cont., pag. 379 a 381, porta una epistola, ch'ei dice breve e non è. Al magnifico uomo Carlo re di Gerusalemme e conte di Provenza, Pietro d'Aragona e di Sicilia re. Trovandone in Barbaria a guerreggiar contro infedeli, vennero oratori di Sicilia ad esporre la tirannide che li opprimea. Perchè questo reame appartiene alla consorte e a' figli nostri, non potemmo ricusare il nostro aiuto alla Sicilia. Qui saputo l'assedio di Messina, mandiamo a richiedervi che lo sciogliate; e, indugiando, muoveremo con le nostre forze. Questo è il compendio dell'epistola. Somiglianti parole mettonsi in bocca agli ambasciadori. Carlo risponde loro a voce: maravigliarsi della non provocata offesa del re d'Aragona; a sè appartenere il reame per concession della Chiesa; Pietro usurpane il titolo per false ragioni; ma troppo ei si affida in sè e in sua gente, se viene in arme contro a noi. Mostreremgli adesso com'ei s'è gittato a impresa da stolto.
Nella cronaca del monastero di San Bertino, Martene e Durand, Thes. Nov. Anec., tom. III, pag. 763, a un di presso è riportata nell'istessa guisa la lettera di Pietro; se non che s'aggiugne la circostanza, che a lui guerreggiante in Barberia, la corte romana negò ogni aiuto; sulla qual ragione, come si ritrae da diverse memorie, egli facea molto assegnamento. La risposta di re Carlo fu aspra e villana; e conchiudea, che se Pietro avesse voluto conservare ombra di riputazione, non avrebbe dovuto cacciar fuori il capo dalla sua spelonca. Vedrebbesi al fatto, se questo giovane sarebbe tanto audace da sostener i prodi Francesi pronti a combatterlo.
In sensi non molto diversi, ma in tenore più breve, si leggono le due epistole nella Cronica di Rouen, presso Labbe, Bibl. manuscripta, tom. I, p. 380.
Nell'Anon. chron. sic., cap. 40, si legge al contrario una epistola di Carlo a Piero, e la risposta: lunghe oltremodo, intessute di frasi bibliche, e di ingiurie, tra le quali nuotano le reciproche ragioni, che sono a un di presso quelle accennate dianzi. Le stesse due epistole son trascritte da Francesco Pipino nella sua Cronaca, lib. 3, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Ma in Giachetto Malespini, cap. 212, Giovanni Villani, lib.7, cap. 71 e 73, e nella Cronica della cospirazione di Procida, pag. 271 e 272, trovansi in forma assai diversa le due lettere: intorno le quali poco io m'affaticherei, per la poca fede che do a quegli scrittori, se non fosse che leggonsi con alcune varianti nella raccolta degli atti pubblici d'Inghilterra per Rymer, tom. II, pag. 225, senza data.
La lezione del Rymer è questa; nella quale noterò le varianti del Malespini e del Villani, e quelle della Cronica siciliana che non si limitino alla diversità del dialetto:
«Piero d'Araona e di Cicilia re (Piero di Raona re di Cicilia—Malespini), a te Carlo re di Jerusalem et di Proenza conte.
«Significando (Significhiamo—Malesp. Villani) a te il nostro advenimento nell'isola de Cicilia sì come nostro giudicato a me per autorità di Santa Chiesa e di messer lo papa (papa Niccolaio e dei suoi frati cardinali—Malesp. e di lu santu apostolicu papa Nicola terzu—Cron. sic. della cospirazione) et de' venerabili Cardinali;
«Et poi (però—Malesp. Villani) comandiamo a te che veduta questa lettera ti debbi levare dall'isola con tutto tuo podere et gente:
«Sappiendo che se nol facesti (altramente—Malesp.) i nostri cavalieri et fideli vedresti di presente in tuo dannaggio offendendo la tua persona e la tua gente.»
«Carolo per la Dio gratia di Jerusalem et di Cicilia re prence di Capoa, d'Angiò et di Folcachier et di Proenza conte, a te Piero d'Araona re et (conti di Barcellona—Cron. sic.) di Valenza conte.
«Maravigliamoci molto come fosti ardito di venire in sul reame di Cicilia giudicato nostro per autorità di Santa Chiesa Romana;
«Et però ti comandiamo (e perzò ti cummannamu per l'autorità di nostru cummannamentu chi immantinenti viduti,Cron. sic.) che veduta nostra lettera ti debbi partire dal reame nostro di Cicilia sì come malvagio traditore (tradituri o di presenti vidirriti lu meu adventu e di li nostri cavaleri li quali disianu trovarsi cu la tua genti—Cron. sic.) di Dio et Santa Chiesa Romana:
«Et se nol facessi (E se ciò non farai ti disfidiamo, e di presente ci vedrete in vostro dannagio—Malesp.) diffidiamti come nostro inimico et traditore; et di presente ci vedrete venire in vostro dannaggio però che molto desideriamo di vedere (voi e la vostra gente—Villani) noi et la nostra gente con le forze nostre.»
Or sulla prima di queste epistole è da notare che Pietro allega la sola fallace e ignota ragione della concessione di papa Niccolò terzo, non accennata da lui nel manifesto scritto d'Affrica a Eduardo, docum. VIII, nè ricordata da alcun documento, o memoria degna di fede; e che per lo contrario tace le buone e solide ragioni del dritto della regina Costanza, e della elezione dei Siciliani, e l'altra, ch'ei tanto metteva innanzi, dei denegati aiuti del papa contro gl'infedeli; le quali ragioni leggonsi nel detto manifesto, in Saba Malaspina, nella Cron. di S. Bert., e negli istorici siciliani e catalani più informati del linguaggio della corte aragonese in quest'incontro. Questa circostanza sola basta a mostrare apocrifa la lettera. È impossibile che Pietro passando sotto silenzio i veri suoi dritti si fondasse tutto in su quella vaga asserzione; e ciò contro il detto ai potentati d'Europa; e ciò nel primo atto in buona forma ch'ei mandava allo usurpatore; e ciò mentre papa Martino solennemente favoreggiava e sostenea costui, onde sarebbe tornata vana qualunque anteriore concessione di Niccolò III. Aggiungasi che se fosse stata vera questa lettera di Pietro, la corte di Roma non avrebbe lasciato di smentirlo; e che egli all'incontro, quando fu deposto dal reame d'Aragona appunto pel fatto di Sicilia, avrebbe protestato di certo, pubblicando la concessione di Niccolò III.
Tradiscon di più la risposta di re Carlo, quelle parole «malvagio traditore di Dio,» nostro inimico e traditore. Si ponga mente in prima, che nei diplomi autentici del duello dei due re, questi gravi sfregi non si leggono, ma che Piero fosse entrato nel regno di Sicilia contro ragione e in mal modo. E quando, fallito il duello, Carlo rinfacciava al nimico le ingozzate offese (diploma in Muratori, Ant. ital., tom. III, Dissertazione 39), faceasi con molta cura a spiegare, che per quelle parole «contro ragione e in mal modo» avesse voluto significare, il più cortesemente che si poteva in carteggio di re, l'accusa di traditore; che Pietro d'altronde avea compreso benissimo, e dettolo agli araldi che gli portaron la sfida. Egli è evidente che re Carlo, se avea già scritto letteralmente «malvagio traditore» in quella prima epistola, ricordava adesso queste parole, e non silloggizzava di averle adombrato in quel composto e misurato linguaggio.
A ciò s'aggiunga, che le due epistole son rese d'altronde sospette dalle varianti tra i testi di Rymer, Malespini, Villani, e della Cronica della cospirazione; e che a stento crederebbesi che due principi, l'uno francese, l'altro catalano, le scrivessero in volgare d'Italia; quando il carteggio tra' grandi, e gli atti pubblici dettavansi di quel tempo in latino, e si sa essere stati scritti in latino appunto e in francese i diplomi ne' quali fermossi poscia il duello. Per queste ragioni le tengo apocrife, come giudicarono il Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 5, e il Muratori, Ann. d'Italia, 1282, che le disse fatture de' novellisti d'allora; l'uno e l'altro anche senza avere per le mani il manifesto di Pietro, nè la continuazione dell'istoria di Saba Malaspina. Nè importa che trovinsi nella collezione degli atti pubblici d'Inghilterra, quando nè erano scritte da quella corte, nè ad essa drizzate; onde ben potè avvenire, che per via degli ambasciadori mandati poi da Eduardo ai due re, o altrimenti, fosser capitate a corte d'Inghilterra le copie che giravano per l'Italia di que' supposti diplomi, ne' quali chiara si scorge l'impronta di mano guelfa.
Io penso che, se lettere si scrissero in quell'incontro, fossero ne' sensi riferiti da Saba Malaspina e dalla Cron. di S. Bert., che più si avvicinino a que' degli altri contemporanei, e ben ritraggono del manifesto di re Pietro ad Eduardo d'Inghilterra più volte ricordato di sopra.
Nei particolari dell'ambasceria di Pietro a Carlo ho seguito a preferenza il d'Esclot, che vien raccontandoli assai minutamente, in guisa da mostrarsene informato da vicino.
[44] D'Esclot, cap. 93.
Bart. de Neocastro, cap. 45 e 50.
[45] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.
Montaner, cap. 62, il quale dice mandati in Messina dal re 2,000 almugaveri. Di questa milizia farem parola nel cap. IX.
[46] Gio. Villani, lib. 7, cap. 74, seguendo Giachetto Malespini, cap. 212, e portando com'esso il numero delle galee siciliane e aragonesi a sessanta. Questo è manifestamente esagerato secondo gli umori guelfi di que' cronisti; perchè si vedrà nel capitolo seguente come Pietro, dopo ch'ebbe armato le galee di Messina, non potè mettere in mare che cinquantadue galee.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 272, 273, con l'errore, che Loria fosse l'ammiraglio aragonese, e che Arrighino mostrasse non aver tanti legni da fronteggiare il nemico. Egli avrebbe detto una evidente bugia, essendo di gran lunga più forte l'armata di re Carlo, come si ritrae bene dal capitolo seguente.
[47] Saba Malaspina. cont., pag. 381 a 383.
Bart. de Neocastro, cap. 46.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
Fra Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 6, in Muratori, R. I. S, tom. XI, pag. 1188.
Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 608.
Il d'Esclot, cap. 93 e 94, accenna solo questo consiglio. Il Montaner, cap. 65 e 66, dice anco del timore di movimenti in Calabria, e forse nello stesso esercito angioino.
[48] Bart. de Neocastro, cap. 49.
[49] Bart. de Neocastro, cap. 47, 48.
[50] Bart. de Neocastro, cap. 49.
[51] Bart. de Neocastro, cap. 50.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
Questi porta la fazione dell'arcivescovado pria dell'assalto generale; ma m'è paruto seguir piuttosto il Neocastro, che in ciò non avrebbe ragione ad alterare il vero.
Il Montaner, cap. 64, dice d'una sortita gloriosa degli almugaveri mandati dal re. Forse fu questa; ed ei tace la virtù de' Messinesi, come il Neocastro quella degli ausiliari.
[52] Le date del Neocastro si riscontran perfettamente con quella che si scorge da un diploma del 29 settembre 1282 (Docum. IX), dove Carlo attesta essersi ritirato da Messina il 26 settembre.
[53] Bart. de Neocastro, cap. 50.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.
Anon. chron. sic., cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 383, 384.
D'Esclot, cap. 94.
Montaner, cap. 65, 66.
Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S. Agg., tom. XXVI, pag. 8.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani. lib. 7, cap. 75.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
Questi due ultimi dicon lasciato da Carlo un grosso di genti in agguato per ferir ne' Messinesi che uscisser sicuri; di che essi accorgendosi, bandian pena del capo a chi andasse fuori della città. Il tacciono gli altri; anzi Malaspina, d'Esclot e Montaner dicono degli assalti dati alla coda dell'esercito che ripassava il mare; e 'l Neocastro aggiugne, che facean battere i contorni temendo appunto quell'insidia, ma non trovavano alcuno.
I particolari della ritirata non son tutti rapportati da tutti questi scrittori.
[54] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64.
[55] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 15.
[56] Bart. de Neocastro, cap 50.
[57] Montaner, cap. 43, dice che Messina non era allor murata; e si vede anche dagli altri fatti riferiti da noi al principio del cap. VII.
[58] Veggasi il giudizio delle operazioni militari di re Carlo, che fa Montaner a cap. 66 e 71, che io non ho seguito del tutto, perchè ridonda di preoccupazioni nazionali. Nondimeno è da attendere alla conchiusione del Montaner, che Carlo si portò con molta saviezza, nè potea fare altrimenti. Montaner era condottiero sperimentato; e la sua cronaca è piena di precetti militari, com'io credo, non ispregevoli.
CAPITOLO IX.
Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d'Alaimo. Fazioninavali. Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania.Trattato del duello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche inCalabria. Carlo parte lasciando le sue veci al principe di Salerno.Almogaveri. Vittorie di Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co'figli in Sicilia. Principi di scontento tra i baroni siciliani e ilre. Parlamento in Messina; ove Giacomo è chiamato alla successione, eordinato il governo. Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier daCaltagirone. Partenza di Pietro per Catalogna. Ottobre 1282 a maggio1283.
Levato l'assedio, prima cura de' Messinesi fu di riconoscere lecampagne, se vi si coprisse agguato di cavalleria nemica; ma fatticerti che l'oste s'era pienamente dileguata, non soggiornarono amandare oratori a Pietro a Randazzo, invitandolo a città; com'eranessi impazienti di salutare il re nuovo, obbligato loro della invittadifesa, ed essi a lui del soccorso. E Pietro, fatta acconcia risposta,ove si rammaricava pur della fortuna, che gli avesse tolto di provarsicon l'arme in mano contro il Francese, mosse immantinenti alla voltadi Messina con tutta l'oste siciliana e spagnuola; battendo la viadelle marine settentrionali, perchè volea prima scacciar da Milazzouna punta di mille Francesi, lasciata in quel castello per frettadella ritirata, o appicco a nuovi disegni. Posato a Furnari perciò conle genti, mandava il dimane Giovanni de Oddone da Patti a intimare aquel presidio la resa: il quale non isperando veruno aiuto, rassegnaticol castello le armi e i cavalli, passava sotto sicurtà in Messina ein Calabria. Nella terra di Santa Lucia l'Aragonese albergò[1]. {201}
E qui prendiamo a narrare un fatto di femminil vanità o peggiordebolezza, perch'ebbe seguito ne' casi dello stato, e dipinge al vivore Pietro. Seconda moglie d'Alaimo fa Macalda Scaletta, disposataprima a un conte Guglielmo d'Amico, esule al tempo degli Svevi. Vedovadi costui, dopo lungo vagare in abito da frate minore, e soggiorno menche onesto a Napoli ed a Messina, riavuti i suoi beni sotto il dominiodi Carlo, maritossi Macalda ad Alaimo: si gittò gagliardamente poinella rivoluzione dell'ottantadue, sconoscendo i beneficîdell'Angioino, o pensando che ogni rispetto privato dileguar sidovesse nella causa della patria; ma certo è da condannarsi per latradigione de' Francesi di Catania, cui finse ricettare negli strepitidopo il vespro, e poi li spogliò, e dielli in balìa al popolo. Governòindi Macalda quella città durante l'assedio di Messina[2]: ed orintesa la venuta di Pietro a Randazzo, affrettavasi a complire conesso. Superba nella baronale riputazione e nel gran nome del Leontino,appresentavasi al re con molta pompa, coperta a piastra e a maglia,trattando una mazza d'argento; e non ostante il suo quarantesim'anno,pur altrimenti pensava conquidere il re. Il quale, non badando adamori in quel tempo, finse non la intendere; e di rimando davalecortesie; l'onorava assai nobilmente; con un corteo di cavalieri eimedesimo riconduceala all'albergo. Ma a ciò non fatta accorta Macalda,prese a seguirlo nel viaggio; e parvele il caso la fermata a SantaLucia, onde con aria incerta e confusa veniane al re chiedendoricetto, ch'erano occupati gli alberghi nè {202} altro luogo trovavasinella picciola terra. Pietro, rassegnate a lei le sue stanze, passa adaltro albergo; e lì trova ancora, come a visitarlo, Macalda. Perciòschermendosi alla meglio, chiama nella stanza i suoi cavalieri,incomincia vacui ragionamenti: tra' quali pur domandava a Macalda qualcosa più temesse al mondo, e «La caduta d'Alaimo» ella rispondeagli; erichiesta qual fosse il suo maggior desiderio, «Mio non è, replicava,ciò che più bramo.» Ma il re sordo, pur moralizzava e novellava; ealfine gli si aggravaron gli occhi di sonno. A questa sconfitta ladonna s'accomiatò, struggendosi tutta. E venuta in Sicilia la reinaCostanza, Macalda mai perdonar non le seppe questa fedeltà dellosposo; e tanto crebbe nell'odio e nell'arroganza, che sè stessa e ilcanuto Alaimo precipitò[3].
Ripigliato la notte stessa il viaggio, al nuovo dì, che fu il dueottobre, su pei luoghi arsi e guasti dalla nimica rabbia, che nècontadino vi si scernea, nè armento, nè vestigia di côlti venivano astuoli i Messinesi a incontrare il re. Il quale festevolmenteraccoglieli, e ringraziali, e Alaimo sopra ogni altro: che ponselo alfianco, e in pegno d'amistà gli viene svelando i sospetti, che sullafede sua e de' Sicilian tutti avea cercato stillargli un tristovegliardo, Vitale del Giudice, presentatogli a Furnari, com'esule,spoglio al mondo d'ogni cosa, per amor, dicea, della schiatta sveva,cui furo nimicissimi un tempo quest'Alaimo, questi or sì caldiparteggiatori. Tra cotali parole {203} pervenuti alla città, col foltopopolo si feano innanzi al re i sacerdoti, i cittadini più autorevoli,e la sinagoga de' reietti Giudei, per loro ricchezze or carezzati, ormanomessi in quei secoli. Solo cavalcava Piero con tutti onori dimonarca: le strade al suo passaggio trovava parate a drappi di seta ed'oro; il suolo sparso di verdi ramoscelli ed erbe odorose. Smontatosubito al duomo, rende grazie a Dio, entra in piacevoli parlari coicittadini, affabile e grato in ogni atto; e loda i monumenti dellacittà, e richiede d'ogni minuta sua cosa. Passò indi alla reggia,raccolto dalle più nobili donne, tra le quali non mancò la Macalda: edella ed Alaimo sedean anco a mensa col re. A ciò seguiron le pubblichefeste, splendidissime per la ricchezza, liete per l'affratellarsi deicittadini coi seguaci di Pietro. Sciolsersi i voti fatti al Cielo neltempo dell'assedio; nè altro spirava il paese, dice Bartolomeo deNeocastro, che ilarità, pace, e sollazzo[4].
Ma ripigliaronsi in pochi dì le fatiche dell'arme, come vedeansi perlo stretto le nemiche navi a stuoli ritornar da Catona ai vari portidel regno. Era entrato il nove ottobre in Messina con ventidue galeecatalane Giacomo Perez, natural figliuolo del re; e altre quindicidelle disarmate in quel porto n'avea fatto allestir Piero tra glistessi primi {204} festeggiamenti. Accozzate in tutto cinquantaduenavi da battaglia, diè dunque principio a travagliare il nimico, nonostante la disuguaglianza delle forze; ma pensava esser quelloscoraggiato e discorde, i suoi in su la vittoria. Nè ascoltò chisconsigliava quest'impresa; montò ei medesimo sulle navi catalane;arringò alle ciurme; nel nome di Dio le benedisse promettendovittoria, e sbarcò. Il dì undici ottobre, tornando i Catalanidall'inseguire invano un primo stuolo angioino pe' mari di Scilla,avvistatone un altro più grosso verso Reggio, mettono insieme coiMessinesi l'armata; contro vento e corrente vogan robusti sopra gliavversari. A ciò salito in furore re Carlo, facea tutte escir le suenavi al numero di settantadue, ma nè bene in attrezzi, nè in uomini;donde sbigottite a quel difilarsi de' nostri sì destri e bramosi dellazuffa, rifuggironsi a terra. Spintesi allor le catalane e sicilianenavi fin sotto le fortezze, chiamano a battaglia i nimici; li aizzanocon le ingiurie; sfidanli coi tiri delle saette; nè traendoli fuoricon ciò, tornansi bravando a Messina. Tre dì appresso, salpati daReggio quarantotto legni, perchè speravan che il vento ripingesse inporto l'armata di Sicilia, essa li investì con tanta virtù sua escoraggimento degli avversari, che una schiera di quindici galeenostre, trovandosi innanti nella caccia, pur sola diè dentro, eventidue ne prese tra di Principato, marsigliesi e pisane. Quando diCalabria videro ingaggiare l'inegual conflitto, ch'era presso iltramonto del dì, non tenendo dubbia la vittoria, con luminarie lafesteggiarono; onde molta ansietà ne surse in Messina; e s'accrebbe ladimane, scorgendo un grosso stormo di vele che drizzavansi al porto.Si distinser poi le insegne; sventolanti in alto le aragonesi esiciliane, strascinate in mare quelle d'Angiò; e tra l'universalegiubbilo preser porto le navi, recando, narra il d'Esclot, quattromilacinquanta {205} prigioni. Caduto il dì, con fuochi e lumi sfolgorantiper tutta Messina, rendeasi cenno delle fallaci dimostrazioni dellanotte innanti in Calabria[5].
Più nobil tratto e di più atto argomento Pietro adoperò co' prigioni.Due dì appresso, ritenendo soltanto i Provenzali, fatto adunar glialtri sul prato a porta San Giovanni[6], benigno parlava: conoscesseroor lui e Carlo di Angiò; questi avrebbe messo a morte ogni prigione;ei liberi a lor case rimandavali senza riscatto, sol che promettesseronon portare le armi contro Sicilia, e recasser lettere per Puglia ePrincipato, invitando que' popoli a mercatare nell'isola, chesarebbervi sicuri e graditi, venendo con intendimenti di pace. Offrì isuoi stipendi a chi volesse; agli altri fornì barche e vivanda; e fe'dispensare un tornese d'argento per capo. Talchè essi lietamente sitornavano, a spargere nel reame di terraferma le lodi del nuovo re diSicilia; confortandoli {206} a gara i Messinesi con savie parole:nulla da' Siciliani temessero, nimici solo agli stranieri oppressori;alla gente italiana non già, che tratta a forza a questa guerra,benediva in suo cuore[7] la rivoluzione siciliana.
Così entro due settimane, rincorati i Messinesi con tali ardimenti dinaval guerra, cavata a' nemici ogni fantasia di ripassare in Sicilia,e gettata anco l'esca a' popoli di terraferma, Pietro cavalcò ilsedici ottobre per Catania, a mostrare in val di Noto il viso e labenignità del principe nuovo. Onde in un parlamento di quanti sindichidi comuni si poteano in fretta adunare, ei stesso orò nella cattedraledi Catania: dalle unite forze avrebbero ormai sicurezza; godrebbersilor franchigie, e giustizia nel governo, e riparazione di tutti gliabusi angioini; che il ben de' sudditi, dicea, è ben del monarca; latirannide li avea spolpato, la libertà porterebbe rigoglio e dovizie.Cassò di presente le collette; abolì i dritti odiosissimidell'armamento delle navi; bandì non tornerebber quelli mai più sottoil governamento suo, nè dei successori; mai la corona non leverebbed'autorità propria generali nè parziali sovvenzioni. Il parlamento gliaccordò allora i sussidi per sostenere la guerra: e a questo effettoei torna senza dimora a Messina il ventiquattro di ottobre[8]. {207}
Permutate lor sorti, la Sicilia si faceva ad assaltare, a portarfomite e aiuto ai popoli scontenti, a turbar di là dallo stretto ognicosa: e Carlo alla meglio recavasi in atto di difesa nel discreditodella sua diffalta. La vien palliando perciò con iscrivere aimagistrati di terraferma, affinchè non restin presi alle ciance delvolgo, com'ei, dato spaventevole guasto alle campagne di Messina,percossa e condotta agli estremi la città, da non poterle ormai giovarnulla il sospeso assedio, sopravvenendo il verno, s'era consigliato,per la comodità delle vittuaglie e la sicurezza delle navi, a ritirargli alloggiamenti un pocolin[9] di qua dallo stretto; per tornar poi amigliore stagione, con più formidabile apparecchiamento, da schiacciarsotto i suoi piè le corna dei protervi ribelli[10]. Cotesti vantitradiva con una sollecitudine estrema di custodir le spiagge da tuttaincursione di que' che pur chiamava pirati; e ponea velette epattuglie; ordinava segnali, di fuoco la notte, di fumo il dì, chedesser l'allarme scoprendo la nostra bandiera[11]: perchè in verol'aragonese e siciliana flotta correa vincitrice il Tirreno; armandosidi più parecchi galeoni a corseggiare[12]; onde grave il danno, emaggior lo spavento, stendeasi per le marine di tutto il reame diPuglia. A mettervi riparo ordinò Carlo ancora di racconciarprestamente tutte le galee, e cento teride[13]. Rimandate le miliziefeudali del regno e gl'italiani aiuti, tenne insieme i soli Francesi e{208} stanziali, che sommavano a sette migliaia di cavalli e dieci difanti. Alla Catona e in altri luoghi marittimi di Calabria li spartìin grosse schiere: a Reggio ei rimase con la più forte[14]. E, per nonsembrare inoperoso, un messaggio di rimbrotti mandò a re Pietro, giàtornato a Messina.
Per Simon da Lentini, frate de' predicatori, il mandò, che affidatonella chierca, rinfacciava al re d'Aragona: l'ingannevole risposta su iprimi armamenti suoi; la guerra non denunziata, portata mentre fingevaamistà e trattava parentado; l'occupazione ingiusta del reame: conl'arme gliel proverebbe re Carlo. A que' detti che suonavano slealtà etradimento, balzò Pietro dal seggio, concitato nei passi, alterato ilsembiante; ma in un attimo tornando padrone di sè, gli fea bilanciatarisposta: tra lui e 'l conte d'Angiò gli omicidî di Manfredi e Corradinoaver già da lungo tempo rotto la guerra: a ragione tener questo reame,per eredità ed elezione de' popoli: mentir però chi gli apponeatradigione: e sì che il sosterrebbe in duello[15]. Onde due messaggiinviò a re Carlo, coi quali delle condizioni {209} del duello si disputòlunga pezza; perciocchè re Carlo non amando a misurar le declinanti sueforze con la robusta età dell'Aragonese, volea compagni molti alcombattere, chè tanti sì prodi, avvisava, non potrebbe trovarl'avversario: e questi, tenendosi al singolare combattimento, offriavenirne senz'arnese contro Carlo coperto di tutt'arme; e sì ricusava ilduello in Calabria, a meno che non gli si desse in istatico il principestesso di Salerno. Accordaronsi al fine che i due re con cento cavalieriper ciascuno s'affrontassero a provare: «Carlo, come provocatore, esserPiero entrato nel reame di Sicilia contra ragione e in mal modo, senzasfidarlo dapprima: e il re di Aragona, come difensore, che l'occupazionee tutt'altro fatto contro Carlo, non fossero macchia all'onor suo, nèopera da vergognarne dinanzi a dignità di tribunale o cospetto d'uomgiusto.» Ad ultimar la scelta del luogo e del tempo, si deputavan seicavalieri dell'uno e sei dell'altro, per lettere patenti date ilventisei dicembre. I quali, convenuti nel real palagio di Messina,ferman, che si combatta in campo chiuso nel contado di Bordeaux inGuascogna, come vicino a Francia e ad Aragona, e tenuto dal giustoEduardo re d'Inghilterra: il primo giugno milledugentottantatrè sipresentin quivi i {210} due principi a Edoardo, o a chi egli manderà, o,in difetto, a chi per lui regga la terra; ma, salvo nuovo accordo, nonsi venga allo scontro, se non presente Eduardo; aspettandolo infino atrenta dì, sotto fede di non si offendere reciprocamente in Guascognainfino al duello e otto dì appresso. Stipulano in ultimo che qual manchiad appresentarsi co' suoi campioni, tengasi d'indi in poi «vinto,spergiuro, falso, fallito, infedele e traditore, spoglio del nome eonore di re». Ratificaron ambo i principi questi capitoli con sacramentosugli evangeli. E com'era costume, chiamandosi a guarentigia dei re iveri arbitri dello stato, quaranta per ciascuna parte de' primari baronie capitani giuravano sul sacro libro, che legalmente e di buona fedesecondo lor potere procaccerebbero l'osservanza di que' patti: che se illor principe fallasse, mai più non vedrebbero la persona di esso, nèaiuto di braccio gli presterebbero, nè di consiglio. Da loro soscritti edai re in buona forma, si stendean di tutto ciò due atti, dati, quel diparte aragonese di Messina, l'altro di Reggio; ambo il trenta dicembre:e in questo leggesi, tra molti nobili nomi francesi, un GiovanniVillani, congiunto forse del fiorentino istorico[16]; nel primo notansiAlaimo di Lentini, il conte Ventimiglia, Ruggier Loria, Gualtiero diCaltagirone, e Pietro fratello, Giacomo Perez, natural figliuolo delre[17]. Gli scrittori parteggianti {211} per l'uno o per l'altro deiprincipi li accusavan poscia vicendevolmente d'inganno. Dissero inostri, che Carlo pretestando il duello volesse trar di Sicilia ilrivale, per riassaltar l'isola più francamente, e spegner il fomite diribellione in terraferma[18]. Di pari astuzia i Guelfi accagionavanl'Aragonese, supponendolo erroneamente provocatore al duello, come seper tema delle forze superiori di Carlo divisasse differir tanto laguerra, che inoperosi morissero nel meridional clima i Francesi[19].Pensasserlo o no, Carlo e Pietro uomini eran ambo da meritare l'accusa.Ma forse la sfida non fu che un appello alla opinione pubblica allaguisa dei tempi; come un Pietro e un Carlo d'oggidì {212} farebbero conpromulgar dicerie d'umanità, legittimità, bilancia di potere, comodi de'commerci, bene de' popoli.
E Pietro ebbe il destro d'esplorar pei messaggi affaticantisi in que'riti cavallereschi, la condizione e postura de' nimici, su i qualis'apprestava a portar la vera guerra[20]: e volle incominciarla coninfestagion di truppe leggiere, che riconoscesser meglio il paese, egli coprisser lo sbarco. Ondechè sapendo da Bertrando de Cannellis,reduce dal campo francese, come duemila cavalli e altrettanti pedoni amala guardia se ne stessero alla Catona; mosso ancora dal pregar deglialmogaveri, ch'anelavan battaglia e bottino, il sei novembre appressoil tramonto, fea partir chetamente da Messina quindici galee con ungrosso di fanti sotto il comando del suo natural figliuolo; cui purnon affidò altrimenti il disegno, che in un plico da schiudersi inmare. Colto all'improvvista così a profonda notte il presidio dellaCatona; fatto assai strage e prigioni; volti in fuga i più; eincalzati infino a Reggio: che fu trapasso degli ordini,pericolosissimo perchè raggiornava. Spiacque al re sì forte latemerità di Giacomo, che per amor che gli portasse, nè per meritodella vittoria e preda, non si trattenne dal torgli il comando: e astento ad intercession de' baroni gli perdonò gastigo più grave;pensando che solo uno estremo rigor di ordini potesse rendersicuri[21] quegli audacissimi {213} colpi tra tante grosse postenimiche. Per pratiche ebbe intanto la terra di Scalea in Principato;al cui reggimento il dì undici novembre mandò Federigo Mosca conte diModica[22]. Cinquecento uomini pose sulla estrema punta di Calabria: iquali annidatisi negli antichi boschi di Solano, costernavano ilpresidio di Reggio, con iscorrere in masnade pei contorni, rapirvittuaglie, infestare le strade, tutte comunicazioni troncargli[23].
Tra queste scaramucce e 'l trattato del duello, il sanguinoso annoottantadue chiudeasi chetamente, lasciando i semi sì di lunghissimeguerre; alle quali non erano per mancare nè motivi, nè danari, nèuomini. Perchè oltre la propria potenza di Carlo, la corte di Romavedendo tornar vane le prime prove, cominciò a rinforzare i comandispirituali e le pratiche, co' sussidi di moneta; le città guelfed'Italia, necessitate da lor maligna stella a sostener la casad'Angiò, mandaron tuttavia molte genti, e talvolta anco danaro; edoltre le Alpi la guerriera schiatta francese era pronta sempre a dareil suo sangue. Infin dal primo annunzio della strage in Sicilia, ilprincipe di Salerno corse di Provenza a Parigi, a rincalzar leinchieste del padre, a comporre le liti che questi avea con la reginaMargherita di Francia per cagion delle contee di Provenza e diForcalquier[24]. {214} Ottenne da Filippo l'Ardito un sussidio diquindici mila lire tornesi[25], e favore a levar a un di presso milleuomini d'arme. Questi condotti dal principe e da' conti d'Alençon,Artois e Borgogna del sangue reale di Francia, e spesati in parte dalpapa[26], con assai altri cavalieri passavano in Italia in dueschiere, tra la state e l'autunno ed[27] alle Calabrie avviavansi,dove sempre furono combattute le guerre dei due reami di Sicilia e diPuglia, e gli uomini per somiglianza d'indole e paese, più tennero a'vicini d'oltre lo stretto, che a que' di terraferma. Al tempomedesimo, il papa consentiva a Carlo, che ne' presenti pericoli dellostato mettesse presidio nelle fortezze di Monte Casino, e intutt'altre possedute da corpi ecclesiastici nel regno suo, sotto fededi restituirle a ogni cenno della Chiesa[28]. Ed egli, sentendosi pertali aiuti più sicuro in quelle province, partì come per andarsi alduello, che ancor gliene avanzavano cinque mesi; ma fu che volleultimar da sè stesso le pratiche con Francia e col papa[29]; o {215}sforzato da' tempi a moderare in Puglia la dura dominazione, glirifuggì l'animo superbo dal farlo con le mani sue proprie. Pertanto,creato vicario generale del regno il principe di Salerno, unicofigliuol suo, per nome anche Carlo, e da vizio della persona detto lozoppo, comandò da Reggio il dodici gennaio milledugento ottantatrè aimagistrati e officiali, che a costui ubbidissero come alla persona suastessa[30]. Altresì gli commetteva lo esercito[31]. Ma pria perconsiglio de' conti di Alençon, Artois, Borgogna, Squillace, Acerra,Catanzaro, mutò la linea di difesa dalla riva del Tirreno al corso delMetauro; o perchè i nostri tenendo il mare e i boschi di Solanoaffamavan tutta la estrema punta delle Calabrie[32], o perchè ei pensòadescarli tant'oltre, che in mezzo ai suoi formidabili cavallis'avviluppassero[33]. Perciò, abbandonata Reggio e i contorni, accampòil grosso delle genti nelle pianure di Santo Martino e di Terranova; eposò forti schiere in alcuna terra all'intorno. E pria che sgombrasseReggio, i cittadini tanta finser nimistà coi Messinesi, e paura eincapacità a difender la terra senza presidio francese, che il reassentia si desser pure al nemico, se così portasse la fortuna, e nonne avrebber nota di fellonia. Com'ei volge le spalle, i Reggiani,{216} per oratori raccomandati ai Messinesi, offron sè stessi e lacittà a re Pietro[34].
Avea già questi messo in punto ogni cosa al passaggio; affidato al proRuggier Loria il comando della flotta[35]; accozzato in Messina traCatalani e Siciliani gran podere di gente[36]; chiamando al militareservigio i baroni dell'isola, ch'alacremente il seguiano[37].Quell'oste il re ordinava con poca man di cavalli, ed elette banded'arcieri, balestrieri, e sopra tutto almugaveri: fanteria spedita,chiamata così dagli Spagnuoli con moresco vocabolo. Breve saio acostoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa,calzati d'uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fiancouna spada corta e acuta, alle mani un'asta con largo ferro, e duegiavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poinell'asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri,guide piuttosto che capitani, chiamavansi, anche con voce arabica,adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non aveano stipendi,ma quanto bottino sapessero strappare al nimico, toltone un quinto pelre; nè questo medesimo contribuivano, quand'era cavalcata reale, ossiagiusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagioni, ad asprezzadi luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comunedegli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi discorrerie, del resto mangiavan erbe silvestri ove altro nontrovassero: e senza bagaglie, senza impedimenti, avventuravansi {217}due o tre giornate entro terra di nimici; piombavano di repente, elesti ritraeansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balzee boschi più che in pianura; fortissimi ovunque i cavalli non potessercombattere. Ben seppe farne suo nerbo alla guerra delle montuoseCalabrie re Pietro; e agevolmente li ordinò, perchè gli alpigianiSpagnuoli solean darsi a quest'aspra milizia, ed or parea fatta peiSiciliani, nati tra montagne, svelti, audaci, di mano e d'ingegnoprontissimi[38].
Con sì fatta gente a valicare lo stretto si apprestava re Pietro,saputo l'indietreggiar de' nemici, quando l'ambasceria di Reggio sìl'affrettò, che il dì appresso che fu il quattordici di febbraio,navigava a quella città; recando seco nella sua galea medesima tra ipiù fidati baroni Alaimo di Lentini. Accolsero tanto più lieti iReggiani, quanto, aperto il mare, dopo lunga penuria, ogni vivandaappo loro abbondò. L'oste parte albergava per le case; parte, nonbastando quelle, attendavasi alla campagna. Tutta la Calabria allorapiena della riputazione del re, cominciò {218} occultamente ainviargli messaggi: e prima Geraci scoprissi, ov'ei mandò RuggierLoria, e Naricio Ruggieri conte di Pagliarico, l'uno a prender,l'altro a regger la terra[39]. Egli intanto disegnando accostarsi alnemico esercito, il dì ventitrè febbraio, con un sol compagno acavallo, trenta almugaveri e una guida, per cupi sentieri di valli eboschi infino agli alloggiamenti si spinse a riconoscere. Tornatosi aReggio, conduce i suoi pei boschi di Solano; e ad otto miglia dalgrosso delle genti francesi, e non guari lontano dalle altre lorposte, li accampa in un rispianato che ha nome la Corona, sopraalpestri e salvatichi monti, sicuro da assalti, comodo portarne su iluoghi bassi d'intorno. Quivi i Greci del paese, usi a praticar senzasospetto tra i nimici, d'ogni fiatare di quelli il ragguagliavano.Cheto aspettando ei posava, come se quelle foreste lo avesseroinghiottito; tantochè in Calabria il bucinavano già uom dappoco eacquattatosi per paura[40].
Quand'ecco stando agli alloggiamenti a Lagrussana presso Sinopolicinquecento cavalli capitanati da Ramondo de Baux, mentre stanchi digozzoviglia senza scolte straccurati giaceansi una notte, repente unfracasso li riscuote; gli almugaveri come torma di lupi saltano tragli alloggiamenti; scannano, rapiscono; sconosciuto tra i gregariammazzan Ramondo; e prestissimi dileguansi col bottino[41]. Non andòguari che un Arrigo Barrotta tesoriere di Carlo, recando sei mila onceper gli stipendi dello esercito, nella terra di Seminara albergò;stanza in quel tempo di ottocento cavalli francesi. Avutane spia rePietro, l'adescò lor mala guardia, e più la moneta. Onde il tredicimarzo a sera, {219} ei stesso con trecento cavalli e cinquemilaalmugaveri calavasi chetamente da Corona: e giunto a tre miglia daSeminara, fatte posar le genti svelò il meditato colpo. Quel generosoAlaimo il contrastava. Qual lode a re, dicea, da notturna rapina, edisutile strage? Vano il pensier sarebbe di tener Seminara sì pressoal campo nimico. Lasciata dunque la misera terra, al campo si vada: lìil principe di Salerno, il fior della corte di Francia, sbadati,sicuri; investisserli risolutamente; che l'audacia partorirebbefortuna, o gloria certo. Taccion le istorie il contegno del re, leparole, che furon certo pacate, i proponimenti, forse fieri esinistri, che gli si ribadirono in mente contro l'eroe di Messina.Ostinato a Seminara ei marciò. Dove mentr'una schiera accostavasi almuro debolmente combattuta delle guardie, gli altri occupatevelocissimi le porte, troncano ogni difesa. Il re, come sepratichissimo della terra, dritto sprona all'albergo del tesoriero: nèla moneta pur trova, mandata al principe il dì innanzi. Allora,postosi fuor dalle mura, alle riscosse contro gli aiuti che potesservenire dal campo, inondan Seminara gli almugaveri. Il Barrotta,d'ordine chierico, soldato a' costumi, desto dal fracasso, lasciandouna donna che seco avea, sorge, dà di piglio all'armi, e fieramentedifendendosi è morto. Cadon altri resistendo; e fuggono i più, qualsenza panni, quale a piè, qual balzando sull'ignudo cavallo; ma eragente sì ordinata, che, non ostante il subito scompiglio, dacinquecento rannodaronsi di lì a una mezza lega aspettando il dì, epartendosi poi i nostri, rientrarono in Seminara. Messa questa intantoa ruba e a guasto: per severo divieto del re furon salve tuttavia levite degli abitanti, che fuggendo si dileguaro. Al nuovo alborestraccarichi di preda rinselvansi i Catalani e i Siciliani allaCorona; non molestati dal nemico, il quale agli avvisi dei fuggentis'era desto a tumulto, ma sorpreso e scoraggiato sì fattamente, chevolendo {220} il principe di Salerno muover pure a un assalto, niunonol seguì. La dimane ei manda un drappel di cavalieri a Seminara; da'quali intendendo non potersi munir contro nuova fazione, perchè nonn'abbia comodità il nimico, la fa sgombrar anche da terrazzani,spartiti per le altre terre di Calabria ad accattare il pandell'esilio[42].
Con questo notturno guerreggiare e occulto adoprare, il re d'Aragonaoccupò parecchie terre intorno il campo stesso nemico; menomandosi adogni dì le speranze nei Francesi, che senza ferir colpo consumavansi.Per lo contrario crescea Pietro di riputazione e di forze; e lacatalana e siciliana gente imbaldanziva per la fortuna dell'arme e perlo ricco bottino: che per lo bottino, scrive un guelfo, assalivan leterre; per la moneta del riscatto facean prigioni, e per le cuoiarapivan gli armenti[43]: e anco dal catalano Montaner s'intende comequelle masnade a gara chiedesser le più rischiose fazioni perarricchirsi, e cupide e animose nè a numero nè a forza de' nemicibadassero[44]. E {221} già, come signor de' mari, stendendosi Pietropiù a dilungo, prende sull'Adriatico Geraci, chiamato da' terrazzani.Quivi, serratosi nella rocca a' movimenti primi de' cittadini ilpresidio francese capitanato da un Guidone Alamanno, il re d'Aragonagli dava assalti ogni dì; e per fame e sete già riducealo, quando unsospetto d'umori nuovi in Sicilia, il fe' precipitare al ritorno[45].
In questo tempo la regina Costanza, chiamata da Pietro, fin quandopattuivasi il duello perchè restasse al governo in Sicilia, era venutadi Catalogna in Palermo co' minori figliuoli suoi, Giacomo, Federigo,e Iolanda[46]; seco recando cortigiano o consigliero quel Giovanni diProcida, che sulle memorie degne di maggior fede or la prima voltaappar venuto in Sicilia, nè più se ne facea menzione dopo quegliantichi disegni tra esso, Loria, ed il re[47]. Vedendo dunque lafiglia di Manfredi, e i giovanetti principi di vago e nobil {222}sembiante, la moltitudine esultava e plaudiva; soddisfatta alsì dallenovità, e dalle vittorie di terraferma. Ma tra i baroni e' l renasceano molti sospetti. Perch'avendogli dato quei la corona, superbiain loro, e nel re dispetto del troppo beneficio, lavoravan tanto, chea' baroni non bastava guiderdone o favore, al re parea fellonia ognipicciolo scontento; e cominciava egli a giocare con suoi scaltrimentiper abbattere i più audaci. È probabile inoltre che cagionassedispiacere la pattuita e mal osservata ristorazione agli ordinipubblici de' tempi di Guglielmo il Buono[48], di cui s'avean ideeindefinite e pressochè favolose: onde tanto più ardentemente livagheggiavano i popoli, tanto più diveniano difficili a soddisfarsi;nè Pietro era principe arrendevole, nè mantenitor di franchige chemenomassero l'autorità regia. Pungea fors'anco i nostri invidia de'Catalani, e del non aver parte abbastanza ne' pubblici affari; ondealcun pensava non aver mutato la tirannide in libertà, ma la personadel principe e la nazione de' signori: i quali umori è naturale cheda' baroni passassero anco ne' popolani più veggenti, nè ignotirestassero al re. Stando Pietro così sotto il castel di Geraci,avvenne che il dì otto aprile, preso uno spion de' nemici, rivelavapratiche del principe di Salerno in Sicilia. Confessò, dice ilNeocastro, essersi indettato Gualtier da Caltagirone a dargli in balìatutta l'isola, se alla partenza di Pietro per Bordeaux, mandasse {223}in alcun porto di val di Noto cinquanta galee con un grosso di cavallifrancesi. Il quale Gualtiero, signor di Butera e d'altri feudi,possente sopra ogni altro in val di Noto, e famoso appo i narratoridella congiura di Procida, al primo avvenimento del re avea chiestod'andar tra i cento campioni al duello; ma poi deluso nelle sueambizioni, o sospicando de' governanti, venne a tanta contumacia, chesolo tra' siciliani baroni, per inviti che replicassegli il re, niegòdi seguirlo in arme in Calabria. Ciò dunque a' detti della spiaaggiugnea fede[49]. Saba Malaspina sol narra, che mandata la spiaprima della forca a' tormenti, svelato avesse vaghe macchinazioni inSicilia; e che questo indizio, riscontrato co' sospetti anteriori,conducesse a supporre una cospirazione contro la reina e i figliuoli,trattata con parecchi baroni da Palmiero Abbate, oriundo di Trapani,cittadin palermitano, ricchissimo in val di Mazara per terreni edarmenti, prode in arme, picciol di persona, grande di fama[50]. Delresto poco montano i nomi, e certo ritraesi nata nel baronaggio unatrama, o supposta e spacciata da Pietro perchè la temea. In quel tempostesso gli giunse la nuova dello arrivo della reina in Palermo; e andòin Calabria a trovarlo Piero fratel suo, ansioso tornandogli allamente il solenne patto del duello; che il dì sovrastava; che {224} maispergiuro non infamò il sangue regio d'Aragona; non si mostrasse egliprimo a tutta cristianità mancatore e codardo. Stretto dunque a tornardi presente in Sicilia e affrettarsi al duello, fremendo Pietro sirestò dalla impresa di Calabria; le terre occupate abbandonò; sciolsel'esercito: e lo stesso dì Gualtier da Caltagirone alfin veniva alcampo di Solano: tardo consiglio in vero a purgar sì gravisospetti[51].
A dì quattordici aprile, con le genti e il vasto bottino, Pietrovalicava lo stretto. Il ventidue la reina co' figli, chiamata daPalermo, con lui si trovò a Messina[52]. Dove adunati a parlamento ildì venticinque i sindichi delle città, per ordinare lo stato primach'ei si partisse dall'isola, con assai dimostrazione di affetto, ilre lor presentava que' suoi carissimi pegni, e: «Partir, dicea, m'èforza da questa terra, che amo quanto la stessa mia patria. Io vadoinnanti a tutta cristianità a confondere il superbo nostro nimico; avendicare il mio nome nel giudizio di Dio. Perchè tutto io ho commessoalla fortuna per amor vostro, o Siciliani; e nome, e persona, e regno,e l'anima stessa. Nè men'incresce già, vedendo coronata l'impresadall'onnipossente man del Signore; il nimico lungi di Sicilia;inseguito e prostrato in terraferma; ristorate le vostre leggi efranchige; voi crescenti a ricchezza, a gloria, e prosperità. Lascioviuna flotta vincitrice, capitani provati, fedeli ministri, la reinavostra e i nipoti di Manfredi. Questi giovanetti, la più cara partedelle mie viscere, io v'affido, o Siciliani, nè tremo per essi. Anzi,com'aspri e dubbi sono i casi della guerra, ecco novissima guarentigiaa' vostri dritti: Alfonso avrassi alla mia morte Aragona, Catalogna eValenza; Giacomo, secondo figliuol mio, mi succederà sul {225} tronodi Sicilia. La reina e Giacomo terranno finch'io sia lungi le veci dire. E voi docili serbatevi al paternale impero; forti contro i nimici,e sordi alle insidie di chi cerca novità per vendervi ad essi.» Poivolto ad Alaimo: «Sian tuoi figli, disse, la mia consorte, i mieifigli! e voi qual padre onoratelo[53].» Assentiva il parlamento lasuccessione di Giacomo, proposta forse dal re, perchè il parlamento ela nazione voleanla; non soffrendo che l'antico reame ridivenisseprovincia d'altro più lontano, e ubbidisse a gente straniera. Cosìriparato alla principal cagione di scontento, volle anche rafforzarsidella virtù e gloria di Alaimo. Il creò gran giustiziere[54]; ma glialtri maggiori ufici die' a suoi fidati: fatti Ruggier Loria grandeammiraglio[55]; Giovanni di Procida gran cancelliere, e il catalanoGuglielmo Calcerando vicario, forse nel comando dell'esercito; e ancol'armò cavaliere. Gli ufici minori accomunò ancora tra Catalani eSiciliani: volle che in tutto il maneggio dello stato nulla senzasaputa della regina non si comandasse. Ciò ordinato, cavalcò via daMessina il ventisei aprile; e prima investì Alaimo delle signorie diBuccheri, Palazzolo e Odogrillo; e baciatolo affettuosamente, gli donòil suo {226} proprio destrier da battaglia, la spada, l'elmo, e loscudo[56].
Con questi ordinamenti Pietro a tempo racchetò la nazione, e potèsenza pericolo, pria ch'ei lasciasse l'isola, assicurarsi con prontifatti de' pochi tuttavia discredenti e {227} immansueti. Volle mostrarda vicino la regia autorità per le terre più affette a Gualtier daCaltagirone. Però comanda che l'infante ed Alaimo il seguan tosto; edei va a Mineo il ventotto aprile: dove intendendo essersi gridata giàa Noto la ribellione, a stigazion di Gualtiero, da Bongiovanni diNoto, Tano Tusco, Baiamonte d'Eraclea, Giovanni da Mazzarino, Adenolfoda Mineo e altri molti, aspetta Alaimo e il figliuolo; consultane conessi di sopraccorrere su i sollevati senza dar loro tempo a ordinarsi;e avvia que' due a Noto; ei cavalca per Caltagirone a trovar drittoGualtiero. L'irresoluto non l'aspettò; ma borbottando co' suoi che nonsosterrebbe il sembiante di questo principe, cortese a lui sì, masoperchiatore e pessimo nella signoria, si ridusse nella forte terradi Butera. Il re vedendolo dileguare e spregiandolo, senz'altroindugio fu a Trapani ad affrettare il viaggio[57].
Alaimo intanto spegnea senza sangue i ribelli. All'entrar di maggioappresentatosi a Noto con Giacomo, lascia il giovanotto poco lungidalla città; egli fattosi con quattro uomini soli alla serrata e nondifesa porta, e abbattutala, al popol grida a gran voce, che corraall'incontro del re. E il popolo, aggreggatoglisi intorno a que'detti, docilmente correva a salutare l'infante; perchè se il nome diGualtiero e' l romor de' suoi seguaci il sommossero un istante, nonpotea per anco bramar gagliardamente nuove mutazioni di stato; nèsenza forte volere il popol resiste a grandi nomi ed opere risolute.Indi ognuno abbandonò Bongiovanni, che minacciando era accorso; maforza gli fu arrendersi ad Alaimo, e gittargli ai pie' le sue armi.Tano Tusco fuggendo è preso, e alla tortura svela ogni cosa[58].
Ignorando questi eventi, Gualtiero se ne stava in Butera, armato comein ribellione, e spreparato d'animo e di guardie {228} come in pienapace; quando il tre maggio con grossa scorta l'infante ed Alaimo vicavalcarono: e fermatosi a riva il fiume Giacomo con le genti, Alaimoascese il poggio; sforzò le porte senza contrasto, come a Noto; edentrando esortò anco la moltitudine a farsi innanti a Giacomo condimostrazioni di lealtà e di gioia. Onde i terrazzani, i quali aGualtiero non eran sì devoti, ma li tenea sospesi spargendo partito ilre, ita sossopra in Sicilia la dominazione d'Aragona, ora al nome diAlaimo, al saper sì presso l'infante, non pensarono ad altro che afargli onore; e maledicendo Gualtiero e sue fole, chi affollavasi alleporte, e chi si calava da' muri, e tutta la moltitudine scendendo alfiume per quella pendice si sparse. Alaimo non s'arrestò che nontrovasse prima Gualtiero. Smonta al palagio; entra: e da sessantamasnadieri toscani tutti armati a mensa sedeano con Gualtiero,banchettando e bravando, allorchè il fier vecchio fattosi innanti,franco salutò la brigata. Ammutolirono per maraviglia e dubbiezza:pendean tutti dal lor signore, che nulla si mosse; appoggiò la guanciasulla mano, il gomito sul desco; e affisava il volto d'Alaimo senzafiatare, se sbigottito o minaccioso non sel sapeva egli stesso. Alaimosi pentì quasi del troppo osare. Tacque un attimo; e risoluto: «Chevaneggi, o Gualtiero? gli disse. E tu al più vil de' tuoi mercenaristenderesti la mano, renderesti il saluto; ed Alaimo cavaliero, Alaimoamico, nelle tue stanze così raccogli! Or più che non pensi amico iovengo. Vedi in chi ti affidavi! Vedi i tuoi vassalli precipitarsiincontro all'infante Giacomo, e menarlo a trionfo! Su, vien meco afargli omaggio ancor tu, mentre ti avanza un altro istante a campar daruina certissima[59].» Tentennò Gualtiero: chiedea sicurtà che nolmenerebbero oltre i mari al conflitto de' cento; al che rinfacciavagli{229} Alaimo: averlo ambito egli stesso a malgrado del re, che nonchiedeva da lui nè braccio nè consiglio: e infine l'irresoluto sipiegò a simulate dimostrazioni d'onore. L'infante, senza credergli,l'accolse benigno; parendogli abbastanza avere spento le primescintille di aperta ribellione, ed evitato o differito quella dibarone sì possente. Mostratosi indi a Palermo, sopraccorre a Trapani,ove ansioso aspettavalo il re. Lieto ei fu del successo. Ordinòpunirsi di morte i capi della congiura di Noto; strettamente vegliarsiGualtiero[60]: e il dì undici maggio, raccomandati novellamente adAlaimo i suoi e 'l reame, sciolse da Trapani con una nave e quattrogalee. Seco addusse, campione, al combattimento di Bordeaux, PalmieroAbbate, per gratificare, scrive lo Speciale, al suo zelo e guerrieraindole; e Malaspina dice, per catturarlo in bel modo, a cagione de'raccontati sospetti di stato[61].
NOTE
[1] Bart. de Neocastro, cap. 50.
Montaner, cap. 65, parla del rammarico dimostrato dal re per non aver potuto combattere coi Francesi.
D'Esclot, cap. 95, attesta il medesimo, e che marciò con Pietro alla volta di Messina tutta la gente sua e quella del regno di Sicilia.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 43 e 87, e dal cap. 91 si scorge la età di Macalda. Il d'Esclot, che le è favorevole quanto nemico il concittadino di lei Neocastro, la dice, cap. 96,molt bella e gentil e molt prous et valent de cor e de cos e llarga de donar; e aggiugne che valesse quanto un uom d'arme, e con trenta cavalieri andasse battendo la città. Ho seguito il Neocastro che dovea saper meglio de' fatti di costei, e la dice in Catania nel tempo dell'assedio di Messina.
[3] Bart. de Neocastro, cap. 50, 51, 52, narra il proposito di Macalda con una strana chiarezza:illa enim flammam urentem gerebat inclusam, quam sub quodam taciturnitatis velamine quærebat si posset…… comprimere, credens inde suis circonvencionibus juvenem excitare, etc.
Tutto al contrario il d'Esclot, cap. 96, afferma che com'ella vide il re in Messina,que null temps nol havia vist, fon molt enamorada axi com de senyor valent e agradable, no gens per mal enteniment. Ma s'accorda meglio co' fatti la malignità del Neocastro.
[4] Bart. de Neocastro, cap. 53.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.
D'Esclot, cap. 96.
Montaner, cap. 65.
Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 274.
Quanto a' Giudei non è dubbio che in Messina e in molte altre città della Sicilia, fossero in gran numero e considerazione per le industrie e i commerci. Le nostre leggi del tempo, per non dir di tante altre memorie, ne fanno spesso menzione. E si ritrae che in Messina i Giudei, al par che i cristiani, fossero molto addetti all'industria delle tintorie, da un diploma del 24 gennaio 1292, che leggiamo presso il Testa, Vita di Federigo l'Aragonese, docum. XV.
[5] Bart. de Neocastro, cap. 53.
D'Esclot, cap. 98.
Saba Malaspina, cont., pag. 384.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.
Montaner, cap. 65, 66, 67, 68, 69.
Anon. chron. sic., cap. 41.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.
Cron. sic. della cospirazione, pag. 274.
Ho seguito a preferenza il Neocastro e gli altri due primi, che narrano con poco divario questi fatti.
Non attesi al Villani e al Malespini che portano bruciati da' nostri da 80 legni nimici, perchè Saba Malaspina e gli scrittori di parte nostra non l'avrebbero pretermesso; e Montaner accenna questo incendio (cap. 65) ma come avvenuto sulla spiaggia di Messina, che è forse quello de' principî dell'assedio (Veg. cap. VII del presente lavoro). Il Montaner in questa impiastra tre fazioni: la caccia data alle 70 navi, la presura delle 22, e il saccheggio di Nicotra, seguito nel 1284; che è nuovo argomento della poca esattezza di questo autore, il quale scrivendo vecchio e molti anni appresso, confondea nella sua memoria l'ordine e le particolarità de' fatti.
[6] Questa porta più non esiste, sendosi da quel canto ampliata la città.
[7] Bart. de Neocastro, cap. 53.
Saba Malaspina, cont., pag. 385.
D'Esclot, cap. 98.
Montaner, cap. 74, il quale porta questa liberazione in altro tempo, e la abbellisce con una munificenza incredibile; facendo dispensare camicia, farsetto, brache, cappello, cintura, coltello catalanesco, e un fiorin d'oro per ciascuno, a 12,000 prigioni.
[8] Bart. de Neocastro, cap. 54.
Diplomi dell'8 e 15 febbraio 1282 (cioè 1283, contandosi l'uno appo noi dal 25 marzo), docum. X ed XI; il secondo de' quali è citato ancora dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 135, con un altro privilegio del 20 aprile, che abolì tutti gli statuti e le leggi di re Carlo.
Forse a questo o altro simil diploma allude il Fazello (Deca 2, lib. 9), che il dice conservato infino a' suoi tempi; e il Pirri, Sicilia sacra, Not. ecc. catan. ann. 1283 che cita il parlamento e il diploma.
Che Pietro avesse abolito i dritti de' marinai è detto anco chiaramente nel capitolo 44 di re Giacomo, Cap. del regno di Sicilia.
[9]Aliquantulum.
[10] Diploma del 29 settembre 1282, docum. IX.
[11] Diploma del 2 ottobre 1282, citato nell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 244, e anche in parte trascrittovi nella nota che continua infine a pag. 246.
[12] Saba Malaspina, cont., pag. 395.
[13] Elenco delle pergamene sud., tom. I, pag. 247.
[14] Saba Malaspina, cont., pag. 384.
Bart. de Neocastro, cap. 54.
D'Esclot, cap. 97.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 274.
Veggasi anche Montaner, cap. 67 e seg. Il soggiorno di re Carlo a Reggio per tutto questo tempo, è confermato dalla data de' citati diplomi e dei seguenti altri: Reggio penultimo ottobre, undecima Ind. Ibid. 26 novembre, undecima Ind. Ibid. 1, 5 e 6 dicembre, undecima Ind. Nel r. archivio di Napoli, registro segn. 1283, E, fog. 1, 1 a t. e 4.
[15] Bart. de Neocastro, cap. 54.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 23, 24.
Saba Malaspina, cont., pag. 385, 386, 387.
D'Esclot, cap. 99.
Montaner, cap. 72.
Raynald, Ann. ecc. 1283, §. 5.
Diploma di re Carlo, in Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 651. Sul quale e su i due diplomi citati qui appresso, ho corretto lo errore di alcuni storici, che dicon fatta la sfida da re Pietro. Del rimanente la più parte di quegli scrittori si riscontra appunto co' diplomi.
I nomi degli ambasciadori di Pietro son portati variamente. Certo che vi fosse il giudice Rinaldo dei Limogi messinese, perchè, oltre l'attestato d'alcuno istorico nostro, leggiamo il suo nome ne' diplomi. Notisi che il d'Esclot diversifica in qualche circostanza. Secondo lui, due famigliari di Carlo vestiti da frati portavano a Pietro parole d'ingiurie: egli si pose a ridere, e mandò con loro per ambasciatori, suoi cavalieri onorati e d'alto affare, per intender da Carlo se i due finti frati ne avessero avuto mandato; e saputo di sì, questi legati fermarono il duello, e tornarono in Messina con gli inviati di Carlo per ordinarne le condizioni. Montaner al contrario dice il grande sdegno di Pietro al sentirsi dar quelle accuse. Io ho seguito ne' particolari piuttosto Speciale, Malaspina, e 'l Neocastro; nè è mestieri notar tutte le minute differenze degli altri cronisti.
[16] Da una scritta che ti trova nel r. archivio di Napoli, reg. segnalo 1268, A, fog. 35, si vede che fosse tra' cortigiani di re Carlo, Rinaldo Villani da Siena milite.
Un altro diploma del 28 aprile (forse 1268) che si legge nel medesimo archivio, reg. segn. 1268, O, fog. 30 a t., comanda a' regi inquisitori d'investigare i carichi dati pe' fatti di Corradino a Giovanni Villano da Aversa milite.
Non mi preme il ricercare se costoro fosser della medesima famiglia, e se tra i mallevadori di Carlo fosse stato un Pugliese o un Toscano. Perciò me ne rimango a queste semplici notizie.
[17] I diplomi leggonsi presso:
Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 226 a 234.
Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 655.
Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 101.
Lünig, Codex Ital. Dipl., tom. II, pag. 986 e 1015.
Registro di Carlo I, segn. 1280, B, fog. 151 a t., citato dal Vivenzio, Ist. del regno di Napoli, tom. II, pag. 353.
E infine li cita Michele Carbonell, Chroniques de Espanya, ed. 1567, affermando trovarsi gli originali negli archivi di Barcellona, de' quali egli era il conservatore; e similmente Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11, cap. 17. Negli archivi del reame di Francia ho veduto io ancora in buona forma un di questi diplomi: e dal gran numero di copie che se ne trova, si può ben conchiudere che si volle dare a quest'atto la maggiore pubblicità che fosse possibile.
Perfettamente rispondono a questi diplomi:
D'Esclot, cap. 100, che porta anco esattamente i nomi de' cavalieri mallevadori.
Montaner, cap. 72, 73.
Saba Malaspina, cont., pag. 388, 389.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
Bart. de Neocastro, cap. 54.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hisp. del Baluzio.
Chron. S. Bert. in Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 763; ed altri che lungo sarebbe a noverare, or più or meno esatti.
[18] D'Esclot, Montaner, Neocastro, Speciale nei luoghi citati.
[19] Nangis, vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, H. Fr. S., tom. V, pag. 541.
Breve di papa Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 86.
[20] Saba Malaspina, cont., pag. 386.
[21] Ibidem, pag. 389, 390.
Bart. de Neocastro, cap. 55, 56.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 19.
Bernardo d'Esclot, cap. 102, il quale aggiugne la valente ritirata di 30 almogaveri restati in terra, e le straordinarie prove d'un condottiere di questa gente.
Ramondo Montaner, cap. 20, narra diversa e strana questa fazione, e vi fa uccidere il conte di Alençon, da lui detto di Lauço, il quale morì alcuni mesi appresso nel campo di Santo Martino, e non in questa fazione. E veramente ei fu uno dei capitani che consigliarono nel cominciar del seguente anno 1283 il tramutamento del campo da Reggio al piano di Santo Martino, come si scorge da un diploma del principe di Salerno, cavato dal r. archivio di Napoli, e citato da D. Ferrante della Marra. Discorsi, Napoli, 1641, pag. 46, a t.
Veggasi anche l'altro diploma del 20 aprile 1283, citato al cap. X di questo lavoro.
Nelle Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, si dice ferito nelle fazioni di Calabria il conte Pietro d'Alençon, e mortone qualche tempo appresso.
[22] Che il conte Federigo Mosca nominato dal Neocastro fosse conte di Modica, si ritrae da Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 27, e da' nostri noiosi scrittori delle genealogie nobili.
[23] Saba Malaspina, cont., pag. 390.
Bart. de Neocastro, cap. 56.
[24] Diploma dato di Parigi a 20 giugno 1282, col quale Carlo principe di Salerno promettea di comporre amichevolmente questa faccenda. Negli archivi del reame di Francia, J. 511. 2.
[25] Diploma del 1303, ibid. J. 512. 24, nel quale sono noverati vari debiti di Carlo II con la corte di Francia, e in primo luogo queste 15,000 lire tornesi pagate a 18 giugno decima Ind. 1282.
[26] D'Esclot, cap. 101.
[27] Nangis, loc. cit., pag. 541.
Giachetto Malespini, cap. 217.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 62, 85.
Saba Malaspina, cont., pag. 385, 392.
Cron. an. sic. della cospirazione, pag. 266.
Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 580.
Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 610.
Chron. s. Bert. in Martene e Durand, Thes. Nov. Anec. tom. III, pag. 764.
Montaner, cap. 70, toltone l'errore della uccisione del conte d'Alençon.
[28] Breve dato di Montefiascone, 9 dicembre 1282, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §. 27.
[29] D'Esclot, cap. 100.
Montaner, cap. 73, 77, 78.
[30] Questo diploma leggesi nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 248.
Montaner, cap. 73.
D'Esclot, cap. 100.
Saba Malaspina, cont., pag. 395.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 54. Questi porta la partenza di re Carlo a 2 novembre, ch'è manifesto errore secondo gli allegati diplomi. Pur non è da toglier fede nelle altre cose al Neocastro, il quale, come in paese nemico, potea ben errare in qualche particolare, e conoscere appieno gli altri fatti.
[32] Bart. de Neocastro, cap. 57.
Saba Malaspina, cont., pag. 391. Il consiglio dei principi e capitani nominati di sopra, si scorge dal diploma citato qui innanzi a pag. 213, al proposito del conte d'Alençon.
[33] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
[34] Neocastro, Speciale, Malaspina ne' luoghi citati. Il primo porta questo permesso come dato dal principe di Salerno.
La ritirata del principe di Salerno al pian di Santo Martino leggesi anco in d'Esclot, cap. 102.
[35] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 20.
[36] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
Saba Malaspina, cont., pag. 391.
Bart. de Neocastro, cap. 59.
Montaner, cap. 75.
[37] Bart. de Neocastro, cap. 61.
[38] Saba Malaspina, cont., pag. 390, 391, 396.
D'Esclot, cap. 67, 79, 103.
Montaner, cap. 62, 64.
Da questi autori si vede che almugaveri non era nome di nazione, ma sì di milizia, come oggidì si direbbe: granatieri, cacciatori, ec.
I particolari della sussistenza e ordinamento irregolare di questi almugaveri si scorgono da Montaner, cap. 70, e da due diplomi del 7 marzo e 4 aprile 1299, docum. XXVI e XXVII, nel primo dei quali si vede la distinzione trastipendiarii,almugaveri, etmalandrini; nel secondo leggesi la divisione della predainter se, juxta eorum consuetudinem atque usum. Nell'uno e nell'altro i cognomi ben mostrano che queste masnade fossero mischiate di Spagnuoli e Siciliani.
L'altro diploma del 27 dicembre, quarta Ind. (1290), docum. XXV, mostra la niuna disciplina degli almugaveri; per la quale il re di Sicilia espressamente li avea eccettuato dalla tregua fermata col nemico, non promettendosi che ubbidissero.
In somma il modo lor di combattere era il medesimo delle bande oguerrillas, segnalatesi nelle moderne guerre di Spagna, e la disciplina assai peggiore.
[39] Bart. de Neocastro, cap. 59.
Saba Malaspina, cont., pag. 391.
[40] Bart. de Neocastro, cap. 60.
Saba Malaspina, cont., pag. 395.
[41] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
[42] Saba Malaspina, cont., pag. 395, 396.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 22.
Bart. de Neocastro, cap. 61.
E con meno particolarità, d'Esclot, cap. 102.
[43] Saba Malaspina, cont., pag 395, 397.
[44] Montaner, cap. 70, 75.
Il quale scrittore porta con molta confusione e inesattezza questa prima guerra di Calabria, talchè inutile opera sarebbe a notar d'uno in uno i suoi errori.
Il d'Esclot, più accurato sempre, non dice che la fazion di Seminara. Ei passa sotto silenzio la cagione del sollecito ritorno di Pietro in Sicilia.
È da notare che, raccontando come gli almugaveri nell'infestar le Calabrie spingeansi fino agli alloggiamenti nemici, d'Esclot, a cap. 103, porta il seguente fatto. Preso da' nimici un almugavero, e portato al principe di Salerno, questi vedendol piccino, male in arnese, e orrido d'aspetto, sclamò che gente sì cattiva e selvatica non potea aver cuore. E l'almugavero replicava: ch'egli era l'ultimo di sua gente, ma pur si proverebbe col miglior cavaliere francese, a patto che vinto rimanesse a discrezione, vincitore avesse la libertà. Nella bizzarria dei tempi il principe assentiva. Talchè rese all'almugavero le sue armi, e fatto venire un valente cavalier francese, fuor le trincee si die' luogo al duello. Il cavaliero preso del campo si serra sull'almugavero; il quale schivando d'un salto la lancia, trasse al cavallo un fermo colpo di giavellotto alla spalla; e, abbattutolo, vien addosso al cavaliero, tagliali i lacci dell'elmo, e con la coltella già l'uccidea. Allora il principe donatagli una veste, libero il rimandò a Messina. E Pietro gareggiando in cortesia, rendea al Francese dieci prigioni anco vestiti, dicendo che così sempre darebbe dieci per un de' suoi.
[45] Saba Malaspina, cont., pag. 397.
Bart. de Neocastro, cap. 55 e 61.
[46] Bart. de Neocastro, cap. 62.
Anon. chron. sic., cap. 42.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
D'Esclot, cap. 103, dice anche venuta la regina Costanza in aprile.
[47] Saba Malaspina, cont., pag. 397.
Montaner, cap. 59 e 99, il quale portando questo fatto dopo il giorno del duello, scordò certo il tempo del viaggio della regina per Sicilia, ma rammentava bene tutte le minuzie personali, e dice venuti con essa Giovanni di Procida e Corrado Lanza. Il Montaner fa menzione al cap. 97 e al 99, al proposito di questa venuta della regina Costanza in Palermo, di due nostri notissimi monumenti nazionali; la cappella del real palagio di Palermo, che esiste ancora in tutta la sua bellezza, ed era, dice il Montaner, una delle più ricche cappelle del mondo; e la sala verde dello stesso palagio ove teneansi i parlamenti.
Quivi, continua il Montaner, s'adunò un parlamento per la venuta della regina, ove Giovanni di Procida parlò per lei, e Matteo da Termini rispose a nome del parlamento: ma agli altri particolari non è da attendersi, scrivendo Montaner nel falsissimo supposto che ciò fosse stato dopo la partenza di Pietro, e dopo il duello.
[48] Si vedrà nel progresso di questo lavoro come la costituzione di Guglielmo il Buono fu la stella polare de' popoli di Sicilia e di que' di Puglia in quel tempo; e come i Napoletani l'ottennero nei capitoli di papa Onorio; i Siciliani in que' di re Giacomo.
[49] Bart. de Neocastro, cap. 61.
[50] Saba Malaspina, cont., pag. 397.
Palmiero Abbate nel 1272 fu castellano del castel di Favignana per Carlo I, come si vede in un diploma pubblicato dall'er. Michele Schiavo, Memorie per la istoria letteraria di Sicilia, tom. I, par. 3, pag. 49 e seg.
Tutti gli scrittori Trapanesi voglion Palmiero lor concittadino, i Palermitani lo contendon loro; gli uni e gli altri senza provarlo abbastanza. Nel testo io ho trascritto le parole di Saba Malaspina, senza tener punto nè poco alla cittadinanza palermitana di Palmiero Abbate; perchè la Sicilia è la mia patria, non questo o quell'altro muro, in cui infelicemente i Siciliani per l'addietro chiudeano i loro affetti nazionali.
[51] Bart. de Neocastro, cap. 62.
[52] Bart. de Neocastro, cap. 62.
D'Esclot, cap. 103 e 104, si riscontra appunto con queste date.
[53] Bart. de Neocastro, cap. 63, riferisce in questi sensi l'orazione di re Pietro al parlamento.
[54] Così il Neocastro e lo Speciale.
Ma forse Alaimo era stato eletto prima Maestro Giustiziere, perchè con questo titolo è sottoscritto nel diploma del 30 dicembre 1282, citato da noi a pag. 211.
[55] Diploma di re Pietro dato di Messina a 20 aprile 1283, pel quale Ruggier Loria è eletto ammiraglio di Catalogna e di Sicilia, pubblicato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, tom. II, pag. 176.
La data di questo diploma corrisponde bene a quelle portate dal Neocastro e dal d'Esclot, diligenti cronisti, i cui detti riscontrati co' documenti acquistano sempre maggior fede. Sembra per altro che il re prima di partire, abbia accordato solennemente e permanentemente i primi ufici dello stato a coloro cui li avea già affidato. Loria era stato già incaricato del comando della flotta, veg. p. 216, e forse Alaimo esercitava nello stesso modo l'autorità di gran giustiziere.
[56] Bart. de Neocastro, cap. 62, 63.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
Montaner, cap. 75, 76, 99, 100.
D'Esclot, cap. 104, il quale dice che Pietro pria di partire nominò i suoi ministri e vicari per tutta l'isola, che ubbidissero alla reina e a Giacomo; e che raccomandò la moglie e i figli a' Siciliani, e in particolare a' Messinesi. Perchè questi ordinamenti di Pietro non son riferiti da tutti gli storici nella stessa guisa, io mi son tenuto al Neocastro, che forse si trovò presente e tra gli affari pubblici, e narra la cosa in quel modo ch'era necessario tenersi da re Pietro. Altri particolari ho cavato da Speciale e Montaner, l'ultimo de' quali porta le circostanze essenziali, sbagliando nel tempo e nel modo. Questi due scrittori dicon poi lasciato il regno di Sicilia a Giacomo per testamento del padre. Ma come nel testamento che noi abbiamo, e che d'Esclot anche riferisce con estrema diligenza, non si fa menzione del regno di Sicilia, così è mestieri che Pietro avesse fatto riconoscere Giacomo dal parlamento, nel modo che appunto riferisce il Neocastro, e accenna lo stesso Montaner.
Certo egli è che infino alla morte di Pietro l'autorità regia in Sicilia fu esercitata dalla regina Costanza, aiutandosi costei dell'opera di Giacomo, riconosciuto successore al trono. In fatti nel capitolo 2 delle leggi di Federigo II di Sicilia, è fatta menzione di concessioni della regina Costanza; e vari diplomi ci restan di lei, l'un de' quali dato di Palermo a 25 febbraio duodecima Ind. 1283 (1284 secondo il computo comune), si legge a pag. 87 nel Tabulario della cappella del reale palagio di Palermo, Palermo 1835. Il titolo è: «Constantia D. G. Aragonum et Siciliæ Regina.»
Questa forma di governo finalmente si prova con un atto politico del tempo. Nel trattato fermato in giugno 1286, tra Pietro di Aragona e il re di Tunis, che è pubblicato dal Capmany, Memorias historicas del comercio de Barcelona, tom. IV, docum. 6, allo art. 40, si legge: «La qual pace noi Pietro per la grazia di Dio re d'Aragona e di Sicilia sopraddetto, accordiamo pel regno di Sicilia, per noi e per la nobile regina nostra moglie e per l'infante Giacomo nostro figlio, che dev'essere erede dopo di noi nel detto regno, dai quali la faremo fermare e accordare; e pe' regni nostri d'Aragona, di Valenza e di Catalogna, per noi e per l'infante don Alonzo nostro primogenito, erede dopo di noi ne' detti regni, ec.»
[57] Bart. de Neocastro, cap. 64.
[58] Bart. de Neocastro, cap. 65.
[59] Son riferite a un di presso queste parole da Bartolomeo deNeocastro.
[60] Bart. de Neocastro, cap. 66.
[61] Bart. de Neocastro, cap. 67.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
Saba Malaspina, cont., pag. 398.
Della partenza di Pietro da Trapani fanno seccamente menzione il d'Esclot, cap. 104, e il Montaner, cap. 76.
CAPITOLO X.
Nuovi preparamenti degli Angioini contro la Sicilia. Capitoli delparlamento di Santo Martino nel regno di Napoli. Nuove intimazioni delpapa a re Pietro e a' Siciliani: bando della croce: sentenza dideposizione di Pietro dal reame d'Aragona, e altre pratiche. Apertaribellione di Gualtiero da Caltagirone. Vittoria dell'armata sicilianasu la provenzale, nel porto di Malta, il dì 8 giugno 1283, econseguenze di essa. Pratiche del papa a sturbare il duello. Andata dire Pietro in Catalogna e a Bordeaux: esito della scena del duello.Umori dei popoli del regno di Napoli. I nostri occupano alcune terrein val di Crati. Preparamenti di una nuova impresa sopra la Sicilia.Loria assalta con l'armata il regno di Napoli. Battaglia del golfo diNapoli il 5 giugno 1284, e presura di Carlo lo Zoppo. Sollevazionedella plebe in Napoli. Maggio 1283 a giugno 1284.
In questo tempo il nimico apprestossi a una seconda prova contro laSicilia; di che s'eran maturati i disegni a corte di Roma, quandoCarlo, tornato di Calabria, appresentossi al papa e a tutto il sacrocollegio a chiedere aiuti[1]. Tentar doveasi il colpo nella statedell'ottantatrè, per cogliere il destro dell'assenza di Pietro. A ciòpreparavansi navi e armi, men poderose che l'anno innanzi, perdiffalta di moneta, e perchè faceano assegnamento maggiore sugli animide' popoli, simulando mansuetudine quand'era tornata vana la forza.Par che in Sicilia tenessero a questo disegno, secondo l'indizio dellaspia presa a Geraci, i principi di controrivoluzione testè detti. Almedesimo effetto or trattavasi più solenne e larga la riforma del malgoverno in terraferma. E 'l papa suscitava i nemici di Piero;spaventava gli amici; e a sviar le forze di lui, principiava aminacciare il reame d'Aragona.
Re Carlo dunque nell'andar di Roma a Parigi, era soprastato {231}alquanti dì in Marsiglia; ove al suo vicario di Provenza avea commessoche, allestite in fretta venti galee, e armatele della miglior gentedi mare di tutta Provenza, mandassele in Puglia, d'aprile o di maggioal più lungo[2]: ed ei medesimo poco appresso, tornato a Marsiglia, etrovate le galee munitissime di attrezzi e armi e ciurma al doppiodell'ordinaria, aveale affidato a Guglielmo Cornut e BartolomeoBonvin, marsigliesi; giurando Guglielmo che darebbegli morto oprigione l'ammiraglio nimico[3]. Il principe di Salerno al tempostesso armava nel reame di Puglia novanta tra teride e galee, che amezzo giugno si trovassero a Reggio[4]. Abbandonato egli avea nelcorso d'aprile gl'infelici alloggiamenti di Santo Martino, ove perdisagio e febbri consumavasi come in atroce pestilenza la gentefrancese; ch'eravi anco morto con grande compianto Piero conte diAlençon, e sì scarseggiavan le vittuaglie e lo strame. Presso Nicotrasulla marina il principe s'attendò, per esser più pronto all'imbarco:otto galee fe' racconciare in quel porto; tutto intendendo alpassaggio sopra la Sicilia[5]. {232} Ma prima di mutare il campo aveatenuto nelle pianure stesse di Santo Martino un solenne parlamento,del quale è mestieri qui far parola.
Perchè ai «prelati, conti, baroni, cittadini e probi uomini,» ingrande numero adunati (novella temperanza de' governanti angioini),chiedeva il principe i sussidj; e gli erano assentiti in merito dellariforma, mal abbozzata già nei capitoli del dieci giugnodell'ottantadue, e peggio osservata; {233} della quale or trattandosicon quei grandi e rappresentanti della nazione, nuovi capitolisancironsi e pubblicaronsi in questo parlamento medesimo, il dì trentamarzo milledugentottantatrè. Cominciavano con accettare apertamente inche orrendo servaggio e povertà fosse venuto il reame, per vecchiacolpa, diceasi, dei tiranni Svevi, e fresca malizia de' ministri eofficiali del re, tradenti il suo paternale buon volere. Larghissimiindi i favori conceduti e raffermi agli ecclesiastici, per lor averi,persone, case ed autorità; chè si corse fino ad accordare lafranchigia delle tasse su lor beni ereditarj, e, strano capitolo inuna riforma di abusi, si ordinò la punizion civile degli scomunicati.Gli aggravj che più ai baroni incresceano furon rivocati; moderato ilservigio militare; disdetto ogni impedimento a' matrimonj dellefigliuole, e alla scossione dei giusti aiutorj (quest'era il vocabolo)su i vassalli; ristorato il privilegio del giudizio de' pari; cessatala molestia dei servigi al fisco. A beneficio di tutta la nazione, ilprincipe francò di dogane il trasporto delle vittuaglie da luogo aluogo nel regno; promesse coniar buona moneta; vietò le inquisizionispontanee de' magistrati; menomò la taglia per gli omicidj nonprovati; consentì i matrimonj delle figliuole de' rei di fellonia;corresse gli abusi de' servigi, e le baratterie degli officiali,simul, il fisco non rivendicasse beni, altrimenti che per decisione dimagistrato; non incorporasse le doti alle mogli degli usciti; nè gliartieri si sforzassero a racconciar le navi regie, nè la città a murarnuove fortezze; i giustizieri e altri ufficiali, usciti dalla carica,restasser nel paese quaranta dì a rispondere di mal tolto. Quanto allecollette e altre imposte generali o parziali, il principe bandì:godessero i cittadini del reame di terraferma tutte le franchigie egli usi de' tempi di Guglielmo il Buono. Ma sendone oscure ormai lememorie, rimetteva in papa Martino descriver quelle consuetudini entrodue mesi; comandava che due legati d'ogni giustizierato, a taleeffetto si trovassero prestamente innanzi il papa: intanto nullafornirebbero le città o provincie, nè anco in presto, fuorchè nei casistabiliti dalle costituzioni. In ultimo, richiamò in vigore i recenticapitoli di re Carlo; {234} a vegliar la osservanza dei presenti,deputò inquisitori a posta in ogni città e terra. Questi nuovi fruttiraccoglieano i popoli di terraferma dalla siciliana rivoluzione[6]!
Intanto papa Martino senza studiarsi ad occultar la fiera passionedell'animo suo, vibrava anatemi sopra anatemi contro Piero, e'ministri, e' guerrieri, e' Siciliani tutti. Da Montefiascone adiciotto novembre dell'ottantadue, dichiarolli involti nellescomuniche comminate già prima; e a Pietro ricantò: sgombrasse dipresente la Sicilia; non usurpasse il titolo, non esercitasse attoalcuno di re. Al Paleologo, scomunicato d'altronde, comandò per nuoviscongiuri di spezzar ogni legame con l'Aragonese. E, altro cheminacciar non potendo, diè nuovi termini a obbedire; a Piero ed a'dimoranti in Italia, infino al due febbraio; al Greco e agli altri,infino ad aprile e a maggio: fornito il qual tempo, i trasgressori sirimarrebbero spogliati d'ogni feudo, possessione o diritto; scioltilor vassalli dal giuramento; date le facultà e le persone in balìa de'fedeli che volessero occuparle, quest'era la formula, tolto ilpericolo di mutilazione e di morte[7]. {235}
Ma poco appresso proruppe a comandar guerra e morte, non aspettatopure il decorso de' termini, «Sorga il Signore, esordiva da Orvieto atredici gennaio milledugentottantatrè, sorga il Signore, giudichi lasua causa, per le offese che gli stolti vengongli recando ogni dì:» esermonando del racquisto di Terrasanta, attraversato da Piero e da'Siciliani con molestar la Chiesa, «Iddio però, ripigliava, muovacontr'essi a battaglia; e noi, per divina misericordia fortidell'autorità degli apostoli, esortiamo i cristiani tutti a levarsiper noi, per Carlo nostro figlio diletto; qual muoia nella impresasciogliam dalle peccata, come se in guerra di luoghi santi[8].»
In fine, a diciannove marzo, fulminò da Orvieto l'altra sentenza.Rinfacciò a Piero i primi suoi armamenti in Catalogna; il passaggiosopra l'Affrica, con forze non pari a tanta impresa; i messaggi a'Palermitani per indurarli nella ribellione; le perfide ambascerie allacorte di Roma; la fraudolenta occupazione del reame di Sicilia. Ma laSicilia, dicea, terra è della Chiesa; e anco feudo nostro l'Aragona,per l'omaggio prestato a papa Innocenzo terzo dall'avol di Pietro.Questo dunque sleale vassallo per tradigione deponghiam noi dal regnod'Aragona; altri ne investiremo a piacer nostro. Con ciò scomunicollouna terza volta: scagliò interdetto su quantunque città tenessero perlui[9]. Nella quale sentenza allegò Martino l'avviso dei cardinali;onde, se non mentì netto, cavillò; leggendosi nelle istorie del suomedesimo segretario, come parecchi fratelli del sacro collegio fortela dissentissero. Di ciò, segue il Malaspina, arduo sarebbe, e più daindovino che da fedel narratore, a scrutar la cagione: e anco toccandol'autenticità dei titoli del papa sopra Aragona, e {236} il suodiritto alla deposizione di Piero, si dilegua in ambagi, con meschintemperamento tra istorico e cortigiano[10].
Instava il papa inoltre a dissuadere Eduardo d'Inghilterra dalmatrimonio della figliuola col primogenito di Pietro; costui dicendopersecutor di santa Chiesa; incesto il nodo per un quarto grado diconsanguineità[11]. Sturbava per un vescovo suo fidato gli accordi tral'Aragonese e la repubblica di Venezia, vogliosa dell'equilibrio delpotere in Italia; onde parecchi suoi cittadini avean ricevuto messaggidi Pietro, e a lui mandatone[12]. Consentiva a Carlo differisse pureil pagamento del censo alla Chiesa[13]. Esortava nel reame diCastiglia i prelati, i Templari, i Gerosolimitani, e altre frateriearmeggianti a muover contro Sancio, presuntivo erede della corona,ribellatosi al padre, e collegato con re Pietro[14]. Liberava epreponeva al comando degli eserciti della Chiesa in Romagna il contedi Monteforte, quel sacrilego uccisore del principe Arrigod'Inghilterra[15]. E come or tutte ritrar le brighe d'un talpotentato, stigato da ira di parte e vicin pericolo? Aspramente invero travagliossi la pontificia corte in Italia a quel fortuneggiaredi Carlo: smugneasi di danari per sovvenirlo[16]: vedea la Romagnacorsa dal conte Guido da Montefeltro e sollevata; Roma più che maiimmansueta[17]; {237} e, vero o non vero, si disse di pratiche di que'cittadini con lo stesso re di Aragona[18].
La tempesta preparata per cotal modo, cominciò a scaricarsi appenaallontanato di Sicilia re Pietro, quando Gualtiero da Caltagironeripigliando animo, levossi alfine scopertamente; assalì in Caltagironei leali stretti a schiera sotto lo stesso stendardo del re; e sparsoassai sangue, occupò la terra, destò per tutto val di Noto unospavento di novità. Ma l'infante Giacomo, che percorrendo la regionsettentrionale dell'isola, giovanetto vivo e benigno, era stato perogni luogo onorato come re, e con grande amore accolto, e giurataglifedeltà, sapute in Palermo le rie novelle di Gualtiero, insieme co'suoi consiglieri sen turbò forte, ma forte provvide. A GuglielmoCalcerando vicario, e a Natale Ansalone da Messina giustiziere inquella provincia, fu scritto: andassero mansueti a Caltagirone;cautamente facesser gente e armi; poi d'un colpo di mano, per forza oper frode, prendesser Gualtiero. Fecerlo; chè pari allo stato non eraanimo nè senno in costui, nè la ribellione avea altre radici: e furonocatturati con esso Francesco de' Todi e Manfredi de' Monti; sìprestamente, che l'infante cavalcando appresso i suoi spacci, non eragiunto a Piazza che 'l seppe. Andò il ventuno maggio a Caltagirone: ildì appresso Gualtiero e i consorti, convinti dall'aperto sollevamento,e sì dalle confessioni {238} di Bongiovanni e Tano Tusco, furono dalgran giustiziere Alaimo condannati, e immantinenti nel pian di SantoGiuliano dicollati; gridando il popolo: ammazza, ammazza. Bongiovannie l'altro morian sulle forche a Mineo. A dì venzette maggio,racchetata ogni cosa, entrava l'infante, applaudito e festeggiato, inMessina[19].
Dove fu mestieri allestir subito l'armata contro una prima fazione delnimico; il quale ignorando che la controrivoluzione fosse stata spentasì tosto con arte e fortuna, si mostrava ne' mari di Sicilia in questastagione. Perchè venute a Napoli di maggio le venti galee provenzali,e tolti secoloro assai cavalieri del regno e Francesi, e sette legnida ottanta remi, a Nicotra s'erano avviate a trovare il principe. Ilquale vedendo così rassicurati i mari da' corsali siciliani, emercatanti di Terra di Lavoro e Principato ricominciare a navigarvi, erecar vittuaglie alle sue stanze; e sentendosi già forte alle offese,per prima dimostrazione, mandò l'armata provenzale a girar intorno laSicilia dal mar Tirreno e dall'Affricano, e, s'altra occasione non sipresentasse, vettovagliare il castel di Malta, che i nostri sottoManfredi Lancia, occupata l'isola, stringean d'assedio, e con macchinepercoteano[20]. {239}
Ruggier Loria stavasi pronto nel porto di Messina con ventidue galeecatalane e siciliane, quando ebbe avviso della nemica flotta da' suoilegni sottili, o da barche di Principato, che navigavano con frutta evini furtivamente alla volta di Sicilia; le quali imbattutesi nellaflotta provenzale presso Ustica, se ne liberavano fingendo esserindirizzate per Tunisi, e poi, volto il corso, approdavano a Palermo,a Messina e a Trapani[21]. Presupposta a quell'avviso la fazion de'nemici, la regina incontanente spacciò a Malta un legno da quarantaremi a comandar che lasciato l'assedio della rocca, s'afforzassero inostri in città: e Loria, cercando la flotta di Provenza, die' aiventi le vele. D'Ustica la seguitò a Trapani e a Terranova, restandoindietro sempre due giorni; onde com'ei toccò Gozzo, a Malta la seppe,che già avea sbarcato le genti, e investito, ancorchè invano, gliassedianti in città. Indi a mezza notte innanzi l'otto giugnomilledugentottantatrè, salpando dal Gozzo, fu surto a traverso labocca del porto di Malta, con le ventidue galee ordinate a scaglioni.Questa era la prima impresa che Ruggiero governava da ammiraglio: trala sua gente e la provenzale s'aveva a contendere il primato ne' fattidi mare. Perciò, sdegnando assaltare il nemico sprovveduto, fa suonarea {240} battaglia tutti gli stromenti; manda un legno a sfidareCornut; e accorgendosi come cento uomini francesi dal castellocorreano ad imbarcarsi, da non curante li aspetta. Fe' il nimicoammiraglio riconoscer le nostre galee; e più baldanzoso per falsoavviso che fossero sol dodici, co' suoi ventisette[22] legniimpaziente die' dentro, che appena facea l'alba.
Uguagliavansi i combattenti di cuore, d'orgoglio, e a un di presso diforze; perchè il nimico ci vantaggiava nel numero degli uomini e de'legni; cedea negli ordini del combattere, per cagion di que' suoiterzi vogatori[23], nè pratichi nè aitanti al saettare, da meno assaide' balestrieri stanziali, freschi e spediti, ch'avea l'ammiraglionostro, contento di due uomini soli a ciascun remo. Dapprimas'affrontano con ugual furore, con saette e sassi e calce e fuochi; maLoria comanda a' suoi, che copransi alla meglio, e sostengan loscontro, lasciando i soli balestrieri a ferire: e così infino amezzogiorno si battagliò, e si sparse assai sangue; incalzando gliuni, difendendosi gli altri soltanto. Ma come Loria s'accorse che giàmancavano i tiri a' Provenzali, i quali invano li aveano sparnazzato;e che prendean essi a lanciare fino gli utensili delle {241} galee,passò a ripigliar vivamente l'assalto. Leva il gridò: «Aragonasovr'essi!» e robusti arrancando i nostri, feriscon di sassi e dardi,e tutte lor armi i Provenzali, sprovveduti e stracchi; urtan di costale navi; spezzan remi, fianchi, prore; saltan all'abbordo con le spadealla mano. Quest'impeto trionfò. Nol sostenne Bonvin, che con ottogalee sdrucite e insanguinate, a randa a randa la punta del porto,prese largo alla fuga. Facil preda caddero i rimagnenti. Ma GuglielmoCornut disperatamente strignesi a combattere con Loria; spicca unsalto sulla galea catalana, o quei sulla provenzale, che in ciòvariano i racconti; e il Marsigliese cercando l'emulo suo, tanto menòa cerchio d'un'azza, che sgombrò la ciurma, con lui scontrossi sottol'albero della nave. Ferillo alla coscia d'un lanciotto; e 'l finivacon l'azza, se un colpo di pietra non gliela traea di mano: ondeRuggiero, colto il tempo, strappandosi l'asta dalla ferita,ritorcegliela in petto, e 'l passa fuor fuora. Così fornissi la zuffa.Cinquecento rimaser de' nostri tra feriti ed uccisi; ottocentosessanta i nimici prigioni; morti poco più. Bonvin, sostato a cinquemiglia da Malta, fea gittare i cadaveri, affondar tre galee incapaci amareggiare; e con le altre cinque, sol avanzo dell'armata, tornòportatore di lutto alle costiere di Provenza, ove pochi erano che nonavessero congiunto o amico da piangere. S'arrese poi a Manfredi Lanciail castello: Malta e il Gozzo presentaron Ruggiero di munizioni,gioielli, moneta. Egli, approdato a Siracusa, fa cavalcar corrieri pertutta l'isola col nunzio della vittoria; spaccialo con un legno al rein Aragona. Tornasi indi a Messina, strascinando a ritroso le navicattivate, e le nimiche bandiere, e tanto stuol di prigioni; de' qualila reina mandava a Piero in Ispagna dodici cavalieri; i gregari fealavorar nell'arsenale di Messina e al risarcimento delle mura; fuchiuso in carcere Nicoloso de Riso, perdonandogli la pia regina {242}quella morte ch'ei ben meritava per le portate armi contro lapatria[24]. Ma l'ammiraglio non posando a pascersi di lodi in corte,di plausi e festeggiamenti in città; e volendo trarre del tutto a'nemici la voglia di venir sopra l'isola, rifornita in pochi giorni laflotta, spingeasi lungo le costiere di Calabria e Principato;presentandosi minaccioso infino allo stesso porto di Napoli. Ilpresidio fe' prova a rispingerlo saettando; ed ei, messi all'opra isuoi balestrieri, spazzò la riva. Allora fa appiccar fuoco a navi,attrezzi e munizioni navali, accatastati nel porto: passa indi a Caprie ad Ischia; prende d'assalto quelle deboli castella; e pieno dipreda, torna in Sicilia a svernare[25].
Intanto i due re in ponente menavano gran rumore per lo duello, delquale è bene i particolari tutti narrare. Ad ovviarlo s'era adopratopapa Martino, solo in questo moderato e pio tra tanta intemperanzad'ira: di che ci restano irrefragabili documenti, e distruggono unafola di Giachetto e del Villani, che favoleggiaron pattuito innanziMartino il combattimento; posta premio al vincitore la corona diSicilia; Pietro, per la diffalta a quella tenzone, scomunicato espoglio del regno[26]. Tutto al contrario, il papa indirizzò a Carlouna grave epistola il dì cinque febbraio {243} dell'ottantatrè. Severoassai perchè assai l'amava (così scriveagli), il riprenderebbe diquegli stolti patti, di quelle disoneste imprecazioni stipulate neidiplomi, di quella, non prova di ragione, ma di vanità e ferocia. Enon s'accorgea della magagna dell'Aragonese, che, minore assai diesercito, l'adescava a misurarsi da uguale? Vietati, dicea, dallareligion del vangelo questi certami alle private persone, non che aireggitori de' popoli. Pertanto non s'attentasse a combattere: ei,vicario di Cristo, lo sciogliea da' giuramenti presi; persistendo,minacciavalo di censure, e di quanti i altri gastighi sapesse trovarcontro di lui la romana corte[27]. Rincalzò lo scritto con la vivavoce del cardinale di san Niccolò in carcere Tulliano, e di quel disanta Cecilia, mandato in Francia con lo stesso Angioino[28]. A reEduardo, per un'altra epistola del cinque aprile, sotto l'usataminaccia, inibì di star guardiano del campo, di far entrare inGuascogna i combattenti[29]: al medesimo effetto, scrisse non guaridopo a Filippo l'Ardito[30]. Ma alfine lasciò fare, o perchè vide nonpoter vincere la pertinacia di Carlo, o perchè entrò nei disegni diCarlo e della corte di Francia, che sembrano men lievi e men innocentid'uno sfogo cavalleresco[31].
E l'Inglese, richiesto da Carlo, dopo alquanto differimento,rispondea, gli manderebbe messaggi; e Goffredo {244} di Grenville eAntonio Bek inviò, portatori d'una lettera, ove conchiudea: non se alui ne tornassero ambo i reami di Sicilia e Aragona, lascerebbecompier tanta crudeltà al suo cospetto, nè in sua terra, nè in altroluogo ove potess'egli attraversarla[32]. Significò al principe diSalerno avere risposto a Carlo un no assoluto[33]: gli stessi legatimandò a re Pietro[34]. Alfine, a trarsi d'impaccio del tutto togliendoogni luogo all'assicurazione del campo, comandava al siniscalco diBordeaux, che tenesse la città a disposizione di Carlo e del re diFrancia[35].
Ma i due nemici re tuttavia sceneggiavano. Pietro, di Sicilia commisead Alfonso in Aragona, che scegliesse i campioni; che ne scrisse poicencinquanta, perchè in ogni caso non mancassero i cento; ed eranCatalani, Aragonesi, Italiani, Siciliani, Alamanni, e anco un figliuoldel re di Marocco, disposto a convertirsi alle fede di Cristo sen'uscisse con vittoria. Carlo dal suo canto fabbricar facea a Parigicento armadure finissime; e, partitosi da corte di Francia, tuttoordinava al duello, o a farne mostra; e raccolse infino a trecentocampioni, per la ragion medesima dell'avversario; che de' cento primi,sessanta eran Francesi, Provenzali il resto. Vi si pose in listaancora {245} Filippo; e a tutti i suoi baroni comandò si trovassero alduello[36]: onde tal romore ne corse per lo reame, che in ogni luogola nobiltà fremeva arme, cavalcava, sperando entrar nella battaglia,o, se non altro, vederla: e traeano a torme a Bordeaux, come se già sirompesse la guerra. Indi in que' piani re Carlo fe' costruire assaicapace la lizza, bislunga, girata di gradi a guisa d'anfiteatro,saldissima di legname e di ferro, con due alloggiamenti per le duebande nimiche, affortificati di steccato e fosso; l'uno all'un capo,l'altro all'opposto presso la porta, ch'unica se n'aprì per l'entratae l'uscita. Ma queste vicine stanze ai Francesi, le prime assegnavansia que' d'Aragona; onde si bucinò, che divisassero i Francesi, restandovincitore il nimico, occupar con gente di fuori la porta, e, chiusonello steccato, farne macello. Maggiori sospetti destava il raccontatoarmamento universale di Francia, e 'l sapersi tutti i passi d'intornoBordeaux occupati da gente francese.
Navigò Pietro di Trapani ver ponente a golfo lanciato; ch'entrato inmare il dì undici maggio, forte il travagliava un timore di nongiugnere a tempo. A ostro da Sardegna, l'investe un tempo fortunale;ed egli accorgendosi che a vele non si facea, rinforzate di remigantidue delle galee, passavi dalla sua nave con tre soli cavalieri:comanda di guadagnar l'isola a ogni costo, mare e venti spregiando, ei pirati frequentissimi; e a Ramondo Marquet, l'ammiraglio, che loscongiurava non si gettasse tra tanti rischi: «No, rispose, perch'iomi trovi alla battaglia, quanto mortale far possa, io il farò. Il miofato, qual che siasi, è scritto, è immutabile; e meglio conviene a'mortali darsi impavidi alla fortuna, che far vani sforzi a fuggirla.»Con tale animo, rifocillatosi a terra un istante, si commette di nuovosul legno, contro un ponente che il traportò fino a vista d'Affrica.Maledisse allora i fati che 'l traeano a parer {246} mancatore espergiuro: per ansia e travaglio tre dì non prese alimento. Ma fur sìdestri i suoi, che al terzo giorno toccavan Minorca. Quivi il recibossi; valicò il mar fino a Cullera; e co' tre soli cavalieri, sitrovò il diciannove maggio a Valenza.
Trafelato ancor dal viaggio, ivi intende que' sospetti e quelromoreggiar de' Francesi, fatto, se non altro, a spaventarlo sì chenon vada a Bordeaux. Pensava non poter con sè condurre tant'oste dafronteggiarli; nè fallar volea la promessa, nè sprovveduto gittarsi ingola ai nimici: ma poco penò a trovare un partito. Ai suoi campioni,già pronti e venuti presso i confini, comanda che ciascun resti làdove abbia saputo prima il sopruso degli avversari. Spaccia GilbertoCruyllas al siniscalco del re d'Inghilterra, a domandarlo di sicurareil campo; e gli fa cavalcar appresso un nuovo messaggio ogni dì, peraver frequenti avvisi, e render solita per quelle strade la vistad'uomini del re d'Aragona. Ei co' tre fidatissimi cavalieri, BlascoAlagona, Berengario Pietratallada e Corrado Lancia, cavalcò senz'altrabrigata con Domenico Figuera da Saragozza, mercatante di cavalli,usato a trafficare in Guascogna, pratichissimo de' luoghi; dal qualevolle sagramenti terribili del segreto; nè altri in corte seppe questoviaggio, non lo stesso infante Alfonso. Armossi il re d'un giaco dimaglia sotto i panni, d'una celata sotto il berretto, s'avvolse in unvecchio mantello azzurro, prese in mano una zagaglia, la valigia sulcaval suo per parer famigliare del mercatante; e gli altri piùpoveramente si vestian da mozzi; il Figuera in onorevole arredo esembianza; li maltrattava, albergava solo; servialo a mensa il re, egli dava acqua alle mani. Così prendeano la via di Tarragona, montatisu veloci palafreni, mutandoli di posta in posta; così richiesti aipassi, rispose il mercatante che con que' famigliari andasse per suefaccende; e, deluse le insidie, il dì trentuno maggio a nona sitrovarono sotto Bordeaux. {247}
Incontanente il re manda a città Berengario, figliuolo del Cruyllas,chè trovato segretamente costui, venir facesse fuor le mura ilsiniscalco inglese Giovanni di Greilly, con dir che un cavaliere amicosuo il dovea richiedere d'alto affare, e sì menasse un notaio.Giovanni a sera andò: al quale Piero, infingendosi ambasciadornovello, ridomandava se venir potesse il re d'Aragona; e quei risolutorispondea che no: saper vicine grosse torme di cavalli francesi: reEduardo non aver assicurato mai il campo: nè or, volendo, il potrebbe,congiunte ancor le sue forze a quelle del re d'Aragona: ciò aver eipoco innanzi protestato a Gilberto. E Piero il pregava che glimostrasse la lizza: alla quale condotto, gittatosi alle spalle ilcappuccio, al siniscalco si appalesò. Que' premurosamente loscongiura, s'involi per Dio ai nemici. Il re montato il suo destrierdi battaglia, tre volte accerchia l'arena; surto nel mezzo, dicesolennemente al siniscalco e al notaio, esser venuto a mantener la suafede; non restar per lui che non si combatta, ma per la perfidia de'nemici. Una protestazione fe' stenderne in buona forma; attestandoviil Greilly la venuta del re d'Aragona, e l'ordine d'Eduardo dirassegnar la città a Filippo ed a Carlo. Lasciò all'Inglese il red'Aragona le armi sue; pregollo che soprastasse alquanto a divulgareil fatto; e speditamente galoppò, tornandosi per la via di Baiona.Giunto a questa città tutto spunto e rabuffato, che da tre dì nonchiudea ciglio, promulga una protestazione; manda lettere e nunzi a'principi di cristianità; e aspettandosi la guerra, richiama in patriai sudditi suoi che si trovassero in Francia.
Carlo dall'altro canto, trovatosi infin dal venticinque maggio aBordeaux, come il dì stesso del duello seppe dal siniscalco la venutadell'avversario, indragato mandava cavalli a inseguirlo, che perl'avvantaggio delle mosse invano s'affaticarono; e col Greilly n'ebbeacerbissime parole, {248} e trapassò infino a farlo sostenere inpalagio, ma tosto liberollo vedendo ammutinarsi i cittadini a talviolenza. Poi quel dì stesso, armato di tutto punto coi suoi campioni,stette Carlo infino a meriggio nel campo: e una oste francese, chidice di tremila cavalli, chi di cinquemila, e chi assai più,baldanzosa ingombrava i dintorni della città. Carlo protestòsuperbamente, gridando in palese falso e codardo re Pietro; ma entrodi sè mordendosi, dice lo stesso Saba Malaspina, d'aver ordito tela diragni: e narra d'Esclot, ch'ei chiamava questo fier nimico: non uomo,sì demonio d'inferno, e peggiore, perchè al segno della croce ildiavol dileguasi, ma contro costui non avvi argomento; tel credi lungile mille miglia, e tel senti sul collo. L'undici giugno infinelasciata Bordeaux, non tardava il Francese a promulgar in Italia unainterminabile diceria de' torti di Pietro, e delle ingiurie ch'aveaingozzato costui. Così la commedia terminossi. Nei raccontati fatti aun di presso accordansi tutti gli storici contemporanei, ancorchèdiversi in qualche particolare, e secondo lor parte sforzantisi adaccusar chi Pietro e chi Carlo. Noioso e inutilissimo parmi entrare inquesto giudizio. Ma è indubitato che il Francese con tanto stuolo,Pietro nascosamente, ambo pur s'appresentarono: ch'Eduardo non v'era,nè assicurava il campo. Il giurato patto portava di trovarsi aBordeaux il primo giugno, non di combattere, se non dinanzi il red'Inghilterra, o secondo nuovo trattato. Amendue perciò in realtàelusero il bizzarro lor patto, osservarono in apparenza; e da ciòtrassero argomento a gittar l'uno su l'altro la vergogna; il che infondo era il solo intento di entrambi[37]. {249}
Le trame di Gualtiero distratte, la sconfitta di Malta, l'audacecorreria del nostro ammiraglio, sforzarono il principe di Salerno arimetter pure l'impresa all'anno appresso; mentr'egli, allestite inBrindisi altre galee e teride, già col conte d'Artois da un dìall'altro pensava imbarcarsi[38]. Indi con quell'adoprar attivo esolerte, ch'è pur dote de' mediocri, ma gli effetti il distinguono dalvalor vero, questo Carlo che, degenere dal padre, in sua vita molto siarrabbattò e nulla mai fece, preparò grandi macchine e videle ruinarea un soffio, or tutto inteso al passaggio di Sicilia dell'annovegnente, la prima cosa perdè l'intento ch'avea sudato a procacciaretestè con le riforme e promesse a' sudditi. Perchè non dismettea leantiche gravezze, le esacerbava anzi con francarne i Provenzali[39]{250} e altri stranieri; ridomandava imprestiti ai comuni diterraferma; nè facea senno all'aperto niego di quelli[40]. Errò ancoraa credere i popoli bambini troppo, quando appresentatisi al papa ideputati delle province per la promessa riforma dei tributi, Martino,che giocava d'accordo con Carlo, diessi a pretestare memorie incerte,necessità di una sottile esamina, e questa commise al cardinalGherardo, legato a Napoli[41]; tanto più affrettandolo per letterequanto più bramava mandar la cosa a dilungo. Perciò nel reame diNapoli gli umori desti dalla siciliana rivoluzione e da' travagli chedurava casa d'Angiò, e anco dalle benevole dimostrazioni di casad'Aragona, tornavano ad agitarsi. In Sicilia al contrario, allontanatoquel valor molesto di Pietro, quetavano i popoli nel mite reggimentodella regina Costanza: e sì tranquillo corse quell'anno, che sol de'casi di fuori scrivono i nostri storici; e Montaner afferma,irrefragabil prova del buon governo, che dopo la comun gloria dellabattaglia di Malta, Siciliani e Catalani più che mai s'affratellavanoe strigneansi d'amistà e di parentadi[42]. Per questi cagioni laregina di Sicilia potè allor tentare, e 'l vicario di Napoli non sepperintuzzare nello stesso cuor del suo regno, un'assai temerariafazione.
Ebbe in quel verno gran caro di vittuaglie in Italia. Donde Scalea,Santo Lucido, Cetraro, Amantea, mosse dalla penuria o dalla malacontentezza (chè Scalea l'anno innanzi era stata la prima interraferma a darsi a re Pietro), si proffersero alla regina Costanza,s'ella provvedessele di viveri e difendesse; la qual praticacondussero alcuni {251} Scaleotti usciti per omicidî e riparati inSicilia; e volentieri l'assentì la regina. Mandovvi pertanto con ottogalee un forte di almugaveri, e alcune teride cariche di grano; ondeil pregio di esso d'un subito si ammezzò[43], a grande sollievo deiterrazzani. Ma gli almugaveri, messo piè a terra, diersi a infestaretutto val di Crati e Basilicata: contro i quali movendo il giustizieredi val di Crati con grosse torme di cavalli, aspettatolo a lor uso inuna stretta gola, rupperlo con strage, e l'inseguirono infino a uncastello del vescovo di Cassano, ove poser l'assedio. Sopraggiunto diSicilia il conte di Modica, e con esso pochi cavalli e più ferocifrotte d'amulgaveri, peggior travaglio diè a Basilicata. Prese alcunecastella e la terra di San Marco; quivi della chiesa de' frati minorife' un ridotto assai forte; mal conci ne rimandò Rizzardo Chiaramontee altri baroni venuti con maschio valore contr'esso; i quali non furonpunto imitati dagli altri feudatari del regno, scontentissimi delgoverno angioino. Invano di maggio dell'anno seguente si fece un altroappello alle milizie feudali del reame di Puglia per venire a oste aScalea, e anco mandovvisi, sotto il comando di Ruggier Sangineto,gente assoldata in Toscana; perchè sempre tennero il fermo i nostri: epatiron quelle province correrie, ladronecci, notturni assalti[44];che appena si crederebbe, standovi {252} a manca il campo di Nicotra,a destra la capitale, e per tutto il regno guerriere voci eapparecchi.
Il papa, non vinto pe' falliti disegni dell'anno innanzi, marifacendosi ad ogni ostacolo sempre più pertinace e voglioso,sforzavasi a ritentar ora la prova, fin trascurando i propri pericolie bisogni: Roma per carestia tumultuante; accanita ad assediare inCampidoglio il vicario di re Carlo[45]; esausto l'erario pontificio;necessitato a incettar grani in Puglia, perchè i Romani non facesserpeggio[46]. E pria rinnovò le scomuniche il dì della cena del Signore,quel dell'Ascensione, quel della dedicazione della Basilica di sanPietro, con molto studio a promulgarle per tutta l'Italia, e massime aGenova[47]; ove molti cittadini per interesse di parte ghibellina erandisposti ad aiutare il nuovo principato in Sicilia, e pendeano anco aquesto i magistrati della città, tentati invano da Filippo l'Ardito acollegarsi con la Chiesa e Carlo contro il re d'Aragona e a stentotirati a promettere una stretta neutralità[48]. Le decime, {253} nonper anco scadute, delle chiese di Provenza, d'Arles e degli altridomini di Carlo a lui assegnò per la siciliana guerra; dando autoritàai legati pontificî di sforzare i vescovi al pagamento[49]. A Venezias'adoprò, sollecitato dal principe di Salerno dopo la sconfitta diMalta, ad armargli una ventina di galee, offrendo porger da' tesoriapostolici cinquemila once d'oro: ma l'accorta repubblica rispose: «Nèal re d'Aragona, nè ad altri cristiani moverebbe mai guerra senzacagione[50];» e richiamò in osservanza un'antica legge per la qualevietavasi ai privati di prender l'armi per alcuno stato straniero,senza permesso del doge e d'ambo i consigli; bello statuto secondoragion pubblica e delle genti, del quale sdegnossi pure la corte diRoma come d'offesa, e pel cardinale di Porto, legato, scomunicòVenezia, ribenedetta poi nell'ottantacinque da papa Onorio per maggiorprudenza di stato[51]. Tre legati del principe venivano inoltre aMartino, a ridomandar moneta pel passaggio di Sicilia; ed ei dando dipiglio nei tesori delle decime di tutta la cristianità, levate già perla impresa di Terrasanta da papa Gregorio e dal concilio di Lione, orne forniva per la guerra siciliana ventottomila trecentonovantatrèonce d'oro, non picciola somma, secondo que' tempi: ordinando bensìche la più parte si maneggiasse dal cardinal Gherardo, in cui piùfidava[52]. {254} Altri danari da altre epistole di Martino appaionsovvenuti al principe di Salerno. Il quale spintosi infino a chiederle genti pontificie che in Romagna militavano condotte dal prò conteGiovanni d'Eppe, le assentia Martino, senza curarsi della sua stessavacillante dominazione in que' luoghi[53]. Alfine il due giugno, tredì innanzi il precipizio dell'impresa, papa Martino da Orvieto larincalzava con bandire la crociata contro cristiani. A sue accusevecchie e stracche aggiunse: ricettarsi eretici in Sicilia; vietarsiagl'inquisitori di perseguitarli; torsi a Terrasanta le vittuaglie.Donde commise al cardinal Gherardo, che predicasse contro re Pietro e'Siciliani scomunicati; e, attendendo solo a far numero, desse atutt'uomo la croce, senza guardare a sua origine o nazione[54].
Nel medesimo tempo re Carlo attendeva in Provenza ad accattar danari eallestir navi a questo nuovo assalto di Sicilia[55]; e al medesimoeffetto il figliuolo, fatta dimora a Nicotra infino all'autunno delmille dugentottantatrè, e lasciato quivi con l'esercito il conted'Artois, tornossi a Napoli, donde secondo i casi sopraccorreva qua elà per tutta Puglia[56]. A raccor danaro studiossi sopra ogni altracosa, perchè senza fine ne ingoiava la guerra. Ondechè, usandol'autorità datagli dal padre a torre in presto infino a centomila onced'oro con sicurtà su tutti i suoi beni e reami, non contento aisussidi del papa, nè ai tributi generali {255} del reame diPuglia[57], accattava grosse somme da mercatanti toscani conguarentigia dello stesso Martino e delle decime ecclesiastiche[58]: equando il bisogno più strinse, {256} impegnò per poca moneta vasellamee arnesi d'argento[59]; smunse la borsa del cardinal Gherardo ed'altri privati[60]; richiese altre sovvenzioni alle città piùdocili[61]; vendè il perdono di misfatti[62]; sforzò nuovamente ilvalor della bassa {257} moneta[63]; e con la riputazione delcardinale, in un concilio di tutti i prelati convocato a Melfi,strappò loro la promessa di due anni più di decime ecclesiastiche, e ariscuoterle deputò immantinenti suoi commissari; dagli ordini deifrati cavalieri ottenne aiuto di gente o compenso di danari[64]. E{258} gente richiedea per tutta Italia, in Toscana, in Romagna, inLombardia, da comuni, da privati condottieri, cui assicurava delpagamento con sì efficaci parole, che mostrano quanto si dubitasse de'fatti[65]. Chiamò al servigio feudale tutti i baroni; che, fatta aNapoli la mostra, n'andassero in Calabria all'oste di Artois[66];molti allettò con sue concessioni novelle[67]. A' capitani di parteguelfa in Firenze {259} raccommandò sollecitasser le galee promesse daPisa[68]; n'assoldò Genovesi[69], oltre le pisane che veniano conl'armata del padre. Il comando della sua flotta affidò a Iacopo deBrusson, vice ammiraglio; provvide con estrema diligenza ad allestirnavi, raccor vittuaglie, fornire smisurate macchine da guerra,maneggiate da' Saraceni della colonia siciliana di Lucera, de' qualimolti anco assoldò arcadori a cavallo, uomini d'arme, e fanti: nèaltro si legge in quella stagione nei registri della cancelleria diNapoli, che di soldati, munizioni, quadrella per l'armata. Fino unanuova armatura per sè fece fabbricare in Napoli questo principe,correndo con gran furore nella militar carriera, nella quale a capo dipochi mesi trovò tal duro contrattempo, che non osò ripigliarla piùmai[70]. Questo spaventevole strepito d'arme empieva il reame diNapoli di primavera d'ottantaquattro, perchè i governanti angioini,dopo l'esito infelice dell'anno innanzi, fidando or meno nella viadelle opinioni, vollero ritentare {260} una prepotente forza d'armi,come nell'ottantadue; se non che Carlo tenne tuttavia qualche praticacon baroni di Sicilia, sì infruttuosa quant'eran deboli qui gli {261}umori di controrivoluzione. Nondimeno temendo qualche assaltodell'audace flotta nostra mentre esso armavasi, pose il nemico inquesto tempo una straordinaria cura a guardar le costiere diterraferma[71]. Suo intendimento era insignorirsi al tutto del mare,schiacciando la nostra armata {262} se s'attentasse uscire, e se no,inchiodandola ne' porti; e poi, sbarcato l'esercito nell'isola, nonpiù campeggiar luoghi forti, ma dare il guasto al paese, bruciar lemessi, divider le città, e desolate sforzarle a sottomettersi. VietavaCarlo al figliuolo qualunque fazione pria ch'egli venisse di Provenzacon la flotta[72]. Trenta galee tenea pronte il principe a Napoli,quaranta a Brindisi. Entro pochi dì, operata la congiunzione di tuttal'armata ad Ustica[73], cento navi da battaglia e più assai datrasporto, verrebbero a por la Sicilia a soqquadro.
A tempo il seppe Giovanni di Procida, gran cancelliere, pei suoi moltirapportatori che in terraferma vegliavano assidui il nimico. Onde nelconsiglio della regina, considerato il grave frangente; lungi il re;non esercito pronto; poca l'armata, l'audace partito si deliberò incui solo era salvezza: assaltare gli Angioini risolutamente pria chetutte adunasser le forze. A ciò trentaquattro galee e più legni minoris'armano in fretta nel porto di Messina, di scelta gente catalana esiciliana, di finissime armi, di nobili arredi. Come la flotta fu inpunto, Costanza fatto a sè venire, coi capitani minori e i piloti,l'ammiraglio, nudrito seco del medesimo latte, educato in sua corte,con vive parole rimembragli l'affetto della casa reale d'Aragona:tutto per lei andarne su quest'armata; l'onor del re, la corona, sèstessa e i figliuoli a due soli commetteva, a Dio e a Ruggier Loria. Aquesto dire le s'inginocchiava ai {263} pie' l'ammiraglio, e co' ritidell'omaggio feudale, poste le sue nelle mani della regina: «Non fuunque vinto, le rispose, lo stendardo reale d'Aragona; nè oggi ilsarà. Fidane, o regina, nel sommo Iddio.» Non senza lagrime allora glialtri guerrieri giurarono; li accomiatò Costanza; li salutò il popoloallo scioglier dal porto; e a Dio, alla Vergin Madre ne pregavanvittoria. Fece porre l'ammiraglio a una vicina spiaggia; in terra fe'la mostra di tutte le genti; con brevità da soldato arringò: avrebberoentro due settimane una grandissima battaglia: andrebbero incontro adue flotte, l'una surta nel porto di Napoli, l'altra che venia diponente. «Son settanta galee; ma come noi ci troviamo armati, oguerrieri, non paventiamo le cento.» E le soldatesche risposer d'ungrido: «Andiamo andiamo, nostra è la vittoria.» Costeggiate leCalabrie, tennero il golfo di Salerno. Da ciò in Napoli nacque unavoce, che Piero, tornato d'Aragona subitamente con tutta l'armata,navigasse pe' mari di Principato. Mandovvisi a far la scoperta ungenovese Navarro con legno da sessanta remi[74]: e costui un altrofalso avviso riportò, frettolosamente riconosciuta la flotta da lungiper sole venti galee e poche fuste. Vantò dunque, tornato, chesarebbero anco troppe le ventotto galee del principe e la sua nave.Talchè salito in superbia il giovane Carlo, ordinava d'uscir contro alnimico; ma i Napoletani, che punto l'amavano, non vollero armarsi perlui.
Ruggiero in questo volteggiava cautamente fuori il golfo di Napoli,ignorando ove fosse re Carlo con la flotta provenzale; e voleacogliere il tempo a slanciarsi o su lui o sul principe. A Capri dunqueancorò dapprima, divisando {264} fare una dimostrazione sopra Baia, eindi appressarsi se potesse trar fuori il principe con avvantaggio; e,se no, far prora verso la Sicilia, e poi la notte volgere a Ponza, ein quel canale aspettare l'armata del re. Ma non uscito alcuno daNapoli come ei si pose a scorrere per isolette e lidi, guastando icolti e mettendo a taglia e a sacco le terre; e venutagli presa inquesto una saettia di re Carlo, onde seppe che con trenta galeeprovenzali e dieci pisane venisse ad una o due giornate d'ordinarioviaggio, Loria, vedendo sovrastar la temuta unione delle due flottenimiche, consultane di nuovo coi suoi più pratichi; e si deliberò dicombattere quella del principe, immantinenti, a ogni costo. Ondechèvenuto a Nisita la notte, e prese in quel mare due galee di Gaeta,Ruggiero armolle per sè, spartiti i prigioni in tutta l'armata, laquale sommò a trentasei galee, oltre i legni sottili. Inviò ilcatalano Giovanni Alberto con una fusta a riconoscer la flotta diNapoli; e seppene il vero numero, e che tutta la spiaggia luccicava difuochi e d'armi. Indi all'alba minacciando con gran mostra, apparvefuori il capo di Posilipo, alla Gaiola.
Era il cinque giugno milledugentottantaquattro. Le depredazioni e glioltraggi de' nostri nei dì innanzi; i conforti de' nobili che teneanper la corte; questa recente ostile baldanza, commossero sì gli animi,che avuto avviso la notte stessa dell'armata siciliana surta a Nisita,il popolo preso di novello ardire, chiede battaglia; suona le campanea martello; Francesi, regnicoli, cavalieri, plebei alla impazzatarapiscon le armi, corrono a' legni, in tanta pressa che per poco nonli fecero andare alla banda. E gli ottimati, per parere, dice SabaMalaspina, chi fedele e chi gagliardo, consigliavano sì il combattere:sopra ogni altro il conte d'Acerra, favorito del principe Carlo,stigollo a montar in nave egli stesso, per dar animo ai combattenti.Indi nè ragione, nè autorità il trattenne del cardinal Gherardo, {265}il quale, non perduta la memoria di quelle aspre battaglie di Messina,ammonialo ad esser cauto contro i Siciliani, ubbidire i comandi delpadre, aspettare l'armata e con essa la vittoria; non si gittasse allaccio tesogli da Ruggier Loria. Ma da queste parole anzi aizzato, piùratto il principe s'imbarcò: e prima ordinò d'imbandire a corte unosplendido convito per festeggiar la vittoria. Con lui furono Iacopo deBrusson vice ammiraglio, Guglielmo l'Estendard, Rinaldo Galard, iconti di Brienne, Montpellier e Acerra, frate Iacopo da Lagonessa, epiù altri baroni. A ventotto o trenta sommarono le lor galee, tuttedel regno; armate le più di regnicoli, poche di Provenzali e Francesi.
Loria allora quasi fuggendo si difilò a Castellamare, per guadagnarl'avvantaggio del sole alle spalle, o per trarre in alto mare inemici, e lasciarli disordinar nella caccia. Schiamazzando e urlandol'inseguon essi: volano innanzi a tutte le altre, due galee capitanateda Riccardo Riso e Arrigo Nizza, Siciliani rinneganti la patria, chechiamano Loria a gran voce, ed «Ove fuggi eroe? gridangli; ma invanot'involi, invano; vedi, i tuoi ceppi son qui!»; e mostrangli lecatene. E muti i nostri a vogare. A quattro leghe restano; rivoltan leprore; l'ammiraglio in un battello scorreva a rincorarli: «Mirateli,scompigliati da sè stessi; gente che non vide armi, o non vide maregiammai: gridan essi, e noi feriremo.» A linea di battaglia ordinòventi galee, serrate tra loro; fe' rassettare i remi, sgombrar lecoverte; schierovvi i balestrieri; il rimanente delle navi pose aretroguardo, che non entrasser nella mischia senza un estremo bisogno.Allor si die' nelle trombe; levossi il grido «Aragona e Sicilia:» epiombò la nostra armata su i nemici, già a tal variar di consiglioattoniti e palpitanti.
E ruppeli in un attimo; chè, non aspettato lo scontro, diciotto galeedi Napoli, Sorrento, e Principato diersi a fuggire; {266} lasciandosolo il principe con la sua galea, e quattro di Napoli, due di Gaeta,una di Salerno, una di Vico, una di Scio, a disputar l'onore, non piùla vittoria. I Francesi, ancorchè non avvezzi nè fermi in nave,combatteano con maschio valore. Più numerosi e franchi al maneggiar lenavi, Catalani e Siciliani urtavan di prua, spezzavano i remi alnimico, gittavan fuochi alle tolde, sapone e sego sui banchi, polveredi calce alle viste, scagliavan sassi e saette: e pure gran pezza nonli spuntarono dalla difesa. La strage indi si mescolò; spenta granparte di quei prodi cavalieri di Francia, il numero vinse. Solarestava la galea del principe: accerchiata, squarciata, invasa da'nostri la prua, e mezza la nave; ma un fior di gagliardi stretti aschiera intorno al principe, che piccino e zoppo mal s'aiutava, feceroincredibili prove; e sopra tutti Galard, uomo d'erculee forze, quanticolpi tirava tanti feriva o uccidea, o di peso scaraventava gli uominiin mare. A tal pertinacia, Loria comanda che si sfondi la nave; e inostri già saliti le dan d'entro coi pali; un Pagano, trombetto emarangone fortissimo, attuffò per bucarla con un ferro: rotta in seiluoghi calava la galea, gridavano i marinai, ma non udianli icombattenti. Addandosene alfine Galard: «Salvatene, sclamò, vostra èla fortuna; qui il principe, qui a voi s'arrendono le migliori spadedi Francia!» Gridava l'Estendard, sacra fosse la persona del principe.E questi togliendosi la spada, tra i nostri domandò: «Qual v'hacavaliero?» e rispostogli dallo ammiraglio, a lui la rendè; e accettòla mano stesagli da Ruggiero perchè lesto sulla sua nave salisse, chel'altra già sommergeasi. Nove galee fur prese: una delle qualivelocissima involandosi, Ruggiero le spiccò alla caccia la galeacatanese di Natale Pancia; e parendogli perder lena i remiganti,minacciò di farli tutti accecare se non tornassero colla nimica nave:talchè per mortali sforzi la sopraggiunsero; sapendo Ruggiero uom{267} da tener la cruda parola, grande nelle virtù, grande nei vizi,di smisurato valore e brutale ferocia[75]. {268}
Alla battaglia seguì un ridevol caso. Avea fatto Ruggiero assai onoreal principe: e questi riccamente armato, in mezzo a molti cavalierisedea nella capitana, quando una barca di Sorrento si appressò conmessaggi del comune; i quali, credendolo l'ammiraglio, offriangliquattro cofani di fichi fiori e dugento agostali d'oro «per un tagliodi calze; e piacesse a Dio, seguiano, che com'hai preso il figlio,avessi anco il padre; e sappi che noi fummo i primi a voltare.»Sorrise il principe, e a Loria disse: «Per Dio, ch'ei son fedeli alre[76]:» ma lamentando la slealtà dei soggetti, scordava il giovinCarlo chi fosse stato il primo a infrangere il social patto, e lacrudeltà scordava del suo governo, l'avarizia, la superbia, latirannide sconcia e brutale.
E al castel dell'Uovo[77] suonavano di pianti femminili le stanzedella principessa, ch'era salita sul più rilevato scoglio {269} finquando Carlo salpò; e fitti gli occhi sulle navi, avea vistol'affrontata, e la fuga, e sparir la galea capitana; nè sapeaspiccarsi dal guardare, dileguata anco la flotta napoletana, e cadutoil dì. Pallido e ansioso a lei venne il cardinale, spaventato dalminaccevole aspetto della plebe: e pensando insieme a que' prodi, orli temeano uccisi, or li speravan prigioni; quando due galee sicilianeapprodarono con una lettera del principe. A lui, trepido di sua sortein guerra spietata, l'ammiraglio avea richiesto sciolta di presente laBeatrice, giovanetta e bella figlia di Manfredi, ch'orfanella passòdalla cuna al carcere di Carlo, e ivi stette come sepolta. Scrivea ilprincipe dunque, si rendesse immantinenti la donzella: e i Sicilianiaggiugneano che se no, lì, sulla galea, in faccia a Napoli a luimozzerebbero il capo. Indi la principessa a cercar Beatrice, a donarlegioielli e femminili arredi, e gittarsele ai pie' che salvasse per Diola vita a Carlo suo. Recarono alla flotta con molto onore Beatrice; esi sciolser le vele. Alle bocche di Capri, Riso e Nizza, come traditormaledetti, furon sulla galea di Loria dicollati. Entrò l'armata nelporto di Messina[78].
Dove al primo scoprir quelle vele, con susurro e ansietà precipitavail popolo alla marina, d'ogni età, d'ogni sesso; ma visti i segnidella vittoria, e le galee prese, e saputo prigione il principe diSalerno con tanti baroni, inenarrabile allegrezza si destò. Sbarcatele turbe de' prigioni, proruppe il volgo, com'e' suole in ogni luogo,a insultarli; {270} ricordando a gara la tirannide, l'assedio, lescambievoli offese, e molti le abborrite sembianze de' baroni statiloro oppressori: onde aprian la calca i più avventati, e feansi aguardarli faccia a faccia, e dir dileggiando: «Chi fuvvi maestro abattaglie di mare? Oh sventura! dar le spade voi a Catalani ignudi, aSicilian galeotti! Eccovi la seconda fiata trionfanti in Messina!» Aschivar peggio, il principe sbarcò travestito da soldato catalano. Mala regina, i figli, i cittadini autorevoli raffrenarono la cieca ira,che già correva a suonar le campane a stormo, coll'antico grido «Morteai Francesi.» Nel palagio reale dapprima fu sostenuto il principe;indi nel castel di Matagrifone con Estendard; non incatenati, nota unistorico, ma sotto gelosa guardia di cittadini e soldati: e vietò lagenerosa Costanza ai figliuoli, che vedessero in quella miseracondizione il figlio di Carlo d'Angiò. Furono assegnati i cavalieri incustodia per le case de' maggiori della città. La reina con moltelagrime abbracciava la sorella, campata come per miracolo dalle manide' nemici[79].
Ebbe tempesta in Napoli la dominazione angioina a quella sconfitta.Levato il popolazzo a romore, gridava per le strade «Muoia re Carlo eviva Ruggier Loria:» sfrenavasi per due dì a saccheggiar casefrancesi; e pochi cadutigli in mano ammazzò; la più parte usciti dallacittà con cinquecento di lor cavalli scamparono. I quali pensavanritrarsi in Calabria appo il conte d'Artois, se non {271} che ilcardinale e i baroni mandavano a confortarli: si riducessero intornoil castel Capuano, e non temesser pure la minuta plebe e quel foco dipaglia, chè la nobiltà napoletana sarebbe tutta con essi. E in vero, ovinti dall'autorità e arte del cardinale, o mansuefatti all'alitodella corte, i nobili di Napoli si fecero sostegno all'usurpatore inquel fortunoso momento. Perciò la plebe volle scacciare i Francesi, enon potè; contrariata dai suoi stessi, e repressa e castigata due dìpoi dal medesimo re Carlo[80]. Si propagò il movimento a Gaeta e moltealtre terre, che strepitarono un poco, scrivea re Carlo con l'usatodisprezzo, e per le medesime cagioni si tacquero[81].
NOTE
[1] Montaner, cap. 77, 78, narra queste pratiche di Carlo a corte di Roma.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 74.
[3] Montaner, cap. 81.
D'Esclot, cap. 110.
[4] Diploma dato di Nicotra il 13 maggio 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 250, nota 3.
Altri due diplomi si trovano nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1283, E, fog. 10 a t. e 11 a t., l'uno per fornirsi in Nicotra sei teride oltre sei più che n'eran pronte, il quale è dato di Nicotra il 20 aprile undecima Ind. (1283), e la cura n'è commessa a Riccardo de Riso, lo sciagurato uscito siciliano, e a Gerardo di Nicotra. L'altro è diverso dal notato nell'Elenco delle pergamene, ma dato ancora di Nicotra il 13 maggio, pel biscotto delle 20 teride di Principato e Terra di Lavoro, da armarsi a mo' di galee.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 398.
La testimonianza di questo diligentissimo storico è rinforzata nel presente luogo dai diplomi.
E prima, il mutamento del campo da Santo Martino a Nicotra si vede dal registro del regio archivio di Napoli segnato 1288 E, dove a foglio 10 è un diploma datoin castris in planicie sancti Martini, il dì 7 aprile, undecima indizione (1283); un altro dato di Nicotra il 14 dello stesso mese; e un terzo di Nicotra il 21 aprile per lo trasporto delle tende; e a foglio 10 a t. un altro del 20 aprile per trasporto di vini a Nicotra sotto scorta di legni armati; il che mostra ancora come que' mari erano infestati da' Siciliani.
V'ha allo stesso foglio 10, un altro diploma risguardante il conte Piero d'Alençon,carissimi consanguinei nostri, scrivea Carlo lo Zoppo. Questo è dato di Nicotra a 20 aprile, undecima Indizione (1283), e provvede che si supplisse del denaro regio il bisognevole a soddisfar tutti i lasciti del testamento dì Alençon. Questi era dunque gravemente infermo. E morì in Puglia il giovedì dopo la festa degli Apostoli Pietro e Paolo, come si legge in un diploma di Filippo l'Ardito dal 24 giugno 1283.Collection des Documents inédits sur l'histoire de France, tom. I, Paris 1839, pag. 318, Documento 244.
Malaspina dice ch'ei fosse mancato di malattia; l'autore delleGesta Comitum Barcinon., cap. 28, che morisse lentamente delle ferite riportate nella guerra. Sbaglia pertanto Montaner che lo fa cadere all'assedio della Catona, cioè di novembre 1282.
I luoghi ove dimorò Carlo lo Zoppo vicario generale si veggon ancora dai diplomi del regio archivio di Napoli. Nel registro segnato 1283 E, n'abbiamo uno dato di Terranova (presso Santo Martino) il 20 febbraio undecima Indizione (1283), a foglio 11; poi vi hanno quegli altri del mese di aprile citati di sopra: e moltissimi dati di aprile, maggio, luglio ed agosto, tutti di Nicotra, se ne trovano foglio 9, 3, 3 a t., ed 8; e uno dato di Matera il 7 luglio, foglio 3 a t.
È notevole tra questi diplomi, che la Corte angioina, tra tanti suoi travagli, dovea pur mandare qualche sussidio alle sue genti in Acri e Durazzo. Ciò si scorge da due diplomi dell'8 e 9 maggio, foglio 9, per 20 cavalli saraceni e pochi viveri imbarcati per Durazzo e da un diploma del 27 aprile, foglio 11, per 400 salme di grano inviata ad Acripro usu gentis nostre, da consegnare a Odone Polliceno,Vicario regio in regna Jerhusalem.
[6] Pe' sussidi accordati in questo parlamento, veggasi il diploma del 29 aprile 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 250, e la nota 2, alla pag. 254.
Quanto al resto, Capitoli del regno di Napoli, tom. II, capitoli di Carlo principe di Salerno promulgati a 30 marzo 1283.
Saba Malaspina, cont., pag. 402, 403, riferisce questo parlamento; ma sbaglia il tempo e il luogo, confondendolo col sinodo diocesano che s'ebbe in Melfi.
Intorno il detto uficio di censura a favor de' governati, oltre lo statuto de' capitoli, abbiam due diplomi di Carlo lo Zoppo, dati di Nicotra a 26 settembre duodecima Ind. (1283), nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1283, A, fog. 60. Sono eletti Rostano de Ageto milite, il vescovo di Troia, e il giudice Gualtiero di Catanzaro avvocato del fisco, per investigare e punire in tutto il reame dal Faro ai confini degli stati ecclesiastici, le trasgressioni alle costituzioni di Carlo I, ed ai capitoli pernos in plano sancti Martini olim editorum.
[7] Raynald, Ann. ecc., 1282, §. 23, 24, 25.
Saba Malaspina, cont., pag. 392.
[8] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 2, 3, 4.
[9] Raynald, Ann. ecc., 1283, §, 15 a 23.
Saba Malaspina, cont., pag. 392, 393.
[10] Saba Malaspina, cont., pag. 392, 393, 394.
[11] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 36, 38, breve del 6 luglio.
[12] Ibid., §. 39, breve del 7 giugno.
[13] Ibid., §. 47, breve del papa a 26 giugno, ed epistola di re Carlo a 23 novembre.
Bolla di Martino, da Orvieto, a 9 maggio 1283. Ibid., pag. 886.
[16] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 51.
[17] Ibid., §. 28 e seg.
Giachetto Malespini, cap. 215.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 80 e seg.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1188.
[18] Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 610.
Lo stesso carico si dà a Pier d'Aragona nella bolla del 10 maggio 1284, con cui il papa comandava contro di lui la predicazione della croce:Et ut nihil omitteret ad persecutionem nostram et ipsius ecclesie intemptatum, ad pacificum statum urbis, Patrimonii beati Petri, aliarumque terrarum ipsius ecclesie, necnon et aliarum partium Italie subvertendum, et urbem, terras, ac partes easdem a nostre obedientie debito avertendas, sicut ex multorum fida relatione percepimus, nunc per nuncios, nunc per litteras, variis machinationibus nitebatur et nititur, ac nisibus fraudulentis institit et insistit, etc. Negli archivi del reame di Francia, J. 714, 6.
[19] Bart. de Neocastro, cap. 75.
[20] Saba Malaspina, cont., pag. 398.
D'Esclot, cap. 110.
Nic. Speciale, lib. I, cap. 26.
Montaner, cap. 81.
Quanto al numero delle navi provenzali, il Malaspina dice 27 galee, ch'è esattamente il numero de' legni che combatterono a Malta tra galee e d'altro nome; d'Esclot porta venute di Provenza 20 galee; e gli altri qual più qual meno, ma con pochissimo divario: talchè riscontransi col diploma dato di Nicotra il 2 giugno (1283), nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, E, fog. 12, col quale si comandava di fornir viveri per due mesi a' vascelli venuti di Provenza, cioè 18 galee, unPanfilio, ed 8vaccettas.
Ibid. a fog. 13, diploma dato di Nicotra il 3 giugno per lo stesso affare, nel quale si parla di Bartolomeo Bonvin, e si dice che le galee eran già venute a Napoli.
[21] Il d'Esclot, cap. 110, dice espressamente questo caso delle barche di Principato cariche di frutta e vini per Sicilia. Io dapprima non sapea piegarmi a credere che dal reame di Napoli si portassero di tali derrate in Sicilia, massime i vini. Ma bisogna accettar questo fatto economico, alla irrefragabile testimonianza di due diplomi dati di Napoli il 2 maggio duodecima Ind. (1284), pei quali si fece severo divieto alla furtiva estrazione di vini per Sicilia, che si commettea in Sorrento e in Castellamare di Stabia, infingendosi imbarcarli per terre fedeli al re. Dal r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 85, a t. 88, a t. E sempre più si vede la grandissima informazione e diligenza del d'Esclot.
[22] E in vero 27 erano tutti i legni, secondo il diploma del 2 giugno 1283, citato di sopra. La differenza con d'Esclot non sarebbe nel numero totale, ma solo in quello delle galee.
[23] Montaner, cap. 83 e 131, dà lunghe lezioni militari intorno il vantaggio de' balestrieri scritti, o vogliam dire stanziali, e l'impaccio de' terzi remiganti, che nel combattimento facessero da balestrieri. Ei li chiamatersols; ed è una voce ch'io non seppi comprendere nell'originale catalano, ma la veggo benissimo spiegata dal Buchon nella sua versione francese, ed. Paris, 1840, pag. 288,rameurs surnuméraires, attachés en tiers au service d'une rame. I balestrieri stanziali son detti da Montaneren taula, perchè l'uficio dell'arruolamento si chiama taula in catalano. A quest'ordine di balestrieri, non gravati d'altra fatica sulle galee, Montaner dà le continue vittorie de' Catalani in giusta battaglia navale; ma pur confessa che in un'armata era necessario un certo numero di galee co' terzi vogatori, per potere al bisogno dar più vigorosamente una caccia.
[24] La presura di costui nella battaglia di Malta si ritrae da un diploma di re Giacomo, dato di Messina il 19 luglio 1286, in di Gregorio, Bibl. arag., tom. II, pag. 500.
[25] D'Esclot, cap. 110, 114 e 116.
Montaner, cap. 82, 83, 84, 93.
Bart. de Neocastro, cap. 76.
Nic. Speciale, lib. I, cap. 26.
Saba Malaspina, cont., pag. 398, 399.
Il solo d'Esclot, degnissimo di fede, narra quest'ultima correria a Napoli. Montaner, sovente poco esatto, la scrive con qualche divario, e pria della vittoria di Malta.
[26] Giachetto Malespini, cap. 217, 218.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 86, 87.
Nello error loro cadde ancora l'autore del Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1156.
[27] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8 a 12, breve dato d'Orvieto a 3 aprile.
Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 541.
[28] Raynald, ibid., §. 13; e Nangis, ibid., pag. 542.
[29] Raynald, ibid., §. 7.
Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 242 a 244.
Questo divieto del papa è affermato ancora nella Cronaca del Monastero di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 763.
[30] Breve del 20 aprile 1283. Negli archivi del reame di Francia, J. 714, 3.
[31] Nangis, loc. cit.
[32] Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, diplomi del 25 marzo e 5 aprile 1283, tom. II, pag. 239, 240.
Ivi nell'epistola a re Carlo si legge:Kar sachez de verité qe pur gainer teus deus Reaumes come celui de Cezile e de Aragon nous n'en serrions gardeins du chaump où la susdite bataille se fest; mes mettroms peine et travail en totes les maneres qe nous saverons qe pes e acord fust mist entre vous, come celui qe mout le vodroit.
[33] Ibid. La frase è, avere rifiutatotut outre.
[34] Ibid., pag. 241.
[35] D'Esclot, cap. 104.
Questo attestato, che non si legge in alcun altro contemporaneo, toglie tutte le contraddizioni che si troverebbero nell'operare di Eduardo, il quale negava prima il campo, e lasciava poi costruir la lizza, e venire i combattenti. Consegnata per que' giorni la città a' Francesi, s'impediva il duello senz'altra briga.
[36] Questo è accettato dal Nangis, e da altri scrittori di partefrancese.
[37] Tutto questo racconto, nel quale non mi è paruto possibile scriver le citazioni a ogni parola, è tratto da:
Saba Malaspina, cont., pag. 399 a 402.
D'Esclot, cap. 104, 105.
Montaner, cap. 80, 85 e seg.
Bart. de Neocastro, cap. 67, 68, 69.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
Anon. Chron. sic., cap. 44.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 7, ed 8, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1188.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, op. cit.
Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 17, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Ferreto Vicentino, ibid., pag. 954.
Vite di Martino IV, ibid., tom. III, pag. 609, 610.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 31, 32.
Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script, tom. V, pag. 542.
Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., agg. tom. XXVI, pag. 39.
Giachetto Malespini, cap. 218.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 87.
Memoriale dei podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1155, 1156.
Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 764.
Il manifesto di re Carlo al comune di Modena contro Pier d'Aragona, si legge in Muratori, Antiquitates Italicae Medii Ævi, tom. III, Diss. 39, pag. 650.
[38] D'Esclot, cap. 115.
[39] Diploma del 24 gennaio 1284, citato nel seguito di questo capitolo in nota.
[40] Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, diplomi a pag. 254, 255, 259 e le annotazioni, pag. 254.
[41] Raynald, Ann. ecc., 1283, breve del 25 novembre, a §. 46.
Saba Malaspina, cont., pag. 403.
[42] Montaner, cap. 84.
[43] Da quaranta a venti tarì la salma, dice il Malaspina.
[44] D'Esclot, cap. 119.
Saba Malaspina, cont., pag. 403, 404.
Il primo dice dell'occupazione di quelle quattro terre; il Malaspina della sola Scalea.
I due appelli al servigio feudale nel reame di Puglia si leggono nel diploma del 30 ottobre 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 257; e nei diplomi del 21 e 31 maggio 1284, ibid., pag. 266, 298. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A. fog. 81 a. t., leggesi un diploma dato di Napoli a 28 aprile duodecima Ind. (1284) per 100 balestrieri e 200 lancieri a piè, venuti poco prima da Firenze, che si mandavano a Ruggiero Sangineto per ingrossar l'oste all'assedio di Scalea.
Montaner, cap. 113, nomina alcuna delle terre occupate, e dice del mal contento nel reame di Puglia; ma confonde questa fazione con quella dell'armata che combattè poi nel golfo di Napoli.
[45] Saba Malaspina, cont., pag. 404.
[46] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 52.
[47] Ibid., 1284, §. 1.
[48] Risposta del podestà, capitani, consiglio e comune di Genova al re di Francia negli archivi del reame di Francia, J. 499, 42.
Il re avea inviato due ambasciadori a richieder Genova che dessefavore, aiuto e giovamento al papa e al re di Sicilia, zio del re di Francia, contro il re d'Aragona,che avea operato contro la Chiesa, contro le inibizioni del papa, e contro il re di Sicilia, la qual cosa ognun sapeaquanto interessasse la corona di Francia. Genova risponde essere in pace col re d'Aragona da 170 anni, e non aver cagione di rompere; ma promette che non darà aiuto di navi nè d'armi al re d'Aragona. Non vi ha data in questo diploma, nè nomi sia dei magistrati di Genova, sia dei re; ma le narrate particolarità, infallibilmente il pongono tra gli anni 1282 e 1284. È uno lungo ruolo di pergamena scritto in caratteri del secol XIII, con suggello in cera verde, pendente da una stretta striscia di pergamena e impresso da un lato solamente. V'ha un grifone alato, chiuso in un poligono ad angoli salienti e rientranti a forma di stella, e fuori il poligono la leggenda:Sigillum Comunis et populi Janue.
[49] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 10.
[50] Ibid., 1283, §. 40. Il breve al principe Carlo, posteriore al fatto, è dato il 22 aprile 1284.
D'Esclot, cap. 115, riferisce la risposta dei Veneziani.
[51] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 63 e 64.
Quivi si legge la bolla di Onorio, data di Tivoli il 4 agosto, anno 1.
[52] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 40, nel detto breve del 22 aprile 1284.
Saba Malaspina, cont., pag. 418. Veggansi anche i diplomi citati qui appresso per vari imprestiti del papa.
[53] Raynald, Ann. ecc. 1284, §. 13 e 48.
[54] Raynald, ibid., §. 2 e 3.
[55] Saba Malaspina, cont., pag. 402.
[56] Saba Malaspina, ibid.
I viaggi del principe di Salerno si veggono dai vari suoi diplomi, dati di Nicotra, Napoli, Foggia, Brindisi, Bari, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 260, 261 e 263; da que' citati nelle annotazioni seguenti, cavati dai registri del medesimo archivio; e da altri dati di Napoli 1 gennaio, Foggia 24 e 29 gennaio, Barletta 1 febbraio, Brindisi 23 a 26 febbraio, Spinacchiola 6 marzo, Melfi 10 a 16 detto, nel registro 1283, A, fog. 15, 16, 16 a. t. 28, 28 a. t.
[57] Diploma dato di Nicotra il 25 novembre duodecima Ind. (1283), indirizzato a tutti gli uomini di tutti i giustizierati del reame di Puglia. Proponendosi il principe di Salerno di andar nella vegnente primavera sopra la Sicilia, con grandissima flotta ed esercito, al totale sterminamento dell'isola, chiedea per tutte le province di terraferma il sussidio «che non pativa differimento, ed era appunto conforme alle recenti costituzioni del re suo genitore.» Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 71.
Altro diploma, ibid., fog. 80 a t., dato di Napoli il 26 aprile duodecima Ind. (1284). È una sollecitazione del sussidio per la impresa contro i ribelli.
Diploma dato di Foggia il 24 gennaio duodecima Ind. (1284) sulle quereleuniversorum gallicorum et aliorum ultramontanorum in civitate Neapolis commorantium, lagnantisi che da lor si volesse riscuotere la presente sovvenzione generale. Il principe di Salerno comandava non fossero molestati; perocchè per privilegio di re Carlo erano stati francati da tutte le collette e sovvenzioni, pel passaggio contro la ribelle isola di Sicilia. Ibid., fog., 19, a t.
Diploma dato di Melfi a dì 8 marzo duodecima Ind. (1284), pel quale furon cedute a un condottiere, pei suoi stipendi, once 400 su le sovvenzioni generali dovute da alcune terre. Si legge bandita la sovvenzionein subsidium expensarum futuri nostri passagii in proximo futuro vere contra rebellem insulam Sicilie. Ibid., fog. 2, a t.
Un altro diploma, ibid., dato di Napoli 12 aprile duodecima Ind. mostrava queste sovvenzioni non eccedere i limiti, che s'eran posti nei capitoli del parlamento di San Martino.
[58] Diploma del 2 dicembre duodecima Ind. (1283). È la scritta del ricevuto per once 15,000, che la compagnia de' Bonaccorsi di Firenze avea pagato per conto del principe di Salerno in Roma, nel corso dell'anno 1283, in carlini e fiorin d'oro, i primi ragionati a 4, i secondi a 5 per oncia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A fog. 75.
Altro del 13 febbraio duodecima Ind. (1284), ibid., fog. 99, dato di Bari, dove il principe di Salerno confessa avere ricevuto once 10,000, da papa Martino, tolte in prestito per virtù del permesso di accattare infino a 100,000 once con sicurtà su i beni qualunque della corona; permesso datogli dal padre, con un altro diploma che si trascrive, datoSalorum in Andegavia, 1283, 14 luglio undecima Ind., anno 7 del regno di Gerusalemme e 19 di Sicilia.
Conti di Adamo de Dussiaco tesoriere, dal 1 settembre a tutto febbraio duodecima Ind. In que' sei mesi si eran maneggiate meglio che 36 mille once, ritratte da varie partite, tra le quali sono notevoli: once 10,175 di tasse straordinarie, once 16,319 per decime pagate dal papa e da mercatanti lucchesi, once 500 prestate del suo dal cardinal Gherardo, once 695 da mercatanti romani a usura, che sono per l'argento impegnato come nel docum. XII. Le spese sono per arredi, soldi alla famiglia del re, e a cavalli e fanti dell'esercito di Calabria con Artois: e 5,000 once per acconciamento di galee, delle quali once 4,000 mandate in Provenza. Vi si leggono i nomi di vari condottieri: Goffredo di Joinville, il visconte di Tereblaye, Ugone de Grenat, Giovanni de Alnect, Pietro de Bremur, Giovanni de Montfort conte di Squillaci, ec. Nel citato reg. 1283, A, fog. 132, 134.
Diploma dato di Melfi a 16 marzo duodecima Ind. (1284) per l'imprestito di once 1,918 da mercatanti senesi. Ibid., fog. 29.
Diploma dato di Napoli a 26 aprile duodecima Ind. (1284). Carlo principe di Salerno a papa Martino. Per l'autorità datagli dal padre di accattare infino a 100,000 once d'oro, avea tolto altre somme di danari. Confessa qui avere ricevuto da Bullono e Vermiglietto, mercatanti lucchesi, once 15,608 di oro sul danaro delle decime ecclesiastiche accordate per la guerra, con guarentigia della santa sede. Richiede il papa che ne dia credito a que' mercatanti. Ibid., fog. 131.
[59] Diploma del 24 settembre duodecima Ind. (1283), Docum. XII. Ivi si leggono i nomi delle varie maniere di vasellame impegnato, e il peso, e quel de' rottami d'argento, e fin di alcuni baltei con borchie d'argento. Vi si trova ancora il riscontro co' pesi di Cologna; talchè pare documento assai importante per cui si travagli delle antichità di que' tempi.
[60] Veg. i conti di Adamo de Dussiaco, citati nella pagina precedente, e un altro diploma del 2 maggio duodecima Ind. (1284) pei danari che lo stesso tesoriero avea tolto in prestito a nome del fisco. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 117. Ibid., a fog. 75 a t., leggesi un altro diploma per altro imprestito da uomini di Solmone.
[61] Diploma dato di Napoli il 29 novembre duodecima Ind. (1283), pel quale si voltavano alle spese della flotta le seguenti somme promesse da città in sovvenzione della presente guerra: da Napoli once 1,000, da Salerno 500, e 100 delle once 200 che avea promesso Nocera. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 74.
[62] Diploma del 27 maggio duodecima Ind. (1284), pel quale si rendea la grazia regia e, mercè once 1,000, anco i beni ai figliuoli di Galgano di Marra giustiziato. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 149. Ibid., a fog. 119 a t., leggesi un altro diploma del 6 maggio duodecima Ind. a favor di Giovanni di Marra figliuolo di Angelo, ch'era stato appiccato,suis culpis exigentibus; cioè i mali consigli dati al governo per iscorticare i sudditi.
[63] Diploma dato di Napoli a 25 maggio duodecima Ind. (1284), reg. 1283, A, nel r. archivio di Napoli, fog. 136. Divieto all'entrata de' carlini d'argento stranieri, perchè non si ravvilissero que' del governo, ai quali s'era fissato il valore di grana 12 per ciascuno.
[64] Diploma dato di Napoli il 1 giugno duodecima Ind. (1284). Son lettere circolari per tutte le province, per le quali si destinano commissari regî sopra la esazione delle decime dei beni ecclesiastici.Sane Reverendus in Cristo pater Dominus G. Sabinensis Episcopus Apostolice Sedis legatus, provida nuper ordinacione decrevit quod super exactionem decimarum omnium fructuum reddituum et provetuum Ecclesiarum quarumlibet existencium in decreta vobis provincia, duorum annorum videlicet, per universos prelatos et Clericos Regni Sicilie citra farum domino patri nostro et nobis gratanter in ipsius legati presencia commissarum, ec.
Perciò il vicario del re provvedea che N. N.dilectus et devotus noster in quo nos plene confidimus debeat personaliter interesse, ec., nella esazione di queste decime. Nel r. archivio di Napoli, registro 1283, A, fog. 147 a t. Ibid. fog. 148, leggesi la circolare indirizzata al medesimo effetto a' prelati, nella quale son da notarsi le seguenti parole:Quum pridem Reverendo in Cristo Domino G. dei gratia venerabili episcopo Sabinensi apostolice sedis legato apud Melfiam residente, prudentia vestra diligenter attendens quod dominus pater noster et nos sumus sacrosancte romane Ecclesie Speciales filii et athlete, quodque in prosecucione finalis exterminii Sicule factionis….. decimas omnium fructuum, ec…..in ipsius legati presencia, pro ut veridico relatu didicimus, per biennium liberaliter obtulit et gratiose promisit, ec. Ibid. a fog. 154, altro diploma dato di Napoli il 2 giugno al medesimo effetto.
Mi par che resti dubbio se questi due anni di decimepromesse nel concilio di Melfi per influenza del legato Gherardo da Parma, cardinale vescovo di Sabina, siano state oltre quelle accordate già dal papa; ovvero se il legato abbia voluto richiedere di faccia a faccia tal promessa a' prelati per incontrar minori ostacoli a quel pagamento, che d'altronde dovean fare per lo comandamento del papa. Io penderei al primo di tali supposti.
In questo o in altro concilio di Melfi, gli ordini religiosi militari furon tassati di gente, ma forse poi detter danaro in compenso. Ciò si vede da un diploma dato di Napoli il 26 aprile duodecima Ind. (1284):Fratri Falconi de ordine militie Templi Vice Preceptori in Apulia. Cum pridem in Concilio per Venerabilem in Christo patrem Dominum G. Sabinensem Episcopum apostolice sedis legatum apud Melfiam sollempniter celebrato, quatuor milites et sexdecim scutiferos armigeros equis et armis decenter munitis, ec., furono promessi da voi; mandateli senza dimora, o, in vece di essi, once 50. Reg. med. 1283, A, fog. 83. Al fog. 123 a t. si leggon altri simili diplomi dati il 29 aprile, indirizzati agli Spedalieri di S. Giovanni in Barletta e Capua.
[65] Diploma dato di Napoli 5 maggio duodecima Ind. Il vicario chiama alcuni armigeri pisani in suo aiuto, a' suoi soldi. Nel r. archivio di Napoli reg. cit. 1283, A, fog. 131 a t.
Ibid. diploma di Napoli 7 maggio duodecima Ind. A tutti i soldati che dovean venire a' suoi stipendi sotto Giovanni de Apia (d'Eppe). Promette loro che appena messo piè in Napoli, avran la moneta del soldo par tre mesi; e che non vedendosi pagati, vadano pur via.
Ibid. diploma del dì 8 maggio a Giovanni d'Eppe, negli stessi sensi, aggiungendo che a S. Germano toccherà i primi tre mesi di stipendio, e poi sarà pagato di trimestre in trimestre.
Ibid. diploma del 19 maggio, docum. XVII.
Ibid. diploma del 20 maggio. Mandato fatto ad Adamo Forrer capitano del patrimonio di San Pietro, a richiedere con qualche condizione quegli aiuti ch'avean profferto i comuni di Perugia, Viterbo, Orvieto e altri degli stati pontificî.
[66] Diplomi del 28 gennaio, 24 febbraio, 3, 7, e 17 aprile, 3, 4, 5, e 21 maggio 1284, dalle pergamene del r. archivio di Napoli, nel citato elenco, tom. I, pag. 260 a 266.
[67] Concessioni di beni allodiali e feudali se ne trovan molte fatte in questo tempo, reg. cit. 1283, A, fog. 117 a t. 126, ec.
[68] Docum. XVI.
[69] Diploma dato di Napoli a 15 maggio duodecima Ind. (1284) per pagarsi once 100 per nolo della nave genovese di Simone Malleno. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 104 a t. E un altro del 20 giugno 1284, per la nave di un genovese Navarro, citato nel seguito del presente capitolo.
[70] Dapprima il principe di Salerno avea affidato l'armata a Guglielmo Alamanno, e Arrigo Girardi. Diploma dato di Nicotra il 27 settembre duodecima Ind. (1283), nel citato registro 1283, A, fog. 59 a t.
Nel mese di novembre cominciò a incalzare nei provvedimenti per la flotta; e preposevi un uomo di maggior nome, Iacopo de Brusson, come si vede da' seguenti diplomi del medesimo registro.
Napoli 24 novembre per l'armamento delle navi in Napoli, fog. 71, a t.
Napoli 26 novembre, parecchi diplomi per le navi in Salerno, ibid.
Napoli 26 novembre a Iacopo de Brusson vice ammiraglio. Lunghi ordinamenti a racconciar la flotta; e si dice data adextaleum in Napoli la costruzione di dodici galee per la somma di once 120 per ciascuna, fornite di tutto, fog. 73.
Napoli 27 novembre, altri provvedimenti; e si fa nota la elezione di Brusson a vice ammiraglio, fog. 72.
Napoli 4 gennaio, duodecima Ind. (1284), per farsi biscotto da servire alla flotta nel passaggio di Sicilia, nella primavera vegnente. Ibid. fog. 15.
Altro ibid. fog. 16, dato di Foggia il 29 gennaio al medesimo effetto.
Altri ibid. fog. 42, dati di Brindisi, 20 e 24 febbraio allo stesso fine.
Nella primavera del 1284, come strignea il tempo all'impresa, il governo angioino raddoppiava le sue cure per la flotta.
Diploma dato di Napoli a 15 aprile duodecima Ind. vietando che niuna nave uscisse da' porti di Puglia, poichè tutte servivano alla imminente impresa siciliana. Reg. cit. 1283, A, fog. 30, a t.
Diplomi dati di Napoli l'ultimo aprile duodecima Ind. perchè fosser subito varate le galee in Gaeta, e fornite di tutto per l'immediato passaggio in Sicilia. Reg. citato, fog. 84 a t. e 89 a t.
Altri diplomi della stessa data e del 3 aprile, ibid. fog. 88, 100, a t. e 30, dai quali si vede raccolta su i porti dell'Adriatico, grande copia di grasce e altre vittuaglie per l'impresa di Sicilia.
Diploma dato di Melfi a 13 marzo, per dar favore ad alcuni mercatanti de' Bonaccorsi, incaricati dal re ad incettar frumento. Se i proprietari facessero mal viso, fossero sforzati a dar il grano a giusto prezzo. Reg. citato, fog. 43.
Altro diploma del 26 aprile, perchè dalle regie armerie si fornissero all'ammiraglio 400 giachi, e due casse di quadrella, da armarne nove galee in Salerno. Ibid., fog. 121.
Altro del 1 maggio, dato anche di Napoli, perchè si consegnassero 20 migliaia di quadrella di due piedi e 40 migliaia d'un piede, per uso della flotta. Ibid. fog. 113 a t. E al medesimo effetto parecchi altri diplomi che tralascio per brevità; ma è da notarne uno del 12 maggio indirizzato al castellano di castel Capuano di Napoli, ov'eran le armerie, la zecca, ec. Da questo si veggono i nomi delle varie maniere d'armi da consegnarsi al vice ammiraglio:balistas, quarrellos ad unum et duos pedes, conuculos pro….. igne, lanceas, Jaccarolos, rampicullos, prodas cum catenis earum, scuta, squarzavella, pavensia, et queque alia arma, fog. 113. a t.
Nello stesso tempo Carlo lo Zoppo, che fu questa sola volta guerriero in tutta la sua vita, si facea fabbricare armature per sè. Un diploma del 27 febbraio, ibid. fog. 114, accenna il pagamento di cent'once fatto a questo fine; e un altro del 12 maggio provvede al soddisfacimento del compiuto prezzo. Ibid. fog. 108.
Si prepararono ancora molte macchine da guerra, delle quali par che fossero espertissimi i Saraceni della colonia siciliana trapiantata in Lucera dall'imperator Federigo, una o due generazioni innanzi quest'epoca. Due diplomi del 23 aprile, reg. citato, fog. 91 a t. e 104 provvedono di mandarsi a Manfredonia per l'impresa di Sicilia, quattrode ingeniis curie della fortezza di Lucera de' Saraceni.
Un altro del 6 maggio, ibid. fog. 91 a t., per assoldar cento Saraceni al servigio di queste macchine, le quali indi si vede che dovean essere molto grandi e importanti. Per un altro diploma del 13 maggio, ibid. fog. 103, si veggono assoldati nell'oste di que' Saraceni 9 militi, 90 cavalli e 500 fanti. Altri diplomi dati di Melfi il 12 marzo duodecima Ind. (1284) provvedeano 300 archi d'osso pei Saraceni militanti nell'esercito, 290 cavalli per gli arcieri saraceni, 200spalleria, suprapunta, cocceros, et faretras pei medesimi; reg. 1283, A, fog. 43 e 44: ed ivi a fog. 44 a t. altri diplomi del 20, 21 e 23 marzo per armi e cavalli di altri 170 arcieri saraceni di Lucera. Altri diplomi leggonsi nel medesimo reg. fog. 103, uno dato il 23 aprile per cuoia di buoi e bufali, un altro il 6 maggio per altri materiali e stromenti, tutti per l'impresa di Sicilia. In quest'ultimo si legge di fornirsi 200lapidum finarratorum pro ingeniis.
[71] È notevole la cura che il governo angioino di Napoli si prendea per custodir le sue spiagge, pur mentre preparava un'armata e un'oste d'invasione contro la Sicilia. Ciò prova in quale riputazione già fosse appo i nemici la flotta catalana e siciliana. Cel mostrano i diplomi del r. archivio di Napoli, nel citato reg. 1283, A, de' quali, lasciando indietro perchè non mostra cura straordinaria, un diploma del 21 aprile (1284) risguardante il pagamento degli stipendi al presidio del castel di Capri, ricorderemo i seguenti:
Diploma del 30 novembre (1283) fog. 72, perchè si munissero, con molta cura le castella di Calabria, massimamente quelle di contra a Messina.
Diploma dato di Napoli il 2 maggio, fog. 85 a t. È commesso a Iacopo de Brusson vice ammiraglio di far osservare gli ordini già dati nei segnali allo scoprir legni nemici: cioè fumo il dì, fiamme la notte, che volgarmente si diceanfani, e se ne dovea levar uno per ciascun legno avvistato. Inoltre erano stabiliteexcubias seu custodes in tutte le terre e luoghi opportuni, che vegliassero dì e notte. La spesa si fornisse da' comuni, e, in mancanza, da qualunque danaro regio. Somiglianti disposizioni son date, ibid. fog. 127 a t., per aversi particolar cura delle costiere da Policastro a Castellamare di Stabia.
Diploma del 2 maggio, ibid. fog. 86 a t., per 75 fanti toscani mandati di presidio inMontane Amalfie, ov'era capitano un Rambaldo de Alemanni.
Altro della stessa data, Ibid. 88 a t., al capitano di Gaeta si raccomandano i fani.
Par che in vero dopo la battaglia di Malta i nostri corsali avessero ripreso le infestagioni ne' mari del regno di Napoli. Un diploma dato di Nicotra a 28 ottobre duodecima Ind. (1284) parla di un galeone siciliano di un tal Galfono che corseggiasse.
[72] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 27.
[73] Bart. de Neocastro, cap. 76.
[74] Questo particolare è scritto dal d'Esclot. A mostrar la somma sua diligenza noteremo che per vero da un diploma del 20 giugno 1284 si vede che fosse a' soldi del governo di Napoli la nave di questo genovese Navarro. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 4, a t.
[75] Questa narrazione è ritratta da' seguenti contemporanei, che portanla con poco divario tra loro:
Bart. de Neocastro, cap. 76, 77.
Nic. Speciale, lib. 1. cap. 27.
Saba Malaspina, cont., pag. 404 a 408.
D'Esclot, cap. 119 a 127.
Diario anonimo, nella Raccolta di cronache del regno di Napoli, da' tipi del Perger, tom. I, pag. 109.
Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 93.
Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1157, 1158.
Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anec., tom. III, pag. 764.
Nangis, Gesta Philippi III, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio.
Montaner. cap. 118.
Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 812.
E la più parte degli altri contemporanei, che dicono il fatto senza i particolari.
Il giorno della battaglia è confermato da molti documenti, tra' quali citeremo una lettera di Carlo I al papa, data il 9 giugno 1284, pubblicata dal Testa, nella vita di Federigo II re di Sicilia, docum. 2.
I suddetti scrittori portan variamente il numero delle navi; e i più pongon l'avvantaggio del numero dalla parte de' Napoletani. Scrivendo solo per narrare quel che mi sembra più vero, mi son tenuto a d'Esclot catalano, perchè meno esagerato, e minutissimo ne' particolari. Saba Malaspina disse 11 le nostre navi e 30 le nemiche. Speciale 41 le nostre e 70 le nemiche. Il Neocastro 28 le prime e 30 le seconde. Il Villani 35 le napoletane e 45 le nostre. Il Montaner 40 le galee di Sicilia e 38 con molti altri legni le napoletane. La Cronica di Parma, morti d'ambo le parti 6,000, presi da' nostri 8,000, tra' quali il figlio dei conte di Fiandra, il conte di Monforte, Rinaldo d'Avella, Oddone Polliceno e altri baroni, in tutto 32, prese 42 galee armate, sommerse cinque e fuggite quattro.
Vi hanno nel r. archivio di Napoli parecchi diplomi di Carlo I, per l'amministrazione de' beni feudalicomitum et baronum qui dudum in marino prelio cum Karulo primogenito nostro per proditores Messanenses et inimicos nostros Aragonenses mortui sunt vel capti. Queste parole appunto leggonsi in un diploma dato di Brindisi il 13 settembre tredicesima Ind. (1284), reg. 1283, A, fog. 176; e uno somigliante, dato il dì 11 giugno duodecima Ind. (1284) se ne legge indi a fog. 188; un altro a fog. 12 a t. dato di Brindisi il 3 ottobre tredicesima Ind. (1284).
Un altro del 17 giugno 1284, dato anco di Napoli, provvide in particolare all'amministrazione dei beni diRaynaldo Gaulardo miles preso col principe di Salerno, reg. segn. 1291, A, fog. 4.
Un altro del 21 giugno dello stesso anno 1284, nel medesimo registro 1291, A, fog. 21, accordò dei sussidi alle mogli de' prigioni, Rinaldo Galard, Iacopo de Brusson e Guglielmo Estendard.
E tre altri dati il 14 giugno per l'amministrazione de' beni di Galard, de Brusson ed Estendard, leggonsi nel ridetto registro 1291, A, fog. 4, e 4 a t.
[76] Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 93.
[77] Saba Malaspina diceCastrum ad mare, e che la principessa salìscopulum castri. D'Esclot anche parla di castello di san Salvatore al mare, e fa supporre che nello stesso trovavasi prigione la Beatrice; Montaner porta costei serrata nel castel dell'Uovo.
Queste circostanze riunite non lascian dubbio, che anche il primo parlasse del castel dell'Uovo, che sorge su rilevato sasso in mezzo al mare, come penisola.
[78] Bart. de Neocastro, cap. 77.
Saba Malaspina, cont., pag. 408, 409.
D'Esclot, cap. 128.
Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1158.
Montaner, cap. 113.
La condanna di Riso e Nizza è riferita dal Neocastro, che solo tra gli scrittori della battaglia fa menzione di quei due sciagurati.
[79] Saba Malaspina, cont., pag. 410.
Bart. de Neocastro, cap. 77.
Nic. Speciale, lib. 1, 27.
D'Esclot, cap. 129.
Montaner, cap. 113.
Queste autorità, e massime il Malaspina, provano ch'è bugia la uccisione di 200 e più prigioni all'arrivo loro in Messina, favoleggiata o portata con anacronismo da Ricobaldo Ferrarese e Francesco Pipino, in Muratori, tom. IX, pag. 142 e 694.
[80] Saba Malaspina, cont., pag. 410, 411.
Cron. di San Bert., loc. cit., tom. III, p. 765.
Epistola di re Carlo a papa Martino, data di Napoli il 9 giugno 1284, in Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 2, ove leggesi:Nonnulli leves et viles contumaci crassantia excessissent, etc.
Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1158.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 610.
Giachetto Malespini, cap. 222.
Le parole di Saba Malaspina intorno il messaggio a' Francesi usciti dalla città, che mostran gli umori di parte tra i nobili e la minutaglia di Napoli, son queste:Significant enim dictis Gallicis legatus et nobiles memorati, quod etiam in iis concitationibus populi non oporteret eos timentium assumere animos vel pavere, quia contra hujusmodi populum stolidum concitatum, praedicti nobiles cum ipsis Gallicis volunt esse.
[81] Saba Malaspina, cont., pag. 411.
Epistola citata di re Carlo a papa Martino.
Diploma di re Carlo, docum. XVIII.
CAPITOLO XI.
Carlo, fatta cruda vendetta in Napoli, s'appresta a un ultimo sforzocontro la Sicilia. Vano assedio di Reggio. Seconda ritirata di Carlo,e audaci fazioni de' nostri, che occupano molte terre in Calabria, valdi Crati e Basilicata. Impresa dell'isola delle Gerbe. Sospetti delgoverno aragonese, e ruina d'Alaimo. Casi dei prigioni in Messina.Morte di re Carlo e di papa Martino. Provvedimenti della corte diRoma. Capitoli di Onorio. Insidia di due frati messaggi suoi inSicilia.—Giugno 1284-1285.
Il dì medesimo della battaglia, re Carlo trapassava dai mari diToscana a quei del regno, avendo seco da quaranta galee, portato daprosperi venti, da novelle speranze, finchè a Gaeta il nunzioincontrò, scrivealo al papa egli stesso, di sollecitudine e angoscia.Più che la perduta flotta, il trafisse la morte e prigionia de' suoigagliardi; del figliuolo sol rammaricossi perch'era un pegno in mandei nemici; talchè nel solito abbandono di rabbia, o infingendosi,imprecavagli: «Foss'ei morto com'è prigione! Che m'è a perdere unprete imbelle, uno stolto che si da sempre a' consigli peggiori[1]?» Iterrazzani di Gaeta, che già a stigazion de' loro usciti erano perribellarsi agli avvisi di Napoli, cagliarono vedendo inaspettato conuna flotta il re: il quale non curolli, tirato da vendette maggiori;che tra due pendeva, o inseguir Loria di {273} presente, o sfogare suNapoli[2]. A questa come più vicina si volse. Approdatovi il dì ottogiugno, ricusava smontare nel porto; soprattenutosi al Carmine,minacciava arder Napoli; talchè a mala pena il dissuasero Gherardo e inobili, i quali scusando il popolazzo con dirgli: «Sire, e' furonofolli.—E io, rispondea, punirò i savi che ciò soffersero aifolli[3].» Lasciò dunque torturare i rei, o creduti[4]; investigò,borbottò; commosso infine a clemenza, contentossi di cencinquanta, opoco più, impiccati per la gola: ma sperava rifarsene con più largosagrifizio nell'isola[5]. Le popolazioni di Puglia, che fortuneggiandoil governo avean levato in capo, or s'umiliavano di tanto più basso;profferiano al re averi e persone: ed egli a tal apparenza dell'anticovigor di comando, col gran cuore che allora il portò sì alto, sifidava pure vincer la prova. Mette in punto a Napoli e l'armata sua ele reliquie della disfatta del principe; comanda si fornisca l'altradi Brindisi; scambia nell'armata del regno i capitani, nel civilgoverno gli officiali; non curante scrive per l'Italia: essersiinvolata innanzi a lui la flotta de' ribelli Siciliani, dissipata lacodarda e mobil canaglia che gridava in terraferma; avanzarglisoldati, marinai, ottantasei galee, teride altrettante, numerosa proledel figliuol suo per la successione {274} al trono; già movea acompiere il meritato sterminio dell'isola[6]. Al papa aggiugne: solch'abbia moneta, trionferà questa volta; il papa col solito amoreprovegga all'ultimo sforzo. Temendo pure esausto quel cieco zelo o iltesoro, il dì stesso commette al vescovo di Troia e a OddonePolliceno, consiglieri suoi, che procaccino uno imprestito conl'intesa di fidati officiali del papa; vadano a corte di Roma, inToscana, in Lombardia; richieggan città, compagnie, mercatanti, tuttopurchè abbian cinquanta mila once d'oro. Pochi dì appressoraccomandavasi a maestro Berardo da Napoli notaio del papa, dicendoaccatto non più, ma sussidio[7]. Nè invano il chiese a Martino, chefatto per lui tanto sperpero delle decime dell'orbe {275}cattolico[8], or entro un mese gli fornì novellamente quindicimila eseicento once di oro; spigolandole dalle lontane chiese di Scozia,Dacia, Svevia, Ungheria, Schiavonia, Polonia; e allegando semprel'onore e 'l pro della navicella di Pietro[9].
Il quarto poderoso armamento adunava dunque Carlo, con le forzeausiliari della più parte delle città italiane; e die' superbamente ilritrovo a Reggio, occupata allora dai nostri[10]. A Brindisi eicavalcò il ventiquattro giugno; di Napoli fe' salpar la flotta sottodue ammiragli, l'un provenzale, italiano l'altro, che, girato intornoalla Sicilia, per accrescer terrore a' nemici, e schivar essi ilpassaggio dello stretto, niente sicuro con Loria e i Messinesi alfianco, alla flotta dell'Adriatico si congiungessero. Navigandocostoro s'avvennero in una nave mercatantesca catalana; e presala, gliuomini tutti, da pochi Romani e Pisani in fuori, gittarono in mare,come se ciò riparasse l'onta della sconfitta di Napoli. Insultate poiqua e là le costiere dell'isola, appresentansi un momento provocandoalla catena del porto di Messina; vanno a trovare l'altra armata aCotrone; e riforniti di vivanda, a mezzo luglio, pongonsi all'assediodi Reggio. Quivi per terra andò il re con l'esercito di diecimilacavalli e quaranta migliaia di pedoni, se da creder è a Bartolomeo deNeocastro. Sommarono a cencinquanta o dugento i legni grossi. Carlo sipose alla Catona con parte dell'oste; il grosso lasciò a campo aReggio: presala, e come no? si passerebbe in Sicilia[11].
E Reggio, debol di sito e di mura, tenne inopinatamente, {276} per lavirtù di Guglielmo de Ponti catalano, e d'un picciol presidio diCatalani e Siciliani, nel quale si noveravan Messinesi trecento.Sostennero i nostri ogni più duro assalto; e la vigilanza alle guardiefaticosissima ai pochi: e con fino saettar dalle mura scemavano gliassedianti, gente vendereccia o venuta a forza, odiante forse ilvecchio re cui la fortuna volgeva le spalle, e mormorante per lapenuria delle vittuaglie, non provvedute abbastanza dal principe diSalerno, e scarsissime d'altronde quell'anno {277} per tuttaCalabria[12]. Indi a rinfrancarsi i Messinesi dopo il primoterrore[13]. Indi a sgomenarsi in un attimo, nelle maestre mani diCarlo, la mal costrutta macchina di questa guerra. Tra il sì e il nodi valicare lo stretto[14], Carlo aspettò alla Catona infino alloscorcio di luglio[15]; e vedendo che l'assedio di Reggio era niente,corse a incalzarlo egli stesso; e il quattro agosto passò oltre adAmendolia; il cinque alle spiagge di Bruzzano: e facea venirvittuaglie e stromenti da guerra, e par che quivi aspettasse l'esitodi qualche tradimento in Sicilia[16], e disegnasse qualche altroassalto su la costa orientale dell'isola[17]. Perchè tentando {278}anco l'esca delle concessioni, forse per chiesta de' Siciliani con cuipraticava, creò vicario generale in Sicilia con pien potere il conteRoberto d'Artois, fidando in esso, dice il diploma, come nella suapersona medesima, e dandogli di poter dispensare perdoni eguarentigie, che il re ad occhi chiusi confermerebbe: e pensavamandarlo in Sicilia con un grosso di genti[18]. Questo disegno non furecato ad effetto. Rivien Carlo sopra Reggio; tentata senza pro unascaramuccia, sciogliene l'assedio il tredici agosto[19]; e tornasialla Catona con quanto avea d'oste e di navi.
E incontanente in Messina Ruggier Loria, non potendo per talesmisurato divario di forze uscir con l'armata, ordinò schiere dicavalli su le spiagge: il popol tutto intrepido e lieto ripigliava learmi; l'infante Giacomo confortavalo con la sua presenza; nè andòguari che i Messinesi con sottili barche a remeggio dier principio amolestar le galee nimiche, motteggiando e saettando se potesserotrarle presso al porto di Messina[20]. Provocarono invano, perchè ilnemico non pensava ormai che a ritrarsi. {279}
Incredibil fine di tanto sforzo: onde degli scrittori del tempo, altridisse che re Carlo mandasse due cardinali a trattare in Messina delriscatto del figliuolo, e che Pier d'Aragona li intrattenesse finchèfu passata la stagione acconcia alla guerra[21]; altri die' a vederel'Angioino arrestatosi a un tratto dal passaggio, perchè i nostriminacciasser di mettere a morte il principe di Salerno[22]. Talminaccia che, mandata ad effetto, pur sarebbe stata alto e salutareconsiglio rinforzando i Siciliani con la virtù della disperazione, ionon la credo da tanto da trattener Carlo fidante nella vittoria. Errarpiù manifesto è quel de' primi, perchè Pietro non tornò giammai diSpagna in Sicilia, nè di mezzo agosto si potea creder finita lastagion di combattere. Ma ben altre invincibili necessità volseroquesta seconda fiata negli amari passi di fuga il guerriero angioino.Malaspina allega la sola mancanza delle vittuaglie, come poi scrisseil medesimo re Carlo[23]. Più forti cagioni ne mostrano altri diplomidel re. L'esercito mormorava, fremea, faceasi di giorno in giorno piùimmansueto; questa contumacia apprendeasi agli abitanti delleCalabrie[24]. Cominciò l'armata {280} ad assottigliarsi per moltidisertori; passò tal contagio nell'oste; non menomavasi per guardieche il re facesse mettere ai passi; non per le ordinate inquisizionistrettissime de' disertori; nè per un atroce comando, che mostra inCarlo le smanie della tirannide al guardare qual precipizio già iltrascinava. Perch'ei, quasi non sapendo ritener altrimenti i regnicoliche non lo abbandonassero, assomigliando a fellonia la fuga chesnervava l'esercito regio, ordinò prima il sette agosto da Bruzzano, epiù volte appresso, si mozzasse il pie' a tutti i disertori; ma disseil pie' indistintamente pei Saraceni; pe' cristiani, da caritàmaggiore, designò che si troncasse il sinistro. Gran pezzacontinuarono per tutta la ritirata e queste fughe e questi orrendigastighi[25]: nulla giovarono al re. Avea alle spalle Reggio intera eminacciosa; in Sicilia s'incalzavano gli armamenti; il proprioesercito si assottigliava, si disfacea, {281} dileguavasi. A checercar altre cagioni alla ritirata di Carlo?
Il caso l'affrettò con una crudele tempesta, che percosse di notte lenavi ancorate alla Catona senza schermo: le quali per manco male silanciavano in alto mare; e tornate a dì, dopo aver corso gravipericoli, trovaron l'esercito in terra poco men di loro travagliatodalle folate del vento e dell'acqua. A mezzodì, splendendo in Messinaun bel sereno, di nuovo si scaricarono le procelle su' lidi opposti;che parea, dice il Neocastro, ch'anco il cielo e 'l mare scacciasserogli stranieri[26]. Ma più degna è di nota la virtù di Ramondo Marquetcatalano, vice ammiraglio d'Aragona. Costui, mandato dal re conquattordici galee, quando si seppero in Catalogna i novelliapparecchiamenti {282} del nemico, navigava nel mar di Milazzo. Vistolda terra, un Villaraut cavalier catalano comandante di quella città,spiccasi ansioso sur una barchetta a dirgli dell'enorme flotta nimicaingombrante lo stretto; e Ramondo a lui: «Comandommi il re di condurqueste navi a Messina; innanzi ad umana forza non volterò:» eseguitava il suo corso. Villaraut ne spacciò tosto avviso all'infante.E lo stuol delle navi nostre, gareggiando coi pro' Catalani, escì diMessina a incontrarli infino a torre di Faro. Entrambi in faccia alnimico, non molestati, si ridussero in porto[27].
Dopo questi fatti non tardò Carlo a sgombrare; e scorgendo ciò inostri, davansi a molestarlo, come già nell'ottantadue, mettendo inmare, tra catalane e di Sicilia, cinquantaquattro galee. Le quali comefur pronte, Ruggier Loria, convocati in piazza di San GiovanniGerosolimitano comiti e ciurme e le altre genti, fatto grande silenzioper la riverenza dell'uomo, così parlò: «Ecco la seconda fugadell'usurpatore di Napoli! Vedete confusi in quel navilio, Provenzalida noi in mare sconfitti due volte; Francesi inesperti; e, diversi bendi costumi e di voglie, Toscani e Lombardi stipendiati, regnicolidisaffetti: italica gente tutta, che di noi ricorda i rendutiprigioni, il mite adoprare in guerra, e, perchè no? la cacciata stessadi quegli stranieri insolenti. Ma voi, Catalani e Siciliani, diversidi lingua solo, una gente siete d'affetto e di gloria; provati insiemein battaglia: e che è a voi la mal ragunata moltitudine di là?Assalitela dunque, sperdetela, mentre nostra è la fortuna[28]!» E ilpopolo a una voce: «Alla battaglia, gridava, alle navi;» e tumultuosocorreavi; nè aspettato comando, salpò. Portavanli vento e correntegagliardissimi {283} a Reggio, forse a ineluttabile perdita, quando uncomito di galea: «Restate, sclama, restate! si raccolgan le vele;» eubbidito senza intender perchè, come in moltitudine avviene: «Nonv'accorgete, seguiva, che in secco andiamo, a darne senza combatterea' Francesi!» Costui salvò la flotta. Rivolte le prore, ancorossi alPeloro, a dodici miglia dalla nemica.
Ivi chieser le genti, o l'ammiraglio disegnò un assalto sopra Nicotra,tenuta dal conte Pietro di Catanzaro, con cinquecento cavalli eduemila soldati da pie' e altrettanti terrazzani; spensierati perfidar nelle vicine forze del re. Loria, trascelte dieci galee,piombavi a mezza notte; non sì improvviso pure, che il conte nonfacesse pria sfondar otto galee ch'avea in arsenale, e con tutti que'della terra fuggisse. Poco sangue perciò fu sparso; ma fatto grande ericco bottino. Appiccan fuoco dispettosi i nostri alle galee e allacittà, per toglier comodo al nimico, che fatto aveane sua stanzaprincipale in quella guerra: e ne tornò ai Nicotrini che senza patriamiseri paltoneggiando, riparar dovettero qua e là per Calabria, e ipiù a Monteleone e a Mileto. Preso fu quella notte un Geraci daNicotra cavaliere, e dicollato a Messina per fellonia; sendosi unavolta recato in parte per lo re di Aragona, e po' fallitogli. PietroPelliccia, cavaliere alsì e da Nicotra, incontrò più crudo supplizio.Costui, governando Reggio per noi, da invidia e malvagio animo, aveafatto a furia di popolo ammazzare sette de' maggiori uomini dellacittà: indi catturato per comando di Pietro; e dal carcere si fuggì.Coltolo a Nicotra, l'ammiraglio il da in balìa a' figliuoli di quegliuccisi; che fecerlo in pezzi.
Tornatosi alla sua flotta allo schiarire del dì, l'ammiraglio videquella di re Carlo far vela per lo mare Ionio, rimontando a Cotrone;onde messosi a inseguirla, trovaronsi a sera, distanti quattro migliatra loro, alla marina di Castelvetere. Ciò allettò Ruggiero adesplorar da sè {284} stesso i nimici. Perchè montata una barchettapeschereccia, cheto sguizzando tra le lor navi, ebbe a udire ilcicaleccio delle genti; ch'altri lodava lui stesso ancorchè nimico;altri lacerava re Carlo, malurioso e fatto dappoco; e i più anelavanotornarsi a lor case. Corse allor l'ammiraglio un gran rischio, e, comemille altre volte, l'aiutò la fortuna. «Chi è dalla barca?» gli gridòuna scolta; e l'ammiraglio pronto: «Povero pescatore; e m'affatico perservigio del re.» Ma tornato di presente al suo navilio, prendevi unaman di trecento tra Catalani e Siciliani, per assalire Castelvetere,terra a quattro miglia dalla spiaggia. Taciti giungono sotto le mura;non hanno scale, e fansele con le aste delle armi legate insieme;sulle quali un Fasano messinese montò primo tra tutti. Abbattutosi conle guardie ch'eran deste, ne uccide quattro costui, ucciso è dallerimagnenti; ma pochi altri Messinesi seguendolo schiudean le porte;ondechè fu messa la terra a sacco, con assai più sangue che a Nicotra.La notte appresso, spintosi infino a Castrovillari, quindici migliaentro terra, se n'insignorisce l'ammiraglio; e nel tornarsi alle navi,anco di Cerchiaro e Cassano; e rientrato in nave, assaltò Cotrone. Fe'vela indi per Sicilia; lasciando il re che in fretta riconducea inPuglia navilio ed esercito.
Dal canto del Tirreno peggio precipitaron gli eventi. Matteo Fortuna,condottier di due mila almugaveri, impavido era rimaso tutta la statenelle occupate terre di Basilicata; che non si crederebbe, ma forseCarlo, per troppa fretta del passaggio in Sicilia, lo sprezzò. Costuiinanimito agli esempi dell'ammiraglio, una piovosa notte, d'un solcolpo guadagnava Morano, terra e castello; e poscia Montalto, Regina,Rende, Laino, Rotonda, Castelluccio, Lauria, Lagonegro, e altre terrein val di Crati e Basilicata. Eran le armi del re fuggitive e lontane;per contrario, presente nei popoli l'esempio di Nicotra, vivi gliumori di ribellione; ed ivano attorno con molti altri eccitando gli{285} uomini di maggior seguito, due frati calabresi della famigliadei Lattari: talchè tutti alla nuova dominazione si volser gli animi;fecersi occultamente le bandiere con le insegne di Sicilia; e unsoffio a' Calabresi bastava a chiarirsi. Il fe' Tropea, mossa da duefrati; e Strongoli, Martorano, Nicastro, Mesiano, Squillaci. E sìcerto pareva il tracollo della signoria di Carlo, che principiando afallirgli i suoi stessi, Giovanni de Ailli, o Alliata, francese,signore di Fiumefreddo in val di Crati, venne a Messina a fare omaggioall'infante Giacomo; il quale confermavagli quel feudo, e un altro neconcedeva. Mileto, Monteleone e altre terre tentennarono ancora: tuttele Calabrie perdeansi, se non era pel conte d'Artois. Questi, seguitoalquanto il re, com'ebbe quegli avvisi, pronto voltò coi suoi cavalli;ponendosi a Monteleone a raffrenare i vogliosi di novità, e troncare ipassi a una picciola banda di almugaveri, che da Tropea tentava leusate scorrerie ne' casali d'intorno. I quali, or battuti daglialmugaveri ed ora dal conte, più maledivano lui che i nemici; perchè anudrir le sue genti iva dissotterrando i grani occultati nelladurissima carestia di quell'anno. Arrigo Pier di Vacca, aragonese,uomo di nome e valente in arme, mandato dall'infante Giacomo, forse inTropea, a maturare con l'autorità di vicario del re quegli importantimoti delle Calabrie, poco operò per aver poche forze[29]. {286}
Colpa dell'ammiraglio che potendo col temuto navilio osar la fortunadi quelle prime fazioni, e distrugger la flotta nemica, e compier senon altro la sollevazione delle Calabrie e di Basilicata, noncurandosi di ciò che avveniva dalla parte del Tirreno, per invidia oavarizia, disegnò una impresa da pirata, come se non ci fosser nemicipiù da combattere. In alto mare, mette il partito di assalire lafertil isola delle Gerbe, poche miglia discosta dal continente {287}d'Affrica, tra Tunisi e Tripoli; impresa, dicea, al nome cristianogratissima, a loro utilissima, perchè quei can maumettisti securi eimbelli nelle ricchezze nuotavano. Gli fan plauso le ciurme: invocanDio e la Vergine; e arsi di cupidigia navigano alle Gerbe. Giunserviil dodici settembre. La notte posta una galea nel canale tra l'isola ela terraferma, breve e guadoso a basso fiotto, e tolto così lo scampo,agl'indifesi abitatori dan di mano. Qual rimorso con infedeli?Ammazzato al par chi resiste e chi fugge; quanti ascondeansi in cavesotterra, sbucati come volpi col fumo; i più menati schiavi; e d'oro,argento, masserizie fu grandissima la preda. Due mila i prigioni,secondo il Montaner, sei mila secondo il Neocastro; e gli uccisisommarono quattro mila, ch'è orribile a dirsi, ma forse vero, perchènon credo uno scrittore sì insensato da cercar vanto quinell'esagerare. Ciò temo del Montaner quando leggo il bottino diquesta e somiglianti imprese; onde parmi, che da soldato avventurierech'egli era, contava sogni d'invidia, scrivendo come tolte tutte lespese, tanta preda si spartisse tra le genti di Loria, che sdegnavanpoi a gioco tutt'altro conio che d'oro, e appena avrian sofferto nellabisca chi ponesse mille marchi d'argento. Si riscattarono gl'isolaniavanzati alla schiavitù o alla spada; giurarono omaggio alla corona diSicilia[30]; e l'ammiraglio {288} fabbricovvi una fortezza, e s'ebbepoi l'isola in feudo[31]. In questo tempo un Margano principe d'Arabi,cavalcando con grande stuolo alla volta di Tunisi lunghesso la riva,fu appostato, e preso dalla gente d'un galeon catalano, e recato alloinfante, che il tenea, scrive Neocastro, come preda, non come prigiondi guerra, nel castello di Messina[32], per istrana avventura compagnodi carcere al principe di Salerno. Ma la cattività dell'Affricano, nènocente a noi nè nemico, fu trapasso di ladroneccio e avarizia dapirati, non gloria alle nostre armi. Nol fu tutto questo fattodell'isola delle Gerbe, se non che il malo acquisto si mantenne poicon onor della nazione. Restò alla corona di Sicilia, non ostante laribellion dell'ammiraglio che aspirava alla sovranità di quell'isola,e non ostanti le guerre e calamità in cui fummo avvolti; nè si perdèche negli ultimi anni di Federigo II, quando l'aristocrazia sfrenata epatteggiante, consumò tutte le forze nella esecranda guerra civile.Ruggier Loria riducendo l'armata in Messina a svernare, empiè laSicilia di schiavi gerbini, e ripassò in Calabria con un grosso dicavalli. Quivi s'insignorisce di Agrataria e Roccella; combatte unIacopo d'Oppido, feudatario; il rompe; mette a sacco e a fuoco ilpaese. Voltosi a Nicotra con altro animo, rifà le mura, afforza lecastella, richiama gli sparsi abitatori: e incontanente, come perammenda di quest'opra di umanità, torna in Sicilia a sfogare con altreenormezze quell'animo irrequieto, sanguinario, {289} ambiziosissimo esuperbissimo oltre ogni dire[33].
Perchè la gelosia dell'impero, crescendo per lontananza di luogonell'animo di Pietro e per invidia in Ruggiero e negli altri ministridell'infante Giacomo, si portava già in Sicilia a crudeli consigli;come è nelle cose di stato assai incerto il confine tra il guardarsi el'offendere. E sembra in vero che, tenendo una parte de' nostri baronia ristrigner la balìa della corte aragonese, e tirandosi sempreall'opposizione, alcun di loro si mostrò benigno ai prigioni francesi,e massime al principe di Salerno; altri tenne forse pratiche con reCarlo: e che la fazion della corte aragonese, ingrossata dagli usciticalabresi e pugliesi, esagerò quelle pratiche, le appose ugualmente achi le avea maneggiato e a chi sol volea mantener le franchige dellanazione; e tutti accagionò di tradimento, per aver pretesto a spegnerchi le paresse, e trovare riscontro nel popolo, abborrente sempre da'suoi antichi tiranni. Però dopo il ritorno della flotta dall'isoladelle Gerbe, e la ritirata e scompiglio dell'esercito di re Carlo, lafazione aragonese, ormai secura dalle armi di fuori, diessi a riurtarcontro gl'interni oppositori; e fece spegnendo pochi dei più grandi opiù audaci, e nel medesimo tempo menando grande strepito dicondannagione del principe di Salerno[34]. E prima due nobili uomini,Simone da Calatafimi e Pieraccio {290} d'Agosta, eran puniti nel capo;questi, confessa il Neocastro, a stigazion degli emuli suoi, comefautor di parte francese; l'altro perchè, noto già come avverso allarivoluzione e al nuovo principato, s'era partito di Sicilia sottocolore d'andarsene colla moglie e' figliuoli in Inghilterra alservigio di quel re, ma poi fu preso che riparavasi in Napoli controil dato giuramento[35]. Poi il grande Alaimo soggiacque ancora allagiovanile perfidia di Giacomo; del quale Montaner fa lode colproverbio catalano: «Spina non punge se non nasce acuta[36]:» e tal ful'infante; ma acuto e precoce al male; a vent'anni maturo già aitradimenti.
Affrettossi la ruina d'Alaimo per la moglie tracotante, che sfatava,non ch'altri, Costanza stessa; negando chiamarla reina, ma sol madredi don Giacomo; schifava le sue carezze; infrequente a corte, se nonera a lussureggiar di nuovo spendio di ornamenti; e una volta andovvia tastar gli animi quando il principe di Salerno venne prigione.Costei sendo incinta, volle come maggior d'ogni legge, pretestandomalattia, far soggiorno nella casa dei frati minori a Messina, perl'amenità e solitudine del luogo; dove ita Costanza a visitarla, ilnimichevole animo non placò. Partorita Macalda, mandava per Alaimo laregina, offrendo con Giacomo e Federigo tener al fonte il bambino; ela donna se ne scusò con dir che temea pel nato dal freddo dell'acqua;ma tre dì poi fecelo da popolani battezzare in chiesa. Notavasi ancoracome un'altra stagione in Palermo, sapendo che la regina inferma fosseandata in barella al santuario della Vergine a Morreale, il dìappresso Macalda, {291} nè per cagionevole salute nè per voglia divisitar santuari, si fece portare in una barella coperta di scarlattoper le strade della città; e fu vista poi viaggiare di Palermo aNicosia nella stessa guisa, che parve strana in quei tempi; e di crudoverno a capriccio affaticar soldati e vassalli sotto il peso dellabara. Questi femminili dispetti o vanaglorie, a corte eran misfatti.In tal colore li scrive il Neocastro, aggiugnendo più nero, cheMacalda dall'infeminito Alaimo si facesse dar sacramento di fuggir lacorte, non mischiarsi in consigli contro i Francesi, e fin procacciareche riavessero il reame. Di fatti palesi, narra come girando l'infantein quel tempo d'una in una le terre della isola, e intrudendosi adaccompagnarlo Macalda come avea costume, questa fiata non soloagguagliavalo in lusso e corteggio, ma con arroganza novella, essafacea da giustiziere quanto il marito: e peggio temeasi, vedendola,col principe scortato da soli trenta cavalli, trar dietro a sètrecento sessanta uomini d'arme, di dubbia fede o sospetti, spigolatiapposta da varie terre.
Allora nei consigli di Giacomo si tramò un colpo di stato. Portatosiin Palermo, ei dà segretissimo avviso ai Catalani de' vicini luoghi,fosser cavalieri, officiali del fisco, o fanti di presidio incastella, che tutti trovinsi a Trapani a tal dì; mandavi nove galeecatalane delle quattordici di Marquet; vi sopraccorre egli stesso conbuono stuol di cavalli; nè il fa intender che alcuni dì appresso adAlaimo, il quale ripudiato dalla corte, per altra via andò a Trapanicon Macalda. Ma un dì, quasi tornandolo in grazia, adunato ilconsiglio, Giacomo chiama inaspettatamente Alaimo[37]: e rivolto alui, toccava i pericoli che si vedean sovrastare non ostanti lefresche vittorie; il padre non muoversi per lettera o messaggio amandar grossi aiuti; non veder, {292} dicea, chi potesse svolgerlo, senon che Alaimo; salvasse egli la patria e la corona; andasse al re,sulle galee lì pronte a tornare in Catalogna: e finito il dirdell'infante, più efficaci di lui i consiglieri facean ressa adAlaimo. Li comprese; non vide scampo il grande; li guardò in volto; erispose che andrebbe. Lo stesso giorno dunque, che fu il diciannovenovembre dell'ottantaquattro, entrò in nave; ebbe cruda tempesta aFavignana, sì che una galea ruppe a Levanzo; con le rimagnenti aBarcellona arrivò. Quivi tutto lieto in volto l'accoglie re Pietro;ascolta, loda, promette che faranno insieme ritorno in Sicilia: vezzileonini, che nè Alaimo nè altri ingannarono[38].
Comandato avea senza dubbio Pietro medesimo questo rapimento d'Alaimo,in un con la dimostrazione di condannare il principe di Salerno,strettamente connessavi, com'anzi dicemmo, e dagli storici, per amordi parte o dubbiose notizie, narrata variamente sì, ma in modo da nondilungarsi gran tratto dal vero, e lasciarci vedere in fondo che fuartifizio per ritrovare i ligi della corte e i resistenti; per troncartutte pratiche, spaventando e i nostri e i prigioni; per ridestar leantiche passioni del popolo a tanto strepito; e prepararsi lodi dilonganimità con trattener la scure che sospendeasi sul capo alfigliuol di re Carlo. E avea Alaimo, o in adunanza pubblica o inmaneggi privati, contrastato questa condannagione del principe; il cheforse fu cagion principale del suo precipizio[39]. Ma divulgato {293}questo in un baleno per tutta l'isola, con maraviglia e doloredell'universale, caddene l'animo ai partigiani d'Alaimo, crebbe a que'della corte. Ond'ecco l'ammiraglio con la fama delle recenti imprese,seguito da una mano d'usciti del reame di Napoli, gittasi a sollevarla plebaglia di Messina, gridando tradimento contro i migliori cheteneano per Alaimo. Rabbiosa e diversa, chiamando a morte i prigionifrancesi, corre la canaglia alle case d'Alaimo, ove assai n'erano, eal palagio del re, che serravane cencinquanta sotto la guardia diventi soldati catalani: e qui seguia grand'esempio di virtù da unaparte, di atrocità dall'altra, a mostrare a che estremi oppostiportinsi gli uomini. Perchè i Catalani alla prima fecer testa; mavedendosi sforzati, sciolgono i prigioni, e armatili alla meglio, lordicono: «Insieme, per le vostre vite combatteremo,» e da finestre, datetti, coi tegoli, con le armi ributtano gli assalitori, ancorchèingrossati al romore. Allora gli usciti gridarono al fuoco; e metteancataste intorno il palagio. {294} Soffocati dal fumo, quei miserisaltan dalle finestre, chieggon mercè; ma son trafitti, ripintisemivivi nelle fiamme; e narra Malaspina degli usciti tal altroorrore, che nè il credo io, nè il dirò[40]. Prigioni e guardie, eiripiglia, tutti periano. Il Neocastro tace quelle crudeltà, scema ancoi prigioni a sessanta; altri li porta a dugento, e ricorda lefiamme[41]. L'umanità della regina, e la fortezza di Matagrifone,salvarono con molti altri il principe.
Poi si tenne un parlamento in Palermo a deliberare di lui; dove, diceil Neocastro, tutti accordavansi a mandarlo a morte in vendetta diCorradino, se non che dissentirono i Messinesi con Giacomo e la reina.A questo aggiungon fede, non ostante il divario delle circostanze, ilMontaner, Giachetto Malespini, il Villani, e sì una lettera di reAlfonso di Aragona a Eduardo d'Inghilterra, nella quale trattando dipace con Carlo II si afferma condannato lui dai Siciliani, e scampatodal re. Favoleggiò un altro contemporaneo, che la regina un venerdìfacesse intendere a Carlo d'apparecchiarsi alla morte; e che poi gliperdonasse per la sua fortezza a tal nunzio, e la rassegnazione amorire lo stesso dì che si ricorda la passione di Cristo; ma talnovella nacque manifestamente dal vero fatto narrato dianzi. Certo èche il principe in questo tempo, per tor luogo ad attentati in favordi lui, o contro, fu tramutato nel castel di Cefalù. Liberati glialtri prigioni, tutti sotto fede di {295} non militar contro noi; manon altri che Galard poi la osservò[42].
Macalda intanto, sol essa non isbigottita tra tanti suoi partigiani,sperando tuttavia volger sossopra ogni cosa, andata era in Messina: macon tal audacia fe' rincrudire i governanti, i quali incontanentepromulgan reo d'alto tradimento Alaimo; spoglianlo dei beni, edispensanli a lor favoriti o partigiani; fan perir di mannaia aGirgenti il tredici gennaio Matteo Scaletta, fratel di Macalda,confessante, diceasi, congiura col cognato. Indi a diciannove febbraioincarcerarono nel castel di Messina la stessa Macalda co' figli; allaquale era nulla tal rea fortuna, sì che ilare e contegnosa passava iltempo a giocare col principe arabo e co' famigliari; e una volta,quando portossi l'ammiraglio a strapparle i titoli del feudo diFicarra, essa, come nell'alto della possanza, il garrì: «Bel merto nerende il padron tuo! Compagno, non re, il chiamammo; ed egli usurpa lostato, e di soci fatti n'ha servi[43]. Bene a noi sta; ma digli chenon muterei questi miei ceppi nè il palco, col suo trono pien dimisfatti!» Sembra tuttavia che la sventura consumasse quest'animo chenon potea domare; e che Macalda tosto morisse in prigione, perchè lastoria null'altro ne dice di lei. Non andò guari che Alaimo co' nipotiAdenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, nel campo di Pietro inCatalogna fur sostenuti. Un corriero diceasi preso con lettere diAlaimo al re di Francia, piene di tradimenti: ch'ei domandava sicurtàper sè e' nipoti, e l'andrebbe a trovare, e fiderebbesi con diecigalee rivoltar {296} la Sicilia a casa d'Angiò. Mostrolle Piero adAlaimo, il quale negò; onde fu lasciato, e vegliato: ma i nipoti india poco uccisero un segretario che le avea scritto. Scopertol'omicidio, un famigliare e Adenolfo alla tortura il confessano, eAdenolfo anche la tentata tradigione con Francia; e però con Alaimo eGiovanni è chiuso nel castel d'Ilerda. Re Pietro fin qui. Più crudo ilfiglio, salito al trono di Sicilia procacciava lor morte[44]. Poco delresto è da credere a questi misfatti, come li spacciò da lontano lacorte aragonese. Que' che s'apposero ad Alaimo in Sicilia non son menoincerti. Ne tacciono i due scrittori catalani, come per coscienza dicolpa de' lor signori. Malaspina scrive, che Giacomo nimicava illeontino per aver contrariato la condannagione del principe. IlNeocastro nol fa nè reo nè innocente, ma portato dalla superbia dellamoglie; e parla incerto, come ammirator dell'eroe di Messina, eministro insieme di re Giacomo. Di documenti non avvi altro che ilmandato del supplizio d'Alaimo nell'ottantasette, sì scuro[45], che,se delitto prova, è di Giacomo, il quale senza forme di giudizioassassinò il glorioso vecchio. Portò costui la pena d'aver puntellatodi tutta la sua riputazione re Pietro contro Gualtiero di Caltagironee' sollevati dell'ottantatrè. E del rimanente furon sole sue colpe,gli obblighi di casa d'Aragona, la gloria della difesa Messina, deldato reame, la riverenza e amor di tutta Sicilia, la grandezza conpoca modestia, e sopra tutto l'invidia di Procida e Loria, noncittadini ma venturieri, pronti a sagrificare ogni cosa a chi lordispensava beni e comando.
Mentre que' primi casi d'Alaimo travagliavano la Sicilia, re Carloconsumava le forze del regno e sè stesso, nel delirio di tornar sopral'isola. Ritirandosi, inseguito dall'armata nostra, sostò pochi giornia Cotrone; ove crebbe a {297} cento doppi lo scompiglio de' moltissimidisertori: e indi tutto dispettoso e truce passò il re a Brindisi[46];e trovò per conforto gli avvisi d'un altro insulto di quel Corrado diAntiochia, che adoprò sì caldo nell'impresa di Corradino. Costui,adunati esuli del regno e altra gente presso i confini, ove imperavain nome la Chiesa, in effetto ogni sfrenato feudatario o ladrone,entrò a mano armata in Abruzzo al racquisto della contea di Alba. Ilconte di Campania li fronteggiò e ruppe[47]: ei rife' testa, aiutatodi danari dalla reina Costanza[48]. Un Adinolfo surto in quel tempostesso a turbar la Campania, disfatto fu da Giovanni d'Eppe con legenti pontificie. Perugia ancora, Urbino, Orvieto e altre cittàd'Italia levarono in capo contro la Chiesa e parte guelfa, tuttaviapoderosa, ma duramente percossa in re Carlo[49].
E questi vinto dal disagio, convalescente di quartana, rodeasi tramille cure: in man dei nemici il figlio: saltati essi in terraferma:perduto armamenti, uomini, spesa: affogar nei debiti del danaroaccattato in Francia, e per ogni luogo d'Italia: e come sopperire aglismisurati bisogni della guerra, se i popoli di Napoli sbuffano, enegan quasi apertamente e gabelle e collette[50]? Nondimenodissimulando alla meglio, e facendo sempre gran dire della guerra cheporterebbe la vegnente primavera ei stesso in Sicilia {298} e il re diFrancia in Aragona[51], provvede a racconciar le navi; scrivere porforza i marinai; vittovagliar tutte le castella; adunar grani;preparar biscotto; fabbricar immenso numero di saette e altre arme earnesi fabbrili: alletta i feudatari al militare servigio, permettendoche levassero nuove sovvenzioni da' vassalli[52]. E anelando sempre{299} danari, poich'ebbe esauste le altre fonti[53], portatodall'antico vizio, bandì una colletta generale, calandosi pure apersuadere e pregar quasi i popoli. Bandiva ad essi, che se Dio fosseancor Dio, egli ch'avea domi i re e' regni a un girar di ciglio,espugnerebbe sì quest'isoletta di Sicilia; e avrebbel fattoincontanente, aggiugnea, se non che sursegli improvviso nimico ilribaldo Pier d'Aragona; onde fu mestieri altrimenti ordinar la guerra,ingaggiarsi al duello, muover Francia contro il reame d'Aragona; etornato in Italia, la sola carestia gli avea tolto di mettere sotto ilgiogo i Siciliani. «La mia causa, sclamava, è vostra; domi i ribelli,avran fine i travagli; pace e giustizia faran fiorire il reame.» Maperchè a quello sforzo bisognava moneta, chiedea quest'anno a tutti icomuni la colletta usata, e undici per cento di più a chiunque nontenesse a molestia di sovvenire alquanto più largamente il suo re[54].Così, tentennando tra bisogno di danaro e necessaria temperanza,comandava si riscuotesse la colletta anzi tempo; e insieme {300}chiamava parlamento in Foggia per lo dì primo dicembre. A Melfi indiil tramutò per lo minor caro del vitto. Ebbe sospetto in quel tempo, eforse da calunnie, che tre giudici suoi, tra quali un Quintavalle, eTommaso di Brindisi, barese, praticassero tradimento di bruciargli laflotta; onde chiamatili a sè, mandolli alle forche come ladroni, nonrisguardando all'onore e privilegio dell'uficio. Dopo questi esempinon grati a' sudditi, conturbato e febbricitante va a Melfi, sperandonel parlamento gran cose.
Perciò impaziente il fa adunare, rimanendosi egli in palagio, infermo,o per dispetto delle note disposizioni degli animi: e negatiglinovelli tributi, a precipizio lo scioglie. Indi al solito rifugiotornò di papa Martino; che prodigalissimo del non suo, gli avea datopoc'anzi un'altra decima per tre anni su tutte chiese d'Italia, eribandito avea la croce contro l'isola dei ribelli. Corrieri sopracorrieri mandavagli il re; sognando già danari, indi uomini ed armi, enuova guerra: e dissimulava ad altrui ed a sè medesimo il morbo che lotirava alla tomba[55].
In grave età, colpito al petto, distrutto di rammarico e rabbia, caddein una febbre continua; talchè a fatica di Melfi si trasse a Foggia, aincontrar la regina Margherita, che tornava di Provenza; con la qualeassai dolorosa la vista fu, e Carlo appena ebbe forza di stender a leile tremule braccia[56]. Allor fu la prima volta che senza inganno {301}sollecitò il papa alla riforma del governo[57]. Raccomandò al papa lostraziato e pericolante reame, che per la prigionia del figliuolo nonpotea lasciare a certo successore; se non che sostituirvi, e nonsappiamo con quali condizioni, Carlo Martello, primogenito del principedi Salerno, giovanotto di dodici anni, col conte d'Artois per tutore obaiulo, come si disse, e per capitan generale Giovanni di Monforte,conte di Squillaci; salvo sempre il piacimento del sommo pontefice.Istituì Filippo l'Ardito tutore delle contee, non della persona delnovello conte, di Provenza e d'Angiò, finchè Carlo lo Zoppo non fosseliberato della prigione, o, morendovi, non uscisse di minorità CarloMartello, o il seguente fratel di costui; al quale effetto scrisse aFilippo un dì pria di morire, chiamandolo sola speranza e rifugio dellaschiatta d'Angiò, e scongiurandolo pei vincoli del comun sangue che nonricusasse la tutela. Indi con molta pietà confesso delle peccata ecomunicatosi, infino all'ultimo fiato ingannò il mondo o sè stesso,dicendo che sperava perdono da Dio per aver fatto l'impresa di Sicilia edi Puglia più a onor di santa Chiesa e ben dell'anima sua, che dacupidigia di regno. Così a Foggia spirava il dì sette gennaiomilledugentottantacinque, nel sessantesimoquinto anno dell'età sua,diciannovesimo del regno[58]. {302} Villani guelfo, favoleggia che lostesso dì predicossi la sua morte a Parigi per frate Arlotto de' minorie Giardin da Carmignola maestro dello studio, ambo lodatiastrologhi[59]. Il siciliano Speciale notò, come in quel tempospaventevol tremuoto scosse l'Etna; e poi squarciandosi il fiancoorientale del monte, ne sgorgò fiume di lava che correa sulla chiesa delromitaggio di santo Stefano, ma giuntavi, si spartì in due rami senzapure lambirla[60]. Un frate spagnuolo in vece di prodigi sul fato diCarlo, scrisse il nobil contegno del re d'Aragona, che risapendoloall'assedio d'Albarazzin, senz'allegrezza sclamò, esser morto un dei piùprodi cavalieri che fossero stati unque al mondo[61]. {303}
Mancato un tanto re, papa Martino faceasi a riparare la ruina delregno, e avvantaggiarne la romana corte. Incontanente, col voto delsacro collegio, die' compagno ad Artois il cardinal Gherardo legato;ambo dicendo deputati dalla romana Chiesa a baiuli del regno, finchèil principe di Salerno non esca di prigione, o il papa altrimenti nonvoglia[62]: sottile accorgimento, che ammoniva la casa d'Aragona a nonfidar troppo sul valore del pegno ch'avea in mano; e ricordava almondo la pretensione del dominio del papa sul reame di Sicilia, di cuiteneasi vacante il trono, o dubbia la persona del re. Indi i diplomidel tempo variamente s'hanno intitolati e senza legge, or col nome diCarlo primogenito del principe di Salerno, or con quello più vago dieredi e successori di Carlo I, e talvolta vi si aggiungono i nomi de'due baiuli, o leggonsi questi soli[63]. Più salutare consiglio fuquello di mandare ad effetto la riforma, non compiuta nei capitoli diSanto Martino, ove la principalissima parte, rimessa al papa, restavaincerta come per l'addietro. Or Martino da senno volle i nuoviordinamenti; come alla giustizia si ha ricorso ove adoprar non puossiviolenza. Scrivea essere stato richiesto di quella riforma da re Carloal tempo dell'andata a Bordeaux, e or novellamente; averla maturato alungo; di presente promulgherebbela[64]. Aggiunse un sussidio dicentomila lire tornesi perchè Artois s'armasse alla difesa[65]. {304}Le quali provvisioni e la saviezza e robusta man dei reggenti, massimed'Artois, sostennero il trono, o vacante, o dubbio tra un prigione eun fanciullo, con sudditi vogliosi di novità[66], e nimico vicino,quantunque indebolito per sospetti in Sicilia, e in Aragona turbolenzecivili e guerra straniera. Pertanto Corrado di Antiochia riassaltandogli Abruzzi, fu rincacciato[67]: nelle altre province non si voltaronoa re Pietro che tre ville marittime Gallipoli, Cerchiaro, e SanLucido[68].
Ma riparata appena la perdita di re Carlo, un'altra ne piombò sulgoverno di Napoli, non apposta come quella prima a cordogliod'ambizione o fatiche di guerra. Allo scorcio di marzo, in Perugia,papa Martino, nimico fierissimo di Sicilia, morì, dicono alcuni, d'unascorpacciata d'anguille, che solea nudrir di latte e in vernacciaaffogare: di che leggiadramente l'avea morso una satira del tempo[69],intitolata Primo principio de' mali, effigiando lui in manto etriregno, con una bandiera alla man destra, in segno delle attizzateguerre, e a sinistra un'anguilla ergentesi verso un augellino, cheposato sulla mitra, reggendosi con le sparse ali s'inchinava abeccarla[70]. Altri scrive, ben altramente di Martino[71]. Ma icardinali senza indugio, {305} chè punto non ne pativano i tempi,rifean pontefice Giacomo de' Savelli, romano, non per anco sacerdote,attratto e invalido della persona, destro d'ingegno, procacciantel'util de' suoi più che l'altrui danno; il quale si nomò OnorioIV[72]. Costui senza la prontezza ligia di Martino, tenne lo stessometro, per l'antico disegno della romana corte. Avrebbe forse Onorioraffrenato il re di Napoli potente e ambizioso; dovea sostener adessoquel trono vacillante, che metteva in pericolo tutta la parte guelfain Italia. Porse moneta dunque ad Artois[73]; confermò ai bisognidella guerra di Sicilia le decime delle chiese italiane[74];raccomandò agli stranieri principi gli eredi di Carlo d'Angiò: e neresta di lui una lettera a Ridolfo imperadore, perchè non contendesseil pagamento delle decime ecclesiastiche dei suoi dominî al re diFrancia, già involto in assai spese per la guerra sopra Aragona[75].
E noti sono nelle istorie del reame di Napoli i due statuti, ch'Onoriosanciva a sedici settembre di quest'anno ottantacinque, preparati giàda Martino. Nel primo dei quali raffermavansi con l'apostolicaautorità tutti i privilegi ecclesiastici decretati nel parlamento diSanto Martino, come dianzi ricordammo[76]. L'altro risguarda ilgoverno civile; dove dopo lungo preambolo, che apponea al tutto laribellione di Sicilia alle avanie e ingiustizie del governo,trascrissersi e ampliaronsi le leggi del medesimo parlamento di SantoMartino, e molte più se ne dettero a guarentigia delle persone edell'avere di ogni classe di sudditi. {306} Si disdisse l'iniquospogliamento dei naufraghi: a favor delle famiglie de' baroni siestese ai fratelli e lor discendenti il dritto di redare i feudi: ilmilitare servigio o l'adoamento si limitò alle guerre entro i confinidel regno: e soprattutto si vietaron le collette, fuorchè nei quattrocasi feudali; e si assegnò la somma da potersi levare in ciascuno diquelli. Io non so se debbasi lodar come guarentigia più forte deisudditi, o biasimar di usurpazione sulla autorità regia, il richiamode' comuni alla santa sede, decretato nelle costituzioni medesime; elo interdetto sulla privata cappella del re alle prime violazioni diqueste franchige, la scomunica persistendovi[77]: ma certo non poteala corte di Roma adoprare a miglior intento civile le spirituali armi.Questi capitoli Onorio fe' con molta sollecitudine promulgare daGherardo per tutto il reame di Napoli, e massime nei luoghi più vicinia Sicilia[78]; e osservaronsi per poco. Poi increbbero ai governanti,come imposti da Roma, o larghi troppo; nè ebber luogo nel corpo delleleggi di quel reame[79].
Insieme con queste buone leggi Onorio adoprava non buone arti,suscitando in Sicilia congiure. A ciò mandovvi furtivamente due fratipredicatori, Perron d'Aidone, siciliano, e Antonio del Monte,pugliese; i quali iti a Randazzo, recavano a Guglielmo abate diManiace lettere pontificie con autorità di largheggiar indulgenze achiunque per la Chiesa si ribellasse. Sospesi eran gli animi per lastrepitosa guerra del re di Francia contro Aragona; freschi i tortid'Alaimo, e gli umori che ne dieron pretesto; le costituzioni di papaOnorio, più larghe de' presenti ordini pubblici in Sicilia. Indil'abate con gravi parole di religione, trovò tosto seguaci due nipotisuoi, per nome {307} Niccolò e Francesco, messinesi, Bonamico de Randimilite, Giovanni Celamida da Traina, e più altri di Randazzo;indettatisi con giuramento a tradire, non so qual credeano, la patriao il re. E sì l'autorità del papa accecava le menti, che i due frati,passati a Messina, avean ricetto nel chiostro delle suore di santaMaria delle Scale; dal qual sicuro nido misteriosi usciano ad annodarelor fili. Ma la cospirazione allargandosi trapelò. Un Matteo daTermini, messovi sulle tracce dall'infante Giacomo, appostò alfine idue frati predicatori, aiutato da due frati minori, Simone da Ragusa eRaimondo, catalano; i quali il fecer cogliere a casa una femminucciamendica. Addotti allo infante, senza pur minaccia, svelavan per ordineil trattato; e rimandati erano a Napoli con vestimenta, danaro, ebarca apposta; per clemenza non già, ma contemplazione e paura delpapa. L'abate fuggì: preso a Palermo, il mandavan prigione a Malta;indi a Messina; e infine libero a corte di Roma. I men rei, alcontrario, gastigati severamente: dicollati a Messina i nipotidell'abate; Celamida alle forche; Bonamico, gittatosi nei boschidell'Etna a levar mano di disperati, fu accarezzato e svolto a parteregia dalle arti di Matteo da Termini[80]. Così la congiura si dissipòin Sicilia; mentre in Aragona terminava, senz'altro frutto che d'atticrudeli e mortalità infinita, la guerra che, tornando alquantoindietro nei tempi, ci faremo a narrare.
NOTE
[1] Saba Malaspina, cont., pag. 411.
Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1158.
Tolomeo da Lucca, ibid., lib. 24, cap. 11, pag. 1190 e 1294.
Ferreto Vicentino, Ibid., tom. IX, pag. 955.
Cron. di San Bertino, op. cit., tom. III, pag. 765. Epistola di Carlo a papa Martino, data il 9 giugno 1284, nel Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 2.
Il numero delle galee di re Carlo è cavato dai diplomi, che s'accordano con d'Esclot, cap. 119. Ho scritto numero tondo, perchè ci sarebbe il divario di due o tre, che nascea dal computare or le sole galee, or anco i galeoni e qualche altro legno grosso.
Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 693.
[5] Giachetto e Villani come sopra. Con minori particolarità ne scrivon anco Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 28; e l'autor della vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611.
[6] Docum. XVIII.
[7] Lettere di Carlo, date il 9 e il 14 giugno, nel Testa, Vite di Federigo II di Sicilia, docum. 1 e 2.
In un'altra del 10 giugno, che si legge, come le precedenti, nel r. archivio di Napoli, registro segnato 1283, A, fog. 150, Carlo chiedeva al papa le bande di Giovanni d'Eppe, scrivendo tra le altre efficaci parole che:Sicut capitis sanitas vel languor in membris, sic in meis negotiis eiusdem Ecclesie status et dispositio sentiatur. E con ciò forse voleva far intendere al papa la posizione inversa, del bisogno che la Chiesa avea di lui. Veggansi inoltre:
Diploma dato di Napoli il 10 giugno 1284, per armarsi e fornirsi di vivanda le 19 galee e 2 teride, ch'erano nel porto di Napoli (le fuggitive della battaglia del dì 5), r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 188, a t.
Diploma dato di Napoli il 20 giugno, duodecima Ind. (1284) per consegnarsi ad Arrigo Macedonio 2,000lanzones ferratos, per l'armata che dovea andare in Sicilia, reg. medesimo, fog. 157.
Diploma dato di Napoli a 20 giugno duodecima Ind. (1284), pei viveri a due galeoni di 72 remi, capitanati da Giovanni di Coronato, e Navarro, genovesi, r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, seg. 1291, A, fog. 4, a t.
Diploma dato di Napoli a 21 giugno duodecima Ind. (1284), Giovanni de Burlasio giovane, e Rinaldo d'Avella sono eletti capitani dell'armata di Principato e Terra di Lavoro, r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 155.
Molti altri scambi di officiali pubblici veggonsi in tutto questo registro dalla venuta di Carlo I, in giugno 1284, fino alla ritirata a Brindisi.
[8] Saba Malaspina, cont., pag. 418.
[9] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 41, ove è una epistola del 24 luglio 1284.
[10] Saba Malaspina, cont., pag. 412:Gentes per totam fere Italiam auxiliatrici conventione collectae, etc.
[11] Saba Malaspina, cont., pag. 412, 413.
Bart. de Neocastro, cap. 78.
Nic. Speciale, lib. 1, cap, 28.
Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
Da questi scrittori non si vede che Carlo durante l'assedio di Reggio stesse per lo più alla Catona; ma il mostrano senza alcun dubbio i diplomi del r. archivio di Napoli, su i quali ho compilato il seguente itinerario: e valga a raffermare, e in qualche luogo a correggere, le tradizioni istoriche intorno a quest'ultima impresa di Carlo I.
1284—9 a 21 giugno—Napoli—reg. 1283, A, fog. 18 a t. 150, 155, 157, 188 a t.; e 1291, A, fog. 4, a t.
19 luglio—Catona—reg. 1283, A, fog. 5, a t.
20 a 29 luglio—Fossa di Catona—reg. 1283, A, fog. 5, 34 e 54.
31 luglio a 2 agosto—Campo allo assedio di Reggio—reg. 1283, A, fog. 5 a t. 34, 166, 166 a t. e 167.
4 agosto—Campo presso Amendolia—reg. 1283, A, fog. 167.
5 a 10 agosto—Campo alla spiaggia di Bruzzano—reg. 1283, A, fog. 5 a t. 24, 34, 34 a t. 45, 50, 158, 167; e reg. 1283, E, fog. 2.
17 agosto—Cotrone—reg. 1283, A, fog. 159.
18 a 20 agosto—Cotrone e Brindisi—reg. 1283, A, fog. 9, 174 a t. 158, 158 a t. 34 a t. 35; e 1283, E, fog. 2.
22 agosto—Cotrone—reg. 1283, A, fog. 160 e 170.
23 agosto a 7 ottobre—Brindisi—reg. 1283, A, fog. 6, 8 a t. 12 a t. 24, 25, 35 a t. 36, 174 a t. 175.
8 ottobre—Melfi—reg. 1283, A, fog. 179, a t.
10 ottobre a 15 novembre—Brindisi—reg. 1283, A, fog. 6 a t. 7, 7 a t. 8, 26, 27, 27 a t. e 47, a t.
26 novembre—Barletta—reg. 1283, A, fog. 12, a t.
1 a 21 dicembre—Melfi—reg. 1283, A, fog. 8 a t. 13 a t. 50, 179 a t.; e reg. 1283, E, fog. 2.
1285—7 gennaio—Foggia—reg. 1285, A, fog. 14 a t. Quest'ultimo fu dato il medesimo giorno della morte di Carlo I. Contiene una concessione a Guglielmo de Griffis, milite e famigliare suo. È scritto con altro inchiostro, e carattere frettoloso; e può al par indicare o una beneficenza di lui negli ultimi istanti della sua vita, o forse una frode.
[12] Bart. de Neocastro, cap. 78.
Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414.
[13] Saba Malaspina, ibid.
[14] Si scorge tal dubbio da' seguenti diplomi:
Diploma dato inFovea Cathone a 29 luglio duodecima Ind. Ai mercatanti e preposti alle vittuaglie per l'esercito in Cotrone. Subito navighino pel capo di Bruzzano, e riceveranno gli ordini suoi, reg. 1283, A, fog. 166 a t.
Diploma dato al Campo sotto Reggio il 31 luglio duodecima Ind. a tutti i vegnenti allo esercito reale. Non piglin la via di Monteleone e del piano di S. Martino, ma di Cotrone e Gerace. A Gerace avranno nuove del re e dell'esercito, per sapere ove trovarli. Ibid., fog. 166.
Della stessa data del 31 luglio v'ha un diploma pel quale il re confermava agli uomini di Seminara le immunità, libertà e privilegi conceduti dal principe di Salerno in contemplazione della loro fedeltà e de' danni ch'avean sostenuto dal nemico. Ibid., fog. 166 a t.
[15] Veg. sempre l'itinerario posto in nota alla pagina precedente.
[16] Argomento le pratiche in Sicilia:
1º. Dalle parole del d'Esclot, cap. 119, che dice come in primavera dell'84 il principe di Salerno si apprestava a passare in Sicilia,con volentat de alguns homens traydors qui eren en Cecilia. Costoro dovean certo continuare col padre le pratiche tenute col figlio pochi mesi innanzi.
2º. Dalla reazione che avvenne in Sicilia dopo la ritirata di re Carlo, per opera dei più accaniti partigiani della casa d'Aragona e della rivoluzione del vespro.
3º. Dalla elezione del conte Roberto d'Artois a vicario generale in Sicilia, con pien potere di perdonare e dar guarentigie, docum. XX e XXI.
[17] Diplomadato in Castris in licore Brutzani a 5 agosto duodecima Ind. (1284). Si mandin subito al re per mare alcune macchine e stromenti da guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 167.
Diploma dato dello stesso campo di Bruzzano il 6 agosto perchè da Mantea si portassero subito all'esercito le macchine e i picconi già preparati per ordine del principe di Salerno, ibid., fog. 167.
Vari diplomi datiin Fovea Cathone a 29 luglio ein Castris in lictore Brutzani a 5 e 6 agosto, perchè si mandassero a Brindisi e Cotrone quantunque grani, legumi, carni salate e macchine da guerra, ibid., fog. 189.
Diplomain Castris in lictore Brutzani a 7 agosto. All'abate di S. Stefano del Bosco perchè incontanente faccia costruire per uso dello esercito 500 assi e piuoli per scale, e gliene mandi con istromenti da falegname, ibid., fog. 168 e 169.
Diploma dato ivi l'8 agosto, per gran copia di frumenti e vittuaglie, Ibid., fog. 169.
[18] Docum. XX e XXI.
[19] Questa data si ritrae dal Neocastro; e compie appunto l'intervallo dal 10 al 17 agosto che rimarrebbe nello itinerario compilato su i diplomi.
[20] Bart. de Neocastro, cap. 78 e 80. Da quest'ultimo si scorge che Giacomo era in Messina.
[21] Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94, che dice ancora della mancanza delle vittuaglie.
[22] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 28.
Anon. chron. sic., cap. 48.
[23] Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414.
Docum. XXIII.
[24] Provano lo scompiglio dell'esercito e dell'armata di Carlo, i diplomi citati nella nota seguente.
Gli umori de' popoli in Calabria e nelle province di sopra, si argomentano da' provvedimenti di Carlo che, mentre era lì con un esercito per occupar la Sicilia, creava capitani generaliad guerram in quei luoghi, come si vede da' seguenti diplomi.
Diploma dato inFovea Catune a 20 luglio duodecima Ind. (1284) per mettersi danaro e vittuaglie a disposizione di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, capitan generale in Calabria, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 5.
Diploma dato inFovea Cathone a 27 luglio duodecima Ind. al medesimo conte di Catanzaro con lo stesso uficio di capitan generale in Calabria, ibid., fog. 166 e 172.
Tre diplomi dati al campo sotto Reggio il 1 e il 2 agosto duodecima Ind. Ruggier Sanseverino conte di Marsico è eletto capitan generale in val di Crati. Gli è commesso di difender quella provincia dai nemici e ribelli che la travagliavano, ibid., fog. 166 a t. e 167.
Diploma dato di Cotrone a 22 agosto duodecima Ind. (1284). Per informazioni pervenute al re si diede lo scambio al conte di Catanzaro nel detto uficio di capitan generale in Calabria; e gli fu sostituito Tommaso di Sanseverino figliuolo del conte di Marsico, ibid., fog. 160.
[25] Docum. XIX e XXII.
Diplomi datiin campisin obsidione Regii a 2 agosto duodecima Ind. (1284). Agli uomini di Martorano e d'altre città. Mandino subito catturati i marinai esubsalientes (erano quelli destinati al maneggio delle vele) che senza commiato lasciavano l'armata regia, e si spacciavano campati dalle mani de' Siciliani, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 166.
Diplomi dati del campo a Bruzzano il 6 agosto duodecima Ind. perchè a Squillaci e in altri luoghi si ricercassero i disertori della flotta, e a prevenir quelli dell'esercito si ponessero guardie de' terrazzani a tutti i passi vicini al campo, cioè: Nicastro, S. Biaggio, e altri. Si guardi che non passino travestiti da mercatanti, ibid., fog. 167, a t.
Diploma dato del campo a Bruzzano il 7 agosto, per custodirsi come sopra, per cagion de' disertori, i passi di Cotrone, Sanseverino, Tatina, Rocca Bernarda e vicinanze, ibid.
Diploma dato del campo di Bruzzano il 9 agosto duodecima Ind. (1284). Ordinovvisi di fare per tutte le terre marittime, una rigorosa inquisizione di coloro che avessero ricevuto stipendi per l'armata, e l'avesser lasciato; e di prenderli e mozzar loro il piè sinistro, ibid., fog. 54.
Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castrovillari, che facciano stretta guardia per catturare questi disertori dell'armata, ibid., fog. 159.
Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castellamare, per mandargli prigioni i marinai disertori, ibid., fog. 169, a t.
Diploma dato di Brindisi il 7 settembre tredicesima Ind. perchè da Taranto gli si mandassero alcune galee delle isole e costiere del golfo di Napoli, abbandonate senza permesso da' nocchieri, vogadori e sussalienti, ibid., fog. 161.
Diploma dato di Brindisi a 9 settembre tredicesima Ind. (1284) per farsi catturare i marinai delle navi provenzali che, disarmata la flotta, fuggissero, ibid., fog. 6.
Due diplomi, dati di Brindisi il 9 settembre, perchè si ritenesse, anche con la forza, Giovanni de Coronato genovese, che da Taranto si volea partire per Genova col suo galeone, ibid., fog. 162.
Diploma dato di Brindisi a 12 ottobre tredicesima Ind. È un'altra lettera circolare per catturarsi i disertori della flotta, ibid., fog. 6, a t.
[26] Bart. de Neocastro, cap. 79.
[27] Bart. de Neocastro, cap. 80.
Saba Malaspina, cont., pag. 414.
[28] Saba Malaspina, cont., pag. 414, 415.
[29] Tutte queste fazioni con poco divario leggonsi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 82.
Saba Malaspina, cont., pag. 415 a 417.
Le confermano ancora i documenti qui notati:
Diploma dato del campo sotto Reggio il 2 agosto duodecima Ind. (1284) a Riccardo Claremont, riguardanti sei terrazzani di Chiaramonte presi da costui per lor mali portamenti,adherendo et favendo Frederico Musca proditori et mugaveris inimicis nostris. Nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1283, A, fog. 166, a t.
Diploma dato di Brindisi il 3 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo di Lauria e ai cittadini di Maratea. Sapendo i danni e le molestie che tuttodì soffrivano dai nemici, il re esortavali a tener fermo, promettea aiuto e compensi larghissimi; fidassero nella sua possanza e virtù, ibid., fog. 163, a t.
Diploma dato di Brindisi il 5 settembre tredicesima Ind. Avendo testè inteso l'eccellenza del re che gl'infedeli almugaveri fossero corsi in masnade infino alle terre di Riccardo di Chiaramonte nei confini delle province di Basilicata e Principato, comandava a quei due giustizieri di adunar le loro forze di cavalli e fanti, e combattere questi nemici, ibid., fog. 60, a t.
Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. indirizzato a Riccardo di Claremont, permettendogli di richiedere ostaggi da alcuni suoi vassalli, sospetti nelle presenti turbazioni; e di ridurre sotto le fortezze gli abitanti de' casali in pianura, ibid., fog. 161.
Diploma dato di Melfi a 8 ottobre tredicesima Ind. per fornirsi danaro a Roberto conte d'Artois, vicario generale In Calabria, al quale n'era mestieri per vari negozi, ibid., fog. 179, a t.
Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre tredicesima Ind. Giovanni di Salerno è eletto capitan generalead guerram contro i ribelli e nemici di Scalea. Comandasi di aiutarlo a' giustizieri di Basilicata, Principato e val di Crati, agli uomini di quelle province, ed a Riccardo di Chiaramonte, ibid., fog. 51, a t.
Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre per destinarsi un capitano in Maratea, avendo i nemici occupato Scalea e i luoghi vicini, ibid., fog. 51, a t.
Diploma dato di Brindisi a 8 novembre tredicesima Ind. Il giustiziere di Basilicata per mezzo di Bellono Bello da Messina, notaio e familiare del re, gli avea domandato quale eseguir prima tra tanti suoi ordini; cioè di raccorre la moneta della sovvenzione, d'aiutare Riccardo Chiaramonte, ec. Carlo scrivea che pensasse alla moneta, e differisse il resto, ibid., fog. 52.
Diploma dato di Brindisi il 14 novembre per mandarsi 100 salme di frumento a Maratea, che soffriva la penuria, oltre le scorrerie e gl'insulti de' nemici, ibid., fog. 52, a t.
[30] Bart. de Neocastro, cap. 83 e 84.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 30.
Montaner, cap. 117, il quale porta con anacronismo questa correria dopo il passaggio di Giacomo in Calabria, e la confonde con le altre che Loria fece di quel tempo in Levante.
Del resto la descrizione geografica di questi istorici, si riscontra con quante oggidì n'abbiamo più accurate. Quest'isola è detta anche Zebiba, e tolse il nome o il diè, a quella qualità d'uva che chiamiam così in Sicilia. Giace a 34° 10' di latitudine sett. e 9° di longitudine orientale dal meridiano di Parigi. La cinge una sirte di qualche dieci miglia di raggio, e da 3 a 7 braccia di profondità, che si stende a guisa d'istmo infino al continente, e potea una volta passarsi a guazzo. Plinio scrive che i barbari ruppero un ponte che la congiungea alla terraferma. Produce quest'isola ulive, fichi, uva, e il famoso loto de' Greci antichi.
[31] Ciò non fu immediatamente dopo la conquista, perchè fino al gennaio 1285, i suoi titoli erano: ammiraglio di Aragona e di Sicilia, signor di Castiglione, Francavilla, Novara, Linguaglossa e Tremestieri. Da un diploma del 25 gennaio 1285, nei Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, pag. 147.
[32] Bart. de Neocastro, cap. 85.
[33] Bart. de Neocastro, cap. 86.
[34] Queste riflessioni nascono dalla esamina di tutti i fatti sparsi nel presente capitolo, e in particolare da que' d'Alaimo, e dell'eccidio de' prigioni in Messina, e del giudizio contro il principe di Salerno. Pei sospetti di pratiche angioine in Sicilia, veggasi ciò ch'è detto di sopra a pag. 277, nota 5. Confermali il Nangis nella vita di Filippo l'Ardito, Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544, ove si legge:Sed quia Siculi principem Salernae Carolum quem captum tenebant, de urbe Messanae ad quoddam castellum Siciliae transtulerant, volentes cum ipso, sicut sibi dictum fuerat, reconciliari, timens Siculorum infidelitatem, etc. I quali umori poteano esser veri, ancorchè il Nangis apertamente errasse nella cagione del tramutamento del principe di Salerno da Messina a Cefalù, che fu appunto la contraria.
Veggasi anche Saba Malaspina, cont., pag. 420 e 421; e il Neocastro, cap. 86, 88, 89.
[35] Bart. de Neocastro, cap. 86.
[36] Montaner cap. 95.
[37] Bart. de Neocastro, cap. 87.
[38] Bart. de Neocastro, cap. 88.
[39] Secondo il catalano Montaner, cap. 113, 114, i governanti di Sicilia, liberata la minutaglia dei prigioni della battaglia di Napoli, domandavano al re a Barcellona: che far de' nobili, che del principe? e convocavano di lì a due mesi, per dar tempo alla risposta, un parlamento a Messina. S'ebbero incontanente lettere del re, segretissime, fuorchè alla regina, a' figli e all'ammiraglio; ma tutto che s'oprò fu dettato da quelle. Indi adunato il parlamento de' nobili, sindichi delle città, e Messinesi a pien popolo, Giacomo tornava a mente i fatti di Manfredi e Corradino, quasi chiedendone vendetta nel sangue dell'unico figliuolo di re Carlo: onde tutti il chiamarono a morte, e la sentenza fu distesa; ma Giacomo inaspettatamente, per campare il principe di Salerno, lo fè imbarcare alla volta di Catalogna: il che prova quanto mal ricordavasi il fatto Montaner, e quanto volea inorpellarlo a lode di Giacomo. Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421, scrive ancora del parlamento in Messina, supponendo che gli usciti napoletani persuadessero la regina a quella vendetta; perilchè chiamati dall'isola tutta i nemici più fieri del nome francese, fu posto il partito; ma contrastandolo i Messinesi, il parlamento scioglieasi a tumulto; e gli esuli sfogavano con ammazzare quanti colsero de' prigioni. Questo scrittore aggiugne, che Giacomo fieramente nimicava parecchi nobili per aver negato di andare al parlamento, o di condannare il principe; tra i quali Alaimo di Lentini, famoso e caro per tutta Sicilia, onde per torlo dal centro delle sue forze, a tradimento l'addusse in Palermo, e poi in Aragona il tramandò. Il Neocastro, cap. 87, 88, non dice di parlamento in Messina, ma in Palermo, adunato dopo il tumulto contro i prigioni in Messina. Dalle quali testimonianze si vede dubbio se prima dell'ammazzamento de' prigioni ci fosse stato un parlamento in Messina; ma risaltan sempre scolpitamente gli umori e le cagioni che io scrivo nel testo.
[40]Multorum quoque viscera, quae crudeli gladio nonnulli delectabantur exules aperire, ignis subiecti torrent in pruina, et iam assata in naturali cupiditate famelica lambunt, et immittunt etiam in crudelem stomacum velut cibum, etc.
[41] Bart. de Neocastro, cap. 88.
Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421.
Giachetto Malespini, cap. 224.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.
Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.
Francesco Pipino, ibid., cap. 18.
[42] Bart. de Neocastro, cap. 88, 89.
Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 18.
Giachetto Malespini, cap. 224.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.
Epistola di Alfonso a Eduardo, data il 4 gennaio 1289-90, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II.
[43] Bart. de Neocastro, cap. 88, 89, 91.
[44] Bart. de Neocastro, cap. 96.
[45] Leggasi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 109.
[46] Veggasi l'itinerario posto di sopra, e a pag. 280, i diplomi dati di Cotrone e di Brindisi pe' disertori.
[47] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 15.
Saba Malaspina, cont., pag. 419.
Diploma dato di Brindisi a dì 8 novembre tredicesima Ind. (1284), dal quale si vede che Stefano Angelone avea dato un castello su i confini del contado di Molise ai traditori, tra i quali era Corrado d'Antiochia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 8.
[48] Saba Malaspina, ibid.
[49] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 16.
[50] Saba Malaspina, cont., pag. 417.
[51] Veggasi il docum. XXIII.
Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo Milite e a' Saraceni di Lucera. «Per appagare il vostro desiderio vi diciamo esser giunti salvi in Brindisi, e soggiornarvi sani ed ilari; intendendo virilmente e potentemente alla confusione de' nemici e ribelli siciliani. Si custodiscan bene le corazze e gli archi d'osso dei Saraceni che sono stati al nostro esercito, e si aspetti la nuova impresa.» Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 161, a t.
[52] Malaspina, loc. cit., e i seguenti documenti:
Diplomi dati di Cotrone dal 21 al 24 agosto duodecima Ind. (1284) e di Brindisi dal 2 al 27 settembre tredicesima Ind. (1284), che i feudatari chiamati al servigio militare potessero riscuotere sovvenzioni, ossiaaiutori da' lor vassalli. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 9.
Altro dato di Brindisi il 2 ottobre, col quale si comanda di portar legname per la riparazione dell'armata. Ibid., fog. 46, a t.
Diploma dato di Brindisi il 2 ottobre tredicesima Ind. Proponendosi nella vegnente primavera tornare in Sicilia con armata ed esercito, ordina che nessun uomo di mare esca dai porti del regno, ma che tutti aspettino per servire nell'armata. Ibid., fog. 177, a t.
Diploma dato di Brindisi il 7 ottobre tredicesima Ind. È una lettera circolare perchè si fabbrichi gran quantità di quadrella di uno e due piè. Ibid., fog. 6, a t.
Altro diploma dato di Brindisi il 9 ottobre tredicesima Ind., per farsi subito 50 mila saette per archi, ben astate, ferrate, e impennate di penne d'avoltoio. Ibid., fog. 46.
Altra circolare data anche di Brindisi il 10 ottobre, perchè s'adunasse copia di frumento e d'orzo pe' bisogni dell'esercito. Ibid., fog. 7.
Altra circolare data di Brindisi il 20 ottobre, per munirsi con estrema cura le fortezze di viveri per un anno. Ibid., fog. 7, a t.
Altra data di Brindisi il 21 ottobre, per farsi biscotto. Ibid., fog. 38, a t.
Altra del 15 novembre, per biscotto, Ibid., fog. 47, a t., e altre disposizioni al medesimo effetto, fog. 46 a 58.
Diploma dato di Barletta il 25 novembre tredicesima Ind., per vari arnesi fabbrili necessari all'esercito. Sarebbe importante a chi volesse illustrare l'arte militare di quel tempo. Ibid., fog. 48.
Altra circolare data di Melfi il 1 dicembre, per vittovagliarsi le fortezze. Ibid., fog. 8, a t.
[53] Diploma dato di Brindisi a 5 settembre tredicesima Ind. (1284). È una circolare ai giustizieri perchè prendan moneta per ogni verso, e subito la mandino al re, pei suoiardua et immensa negotia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 6.
Diploma dato di Brindisi il 15 settembre tredicesima Ind. È la scritta del ricevuto di once 1,400 da mercatanti di Pistoia, la più parte in fiorin d'oro alla ragione di 5 per oncia, per conto dell'imprestito di once 28,890, fatto a Carlo principe di Salerno dalla santa sede, sulle decime ecclesiastiche destinate all'impresa di Terrasanta. Ibid., fog. 162.
Veggasi anche un altro diploma dato di Brindisi a 10 novembre tredicesima Ind. È una lettera circolare con disperata chiesta di danari, pe' tanti bisogni, e massime per la riparazione della flotta che nella vegnente primavera, con l'aiuto di Dio, passerebbe sopra i ribelli di Sicilia. Ibid., fog, 8.
[54] Docum. XXIII.
[55] Saba Malaspina, cont., pag. 417, 418, 419. Anche Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142 e 252. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29, e lib. 6, cip. 10; Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 695, e parecchi altri attribuiscon la morte di re Carlo al dolore e dispetto di que' casi della guerra di Sicilia.
[56] Saba Malaspina, cont., pag. 421.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 11; in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Un diploma di Carlo I dato di Melfi il 14 dicembre tredicesima Ind., provvide alle spese per lo viaggio della regina. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 8, a t.
[57] Bolla di Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 3.
[58] Saba Malaspina, cont., pag. 422.
Giachetto Malespini, cap. 223.
Bart. de Neocastro, cap. 90.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 95.
Montaner, cap. 118.
Cronache del Regno di Napoli, editore Perger, tom. I, pag. 31 e 58. Quivi si dice la morte di Carlo nel 1284, contando gli anni dal 25 marzo.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.
Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 955; e la più parte degli altri contemporanei.
L'istituzione di Filippo l'Ardito a tutore delle contee di Provenza e d'Angiò si legge nel docum. XXIV. Dopo ciò ho creduto mettere in dubbio la tradizione de' citati scrittori che portano lasciato a dirittura il regno a Carlo Martello. Carlo I non volle certamente dividere il regno dalle contee, perchè lasciò anche queste a Carlo Martello nel caso della morte di Carlo lo Zoppo. Non sembra dunque probabile ch'egli avesse stabilito due ordini diversi di successione, chiamando Carlo Martello al regno appena uscisse di minorità, e alle contee solamente dopo la morte del padre in prigione. Dall'altro canto può darsi che Carlo I credesse provvedere abbastanza al governo della Provenza e dell'Angiò durante la prigionia del signor naturale, con quello espediente di fare un tutore delle contee piuttosto che del conte; ma non giudicasse nè legittimo nè sicuro partito di lasciar la corona reale a un prigione, o vôto il trono fino alla sua liberazione. La riconosciuta sovranità suprema della corte di Roma, e il non trovarsi preveduto il caso nella legge dell'investitura accresceano forse la difficoltà: nè è impossibile che Carlo non potendole scegliere, le abbia saltate rimettendosene al papa. Io non ho voluto supplire con l'analogia alla mancanza del fatto; ed ho lasciato in dubbio i termini della sostituzione di Carlo Martello, come restarono negli atti de' governanti di Napoli fino alla liberazione di Carlo II.
La età di Carlo I erroneamente rapportata dalla Cronaca d'Asti, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 164, si ricava dal P. Anselme, Hist. généalogique et chronologique de la Maison royale de France, tom. I, cap. 14, pag. 191.
La elezione del conte di Squillaci si conferma dal diploma 1º del tom. II dell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, notato qui appresso; la condizione della scelta d'Artois leggesi in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 5.
[59] Gio. Villani, lib. 7, cap, 95.
[60] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.
[61] Geste de' conti di Barcellona, cap. 26, nella Marca Hispanica del Baluzio.
[62] Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 5, 6, 7, 8, bolla del 14 febbraio.
[63] Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, diplomi dalla pag. 1 a 43, e annotazione 1 alla pag. 2.
[64] Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 3, bolla del 9 febbraio.
[65] Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd., tom. III, pag. 765.
Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.
Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611.
Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom, IX, pag. 726.
[66] Nangis, loc. cit.; Francesco Pipino, loc. cit.
[67] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 9.
[68] Bart. de Neocastro, cap. 90.
[69] È attribuita a un abate Gioacchino. Francesco Pipino, loc. cit., lib. 4, cap. 20.
[70] Dal Torso fu, e purga per digiuno Le anguille di Bolsena e la vernaccia. DANTE,Purgat., c. 24.
e ciò che nota in questo luogo Benvenuto da Imola.
Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 726, il quale rapporta i due versacci:
Gaudeant anguille quod mortuus est homo ille. Qui quasi morte reas excoriabat eas.
Della morte di questo pontefice e non della cagione, dicono ancora Giovanni Villani, lib. 7, cap. 106. Ricobaldo, loc. cit., ec.
[71] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 12.
[72] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 14.
Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 24, cap. 13, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
[73] Nangis, loc. cit., pag. 544.
Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 16.
[74] Raynald, ibid.
[75] Raynald, ibid., §. 23, breve del 1º agosto 1285.
[76] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 43, e seg.
[77] Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 29 a 51.
[78] Ibid., §. 53.
[79] Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, lib. XI, cap. 1.
[80] Bart. de Neocastro, cap. 98.
CAPITOLO XII.
Opere della corte di Roma contro Pietro d'Aragona. Concessione di quelreame a Carlo di Valois. Protestazioni e pratiche di Pietro. Contesedi lui con le Corti di Aragona. Lega di que' baroni; grande esercito earmata che apparecchiansi in Francia. Invasione del Rossiglione, poidella Catalogna. Straordinaria fortezza e perseveranza di re Pietro;assedio di Girona. Morìa nel campo francese. Pietro ripiglia leoffese. Fazioni di mare. Loria con l'armata siciliana riportasegnalata vittoria su i Francesi. Ritirata di re Filippo, e sua morte.Carlo lo Zoppo mandato prigione in Catalogna. Morte di Pietro.1282-1285.
La guerra sopra Aragona, pensata al primo fallir dell'impresa diSicilia, per avviluppar Pietro in tal briga nel suo antico reame, chelasciasse la difesa del nuovo, si macchinò poco men che tre anni, traCarlo, papa Martino e Filippo l'Ardito. Di leggieri crederò a Martino,che parecchi baroni francesi stigavano a quella il re, dicendoinsopportabili ormai le offese di Pier d'Aragona, e vergogna al sanguereale e a tutta la nazion francese, se non ne pigliasse vendetta[1];perchè par che il risentimento della strage del vespro tutto si fossevolto contro il re d'Aragona, quando si vide ch'ei ne raccoglieva ifrutti, e incalzava e sfregiava sempre più la casa d'Angiò, e faceascorrer nuovo sangue francese ne' combattimenti di Calabria. Le artide' grandi infiammaron certo il sentimento pubblico; menando tantoromore del duello; gridando Pietro codardo perchè lo schivava, etraditore perchè avea assalito Carlo in Sicilia senza disfida.D'altronde la corte di Francia, sollecitata e piaggiata assiduamenteda casa d'Angiò[2], e allettata dall'onore di ristorarla in Italia,ben potea desiderare una impresa, che insieme promettea larghi {309}acquisti oltre i Pirenei. La nazione, pronta per indole alla guerra,v'era anco sospinta dalle condizioni sociali, e dall'uso allecrociate: chè perfetta crociata fu questa, sì alle bandiere, e sìall'intento de' crocesegnati, divenuto sì basso e profano nel secolodecimoterzo. È notevole che nel trattare tal impresa detta sacra esuscitata dalla corte di Roma, si manifestò ne' consigli di Filippouna insolita gelosia e diffidenza contro lei, un desiderio a spillarei danari ecclesiastici, un accorgimento e contegno di cui Martino simaravigliò, si adontò, ma gli fu forza sopportarlo. I principîd'ordine monarchico, prevalsi nel regno di san Luigi e messi già inopera contro la feudalità, si sollevavan contro la potenza papale; epreparavano la lotta di Bonifazio con Filippo il Bello.
Il primo divisamento in Francia fu di muover la guerra senza frasi:volean le decime delle rendite ecclesiastiche, ed eran pronti apigliare le armi: il vescovo di Dol e Raoul d'Estrées, maresciallo diFrancia, portarono al papa questa ambasceria di Filippo sul findell'anno ottantadue. Ma quegli rispose che volea meglio colorire lacosa; aspettar che Pietro persistesse nella occupazione della Siciliafino a un termine dato; e poi con forme di giustizia e gravi sentenzecompilar l'atto della disposizione del regno d'Aragona: e così fece,scrive egli, con molta prestezza, fidando in Dio e nella Francia, chefosse pronta sempre ad eseguir con le armi il giudizio della corte diRoma[3]. Ad accrescere il premio, mise fuori un'altra bolla chespogliava Pietro del reame di Valenza[4]. Volle impedirel'ingrandimento della Francia nella guerra che si dovea sostener colsuo sangue, dichiarando contro il voto di parecchi {310} cardinali[5]che concederebbe que' reami a un de' figliuoli di Filippo l'Ardito, ascelta del re o della santa sede s'ei tardasse, eccetto il primogenitosempre. Nè lasciò occasione d'allungar la mano nei patti fondamentalidella nuova dinastia; pretendendo immunità ecclesiastiche larghissime,omaggio e censo a Roma[6]. A trattar queste e le altre condizionidell'impresa, avea già inviato legato pontificio Giovanni Chollet,cardinal di Santa Cecilia; che venne a corte di Francia con Carlod'Angiò innanti il dì del duello[7]; e con quell'autorità, scriveMontaner[8] che dalla terra annoda e scioglie ne' cieli, annullò igiuramenti della lega di Filippo con Pier d'Aragona. Durò assai piùfatica a vincer le opinioni de' consiglieri del re, dette di sopra eaccettate da' prelati e baroni, che componeano il parlamento, nonscaduto per anco a mera corte di giustizia, e rappresentante, com'ordirebbesi, gl'interessi della nazione, o delle classi privilegiate chese ne arrogavano il nome.
Nè credo confondere i nomi e le idee d'oggidì con quei del secoldecimoterzo, se dico che non solo la corte di Francia volle far pattiaccorti con Roma, ma che anco il parlamento non amava gittar su lanazione tutto il peso d'una guerra che a lei nulla giovava, ma a Carlod'Angiò, alla {311} corte di Roma e ad alcun de' figli di Filippol'Ardito. Perchè nel primo disegno detto dinanzi si chieser le soledecime per tre anni in quel ch'era allora il reame di Francia; matrattandosi l'investitura come voleala il papa, si domandarono le decimeper tutta cristianità, o almeno per quattro anni nella più parte delterritorio francese d'oggidì; e le prime annate dei beneficîecclesiastici nuovamente provveduti; i legati pii, e altri sussidi;oltre le indulgenze, l'autorità della commutazione de' voti; e alcunecondizioni che mantenessero la dignità del re verso la corte di Roma; esi sostennero le libertà ecclesiastiche de' popoli d'Aragona: masoprattutto si pretesero tai favori del papa sia che il parlamentoconsigliasse il re, sia che lo sconsigliasse, che è a dire se la nazioneconcorresse o no alla impresa in favor del figliuolo del re. Adirosseneil papa; rispose a Filippo il nove gennaio dell'ottantaquattro,chiamando scandalosa l'inchiesta delle annate dei beneficî; orribile audirsi quella delle concessioni nel caso che il parlamentosconsigliasse; assurda l'altra delle decime in tutta cristianità; e inbel modo rimproverò Filippo e il parlamento di mala fede, d'incostanza,d'ignavia, d'abbandonar la santa sede e la casa d'Angiò, di macchiare ilnome francese e dar argomento alle lingue de' suoi nemici. Ma, come fachi ha maggior voglia, cominciò a piegarsi alle stesse inchieste di cuilagnavasi[9]; mandò al legato, in tante lettere diverse, l'assentimentoalle varie condizioni; e gli commise che persistendo il re, glicedesse[10]. Queste concessioni e le arti del legato conseguironl'intento.
Chiamati in Parigi i prelati e i baroni, il venti febbraiomilledugentottantaquattro, il re lor significava le ultimenegoziazioni; e metteva il partito della guerra. Presero tempo d'ungiorno a deliberare, di tre a rispondere; e il dì {312} ventuno assaiper tempo adunavansi nel palagio reale; divisi in due sale i prelatida' baroni, e assente il re. Il legato che non era lontano nè sirimase a man giunte, fingea poi gran maraviglia della ispirazione percui virtù le due camere, lontane e ignare de' procedimenti l'unadell'altra, deliberassero la guerra in un medesimo istante. La camerade' baroni mandò prima il messaggio a' prelati; il legato non tardò afar venire il re co' suoi cortigiani; e il medesimo giorno in pienparlamento, innanzi a gran moltitudine l'arcivescovo di Bourges eSimone de Nigel annunziavano a Filippo la deliberazione; Filipporingraziava, e assentiva l'impresa: il giorno appresso, convocato dinuovo il parlamento, fe' intender la scelta fermata in persona diCarlo di Valois, suo secondo figliuolo[11]. Giurò per costui il padre;il cardinale conferì al fanciullo l'investitura de' regni d'Aragona eValenza e del contado di Barcellona[12] con istrano rito di porgli incapo un cappello; onde, perchè la terra poi non ebbe, re del cappelloil motteggiavano[13]. Ratificò il papa a dì primo marzo; die' la bolladi concessione in buona forma il tre maggio[14]. Lo stesso giornotrasferisce al cardinal di Santa Cecilia piena autorità in Francia,Navarra, Aragona, Valenza, Maiorca, e tutt'altre province ov'eraintendimento di levar genti, o {313} portar la guerra; concede perquattro anni le decime dei beni ecclesiastici nel reame di Francia, enelle province del Viennese, Lione, Liege, Metz, Verdun, Toul,Besançon, Tarantaise, Embrun; e fino in città appartenenti allo imperoe altre lontane contrade[15]. Indi commette al legato di predicar lacroce; accorda le indulgenze come in guerra di luoghi santi[16]; eoltre le decime, anco i legati pii[17], e un prestito su le somme giàraccolte per l'impresa di Gerusalemme, e altri favori che il redomandava, uno dei quali era richiesto da' baroni, dichiarando tenutii crociati a pagar loro le taglie e prestazioni solite[18]. Ebbe anchele decime ecclesiastiche ne' suoi dominî Giacomo re di Maiorca e contedel Rossiglione, fratello di re Pietro. Ei volendosi scioglierdall'omaggio feudale alla corona aragonese, avea colto il destro divoltarsi contro il fratello, mostrando d'ubbidire alla Chiesa[19]. Fudi tanto più vile, che dissimulò a lungo lo accordo co' nemici dellasua {314} schiatta, fermato nell'ottantatrè, riconoscendo anco tenerdal re di Francia Montpellier e Lans; e che promise per solennescritto di dargli i passi della Catalogna, vittuaglie, fortezze, e dicombatter contro il fratello: patti d'empietà che giurò sulvangelo[20], e che attiraron su la sua patria le più atroci calamità.
Ma Pietro saputa la prima sentenza del papa, e preparandosi a renderlavana coi fatti, volle combatterla anco nelle forme. Richiamosseneprima per ambasciadori; dei quali altri dal nimico fu preso, allaromana corte pervennero Arnaldo di Rexach e Bernardo de Orlè[21]; cheesposte le ragioni del re, per lui chiedean sicurtà a difendersi inpersona innanti il sacro collegio; e proponean compromesso in cinqueprincipi di cristianità; ma rispinti dal papa assai duramente,protestarono, e della sentenza appellaronsi, scrive il Montaner, a Dioe a san Pietro, con uno scritto in buona forma per man di notaio[22].Fantasia che bene sta ai tempi; e nascea da un giusto argomento di rePietro, comune a' più alti ingegni di quell'età, e fortemente scolpitoin tutte le memorie nostre d'allora, ch'era, distinguer sempre lareligione dalla Chiesa; lagnarsi ove occorresse del papa, ma esaltarsempre la fede cristiana. Nè da altro forse fu dettato il motto degliagostali d'oro battuti in Sicilia con l'aquila siciliana nel dritto, eil nome della regina Costanza e sopra quello il motto «Cristo vince,Cristo regna, Cristo comanda;» e nel rovescio l'armi d'Aragona, ilnome di Pietro, e su quello «La somma possanza in Dio è[23].»Apparecchiavasi come ultimo {315} capo di difesa, per ischivar anco laquistione del dritto della corte di Roma, quella donazione de' reamiad Alfonso, di cui parlammo di sopra[24]; ma Pietro non l'usò perchèla lite si trattò poi con la spada. Anzi sentendo la propria sua forzanel navilio, e negli ordini d'entrambi i reami d'Aragona e Sicilia,scherzava su la sentenza del papa, chiamandosi non più re, ma Pierd'Aragona, cavaliere, padre di due re, e signor dei mari[25]. Con lastessa non curanza e col brio d'un cavalier trovadore, ei poetò inprovenzale: turbarlo sì questa mostra de' gigli; ma si vedrebbe alleprove se gli torrebbero il baston giallo e vermiglio, o se troverebbela perdizione in Ispagna chi verrebbe a cercarvi la perdonanza: per sèei non chiedeva armadura in questa guerra, sol che la sua donna loconfortasse con un sorriso[26].
Un'altra ambasceria inviò in Francia a dolersi della rotta fede; oveai suoi legati non pur fu dato di vedere il {316} re[27]: e lo stessoavvenne alla reina Margherita, madre di Filippo, che parlar volle dipace[28]. Indarno ancora ne mosse pratiche Eduardo, re d'Inghilterra,prima per suoi ambasciadori in Guascogna, poscia per lettere all'abatedi San Dionigi; perchè il legato, ben trascelto da papa Martino,sturbò ogni mite consiglio[29]. Nondimeno non potè Pietro portarl'Inglese alla guerra contro Francia, che pur non ne mancavano altrecagioni. Non altrimenti gli tornò il chieder soccorsi all'imperatoreRidolfo, profferendo cedergli suoi dritti sulla contea di Savoia, eaiutarlo in Italia contro parte guelfa[30]. Più assegnamento faceasopra Sancio di Castiglia, da lui favoreggiato nella ribellion controil padre; il quale or morto, e usurpato il reame da Sancio, vennePietro con esso lui a spessi abboccamenti, e fermarono aiutoscambievole, e larghe promesse n'ebbe, ma all'uopo non sel trovò[31].Nei quali maneggi affaticatosi indarno il re d'Aragona da giugnodell'ottantatrè infino allo entrar dell'ottantacinque, vedea già learmi di Francia alle porte, nè era un sol potentato straniero che silevasse per lui.
Nè meglio avea da sperare in casa, ove a que' liberi spiriti spagnuoliforte increbbe l'impresa di Sicilia, cominciata {317} senza volerdelle corti, compiuta senza pro del reame: che anzi per aver Pietrooccupato gli altrui, vedeano in tanto rischio i propri lor focolari; efrugavali anco la paura del cielo[32], perchè papa Martino, sapendonon osservato l'interdetto, ribadillo per aspri comandiall'arcivescovo di Narbona[33]; ond'or vedeansi serrate le chiese,furtiva e tetra celebrar una sola messa ogni settimana, null'altrosagramento che il battesimo ai nati, la penitenza ai moribondi,maledetta miseramente la terra che i lor maggiori aveano bagnato ditanto sangue per la cristiana fede. Perciò in lor dispetto, chiamavanSicilia l'isola del dolore[34]. Adontavali inoltre quel cupo governardi Pietro, senza consiglio delle corti nè di uomini del reame, mad'usciti italiani o sudditi di Sicilia. Ma sopra tutto doleansi dellenon osservate franchige, o, come suonano in lor idioma,fueros delpaese; della negata restituzione dei beni occupati una volta a tortoda re Giacomo; dellaquinta ossia balzello sugli armenti, cheassentito per la guerra di Valenza, ma riprovato dalle corti d'Exea,tuttavia si levava; dell'autorità delJustiza tenuta in non cale;delle turbate giurisdizioni de' magistrati, e somiglianti abusi.Rinnaspriali il timore di molto scempio in questa guerra; perchè da reFilippo s'aspettavano audacissimi fatti, e spaventava l'oro e lariputazione di Roma[35].
Poco appresso l'avventura di Bordeaux questi umori parver fuori, a unaprima scorrerìa che re Filippo movea in segno d'animo ostile dalfinitimo regno di Navarra, già {318} da lui occupato[36]. Moltemigliaia di cavalli e pedoni francesi entraron per quattro leghe adare il guasto in terra d'Aragona; nè pur ciò bastava a spuntare gliAragonesi che al re ubbidissero, sopraccorso in Tarragona, echiamanteli alle armi. Indi ei convocò le corti a Tarragona. Dovebaroni e cavalieri e popolani, con meraviglioso accordo, prepostisi ditroncare i passi alla usurpazion del potere, faceano il dì primosettembre milledugentottantatrè gravissimi richiami; conchiudendo,consultasse il re con loro intorno l'imminente guerra. Altero rispose,non reggersi a consigli altrui; richiederebbe le corti al bisogno.Ripigliaron dunque, riparasse gli aggravî; ed ei, che tempo era non adisputare, ma a combattere. A ciò le corti, addandosi che le paroleerano niente, secondo lor esempi antichi, strinsersi in una lega, ogiura, come si chiamava dal giurar tutti, che le libertà dellanazione manterrebbero con avere e persone; chi fallasse tal giuramentosarebbe sfidato a duello da tutti gli altri, come fedifrago e vile;tutti difenderebbero i perseguitati dal re senza condanna delJustiza e de' pari; se Pietro s'ostini, chiamisi al regno ilfigliuolo; si sforzi con l'arme chiunque ripugni alla lega. AllorPiero con vaghe promesse differì le corti al tre ottobre, inSaragozza: e quivi, trovandole anzi più salde e disposte a qualunquesbaraglio, piegossi a confermar le franchige, sperando pur farsenegioco ne' fatti; e pronto alle frontiere di Navarra volò. Ma que'della lega che il conosceano, pria di tornarsi a lor case, adunati neltempio del Salvadore a Saragozza, rinnovano il giuramento; rafforzanlocon istaggir ville o castella a guarentigia comune; {319} etrascelgono lor deputati col nome di conservatori, che veglino al bendel paese, e richieggano gli altri di entrar nella lega[37].
Queste civili dissensioni d'Aragona non ritrarrò più largamente,perchè fuor del mio disegno sarebbe. Giova sol ricordare, che ilmedesimo confermamento di franchige assentì Pietro al reame diValenza; e più volentieri a' Catalani, quando nel richieseroall'entrar dell'ottantaquattro, assembrate lor corti a Barcellona;perchè lì vedea pronti a seguirlo in tutte imprese, e a' fatti diSicilia pensava. {320} Ma sforzato da' bisogni o dalla sua proprianatura, indi a poco raccese gli sdegni con la lega d'Aragona,richiedendo anzi tempo la moneta delle tasse: onde i collegati,spagnuoli quant'esso, adunavansi in arme, spregiavano i comandi delre, da sè trattavano col governador di Navarra e col papa. Più volteposcia, costretto dalla lega, ei con Alfonso erede del trono,ripromesse por fine agli abusi; più volte le promesse eluse. Tardi emale perciò l'aiutarono gli Aragonesi, nella guerra che fuor di loroconfini in Catalogna si combattè[38]. E intanto alle discordiesenz'armi si mescolavan turbamenti d'altra indole. Stigato da Francia,ribellossi don Giovanni Nuñez di Lara signore di Albarazzin, ma nonebbe seguito; tantochè quella città dopo lungo assedio s'arrese[39].Entratovi il re, aduna quante forze ei può; passa l'Ebro; cavalca asua volta terra di nimici; e tornane con molto bottino. Indiaccomiatatosi con mal piglio dai collegati in Saragozza, sopraccorre aBarcellona, poco men che repubblica, ove macchinava pericolosimovimenti contro i nobili un Berengario Oller, popolano: e i seguacidi costui sperde Pietro con la riputazione del venir suo; dissimulacon Berengario; il cattura egli stesso; e lo fa con altri setteimpiccare per la gola il dì di Pasqua dell'ottantacinque[40]. Repentepoi tolta con se picciola mano d'uomini d'arme, che non sapeano dovesi andassero nè a che, valica i Pirenei; piomba su Perpignano, ov'erail re di Maiorca, già pronto a scoprirsi {321} per Francia, e darlepassaggio per lo Rossiglione, terreno di gran momento nella guerra chesovrastava. Occupata da Pietro la città; guardato per lui il castello;Giacomo fuggì da una fogna, lasciando prigioni moglie e figliuoli; esenz'altro aspettare passò a' nimici[41].
I quali, deliberata che fu in Francia la impresa, adunarono damezz'Europa forze smisurate. Correano al bando della croce e delsoldo, Francesi, Piccardi, Provenzali, Guasconi, Borgognoni, Tolosani,Brettoni, Inglesi, Fiamminghi, Alemanni, Lombardi; e più fu l'italicagente nell'armata, di navi pisane e genovesi, oltre quelle di Provenzae Guascogna. Cencinquanta galee, navi di trasporto assai più, enell'esercito noveraronsi diciassettemila uomini d'arme, diciottomilabalestrieri armati da capo a pie', sopra centomila fanti, e più numerodi guastatori, saccomanni, e bagaglioni, e ottantamila vetture; nelche accordansi a un di presso gl'istorici tutti dei tempi, e il graved'Esclot aggiugne non potersi credere da chi non l'avesse visto congli occhi. Tardamente questa gravosa moltitudine si adunò alfine aTolosa, nelle feste di pasqua del l'ottantacinque. Ivi la mostra sifece[42]; si spiegò l'orifiamma: e la seguiano con molta baronia lostesso re Filippo e' figliuoli {322} Filippo il Bello e Carlo, col redi Maiorca, e il legato. Primo stigatore di crudeltà fu costui intutto l'esercito, quasi ereditando le passioni di papa Martino; einnestavale a natura inflessibile ed efferata. Filippo il Bello, alcontrario, da ammirazion di re Pietro fratel della madre, o invidia diCarlo novello re d'Aragona, veniva di mala voglia, guardando bieco illegato. Cominciò l'astio a scoppiare un dì a corte; ove lacerandosi ilnome di Pietro, come autor di scandali e più ladrone che re, ilgiovane aspramente dava sulla voce al legato; e ne bisticciò col padree col fratello, costui nel calor della disputa chiamando re delcappello, e che sol questo guadagnerebbe dalla concessione del papa.All'entrar di maggio irruppe la formidabil oste in Rossiglione[43].
Spartita mosse in sei schiere o piuttosto eserciti; un dei quali colgonfalon della Chiesa ubbidiva al legato. E prima inviperito costui,perchè la sola Elna resistesse nell'occupazion di Perpignano e ditutto il contado, raccende i soldati a metter tutti gli abitatori altaglio della spada; chè contro nimici della Chiesa o non era peccato,o ei l'assolvea. Quindi nè ad età, nè a sesso, nè a religioneperdonaron entro la misera villa le genti crociate: e violaron lesuore ne' monisteri, e trucidarono i sacerdoti, e le donne dopo averlesforzate, e infransero a' muri i tenerelli bambini[44], perchè Pierd'Aragona non potesse aiutar la Sicilia, e restasser soddisfatte levoglie di casa d'Angiò, di parte guelfa, della romana corte in Italia.Ma dopo il facil conquisto {323} del Rossiglione, l'esercito forza fuche s'arrestasse alle chiuse de' Pirenei, sotto il colle di Paniças,donde valicar disegnava, per non discostarsi gran tratto dall'armata edal mare. A tal intoppo la immensa moltitudine si disordinò: tuttidoleansi; molti partiansi dall'oste; i quali a dileggio andavan primaa pie' del colle con tre sassi, e scagliandoli, «Questo, diceano, perl'anima di mio padre, questo di mia madre, questo alla mia:» e presoun pugno di terra spagnuola, riponendoselo in tasca, «Questo,aggiugneano, guadagnerammi la perdonanza.» Donde il legato, impazientee inesperto di guerra, tanto peggio sbuffava. Garrì una volta di pocoanimo i capitani francesi; al che re Filippo non potè starsi, che nonrispondesse brusco: gran parlar militare ei facea; prendesse le sueschiere e salisse ei primo le chiuse. Un'altra ne toccò il legato dare Pietro, quando ingiuntogli per messaggio superbamente di sgombraredalla terra della Chiesa e di Carlo re d'Aragona: «Poco, Pietro lordisse, poco questa terra costa e a chi donolla e a chi l'accettò: imiei maggiori la guadagnavano col sangue; chi la vuole, comprilaadesso a tal prezzo[45].»
Nè millantavasi il grande, il quale con maravigliosa costanza,audacia, e intendimento di guerra si resse tra cotanta rovina,ancorchè da tutti abbandonato, in pena della sua violenza troppa alcomando; chè nè esercito avea per sè, nè flotta, nè danaro, nè zelode' popoli. Com'adunata seppe l'oste di Francia a Tolosa, ma non qualvia terrebbe, fidando pur nell'indole de' suoi, che a niun patto nonavrebbero sofferto dominazione straniera, chiama all'armi {324} inobili e le città d'Aragona, che guardino lor confini; ingiunge lostesso in Catalogna alle città e a' cavalieri del Tempio e di sanGiovanni; a Barcellona con la campana a martello, com'era usanza, levail popol all'arme. Indi, agli avvisi dell'occupato Rossiglione, correa quelle frontiere; quivi dà ritrovo a ragunarsi le genti; ed egli,soprastato alquanto a Junquera per esser senza forze, penetrando cheil nemico presenterebbesi la dimane, gittasi il dieci maggio aprevenirlo alle chiuse, o almeno morirvi re: con ventotto cavalli solie settanta pedoni, monta sul colle di Paniças, che risguarda da uncanto il golfo di Roses, dall'altro sovrasta a una stretta gola dimonti, aspra sì, ma la meno in quelle giogaie. Quivi la notte fe'porre sparsi e molti fuochi per finger grand'oste; e guadagnati contale stratagemma uno o due dì, attendovvi poi le genti di Catalognache s'andavano ragunando; la gola afforzò di ridotti, e munizion dibotti piene di sabbia, e massi da rotolare dall'alto. Gli altri passiguardò con le poche forze che tor si potea d'allato; più tosto veletteche schiere. Al campo di Paniças veniano a Pietro gli ambasciatori diBohap, re di Tunis; e quivi stipulossi il due giugno un trattato ditregua e commercio per quindici anni, che dava reciprocamentesicurezza e favore alla navigazione e al commercio de' sudditi dei duere, compresi espressamente in que' di Pietro i Siciliani; e fruttava aPietro il pagamento dell'antico tributo di Tunis alla corona diSicilia, co' decorsi di esso non pagati a Carlo d'Angiò. Con talsicuro animo il re d'Aragona affrontò l'immensa ruina che glisovrastava! Tenne ben tre settimane a pie' de' Pirenei l'esercito diFrancia, che una volta fe' prova a sforzar le chiuse, e funnerespinto[46].
Ma, come avviene, non mancò (e fu questa volta dei {325} monaci d'unabadia tra que' monti) un traditore che mostrasse altro passo alnemico[47] per burroni asprissimi, e però men guardati; pei qualialfine traghettava di mezzo giugno l'oste francese. Allor Pietro,lasciata l'inutil postura di Paniças, muta secondo necessità i modi egli ordini della guerra; licenzia le genti; vieta consumar le forze adifesa di picciole terre; egli stesso abbandona dietro breveavvisaglia Peralada, che i suoi bruciarono; mal si ritrae se perantivenir nel saccheggio i nemici, o da eroico pensiero del viscontedi Rocaberti, signor della terra, ch'altro modo non vedea d'arrestareper poco il Francese. Indietreggiò dunque Pietro per Castellon eGirona; chiamò frettoloso i rappresentanti delle città. I qualivedendo presi dallo spavento ch'erasi sparso per Catalogna, sì chemolti si rifuggiano in Valenza, li riconforta con franco volto; spiegaad essi il disegno di spossare il nemico con guerra guerriata; chiedepoca moneta per tener insieme poche forze. Avutala, munisce Gironaalla meglio di viveri; comanda che sgombrila in tre dì la gente da nonportar arme; l'afforza di bastioni e spianate, e d'un picciol presidiodi cento cavalli e due mila cinquecento tra almugaveri e balestrieri,sotto il comando di Ramondo Folch, visconte di Cardona. E re Filippocon tutto l'esercito, innondata la Catalogna settentrionale che ipopoli abbandonavan dassè, pose il campo a Girona; e, come se fossecompiuto il conquisto, il legato coronò Carlo re d'Aragona; a'cavalier di lui fu spartito in feudi il paese. Al medesimo tempo tuttele {326} costiere infino a poche miglia sopra Barcellona furonoingombre dallo immenso navilio collegato[48], segnalatosi solo perenormezze al capo di San Filippo; ove l'ammiraglio richiamò i miseriabitanti fuggiti al venir suo, e li fece arder vivi ne' lorcasolari[49].
Pietro in questo tempo affortificò Barcellona con molta cura; armovviundici galee; e dava principio a colorire i suoi disegni, richiedendoil militare servigio del reame d'Aragona. Ma dinegatogli per le stessecagioni dette dianzi; ei fa sembiante di non curar nè ciò, nè iFrancesi, nè la corona o la vita: dà a sollazzarsi spensierato indesinari e cacce; sdegnando venirne a più umil patto coi sudditi, easpettando che l'insulto nimico facesse ciò che il comando suo nonpotea. E per vero i cavalier catalani, maneggevoli d'altronde, e orpiù per sentire il fuoco in casa, tra non guari vennero disperati apregarlo un dì a Barcellona che li conducesse pur contro il nimico; aiquali Pietro fermo rispondea: stare in questa guerra ei solo da unaparte, tutto il mondo dall'altra; e con tutto ciò potrebbe da'presenti danni lampeggiar fuori più viva gloria, se gli {327} uomininon poltrissero. Non era, no, aggiugnea, vergogna di Pier d'Aragonatal nemico guasto di tutta la Catalogna. Ei, sol che avesse undestriero e una spada, saprebbe viver lieto quanto niun cavaliere; enulla era il regno a lui, ma molto a' Catalani lo giogo straniero:però non comandava, non isforzava; se voleano, s'armasser pure, ed eimostrerebbe come farsi la guerra. Ubbidito, ordinolli in due grosseposte a Besalu e ad Hostalric, a fianco del nemico. Talchè punti dagliatroci oltraggi del Francese, adescati dal bottino, i Catalani diersia infestar tutto il paese intorno intorno all'esercito. La legad'Aragona pur si mosse a mandar qualche picciolo aiuto. E Pietro apoco a poco levandosi, e pensando anco al mare, inanimito dagliaudacissimi fatti de' suoi corsari, lasciò salpar di Barcellonal'armatetta regia, capitanata da Ramondo Marquet e BerengarioMallol[50].
Ma ne' vasti comprendimenti di Pietro, le fazioni navali, non cherestarsi a tal corseggiare, eran parte principalissima di questaguerra; perchè sul mare avrebbe meglio bilanciato le forze l'armatasiciliana, sulla quale ei facea molto assegnamento, per le freschevittorie di Malta e di Napoli, e le genti audacissime, pratiche,leste, la straordinaria virtù dell'ammiraglio. Sapea inoltre il re,spezzata la flotta francese in varie squadre, a guardia di porti oconvoglio delle navi, che di Provenza recavan vittuaglie all'esercito:talchè le galee di Sicilia potrebber ferire alla sprovveduta qualchegran colpo; e, intercetti i sussidi del mare, l'esercito affamerebbenella Catalogna, diserta e infestata {328} per ogni luogo dallemasnade paesane. Perciò Pietro con lettere e messaggi incalzaval'infante Giacomo, incalzava l'ammiraglio, perchè venisse incontanentela flotta; e ad una volta mandò tre spacci, per una galea e due legnisottili, divisi, affinchè se l'uno mal capitasse, non mancasse unaltro: sendo in tutte le imprese di Piero, e massime in quest'ultimaguerra, maravigliosa la cura ch'ei ponea nell'ordinare e grandi epicciole cose dassè. Comandava ancora al figliuolo d'inviargli ilprigione principe di Salerno, come pegno di salvezza nelle sue estremefortune. Ma Giacomo, ormai tenendosi in Sicilia come re, e non amandoprivar sè stesso della flotta nè del principe per accomodarne il padrein Aragona, indugiava; nè fu senza comandi più gravi del re, o forsevoler dello stesso ammiraglio, che al fine la flotta partì. Eran daquaranta galee, siciliane la più parte, che osteggiandosull'Adriatico, avean preso Taranto e altre città, e speravanoacquisti maggiori, quando fu forza voltare per Catalogna. Di questoviaggio narra Speciale, che la vigilia dell'Assunzione della Vergine,navigando presso la Goletta di Tunisi, festeggiavano i nostri conluminarie, com'era costume in Sicilia, ed è anch'oggi. In quel brioavvennesi nel navilio un altro messaggio del re: e, facendo da ciòbuon augurio, confortate dall'ammiraglio, più alacri volaron le ciurmea quelle estranie guerre[51].
Tutta la state tenne fermo in Girona il visconte. Re Filippo moveagliassalto ogni dì; percotea le mura coi gatti, la città coi tiri dellebriccole, dava scalate, fea scavar le cortine; ma il presidio puntonon se ne mosse, opponendo ingegni agl'ingegni, armi alle armi; e insortite bruciò le {329} macchine, e i balestrier saraceni con mirabilicolpi imberciavano, non pure gli scoperti, ma i riparati dietromacchine o case, e gli infermi per li spiragli delle finestre, e chiche fosse a gittata d'arco con due dita di luce da ficcarvi unquadrello[52]. E l'oste francese era già scompigliata e consunta.Arsevi, da disagi o aer malsano, una cruda morìa; infierita per lacorruzion delle carogne dei cavalli, che a migliaia morivano dapunture di tafani velenosi, ingombranti a nugoli la campagna, uscitila prima volta, così il volgo favoleggiò e qualche isterico con esso,dal sepolcro del beato Narciso, profanato dalla nimica rabbia[53].Appigliossi la pestilenza al naviglio sì fieramente, ch'entro pochesettimane le ciurme s'ammezzarono, e poi scesero al terzo, e piùbasso[54]. I Catalani intanto dalle poste di Besalu ed Hostalricscorrazzavano per tutto il paese; rapiano i traini delle vittuaglie,in quella carestia portate per mare a Roses, indi su vetture a Girona;sorprendeano le picciole schiere francesi; tagliavano a pezzi glisbandati; s'arricchivano delle spoglie; vendeano i prigioni;saziavansi del sangue: infaticabili, pratichi, arrisicatissimi, ecrudeli. Il mare stesso non era più sicuro ai nemici, poichè le undicigalee di Barcellona, disperatamente investite venticinque dellefrancesi, rotto aveanle e preso; e indi i privati corsali, inanimiti,uscivan in maggior numero a tentar la fortuna[55]. {330}
Allor Pietro manda intorno la grida della misera condizione dell'oste,e ch'uno sforzo la metterebbe al nulla: fa bandir da Alfonso la levatain arme in Aragona: ei stesso chiamavi i Catalani; da tutti conmaggiore alacrità ubbidito, come portava la rivoltata fortuna. Cavalcaindi al santuario di santa Maria di Monserrato, famosissimo per tuttaSpagna: passavi una intera notte a pregare all'altar della Vergine: ela dimane uscendo la prima volta in campo, come se avvalorato dalCielo, conduce cinquecento cavalli e cinquemila fanti dritto a Girona;e con quel pugno di gente, in faccia al nimico volteggiò, senz'altroschermo che le acque del Tar. Poggia indi al vicin monte di Tudela; e,abbandonatolo per non parergli opportuno, movea alla volta di Besalu,quando con poche forze trovossi in una terribile zuffa[56].
Solo con dodici cavalli, uscito di schiera e di via, la notte innanziil quindici agosto, andava a dar dritto in una torma di cinquecentocavalli francesi; se non che una parte de' suoi uomini d'arme e pochecentinaia d'almugaveri, che lui smarrito cercavano, s'accorsero de'nimici. Senz'arnese il re cavalcava. Ma come di qua, di là correr vedee venirsi alle mani, sprona nel mezzo, e grandissime prove fe' dellasua persona. Leggiamo che recisegli le redini del cavallo, accerchiatoda molti cavalieri, si sviluppò fieramente, uccidendone molti con lamazza; e che un lanciotto vibratogli da presso, si piantò nell'arciondella sella: che d'Esclot vide con gli occhi suoi l'arcione e laspezzata punta. Aspro l'affronto delle altre genti anco si {331}travagliava: almugaveri leggieri contro gli uomini d'arme, cavallicontro cavalli; dove sopra tutti i bravi lodati di parte catalanaveggiamo quel siciliano Palmier Abate, giovane che non avea vistounquemai battaglia, rapito fuor della diletta patria per astuzia delre, e segnalatosi or tanto in sua difesa, che il catalano Montanerlasciandosi portare all'estro della cavalleria, gli altri prodiagguaglia a' Lancilotti e a' Tristani, e lui ad Orlando. Straziatisicon tal disperato coraggio Francesi e Spagnuoli, stracchi alfinelasciarono il campo; ed entrambi poi vantaron vittoria. Errore èd'alcuni istorici, che ivi fosse ferito re Pietro. Venne anzi battendoa Besalu, e alle altre poste; continuò a dar gangheri, porre agguati,saltar qua e là intorno allo estenuato esercito di Francia: e pensavaanco qualche stratagemma per vittovagliare Girona; quando ilventiquattro agosto, lasciato ogni altro pensiero, a spron battutovolò a Barcellona per lietissimo annunzio[57].
E fu questo l'arrivo della siciliana flotta: onde sfavillò Pietro involto, a vedere nel porto di Barcellona trenta galee, schierate inbell'ordine, dipinte intorno intorno con le armi d'Aragona e Sicilia,luccicanti di scudi e balestre, {332} parate di bandiere, pennoncelli,tende di seta vermiglia su i castelli di poppa; che non s'era piùvista, continua il d'Esclot, armata in migliore arredo. Un lietissimogrido misero le ciurme siciliane al vedere il re; che montò su legalee, soppravvide ogni cosa, e si strinse a consiglio con RuggierLoria. Questi, posato tre dì, sciolse pel golfo di Roses[58]: emandonne avviso all'armatetta catalana, che era uscita assai prima aritrovar briga in quei mari, e le dava caccia la flotta francese.
Menomata dalla mortalità delle genti, e ignara del tutto dellasorvenuta armata di Sicilia, la francese avvennesi in lei agli scoglidelle Formiche, sotto il capo di San Sebastiano; e Loria la scopersesenza essere riconosciuto da quella: nè altro aspettò, ma spiccata unapunta delle sue galee a tramettersi in mezzo la terra e 'l nimico, eil'investe di fuori col grosso del navilio; ordinate molte fiaccole perogni galea, perchè non si desser d'urto tra loro, e spaventassero ilnimico con la paruta di maggior numero. Ed ecco entrati a gitto dibalestra, d'un subito accendon le fiaccole i nostri, levano il grido«Sicilia, Aragona, Maria delle Scale di Messina;» e l'ammiraglio conla prora urta di costa sì fieramente una galea provenzale, cheribaltandola, da cinque o sei uomini in fuori, tutta la gente sbalzòin mare. Poco ressero gli sprovveduti a tal furia d'assalto. Dodicigalee scamparono, contraffacendo i segnali de' fuochi e il mottoAragona e Sicilia; delle altre, qual fu presa, qual diè in secco;restando compiuta la vittoria a' nostri. In questi fatti a un dipresso accordansi tutti gli istorici del tempo, con qualche divarionel numero delle navi e negli ordini della battaglia. Ma le espresseparole degli uni, lo stesso silenzio degli altri, e i fatti seguentidan fuori ogni dubbio che l'armata siciliana distruggesse {333} quellanotte il nerbo delle forze marittime di Francia. Meglio che cinquemilatra Provenzali e Francesi caddero in questo abbattimento delli scoglidelle Formiche; e furono pur più felici de' prigioni, per la spietatarabbia che portavano i tempi, e l'accanimento tra Spagnuoli eFrancesi. Prendendo a scernere i cattivi, Ruggier Loria ne tolsecinquanta cavalieri di paraggio, che potean pagare grosso riscatto;gli altri mandò in Barcellona a Pietro: e questi fa legare a unagomena trecento feriti, accomandare il capo della gomena a una galea;e la galea vogò allora, trasse dietro a sè la funata de' prigioni, econsumò l'orrendo supplizio, a veggente di chi veder volesse, scrivefreddo il d'Esclot. Dugentosessanta non feriti fur tutti accecati,d'uno all'infuori al quale re Pietro fe' cavare un sol occhio perchèguidasse la brigata a Filippo; infermo dell'epidemia, straziato dallosterminio che la morte in tante orrende guise facea del suopopolo[59]. {334}
Ruggier Loria entro pochi giorni spazzò il rimagnente della flottanemica, mandate le galee catalane a raccorre {335} quante reliquie sene ritrovavano a Palamos e a San Filippo; ed ei difilandosi al golfodi Roses, bruciò e prese venticinque più navi; e ponendo a terra,stormeggiò il castello per impadronirsi delle molte vittuaglieserbatevi[60]. Raro esempio in quell'età di sostenersi da fanti ignudilo scontro di grave cavalleria, intervenne allo sbarco di Roses.Perchè movendo da vicina terra contro le ciurme di Loria il conte diSaint-Pol con un grosso di cavalli, si circondano i nostri di fossimascherati, e intorno intorno di gomene tese su' piuoli, e con l'armeda gitto li aspettano. Piombarono a briglia sciolta i Francesi; eparte ne' fossi precipitarono, parte respinti da' ripari siscompigliaro: saltaron fuori i nostri e finirono lo sbaraglio. Ilconte, abbattutoglisi il cavallo, fu ucciso; e troncagli una mano, chei nemici poi ricomperavano per settemila marchi d'argento.Rimbarcatosi l'ammiraglio, fece altre ricche prede su i mari; tagliòtutti sussidi di vittuaglie allo esercito[61]. E allor fu che andato alui il conte di Foix, chiedendo tregua a nome di re Filippo, negollaRuggiero superbamente. Disse che, pur accordata dal re d'Aragona, aProvenzali e Francesi ei non osserverebbe tregua giammai; eripigliando il conte, non salisse in tanta superbia, perchè la Franciapotrebbe metter in mare trecento galee: «Vengano, ei riprese, etrecento e duemila; con cento delle mie fidereimi tener tutti i mari;nè legno solcherebbeli senza salvocondotto di re Pietro, nè pescev'alzerebbe la testa senza lo scudo delle armi regie d'Aragona[62].»{336}
In questo mentre Ramondo Folch, ch'avea fatto tai prodigi alla difesadi Girona, e a gran pezza non s'era curato della fame, non che delleminacce e promesse del nimico, venuto a stremo di penuria, cominciò adascoltar parole d'accordo; di voler anco di re Pietro, il quale nèpotea far levare l'assedio per battaglia, nè vedea cagione di gettarsia tal rischio[63]. In questa pratica narra una cronaca francese,ch'ito al campo degli assedianti l'arcivescovo di Saragozza, il legatotroncavagli ogni parola, fremendo: «Non misericordia, non patti,»quando Filippo il Bello, bruscamente il domandò, che farebbe de'bambini e delle donzelle prendendo Girona d'assalto? «Muoian tutti,»il cardinale riprese; e il giovin principe a lui: «Niuno muoia, chenon può difendersi colla spada.» Indi all'arcivescovo segretamentepalesò travagliar peggio gli assedianti che gli assediati; perciòtenesse fermo nel chiedere i patti[64]: e chi sa quanto operarono sulgiovanil animo queste prime ire contro la romana corte, per disporloall'offesa di Anagni? Il visconte pattuì venti giorni per arrendersi,se non gli giugnesse soccorso; e non avendone, il dì sette settembreuscì con armi e bagaglio e tutti onori di guerra, e ammirazionegrandissima de' nemici[65].
Ma nè gioia nè comodo ne tornò a' Francesi in tal tempo, perchèperduto il mare, la fame finiva già l'esercito, straziato dallapestilenza e dalla spada nemica; e l'ansietà crescea per trovarsi inpericolo lo stesso re Filippo, che preso dalla morìa nel campo diGirona, per mutar sito non rinfrancossi, e sopraggiunto il disastrodella flotta, il sangue {337} gli si rivelenì per tutte le vene. Traquesti travagli comandava Filippo la ritirata, lasciando presidio aGirona. Intanto di Catalogna, d'Aragona, di tutto il reame traeano agara armati alle bandiere di Pietro; il quale rinfiammò tal zelo confar dassè ciò che per altezza d'animo ostinatamente avea negato nellepiù dure strette; ed ora nel montar della fortuna gli era tantomaggior lode. Assembrati i baroni in concione pubblica, egli accetta:queste calamità pubbliche esser fattura sua, e della maligna sorte chegli fe' chiuder gli orecchi a' leali consigli de' baroni: Iddio averpunito il superbo, e trattener ora il flagello levato sul suo capo:ond'ei ripentito, vedendo la man del Signore, chiedea perdono a' suoisudditi; consigliava loro di temperarsi nella vendetta sopra i nemicisbaragliati e fuggenti, a' quali gli Spagnuoli avessero misericordiapoichè Dio l'avea avuto di loro: così ei pensava, dicessero lorsentenza i baroni. Col medesimo accorgimento accarezzò gli Aragonesisopra tutti; e fe' piangere, dice d'Esclot, di tenerezza quegli animisì indocili, a tal umile e benigno parlare.
Adunato un giusto esercito, marciando di costa alle reliquie delnemico, giunse al passo di Paniças; e nol contese, dicon gli storicidi sua parte, per pietà del re infermo a morte, e preghiere di Filippoil Bello; ma forse perchè metter non volle a disperazione il nemico,tuttavia più poderoso di lui. Ed ecco il trenta settembre[66]quattromila cavalieri, che sol tanti ne rimaneano montati, e inutiliturbe di fanti, e confusione di salmerie, lasciandosi a dietro, perfalta di vetture, tanti doppi più d'arnesi e robe e argenterie,anelanti e mesti ripassavan le chiuse: stretti a schiera i cavalieriintorno all'orifiamma e alla {338} barella del re moribondo, co'principi del sangue, il legato, e' principali dell'oste. Ardeano glialmugaveri di dar dentro, e li trattenne il re finchè fur valicati gliuomini d'arme; poi su fanti e bagaglie sbrigliaronsi. Di là dai monti,in Rossiglione, il medesimo scempio nel sangue e nella roba de'fuggitivi facea Loria, sbarcato con le feroci genti dell'armata;talchè per gran tratto di paese non fu che cadaveri e moribondi diferite, di morbi, di fame, e assalti, e ladronecci; salvandosi a penail forte nodo de' cavalli. Il sei ottobre morì re Filippo aPerpignano: non riportarono in Francia i rimagnenti che lutto,pestilenza, ferite, e peso gravissimo di debito pubblico[67].
Ma Pietro, non tardo a usar la vittoria, strignea d'assedio Girona; evoltavasi anco all'isola di Maiorca, dicea, non per vendetta contro ilfratello, ma per aver meglio di che fermar la pace con Francia e Roma.Con pratiche tra gli abitatori dell'isola si spianò la via;cinquecento cavalli apprestò con l'armata di Loria, sotto il comandodi Alfonso. Erano in ponto a salpare, quando il re partendo daBarcellona per Saragozza il ventisei ottobre, colpito dal freddo delmattino, e preso di violenta febbre a San Clemente, dopo brevefermata, ostinavasi a rimontare a cavallo; ma vinto dal morbo,recaronlo in lettiga {339} a Villafranca di Panadès[68]. Quivitemendosi già di lui, venne ansioso Alfonso; e il re che non pensavaalla propria vita, ma all'impresa di Maiorca, sgridavalo: «A chelasciare l'armata? Or se' tu medico da stare attorno al mio letto! Dime sia ciò che Dio vorrà, ma tanto più preme occupar di presenteMaiorca[69].»
Andò dunque l'infante, e se n'insignorì tra pratiche e forza d'arme,con picciol contrasto[70]. Risplendeva in quello incontro il valorede' nostri; perchè fortificatisi in una rilevata chiesa fuor la cittài più fedeli al re di Maiorca, con Francesi e Provenzali, aveanributtato i replicati assalti della gente catalana e dell'isola: maquando Alfonso, per pensiero dell'ammiraglio, fece sottentrar nelcombattimento i Siciliani dell'armata, «Viva Sicilia» levan essi ilgrido; danno nelle trombe, e montando su per scale e remi, d'un solostormo impetuoso fur dentro, e finirono la guerra[71].
Nel medesimo tempo navigava que' mari Carlo II d'Angiò, mandato diSicilia dall'infante, dice il Neocastro, pe' comandi risoluti diPiero, e' consigli di Procida, che ammonialo a posporre a' doveriverso il padre ogni utilità sua propria e dell'isola; ma piuttosto fuche Giacomo col re fortuneggiante avea disputato, al vincitoreubbidiva[72]. Perciò dopo alcune pratiche, che son da supporsi e forseancora con l'intesa di Roma (ritraendosi data licenza dalla romanacorte d'aprile milledugentottantacinque a {340} due frati inglesiUgone di sant'Edmondo e Gualtiero di Seggefelt di venire in Siciliaper lo re Eduardo a visitare e consolare il prigione[73]),affrettavasi Giacomo a fare per sè, pria che il prigione gli escissedi mano. Va a trovarlo egli stesso a Cefalù; ottien promessa da luiper impazienza del carcere o saputa degli eventi d'Aragona, checederebbegli ogni ragione su l'isola, darebbegli sposa Bianca suafigliuola, e con altri parentadi strignerebbersi le due case d'Aragonae d'Angiò. I quali patti, quanto men valeano per la prigionia di Carloe 'l dubbio diritto di Giacomo a fermarli, tanto più Giacomo vollerafforzar di giuramenti sul vangelo e doppio scritto, l'un per sèstesso, l'altro per ispacciarlo al padre. Allor trascelti ifidatissimi cavalieri Ramondo Alamanno, Simone de Lauro, e Guglielmode' Ponti, si fa dar sacramento, che la persona di Carlo rassegnerannoa re Pietro; e avvenendosi nel viaggio in forze nimiche, a lor poteredifenderansi, ma, sopraffatti, troncheranno il capo al prigione, egitteranlo in mare, perchè nè anco il cadavere riavessero i nimici. DiCefalù a Palermo; quindi coi tre cavalieri Carlo s'imbarcò perBarcellona; e giunsevi nelle ore estreme di Pietro[74].
Il quale, poichè Alfonso si partì da lui, sentendo la mortal forza delmorbo, lasciar volle solenne discolpa {341} della guerra contro ilpapa, sì come Carlo d'Angiò fatto avea in punto di morte per la guerrasuscitata dal papa. Chiamati dunque l'arcivescovo di Tarragona, co'vescovi di Valenza ed Huesca e altri prelati e baroni, attestò: non adoffesa della santa sede, ma secondo sue ragioni aver preso il reame diSicilia; le scomuniche acerbe di Martino non aver meritato, ma sì comecristiano osservatole; ed or presso al divin giudizio, chiedevaall'arcivescovo l'assoluzione, promettendo che s'ei campasse, e quiripigliava le ambagi, obbedirebbe secondo giustizia al ponteficesommo, al quale rappresenterebbesi di persona o per legati. Il giurò;e l'arcivescovo ribenedillo. Consigliato a perdonare i nimici, fe'liberare prigioni, non però que' d'alto affare; non mutò il testamentodettato a Port Fangos nell'ottantadue; ad alta voce si confessò a duefrati; e poi a grande sforzo surse di letto, mal reggentesi etremolante, vestissi, s'inginocchiò lagrimando e pregando dentro dasè, ed ebbe l'Eucaristia. Seppe indi arresa Girona; venuto di SiciliaCarlo, che gli restava appena un barlume di sensi, nè potè profferirerisposta; ma fe' croce delle braccia, levò gli occhi al cielo, e ildieci novembre spirò [75]. {342}
Questo fine ebbe di quarantasei anni, verde di forze, nel maggiorvigore della mente, nel colmo della fortuna; vedendo dissipata l'ostedi Francia; confuso il re di Maiorca; mancati Carlo, Filippo l'Ardito,papa Martino; il novello re di Napoli nelle sue forze; scompigliatoquel reame; la Sicilia sicura e obbediente; la sua flottasignoreggiante il Mediterraneo; per sè la riputazion della vittoria,da por freno in ogni luogo agli stessi suoi sudditi. Grande fu e benfatto della persona, robusto di braccio, d'animo audacissimo,perseverante, ingegno da abbracciare gran disegni e non saltar leminuzie, scaltrito, chiuso, infaticabile; tutte le parti ebbe dicapitano egregio. Gli furon queste nelle cose di stato or vizi orvirtù, secondo la giustizia dell'intento, a che mai non attese. Indila discordia, non da savio, con le corti d'Aragona; le dubbie viecontro i baroni di Sicilia; le frodi e gl'inganni che macchinò conarte profonda; le vendette efferate ne' suoi nemici, alle qualiproruppe per l'atrocità de' tempi, per la fierezza dell'animo, noncurante strazio e morte nè in sè nè in altrui, per la crudeltà dellamente assorta negl'intenti politici, fatta cieca alla conoscenza de'veri beni propri ed altrui, miscredente a' dritti degli uomini,ghiacciata contro ogni alito di lor carità. Avventurosa la Sicilia chesel trovò nel pericolo, e sen disfece tosto; perchè era di tempra daagognar sempre o fuori o in casa. Gli uomini poi scordarono i danni diquella molesta fortezza, e diergli il meritato soprannome diGrande[76]. {343}
Per questa ragione medesima gli scrittori del tempo, anco i nostri, efin il sommo poeta d'Italia[77], che di tanto fu più grande di quei recombattenti, esaltavano a canto all'Aragonese, l'emolo Carlo d'Angiò,lodato per valor pari e più chiare vittorie, biasimato al paro dislealtà, ma senz'arte alla violenza nè alla frode, onde Pietro, chemeglio se n'intendea, lo raggirò e vinse. Più pesante tiranno fuCarlo, invidioso e uggioso ne' costumi privati, e nello statoavarissimo, connivente ai suoi sgherri, inumano, spregiator dellegenti italiane[78], calpestator d'ogni dritto, nimico fin dalla primasua dominazione di Provenza a tutte franchige, anzi odiatore de' suoistessi sudditi; e punito del maggior martiro che il Cielo serbarpoteagli, mancando di lenta morte, nella rabbia di veder lieta e fortequella Sicilia che straziata lo maledisse, gli rese onte per onte,sangue per sangue, spezzò il suo scettro, troncò il corso alle sueesterne ambizioni, la sua schiatta per due secoli combattè.
Invano ad aiutar questo Carlo intendea con tutto lo sforzo delpontificato, Martino, la cui vita e la morte non sarebber da istorie,se non che preoccupato da umori di nazione e di parte, e ritenendosotto il gran manto gli antichi ossequi, proruppe ai narrati scandali,onde le due penisole bagnò di sangue, espilò tutte le chiese d'Europa,profanò l'armi della croce.
Da costui suscitato e da volgar vanità e cupidigia, Filippo {344}terzo di Francia corse oltre i Pirenei a guerra disutile e ingiusta;lasciovvi sessantamila vite d'uomini, e la sua stessa; smentì il nomed'Ardito[79] con gli smisurati preparamenti e l'esito miserando, efatto notevol nessuno, se non furon gli ammazzamenti d'Elna e di SanFilippo.
Sotto questi quattro principi, mezz'Europa s'agitò per la sicilianavendetta del vespro. Mantennela con vittoria il più debol tra loro,contro le unite forze dei tre potentissimi; tutti mancarono nelmedesimo anno ottantacinque; e dalle loro ambizioni altre ambizioni,indi altri mali rinacquero. Ma la Sicilia, sciolta dal legame dellacomune signoria con Aragona, sola ne restò a guerreggiar contro ilreame di Napoli e 'l papa; e s'ordinò con migliori leggi; e permaggiori fatti d'arme rese chiaro il suo nome.
NOTE
[1] Veg. il docum. XIV.
[2] In questo tempo stesso Carlo I e la vedova regina di Francia, fecero compromesso per le questioni insorte tra loro, intorno la eredità di Ramondo Berengario conte di Provenza. Diplomi del 10 novembre 1283, e 23 marzo 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 511. 3.
[3] Docum. XIV.
[4] Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 34 e 35.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 394.
[6] Bolla del 27 agosto 1283, in Raynald., Ann. ecc., 1283, §§. 25 a 32; e in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 252 e seg.
[7] Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Veg. anche Saba Malaspina, loc. cit., e Geste de' conti di Barcellona, cap. 28.
Gl'intendimenti di casa di Francia in questa guerra, e le sollecitazioni di Carlo I d'Angiò son detti apertamente da costui nel diploma del 5 ottobre 1284, docum. XXIII.
[8] Montaner, cap. 79.
[9] Docum. XIV.
[10] Brevi del 10 gennaio 1284, in Rymer, op. cit., tom. II, pag.263.
[11] Bolla di Martino IV, in Rymer, loc. cit., pag. 267.
Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542, contro i documenti allegati da noi, porta questo parlamento di Natale dell'83.
[12] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 5 e seg.
Rymer, loc. cit., p. 267.
[13] D'Esclot, cap. 136, il quale trasporta questa investitura al 1285, aggiugnendovi del rimanente con grande esattezza quanto sopra si è ritratto dai documenti di Raynald e Rymer.
Montaner, cap. 119 e altrove, chiama Carlo di Valois «re del cappello.»
Surita, Ann. d'Arag., lib. 4, cap. 41.
[14] Raynald e Rymer, nei luoghi citati.
[15] Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 4 e 10.
Bolla del 5 maggio 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714. 6.
Saba Malaspina, cont., pag. 394.
Nangis, loc. cit., pag. 542.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Le decime estese in Alemagna si ritraggono da un breve d'Onorio, in Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 23.
Veggansi ancora Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.
Bart. de Neocastro, cap. 70, 71 e 91, per questi preliminari dell'impresa d'Aragona.
[16] Brevi di Martino IV, dati d'Orvieto, il 10 e il 26 maggio 1284, trascritti in un diploma del cardinal di Santa Cecilia, dato di Vaugirard il 7 luglio seguente, negli archivi del reame di Francia. J. 714, 6.
Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 24 e 35.—1284, §. 4.
Saba Malaspina, cont., pag. 394.
[17] Breve dato d'Orvieto, il 25 giugno 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 7.
[18] Breve dato di Perugia, il 30 ottobre 1284. Ibid. J. 714, 8.
[19] Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 25. In questa bolla forse è errato l'anno, o il nome del papa.
[20] Diplomi di Giacomo, re di Maiorca, dati di Palayrac, il 16, e di Carcassonne, il 17 agosto 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 598, 4, 5.
[21] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 42.
[22] Montaner, cap. 104.
[23] Lello (Michele del Giudice) Descriz. del tempio di Santa Maria di Morreale, parte 2, pag. 21. Maurolico, Hist. Sic., lib. 1, pag. 15, ed. Messina 1716; il quale aggiugne ch'eran d'eccellente oro, e n'entravan 72 in una libbra.
Vero egli è che nel secol XIII la leggenda «Cristo vince» fu posta in varie monete siciliane, costantinopolitane, e di altri stati; ma sembra che da Pietro fosse scelta apposta all'intendimento che io ho detto; e la rincalzò con quell'altra più significativa «La somma possanza in Dio è.»
[24] Veg. il cap. 8.
[25] Gio. Villani, lib. 7, cap. 87.
Accenno senz'altro una diceria di papa Martino su la deposizione di Pietro d'Aragona, e una risposta di Pietro, scritte in versi leonini, che ho trovato nei Mss. latini della Bibl. reale di Parigi, 2477, fog. 83. Quattordici di questi versi son regalati al papa, quattordici al re; e tutto è manifestamente la fattura d'uno dei più ottusi ingegni del tempo, senza una sola frase che possa meritare attenzione, sia istorica, sia letteraria.
[26] Le Parnasse Occitanien, ou Choix de Poésies originales des Troubadours, Toulouse, 1819, pag. 290, 291. Ivi si leggono questi versi di Pietro d'Aragona, e le risposte del trovadore Pietro Selvaggio e del conte di Foix.
[27] D'Esclot, cap. 108 e 109.
Montaner, cap. 104.
[28] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 52.
[29] Diploma del 12 gennaio 1284, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 264.
La politica d'Eduardo è spiegata in un'altra lettera del 12 gennaio 1283, presso Rymer, loc. cit. Edoardo rispondeva alla regina Costanza, che governando l'Aragona in assenza di Pietro, avea caldamente pregato il re d'Inghilterra a intervenire in suo favore contro le minacce di Filippo l'Ardito. Eduardo promettea di fare a ciò ogni sforzo con le negoziazioni; nessuno con le armi.
[30] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 52.
[31] Montaner, cap. 102 e 120.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 34, 47, 51, 59.
[32] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 37.
[33] Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 11 e 12.
[34] Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nel Baluzio, Marca Hispanica. «Quae recte doloris insula nuncupatur,» scrive della Sicilia il frate cronista, a proposito delle scomuniche e guerre che per cagion di lei erano piombate addosso al suo paese.
[35] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 37, 38.
[36] D'Esclot, cap. 106.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 83, 85.
Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script. tom. V, pag. 542.
Montaner, cap. 111.
[37] D'Esclot, cap. 132.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 38 e 39,
Bart. de Neocastro, cap, 91.
Carbonell, Chron, fog. 76. Carbonell scrisse nel secolo XV, ma con gli archivi d'Aragona a sua disposizione. Ei dice che i Catalani furono men baldanzosi verso Pietro, «così ne ottennero maggiori concessioni, o per dir meglio la restituzione di quelle franchige che Pietro avea annullato per collera e naturale avversione. Il Carbonell narra in quest'incontro un fatto assai bizzarro: che i Catalani chiamati al servigio militare, vi si presentarono con le lance senza ferri e le guaine senza spade né pugnali; e richiesti di tale strana apparenza, risposero umilmente: esser così venuti per non fallare il giuramento al re, che avea bruciato lor carte di costituzioni, libertà, e privilegi; e che a rischio di perder beni e persone il seguirebbero così inermi dovunque ei volesse. Pietro, mitigato a tal sommissione, rese le franchige per un diploma dato di Barcellona a dì 11 gennaio 1283 (1284 secondo il nostro computo dell'anno che comincia dal 1º gennaio). Veg. anche Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11. cap. 17.
L'autor delle Geste de' conti di Barcellona (nella Marca Hispanica del Baluzio), che è catalano assai caldo, si lagna de' nobili e comuni d'Aragona che negarono gli aiuti al re, ma non fa parola delle dissensioni civili di Catalogna, che in vero furono men aspre.
Del rimanente io ho ritratto più particolarmente quest'abbozzo delle discordie di Pietro coi sudditi dal diligentissimo Surita, il quale, ancorchè non contemporaneo, compilò gli annali su' documenti e scritti de' contemporanei; perchè il Neocastro le accenna appena ancorchè con candore; il d'Esclot sa di troppo cortigiano.
Montaner, cap. 110, con manifesta bugia loda il grande accordo delle corti di Saragozza col re, e la loro prontezza alla difesa. A un di presso dice il medesimo a cap. 112, per le corti di Barcellona.
Montaner, cap. 111, riferisce solamente la scorreria degli Aragonesi in Navarra. In tutti gli altri fatti che gli parean disonorevoli al re, o tace o mentisce.
[41] D'Esclot, cap. 134, 135, 136.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28.
Bart. de Neocastro, cap. 91.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 56.
[42] D'Esclot, cap. 181 e 187.
Montaner, cap. 119.
Bart. de Neocastro, cap. 91.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 102.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit. Il cronista dice 20,000 i cavalli, e infiniti i fanti.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 54.
Veggasi anche il Nangis, nella Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544.
[43] D'Esclot, cap. 136.
Montaner, cap. 103, 119 e 121.
[44] D'Esclot, cap. 137, 138, 140, 141.
Montaner, cap. 121.
Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, loc. cit., pag. 545, che narra le istigazioni del legato, e scrive male il nome di questa città,Janua: e il Villani, Janne, nel lib. 7, cap. 102.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
[45] D'Esclot, cap. 144 e 145.
L'autor delle Geste de' conti di Barcellona, loc. cit., narra anche delle pietre scagliate a voto contro gli Spagnuoli per guadagnar l'indulgenza. Ma non lo dice fatto a dileggio, nè dai soldati, ma dalle turbe inermi, anche di donne, che avean seguito l'esercito a questo solo fine. Trasporta il fatto all'assedio di Girona.
[46] D'Esclot, cap. 139, 140, 142, 143 il quale porta il capitolo delle consuetudini di Barcellona, che prescrivea la leva in massa in caso d'invasione.
Montaner, cap. 119 e 120.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 53 a 60.
Nangis, loc. cit., pag. 545.
Veg. il trattato col re di Tunis, in Capmany, Memorias, etc., tom. IV.
[47] D'Esclot, cap. 146.
Montaner, cap. 122.
[48] D'Esclot, cap. 147 a 155.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
Bart. de Neocastro, cap. 92.
Montaner, cap. 123 a 127.
Forte da questo tempo Carlo di Valois cominciò ad usare il suggello di re d'Aragona, che si vede in molti suoi diplomi fino al tempo della rinunzia in mano di Bonifazio VIII. Da un lato v'ha il re armato di tutto punto, montato sopra un destriero che corvetta ed è coperto di un lungo drappo sparso a gigli: il re tien la spada in alto e lo scudo al petto in atto di combattere. Dall'altro lato il re siede sur una scranna, in sottana e manto reale, con la corona a punte di gigli, e un giglio alla sinistra, alla destra uno scettro sormontato anche del fiordaliso. La leggenda è:Karolus Dei gracia rex Aragonie et Valencie, comes Barchinonie, filius regis Francie. Archivi del reame di Francia, J. 587, e in altri fascicoli.
[49] Montaner, cap. 127.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
[50] D'Esclot, cap. 157.
Montaner, cap. 128 e 129.
Bart. de Neocastro, cap. 92.
Nangis, loc. cit., pag. 546.
Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 766.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 61 a 63.
[51] Bart. de Neocastro, cap. 92.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 2.
Montaner, cap. 112, 129, 135.
Veggasi anche d'Esclot, cap. 158 e 165.
[52] D'Esclot, cap. 160 a 164.
[53] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.
Bart. de Neocastro, cap. 92 e 97.
D'Esclot, cap. 160.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
Montaner, cap. 128.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 102.
Nangis, loc. cit., pag. 546.
Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.
[54] Bart. de Neocastro, cap. 92.
[55] D'Esclot, cap. 157, 158.
Montaner, cap. 128 a 133.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
Nangis, loc. cit., pag. 546.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 63, 64.
[56] D'Esclot, cap. 159.
Bart. de Neocastro, cap. 92.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 65.
[57] D'Esclot, cap. 159 e 165.
Montaner, cap. 134.
Bart. de Neocastro, cap. 92.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit. Quivi si legge che Pietro escì col peggio da questo combattimento.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 65.
Di questa scaramuccia fan motto ancora Gio. Villani, lib. 7, cap. 103, Nangis, loc. cit, pag. 547, la Cronaca di S. Bertino, loc. cit., pag. 766, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, la Cronaca di Parma, Tolomeo di Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S. tom. XI, e l'Anonymi Chron. sic. narrando brevemente la guerra d'Aragona ne' luoghi citati. Secondo essi, Pietro ebbe una ferita e poi ne morì. Di questa ferita non parlano i contemporanei catalani e siciliani, che potean meglio sapere i particolari, e non aveano ragione a occultar con manifesta menzogna, che un re guerriero morisse di ferita tre mesi appresso la battaglia.
[58] D'Esclot, cap. 165.
[59] Bart. de Neocastro, cap. 93, 94, 95.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 3, e lib. 4, cap. 13.
D'Esclot, cap. 166.
Montaner, cap. 131 e 135.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 104.
Anon. chron. sic., cap. 45.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 68, che cita un diploma di re Pietro, relativo al numero de' nemici morti in questa battaglia.
Di questi scrittori, il Neocastro porta a 36 il numero delle galee siciliane, più le 12 catalane di Marquet, che secondo lui si trovarono nella battaglia. L'armata francese era di 40 galee, oltre 15 lasciatene a Roses. Riferisce la particolarità delle 18 galee mandate da Loria a porsi tra la terra e l'armata francese, e delle 30 rimagnenti, con le quali ei di fuori assalì, con le fiaccole accese.
Lo Speciale dice 40 le galee di Loria, 10 le catalane, non assegna il numero delle francesi, ma lo confessa un po' minore.
D'Esclot porta a 30 le galee siciliane recate da Loria, 4 che vennero a raggiugnerlo di Sicilia, e 10 catalane; e oltre a queste, 48, tra saettie e altri legni sottili. Le galee provenzali secondo lui furono 25, ma sì ben armate d'uomini, da valer 40 galee ordinarie.
Montaner dice, 80 le galee tra francesi e italiane, 66 quelle di Sicilia, e che l'armatetta catalana non si trovò nella battaglia.
L'autor delle Geste de' conti di Barcellona, tacendo i particolari, afferma pur l'importanza della cosa; cioè, che Ruggier Loria presso Roses distrusse tutta la flotta nemica, e prese l'ammiraglio G. de Lodeva.
Gli altri o forniscono men particolari, o son da attendersi meno. Ma tra' cinque sopraddetti, e massime tra Montaner e d'Esclot, è grandissima la disparità quanto al numero delle navi francesi. Io terrei pel d'Esclot, che suol essere più veridico del Montaner e più informato; ma mi fa molta specie: 1º. ch'ei non dice il luogo della battaglia, indicato dagli altri con esattezza, ancorchè i più minuti la portino alli scogli delle Formiche, e gli altri al capo di San Filippo, che son luoghi presso il capo di San Sebastiano: 2º. ch'ei confessa, al par che tutti gli altri senza eccezione, distrutta in questa battaglia la flotta francese, da lui portata di sopra a 150 galee; onde ancorchè si voglia supporre disarmata la più parte, e menomate le ciurme, non è probabile che perdute 13 galee delle 25, Filippo l'Ardito non avesse potuto con le 12 fuggite ristorare una flotta uguale almeno a quella di Loria: 3º. che il numero de' morti, e de' prigioni, ch'ei porta a 5,560 e si dee riferire nella più parte alle galee prese, fa sempre supporre la flotta francese assai più numerosa di 25 galee. Computando a un di presso per 210 l'equipaggio d'ogni galea munita al doppio del solito, com'ei dice in questo incontro, e avea già riferito della battaglia di Malta del 1284, si avrebbero da 26 le galee prese o affondate alle Formiche, come furon 12 senza dubbio quelle guadagnate a Malta, le cui genti montavano a un di presso a 2,600 uomini secondo il numero de' prigionieri e de' morti che assegna d'Esclot, anche aggiugnendovi tanti altri feriti quanti morti, e non contando que' delle 8 galee fuggite con Bonvin alla detta battaglia di Malta: 4º. che finalmente i vanti di Ruggier Loria riferiti dallo stesso d'Esclot e gli effetti della battaglia, mal s'accorderebbero con la facile vittoria di 44 galee e tanti altri legni contro 25 galee. Perciò io penso, che il testo del d'Esclot sia stato corrotto da qualche copista, e che si debba creder poco disuguale la forza delle due armate, forse di 40 galee nella nemica, e di poche più nella siciliana; stando al Neocastro il quale si mostra assai bene informato, e poteva esserlo. Ei sbaglia solamente, se non è questo un errore del copista o dell'editore della sua istoria, il giorno della battaglia, che dice avvenuta il 1 ottobre 1285. Credo senza dubbio che seguì nel primo o ne' primi di settembre, da' riscontri di d'Esclot, Speciale, e della ritirata de' Francesi, che fu conseguenza di questa battaglia, ed avvenne certamente in fin di settembre.
[60] Montaner, cap. 136.
[61] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 4.
Bart. de Neocastro, cap. 95.
La sconfitta de' cavalli francesi a Roses è riferita anco dal Montaner, cap. 136.
[62] D'Esclot, cap. 166.
[63] D'Esclot, cap. 165.
Nangis, loc, cit., pag. 546.
[64] Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.
[65] D'Esclot, cap. 167.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
[66] Fu questo dì nel 1285 la prima domenica appresso san Michele, nella quale incominciò secondo il d'Esclot il passaggio dell'oste francese.
[67] D'Esclot cap. 166 e 167.
Montaner, cap. 137, 138 e 139.
Bart. de Neocastro, cap. 97.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 5.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 105.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Nangis, loc. cit., pag. 548.
Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 807.
Ricobaldo Ferrarese, ibid., pag. 142.
Francesco Pipino, ibid., pag. 693.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 69.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
[68] D'Esclot, cap. 168.
Montaner, cap. 140, 141, 142.
Bart. de Neocastro, cap. 97, 100.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 71.
[69] Montaner, cap. 143.
[70] Montaner, cap. 144.
Bart. de Neocastro, cap. 97.
[71] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 6.
[72] Bart. de Neocastro, cap. 99.
[73] Diploma in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 296.
[74] Bart. de Neocastro, cap. 99; ed a cap. 112 replica questi patti la bocca dello stesso Carlo, quando liberato vedea per la prima volta il papa.
Montaner a cap. 115 narra con manifesto anacronismo questo passaggio di Carlo lo Zoppo in Catalogna.
Il Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 72, afferma che ci fossero strumenti pubblici de' preliminari di Cefalù.
In un breve d'Onorio IV, dato il 4 marzo 1287, presso Raynald, Ann. ecc., detto anno, §. 6, si legge che Carlo lo Zoppo, essendo prigione in Sicilia, avea trattato la cessione di quest'isola con le adiacenti e la diocesi di Reggio.
Veggasi anche Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, bolla di Niccolò IV, data a 15 marzo 1288.
[75] D'Esclot, cap. 168.
Montaner, cap. 145, 146.
Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 7.
Bart. de Neocastro, cap. 100.
Cronaca di Parma, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, ne' luoghi citali.
Bofarull, tom. II, pag. 245, non porta di Pietro altro testamento che quello di Port Fangos.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 71, il quale contro il detto del Montaner prova che Pietro non fe' altro testamento. Così dunque non die' alcuna ultima disposizione per lo reame di Sicilia, evitando un passo che l'avrebbe privato della assoluzione della Chiesa, e non lasciando men saldo sul trono di Sicilia Giacomo, fatto riconoscere già dal parlamento di Messina. In morte d'Alfonso senza figliuoli, sostituì al trono d'Aragona successivamente Giacomo, Federigo, e Pietro.
[76] Queste particolarità son cavate da tutti gli storici del tempo che inutile sarebbe citare. Alcune ne dobbiamo al Surita, lib. 4, cap. 71.
Quel che par sì membruto, e che s'accorda Cantando con colui dal maschio naso, D'ogni valor portò cinta la corda. . . . . . . . . . . . . . . . Tant'è del seme suo minor la pianta, Quanto, più che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta. DANTE,Purg., c. 7.
Carbonell, op. cit., fog. 70, scrive, che Pietro fu chiamato ancora il Francese: ma il vanto mi sembra troppo; e questo soprannome si è dimenticato a ragione.
[77] Purgatorio, canto 7.
[78] Questa particolarità è riferita da Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 19.
[79] Morì fuggendo e disfiorando 'l giglio.Purg., c. 7.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
INDICE.
CAPITOLO PRIMO.
Intendimento dell'opera. Viver civile del secolo XIII. Potenza della Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d'Italia e dei reami di Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II imperatore; e papa Innocenzo IV…. Pag. 1
CAPITOLO II.
Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa le provincedi terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia. Manfredi ristoral'autorità regia; e l'usurpa. A spegner lui, la corte di Roma pratica conInghilterra e con Francia. In fine concede i reami a Carlo conte di Angiò.Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto, e morto a Benevento. Carloprende il regno. Dall'anno 1251 al 1266…. 11
CAPITOLO III.
La vittoria di Carlo innalza parte guelfa in Italia. Risorgon pure iGhibellini, e chiaman Corradino all'impresa del regno. Sollevasi perlui la Sicilia. È sconfitto a Tagliacozzo, e dicollato a Napoli. Carlospegne la rivoluzione in terraferma con rigore, in Sicilia conimmanità. Eccidio d'Agosta. 1266-1268…. 32
CAPITOLO IV.
Re Carlo continua e trapassa gli abusi della dominazione sveva.Immunità ecclesiastiche. Novello baronaggio. Gravezze, e modi delriscuoterle. Demani, e bandite. Servigi, e soprusi che nascon daquelli. Amministrazione della giustizia, crimenlese, matrimoni,violenze alle donne. Violazione dei dritti politici. Riscontro dellecondizioni di Sicilia e di Puglia. 1266-1282…. 42
CAPITOLO V.
Relazioni straniere di Carlo I d'Angiò. Crociata e trattato di Tunisi.Carlo aspira all'impero greco. S'ingrandisce in Italia. È raffrenato daGregorio X. Disegni di Niccolò III e nimistà di lui con Carlo. Pretensionedi Pier d'Aragona al reame di Sicilia: supposte pratiche di lui per mezzodi Giovanni di Procida. Preparamenti di guerra in Aragona. Esaltazione diMartino IV. Armamenti di Carlo per l'Oriente. Sentimento nazionalemanifestato in Italia contro i Francesi. Novelli aggravî che soffrono iSiciliani: richiami, umori, disposizioni loro. 1266-1282…. 73
CAPITOLO VI.
Nuovi oltraggi de' Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica.Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardiche prende. Lettere de' Palermitani ai Messinesi, i quali seguon larivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si preparaalla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione.Marzo a giugno 1282…. 114
CAPITOLO VII.
Dolore e rabbia di Carlo all'annunzio della rivoluzione. Ordina lapassata in Sicilia. con l'esercito disposto alla guerra di Grecia. Bolladel papa contro i ribelli; risposta loro. e legazione del cardinalGherardo da Parma. Preparamenti di Carlo. e de' Messinesi. Rotta deinostri a Milazzo. Sbarco di re Carlo. Principî dell'assedio. Pratiche delcardinale entrato in Messina. Assalti minori. Stormo generale contro lacittà. Respinti i Francesi. Tentata la fede d'Alaimo capitano del popolodi Messina. Aprile a settembre 1282…. 146
CAPITOLO VIII.
Cagione della debolezza del governo preso nella rivoluzione. Si pensaa Pier d'Aragona. Sua partenza di Catalogna per Affrica; fattimilitari; ambasceria a Roma. Parlamento in Palermo. che sceglie Pietroa re. Com'ei guadagna gli animi de' suoi, e accetta la corona. Viene aTrapani. È gridato re in Palermo. Disposizioni per soccorrer Messina;oratori di Pietro a Carlo; ultimi fatti d'arme nell'assedio. Carlo senritrae con perdita e onta. Giugno a settembre 1282…. 172
CAPITOLO IX.
Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d'Alaimo. Fazioni navali.Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania. Trattato delduello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche in Calabria. Carloparte, lasciando le sue veci al principe di Salerno. Almugaveri. Vittoriedi Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co' figli in Sicilia.Principî di scontento tra i baroni siciliani e il re. Parlamento inMessina; ove Giacomo è chiamato alla successione, e ordinato il governo.Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier da Caltagirone. Partenza di Pietroper Catalogna. Ottobre 1282 a maggio 1283…. 200
CAPITOLO X.
Nuovi preparamenti degli Angioini contro la Sicilia. Capitoli delparlamento di Santo Martino nel regno di Napoli. Nuove intimazioni delpapa a re Pietro e a' Siciliani: bando della croce: sentenza dideposizione di Pietro dal reame d'Aragona, e altre pratiche. Apertaribellione di Gualtiero da Caltagirone. Vittoria dell'armata sicilianasu la provenzale, nel porto di Malta, il dì 8 giugno 1283, econseguenze di essa. Pratiche del papa a sturbare il duello. Andata dire Pietro in Catalogna e a Bordeaux; esito della scena del duello.Umori dei popoli del regno di Napoli. I nostri occupano alcune terrein val di Crati. Preparamenti di una nuova impresa sopra la Sicilia.Loria assalta con l'armata il regno di Napoli. Battaglia del golfo diNapoli il 5 giugno 1284, e presura di Carlo lo Zoppo. Sollevazionedella plebe in Napoli. Maggio 1283 a giugno 1284…. 230
CAPITOLO XI.
Carlo, fatta cruda vendetta in Napoli, s'appresta a un ultimo sforzocontro la Sicilia. Vano assedio di Reggio. Seconda ritirata di Carlo.e audaci fazioni de' nostri, che occupano molte terre in Calabria, valdi Crati e Basilicata. Impresa dell'isola delle Gerbe. Sospetti delgoverno aragonese, e ruina d'Alaimo. Casi dei prigioni in Messina.Morte di re Carlo e di papa Martino. Provvedimenti della corte diRoma. Capitoli di Onorio. Insidia di due frati messaggi suoi inSicilia. Giugno 1284-1285…. 272
CAPITOLO XII.
Opere della corte di Roma contro Pietro d'Aragona. Concessione di quelreame a Carlo di Valois. Protestazioni e pratiche di Pietro. Contese dilui con le corti di Aragona. Lega di que' baroni; grande esercito earmata che apparecchiansi in Francia. Invasione del Rossiglione. poidella Catalogna. Straordinaria fortezza e perseveranza di re Pietro;assedio di Girona. Morìa nel campo francese. Pietro ripiglia le offese.Fazioni di mare. Loria con l'armata siciliana riporta segnalata vittoriasu i Francesi. Ritirata di re Filippo, e sua morte. Carlo lo Zoppomandato prigione in Catalogna. Morte di Pietro. 1282-1285…. 308
FINE DELL'INDICE DEL PRIMO VOLUME.
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1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“theFoundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collectionof Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individualworks in the collection are in the public domain in the UnitedStates. If an individual work is unprotected by copyright law in theUnited States and you are located in the United States, we do notclaim a right to prevent you from copying, distributing, performing,displaying or creating derivative works based on the work as long asall references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hopethat you will support the Project Gutenberg™ mission of promotingfree access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™works in compliance with the terms of this agreement for keeping theProject Gutenberg™ name associated with the work. You can easilycomply with the terms of this agreement by keeping this work in thesame format with its attached full Project Gutenberg™ License whenyou share it without charge with others.
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1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™
Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution ofelectronic works in formats readable by the widest variety ofcomputers including obsolete, old, middle-aged and new computers. Itexists because of the efforts of hundreds of volunteers and donationsfrom people in all walks of life.
Volunteers and financial support to provide volunteers with theassistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’sgoals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection willremain freely available for generations to come. In 2001, the ProjectGutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secureand permanent future for Project Gutenberg™ and futuregenerations. To learn more about the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation and how your efforts and donations can help, seeSections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.
Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit501(c)(3) educational corporation organized under the laws of thestate of Mississippi and granted tax exempt status by the InternalRevenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identificationnumber is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation are tax deductible to the full extent permitted byU.S. federal laws and your state’s laws.
The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and upto date contact information can be found at the Foundation’s websiteand official page at www.gutenberg.org/contact
Section 4. Information about Donations to the Project GutenbergLiterary Archive Foundation
Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespreadpublic support and donations to carry out its mission ofincreasing the number of public domain and licensed works that can befreely distributed in machine-readable form accessible by the widestarray of equipment including outdated equipment. Many small donations($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exemptstatus with the IRS.
The Foundation is committed to complying with the laws regulatingcharities and charitable donations in all 50 states of the UnitedStates. Compliance requirements are not uniform and it takes aconsiderable effort, much paperwork and many fees to meet and keep upwith these requirements. We do not solicit donations in locationswhere we have not received written confirmation of compliance. To SENDDONATIONS or determine the status of compliance for any particular statevisitwww.gutenberg.org/donate.
While we cannot and do not solicit contributions from states where wehave not met the solicitation requirements, we know of no prohibitionagainst accepting unsolicited donations from donors in such states whoapproach us with offers to donate.
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works
Professor Michael S. Hart was the originator of the ProjectGutenberg™ concept of a library of electronic works that could befreely shared with anyone. For forty years, he produced anddistributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network ofvolunteer support.
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