*/ text-align: justify; /* or left?? */ text-indent: 1em; /* first-line indent */ }/* suppress indentation on paragraphs following heads */h2 + p, h3 + p, h4 + p { text-indent: 0 }/* tighter spacing for list item paragraphs */dd, li { margin-top: 0.25em; margin-bottom: 0; line-height: 1.2em; /* a bit closer than p's */ }/* ************************************************************************ * Head 2 is for chapter heads. * ********************************************************************** */h2 { /* text-align:center; left-aligned by default. */ margin-top: 3em; /* extra space above.. */ margin-bottom: 2em; /* ..and below */ clear: both; /* don't let sidebars overlap */ }/* ************************************************************************ * Head 3 is for main-topic heads. * ********************************************************************** */h3 { /* text-align:center; left-aligned by default. */ margin-top: 2em; /* extra space above but not below */ font-weight: normal; /* override default of bold */ clear: both; /* don't let sidebars overlap */ }/* ************************************************************************ * Styling the default HR and some special-purpose ones. * Default rule centered and clear of floats; sized for thought-breaks * ********************************************************************** */hr { width: 45%; /* adjust to ape original work */ margin-top: 1em; /* space above & below */ margin-bottom: 1em; margin-left: auto; /* these two ensure a.. */ margin-right: auto; /* ..centered rule */ clear: both; /* don't let sidebars & floats overlap rule */ }/* ************************************************************************ * Images and captions * ********************************************************************** */img { /* the default inline image has */ border: 1px solid black; /* a thin black line border.. */ padding: 6px; /* ..spaced a bit out from the graphic */ }
The Project Gutenberg eBook ofIl ritratto del diavolo
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States andmost other parts of the world at no cost and with almost no restrictionswhatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the termsof the Project Gutenberg License included with this ebook or onlineatwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States,you will have to check the laws of the country where you are locatedbefore using this eBook.
Title: Il ritratto del diavolo
Author: Anton Giulio Barrili
Release date: February 25, 2006 [eBook #17858]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RITRATTO DEL DIAVOLO ***
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net(This file was produced from images generously madeavailable by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano athttp://www.braidense.it/dire.html)
BIBLIOTECA AMENA
AD UNA LIRA IL VOLUME
15 Ottobre 1905. —N. 691— 15 Ottobre 1905.
ANTON GIULIO BARRILI
Il Ritratto del Diavolo
ROMANZO
MILANO—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO Via Palermo, 12, e Galleria Vittorio Emanuele, 64 e 66
ROMA: Libreria Internazionale, Corso Umberto I, 174. NAPOLI: via Roma (già Toledo), 34 TRIESTE: presso G. Schubart BOLOGNA: presso la Libr. Treves, di L. Beltrami, Angolo Via Farini. LIPSIA, BERLINO, VIENNA: presso F.A. Bruchhaus.
QUARTO MIGLIAIO
IL RITRATTO DEL DIAVOLO
I.
Lettori gentili, siete mai stati ad Arezzo? Se non ci siete mai stati,vi prego di andarci alla prima occasione, anche a costo di farlanascere, o d'inventare un pretesto. Vi assicuro io che miringrazierete del consiglio. La Val di Chiana è una tra le più amene ele più pittoresche "del bel paese là dove il sì suona". Anzi, undilettante di bisticci potrebbe sostenere che ilsì è nato proprioin Arezzo, poichè fu aretino quel monaco Guido, a cui siamo debitoridella scala armonica. Ma, a farlo apposta, Guido d'Arezzo non inventòche sei note, dimenticando per l'appunto di inventare la settima.Forse, ribatterà il dilettante di cui sopra, Guido non ha inventato ilsi, perchè questo era già nella lingua madre, o il brav'uomo nonvoleva farsi bello del sol di luglio. Comunque sia, andate in Val diChiana e smontate ad Arezzo. La città non è vasta, ma che importa? IlGuadagnoli, che era d'Arezzo, pensava forse alla sua terra, quandodiceva ad una graziosa dama:
Signora, se l'essere Piccina d'aspetto Vi sembra difetto, Difetto non è.
A buon conto, la città è piccola, ma ci ha le vie larghe, pulite e benselciate, il che non si trova mica da per tutto; possiede molte edinsigni opere d'arte, un prefetto, un vescovo, due buoni alberghi e uncaffè dei Costanti, che vi dà subito l'idea di una popolazioned'innamorati. La qual cosa non mi farebbe punto specie, poichè learetine son belle di molto, tanto da far dimenticare perfino i grandiuomini che son nati in Arezzo, da Mecenate, amico d'Augusto, aFrancesco Redi, amico del vino.
Frattanto, lettori gentili, venite in Arezzo con me. Non ci si va colvapore, ma a cavallo, perchè siamo cinque secoli addietro; si passauna delle quattro porte della città, che è cerchiata di mura per ungiro di tre miglia, e si scende alla bottega di mastro Jacopo daCasentino.
Dico bottega, per andare coi tempi; ma oggi si dovrebbe dire studio,perchè mastro Jacopo da Casentino era un pittore, e meritamenteannoverato tra i migliori del suo tempo. Era nato a Prato vecchio,nella famiglia di messer Cristoforo Landino, e il nome patronimico loaveva avuto da un frate di Casentino, guardiano al Sasso della Vernia,che l'aveva preso a ben volere, e, vedendo la sua inclinazioneall'arte del dipingere, lo aveva acconciato con Taddeo Gaddi, neltempo che questo valoroso scolaro di Giotto era a lavorare nel suoconvento.
Sotto la scuola di mastro Taddeo, il giovinetto Jacopo avevaprofittato grandemente, sì nel disegno, sì nell'arte del colorire.Erano quelli i bei tempi della pittura. Giotto, con nuova maniera,sciogliendo la figura umana dalle rigidezze dell'arte bisantina, avevaadditata una strada su cui tutti i giovani si gittavano animosi,sperando di avanzare in eccellenza il maestro. E Jacopo, andato aFirenze con Taddeo Gaddi, non fece torto alle speranze che questiaveva concepite di lui, dipingendo tra l'altre cose il tabernacolodella Madonna di Mercato Vecchio e le vòlte d'Orsanmichele, che avevaad essere il granaio del Comune.
Rimasto alcuni anni col Gaddi, come a provar le sue forze, e persuasooramai di poter volare da sè, Jacopo era tornato nel suo Casentino, ein Pratovecchio, in Poppi e in altri luoghi della valle medesima,aveva dato mano a molte opere di cui s'era vantaggiata la sua fama,non così la sua borsa. Dopo di che, adescato da più ragguardevoliofferte, si era ridotto a stabile dimora in Arezzo, che allora sigovernava da sè medesima, col consiglio di sessanta cittadini dei piùricchi e più onorati, alla cura dei quali era commesso tutto ilreggimento.
Mastro Jacopo non era solamente pittore, ma pizzicava eziandiod'architetto. E perchè in Arezzo scarseggiavano le acque, fin daltempo dei Goti, che avevano guasti i condotti onde l'acqua scendevadal poggio di Pori in città, fu commesso a mastro Jacopo diricondurvela. Il che egli fece a sua lode, portandola per nuovi canalifin sotto le mura, ad una fonte detta allora dei Guinicelli, e poscia,corrottamente, dei Veneziani.
Ma questo sono notizie che importano poco al soggetto. Passiamo,dunque, senza fermarci troppo sull'architettura di mastro Jacopo, eraccontiamo ai lettori che da molti anni il degno artefice aveva messosu famiglia, e viveva felice, come può esserlo un uomo in questa valledi lagrime, che non è tutta una Val di Chiana, pur troppo. Intanto,seminava dei suoi affreschi tutte le chiese di Arezzo, facendo provadi una maniera e dì una pratica maravigliosa.
Un'altra fortuna era toccata a mastro Jacopo; quella io vo' dire dimostrare ad un altro, e con frutto, i principii di quell'arte che alui aveva insegnata il Gaddi. Ai giorni nostri i pittori non fanno piùscuola, o non si rodono di avere dei buoni discepoli, come una volta.Ogni artista lavora per sè, gelosamente tappato nel suo studio, quasitemendo che altri gli rubi il tocco, o l'impasto dei colori. Ma inquei tempi di vita rigogliosa per l'arte, era una festa aver gentedattorno, e un pittore non si teneva per maestro, se non aveva unamezza dozzina di scolari, uno dei quali, uno almeno, di più facileingegno e di più pronta volontà, seguitasse la maniera, serbasse letradizioni del principale e facesse onore alla scuola.
Di questi scolari, o garzoni, o fattori (come si dicevano in queltempo che lo studio d'un pittore si chiamava bottega) mastro Jacopo neaveva parecchi; ma uno solo meritava il nome di discepolo, e sidomandava Spinello, figlio ad un certo Luca Spinelli, fiorentino, cheera andato forse vent'anni addietro ad abitare in Arezzo, quando, unavolta fra l'altre erano stati discacciati da Firenze i Ghibellini.Arezzo, se nol sapete, era ghibellina nell'anima.
Spinello Spinelli era un bel giovinottino, nato pittore come Giotto, einclinato fin da fanciullo ad operare nel disegno tali miracoli, chenon si sarebbero creduti possibili senza la disciplina di ottimimaestri. Jacopo di Casentino, veduti i suoi tocchi in penna, lo avevavoluto a bottega. E Spinello non si era fatto pregare; che anzi,moriva dalla voglia di andarci, specie dopo che aveva veduta eammirata nel Duomo vecchio la più bell'opera di mastro Jacopo.
Ora, la più bell'opera di mastro Jacopo, che Spinello potesse ammirarenel Duomo vecchio, non era già il ritratto di papa Innocenzo VI, comequalcuno potrebbe credere a tutta prima. La più bell'opera di mastroJacopo era madonna Fiordalisa, a lui nata in Firenze, quando eglistava laggiù, ai servigi del Gaddi.
Dico Fiordalisa, per non ingenerar confusione. Ma i toscani d'alloranon sentivano nessuna ripugnanza a dire madonna Fiordaliso, in quellastessa guisa che non ne sentivano a dire madonna Fiore, madonnaBelcolore, e via di questo passo, concordando un nome mascolino con unnome femminile. Del resto, la grazia e l'eleganza femminile c'eranotutte, nel viso di madonna, spiravano da ogni parte della sua bellapersona, e le desinenze non ci avevano nulla a vedere.
Fiordalisa, nata a Firenze, era in Arezzo da pochi mesi; ma fin daiprimi giorni del suo arrivo colà, era stata veduta, notata ericonosciuta come un miracolo di bellezza. È facile che si nasconda ungrand'uomo, in mezzo alla moltitudine, e che rimanga ignoto, in unacittà nuova per lui; ma non c'è caso che si nasconda egualmente unabella ragazza. Il primo che l'ha vista, poniamo anche di sbieco, nepassa parola ad un altro, e questi ad un terzo, anche prima di averlaintravveduta lui; donde avviene che fin dal primo giorno che è stataannunziata la selvaggina, un centinaio di bracchi da punta sienosguinzagliati alla macchia.
Ora, i giovinotti d'Arezzo non s'erano mica indugiati per istrada;avevano scoperto subito la bella fiorentina, l'avevano scovata,levata, come i suoi concittadini avrebbero levato il grillo dal buco,la mattina dell'Ascensione. Fiordalisa non esciva di casa che i dì difesta, per andare nel Duomo vecchio agli uffizi divini. Ma tantobastava perchè la vedessero tutti, e perchè ci fossero di grancapannelli sul sagrato del Duomo, quando ella doveva passare.
Spinello Spinelli l'aveva vista a quel modo, come tutti gli altri. Eraun giovinotto allegro, che portava il cervello sopra la berretta. Mada quel giorno che vide madonna Fiordalisa, incominciò a pensare conqualche rammarico alla sua condizione, che non gli permetteva dipassare avanti a tutti i suoi giovani rivali. Vi ho già detto che erafiglio d'un fuoruscito fiorentino. Luca Spinelli esercitava un'arte, aFirenze, e ci aveva anche quattro sassi al sole; ma l'arte era nulla,senza clientela, e di quei quattro sassi gliene avevano fatto vento iGuelfi, dopo averlo sbandito dalla città. Non dissimilmente avrebberoadoperato i Ghibellini, se a loro fosse toccato di poter bandire iGuelfi; non c'era dunque da gridare all'ingiustizia. A quei tempi siusava così. Oggi, la Dio grazia, abbiamo un pochettino di progresso, ecerte cose non si fanno più; ci si restringe a desiderarle.
Ma se Spinello non era ricco, aveva tuttavia una gran forza per sè;era giovine e innamorato morto. Madonna Fiordalisa era la figlia d'unpittore. Vedete come il destino aveva disposte le fila! Anche lui eraun pittore, o almeno poteva diventarlo; poichè l'inclinazione c'era,ed anche una certa pratica naturale. Fino allora, egli aveva disegnatoper capriccio: da quel giorno incominciò a disegnare per passione. Sifa così bene quel che si fa, quando si pensa ad una bella donna! Sopratutto, poi, quando si capisce che é l'unica via per giungere a lei!
Mastro Jacopo lavorava allora nella chiesa di San Domenico, e piùpropriamente in una parte della chiesa, cioè a dire nella cappella diSan Cristofano, ritraendovi al naturale il beato Masuolo, profetaminimo, il quale, ne' suoi tempi, predisse molte disavventure agliAretini. L'opera gli era commessa da un mercante de' Fei, che avevamolto a lodarsi del Santo, per esserne stato liberato dal carcere. Emastro Jacopo aveva per l'appunto rappresentato il Santo nell'atto difare quel miracolo, che oggi si farebbe con uno sbruffo ai guardiani,o con un buco nel muro.
Spinello, come potete argomentare, andò in San Domenico, incominciò apiantarsi davanti alla cappella di San Cristofano e diventò un grandeammiratore dei miracoli del beato Masuolo, o almeno di quel tanto chese ne poteva scorgere attraverso le commessure del tavolato. MastroJacopo non tardò ad avvedersi di quella curiosità e chiese algiovanotto se per caso volesse vedere l'affresco prima del mercante,che gli aveva data la commissione.
—Maisì, messere;—rispose Spinello, facendosi un coraggio pari allagravità del caso.—Il mercante vi pagherà l'opera vostra una voltasola; io l'ammirerò quante volte vi piacerà di lasciarmela vedereprima d'ogni altro.
—Ecco una ragione che mi capacita;—disse mastro Jacopo, facendobocca da ridere.—Ma ti piacerà poi da senno, il mio beato Masuolo?Vieni sul ponte e sia come ti pare.—
Spinello non se lo fece dire due volte; salì sul ponte, osservò lacomposizione e rimase a bocca aperta, com'era naturale che facesse, eper la bontà intrinseca del dipinto e per il desiderio che aveva dientrare nella grazia dell'artefice.
—Per caso,—gli disse mastro Jacopo a un tratto;—anche tu sarestipittore.
—Mainò, messere;—rispose Spinello, chinando umilmente la fronte;—masarei felice di diventarlo, sotto la vostra disciplina.
—Perchè no? Vediamo anzi tutto che cosa sai fare. Un O, come Giotto? Una linea come Apelle?
—Ohimè, maestro, assai meno. Disegno alla meglio, o alla peggio, comevi parrà meglio, senza ombra di studio.
—Bene! To' i pennelli e la sinopia;—gli disse mastro Jacopo.—Vailà, al muro, dove non è ancora stata messa la calce fresca, e segna uncontorno.—
Spinello non domandava altro. Ma, per sicuro che fosse di non fartroppo male, non poteva difendersi da un certo rimescolamento, dovendooperare così sotto gli occhi del maestro. Se gli fosse riuscito di farbene alla prima, che fortuna! Basta, il giovinotto pensò a madonnaFiordalisa, afferrò il pennello, lo intinse nel vaso e si miseall'opera, tratteggiando sulla parete una mezza figura di SanGiovanni. L'aveva attaccata alla brava e la tirò via alla lesta, pernon aversi a pentire, e perchè il pennello non avesse a tremargli frale dita.
Mastro Jacopo stette zitto, sulle prime, a vederlo lavorare: poi, comegli balzò davanti agli occhi la figura abbozzata, borbottò un cennod'approvazione.
Spinello si era dimostrato valente ed accorto. Valente, perchè il suodisegno era buonino; accorto, perchè quella mezza figura era una copiafatta a memoria, d'un San Giovanni che mastro Jacopo aveva dipintoqualche mese innanzi in San Bartolomeo, nella cappella di Santa Mariadella Neve.
—Ah, ah!—disse mastro Jacopo, a cui si spianavano in fronte lerughe, accumulate pur dianzi nella arcigna severità del suoatteggiamento di giudice.—Tu studi l'arte nuova, giovinotto.
—Maisì, maestro. Ed è la buona, mi pare.
—Eh, sì e no. Bisognerebbe, ad esempio, saper scegliere un po' megliotra nuovi e nuovi. Giotto di Bondone è un gran maestro, e Taddeo Gaddigli si stringe ai panni. Ti consiglio d'imitare questi due. L'altro,da cui t'è piaciuto di copiare, è un artista da dozzina, il quale nonsi raccomanda che per un poco di buona volontà.
—Voi gli siete nemico, maestro;—rispose argutamente il giovine.—Lo si vede dalle vostre parole. Ma io lo difenderò anche contro di voi. Per esempio, quella sua storia di San Martino, nella cappella del Vescovado….
—Ahimè, ragazzo, ahimè!—interruppe mastro Jacopo con un sorriso chefaceva contro alla mestizia della interiezione.—Bisogna essere statia Firenze e aver visto ilConvito di Erode, che Giotto ha dipintonella cappella dei Peruzzi di Santa Croce; bisogna essere stati nellacappella del Palagio del Podestà, e aver visto quel Dante Alighieri,improntato di tanta dolcezza, che pare una cosa di cielo! Ma già, tunon vuoi intender nulla, ragazzo mio. Come ti chiami?
—Spinello, di Luca Spinelli, messere.
—Ah, conosco tuo padre di nome, ed anche di veduta. È un uomo perbene. E tu dunque, vuoi diventar pittore? Vediamo, che cos'hai fattofinora?
—Poca cosa, maestro. Degli schizzi, dei tocchi in penna….
—Dal vero?
—Maisì, maestro, dal vero, ed anche ricordando le cose vedute.
—Già, come questo San Giovanni;—ripigliò mastro Jacopo, crollando lalesta—-Non copiar che dal vero, sai; oppure da Giotto, poichè nonvide meglio di lui chi vide il vero. Del resto, portami i tuoi occhiin penna. Li vedrò volentieri.—
Mastro Jacopo, intanto, scendeva dal ponte per ritornarsene a casa. Spinello Spinelli domandò in grazia di poterlo compagnare un tratto. Tanto, era tutta strada per lui, essendo la sua abitazione da quella medesima parte della città.
Come furono in via dell'Orto, poco lunge dal Duomo, il giovane disse amastro Jacopo:
—Ecco l'uscio di casa mia. Se permettete, maestro, dò un salto finlassù, prendo i miei disegni, che avete mostrato desiderio di vedere,e vi raggiungo subito.
—Fa come ti piace;—rispose mastro Jacopo.
Spinello Spinelli andò via lesto come un capriolo, anzi come unoscoiattolo; fece una manata delle sue carte, e, scendendo gli scalinia quattro a quattro, ritornò sulla via. Mastro Jacopo quando egli loraggiunse, non era ancora giunto all'angolo del Duomo.
Il vecchio pittore diede una rapida occhiata a tutti quei fogli. Eranostudi dal vero, o reminiscenze, motivi buttati là, con un fare tral'accorto e l'ingenuo, che indicava una vera e fortunata indoled'artista. Spesso non erano che quattro tocchi; ma in quei quattrotocchi si vedeva la natura colta sul vivo.
Mentre egli così sfogliava i quaderni del giovine seguitando la suastrada verso casa, gli venne veduta tra l'altre cose una figura didonna. Era a mala pena accennata, ma il pittore non durò fatica ariconoscere d'onde Spinello avesse tratto il suo tipo. E così, disbieco, mentre guardava la figura, gittò un'occhiata al suo giovinecompagno.
Spinello non vide lo sguardo del pittore, ma lo sentì, e si fece rossoin volto. Maledetta furia! O non avrebbe potuto egli aspettare unamezz'ora, e portare egli i disegni a casa del maestro? Per la smaniadi far presto, come se temesse di perdere l'occasione, aveva presotutto alla rinfusa, e quei quattro segni, in cui egli aveva fissato ilricordo di madonna Fiordalisa, cadevano contro sua voglia sotto gliocchi del babbo.
—In verità,—diss'egli allora, tanto per isviar l'attenzione delpittore,—son povere cose e certamente indegne di voi. Ma, che volete?non so far altro.
—Che! che!—rispose mastro Jacopo.—La modestia è una bella cosa,ragazzo mio; ma tu ora fai torto alla natura, che ha voluto indicartimolto chiaramente la tua vocazione. Ho caro di averti conosciuto.Cimabue si tenne fortunato di essersi imbattuto in un pastorello chedisegnava le pecore del suo armento sui lastroni di Vespignano. Ioavrò in quella vece posta la mano su d'un artista formato.—
E dentro di sè, mastro Jacopo, come rispondendo ad una osservazionedel suo spirito famigliare diceva:
—Dopo tutto che male c'è? Se un artista simile diventasse mio genero,dovrei averne dicatti. Sarebbe il miglior modo per legarlo alla miascuola e farmene un aiuto.
Indi, ad alta voce, mastro Jacopo proseguì:
—Vieni a bottega quando ti piace, anche oggi, se tuo padre sicontenta, io mi contento e godo. Non metto che una condizione adaverti con me.
—Quale? Io l'accetto fin d'ora;—disse Spinello, a cui brillavano gliocchi dalla contentezza.
—Di tenere i tuoi tocchi in penna per me. Ci serviranno ad entrambiper ricordo di ciò che eri, quando sei entrato a bottega da me.—
Spinello non capiva in sè dalla gioia. Un'ora dopo quellaconversazione, egli tornava dal pittore in compagnia dì suo padre.Luca Spinelli e Jacopo di Casentino s'intesero facilmente, e ilgiovine Spinello rimase a' servigi del maestro.
Quella sera, madonna Fiordalisa fu vista da lui nella luce modestadelle pareti domestiche. Dio santo, com'era bella! Due cotanti piùbella delle altre volte, quando egli la vedeva in Duomo, agli uffizidivini, con gli occhi bassi e la testa e il collo gelosamentecustoditi da un velo di seta bianca, assai largo, che le scendeva giùper le spalle.
Vestita così semplicemente, d'una veste di ferrandina a larghe pieghe,le quali scendevano in bei partiti dal fianco, senza fronzoli chedissimulassero le curve gentili del busto con le maniche lisce e laradice del collo a mala pena coperta da un baveretto bianco, madonnaFiordalisa era un miracolo di eleganza e di grazia. La testa,incoronata di capegli castagni, e il profilo del volto rosato,mostravano una delicatezza di contorni e una soavità di espressione,che a lui veramente parve di non aver vedute prima d'allora.
Fiordalisa riconobbe in quel giovine uno dei suoi cento curiosiammiratori del Duomo. Egli, per altro, era il più riguardoso di tutti.Come mai aveva egli potuto essere il più ardito, tanto da penetrareper il primo in sua casa?
Mentre questo pensiero si affacciava alla sua mente, mastro Jacopo ledisse:
—Ecco un nuovo scolaro. Sarà il primo di tutti, se continua come hacominciato, e sopra tutto se non mette il capo alle frascheria dellagioventù.—
A quella parole di suo padre, Fiordalisa, che si era posta daprincipio in sul grave, divenne tosto più umana e salutò cortesementeil nuovo venuto.
Egli, del resto, si contenne da uomo di garbo. Non aveva occhi che permastro Jacopo e pendeva dalle sue labbra. Chi vuol la figlia,accarezzi la mamma, dice il proverbio. Ora la figlia di mastro Jacopoda lungo tempo aveva perduta la mamma, non restava a Spinello che diaccarezzare il babbo. E i babbi s'accarezzano, stando a sentirli conattenzione, senz'altra noia che di dover dir loro ad ogni tanto:etcum spiritu tuo.
Affrettiamoci a dire che Spinello non si annoiava punto inquell'ufficio modesto. Jacopo era un buon maestro e Spinello sentivauna gran voglia d'imparare. Finalmente se aveva l'aria di badar poco amadonna, questa non doveva apporglielo a negligenza. Si dicono tantecose, tacendo! Egli a buon conto, non ne diceva che una. Quando gliaccadeva di muover la testa e di volgersi a lei, diventava del colordella fiamma.
Ora una donna, quando vede di simili cose, non ha mestieri di lunghidiscorsi, nè di lunghe contemplazioni. L'essenziale è che conosca ilvalore delle tinte. Ma questo, come non conoscerlo, quando si ha perbabbo un pittore?
II
L'entrata di Spinello Spinelli ai servigi di mastro Jacopo daCasentino fece chiasso nella scuola. Egli era caduto là come un sassoin una pozzanghera, facendo schizzare acqua e fango d'ogni parte.Sicuro, anche fango. Certe acque non appaiono pulite se non quando efino a tanto son chete. Provatevi a rimestarle!
Nella bottega di mastro Jacopo erano cinque garzoni. Di quei cinque,soli due potevano passare, ed essere considerati come speranze perl'arte. Gli altri non promettevano nulla, e mastro Jacopo li adoperavaa mesticare i colori, a macinare le terrene sulla pietra, a far leimbasciate della bottega, a portargli la cartella dei disegni e lascatola dei pennelli, quando andava a lavorare fuori via.
Quei cinque lasagnoni, com'egli spesso usava chiamarli, condimestichezza punto piacevole a loro, si domandavano, Tuccio di Credi,Lippo del Calzaiuolo, Parri della Quercia, Cristoforo Granacci eAngiolino Lorenzetti, soprannominato il Chiacchiera. Nessuno dicostoro salì in eccellenza nell'arte del dipingere, quantunque due,come vi ho detto, lo avrebbero potuto, cioè Parri della Quercia eTuccio di Credi. Ma il povero Parri della Quercia morì giovane, nonlasciando raccomandato il suo nome che ad una tavola di SantaMargherita, nella chiesa cattedrale di Cortona; e Tuccio di Credi….Quanto a Tuccio di Credi, egli avrebbe fatto opera più degna, morendolui, in luogo di Parri della Quercia.
L'apparizione di Spinello Spinelli nella bottega di mastro Jacopoaveva destato un vero baccano in mezzo a quei cinque fattori. In primoluogo perchè nessuno sapeva che quel giovinottino elegante fosse unpittore. Per esser riconosciuti pittori, a quel tempo, bisognavaessere entrati fanciulli ai servizi di un vecchio artista, avermacinata per qualche anno la terra di Siena, aver fatto cuocere iltravertino, di cui si faceva il bianco per gli affreschi, e portatamagari la zuppa al principale, quando lavorava sui ponti, e nonismetteva per tutta la giornata, temendo giustamente che gli avesse aseccare l'intonaco.
Un'altra cagione di meraviglia tra i cinque scolari di mastro Jacopoera questa, che il nuovo venuto si presentava con un quaderno ditocchi in penna, che diceva di aver fatti lui, senza preparazione distudi. Questo, a dir vero, non significava nulla. Ognuno, a cuipiaccia, può imbrattare un foglio di carta e credere d'aver fatto undisegno. Ma il guaio era che mastro Jacopo aveva lodati i disegni delnuovo venuto, proponendoli come esempio ai vecchi della scuola.
—Ecco qua,—aveva detto, mettendo il rotolo dei fogli sotto il nasodei suoi fattori,—lasagnoni, imparate. Quando vi dico che bisognacopiare dal vero! Voi altri, invece, perdete il vostro tempo agrattarvi le ginocchia. Si intende, quando non giuocate a zara.—
Rimasti soli davanti ai disegni di quel famoso artista che era piovutodalle nuvole, i cinque scolari di mastro Jacopo avevano sfogliato ilquaderno e guardato curiosamente ciò che formava l'argomento delle suemeraviglie. Si capisce alla bella prima che avevano trovato tuttomediocre. Non c'era franchezza di tocco; i contorni erano duri; gliatteggiamenti goffi; le pieghe così trite, che peggio non avrebbefatto Cimabue nei suoi primi tentativi. Che cosa aveva inteso ilmaestro, proponendo loro ad esempio gli sgorbi di quel principiante?Di canzonarli, forse?
In quella che stavano guardando e criticando alla libera, uno di essiscappò fuori con un grido di stupore.
—Che cos'ha veduto, il Chiacchiera?—domandò Tuccio di Credi.—Forseil basilisco?
—In fede mia,—ripigliò il Chiacchiera,—questo non lo ha veduto dicerto il maestro.
—Che cosa? Il basilisco?—disse ridendo il Granacci.
—Questo ritratto;—rispose il Chiacchiera, senza badare allo scherzodei compagni.—Perchè, infatti, è un ritratto. Vedete qua!—
E levato dal quaderno il foglio che aveva destata la sua attenzione,lo pose sotto gli occhi della brigata.
C'erano parecchie figure disegnate su quel foglio; ma il Chiacchierane indicava una tra tante, che si vedeva nel mezzo, tirata giù allabrava, come una impressione momentanea. Avete già indovinato che erauna figura di donna. Con due tratti di penna era segnata la veste,lunga, a larghe pieghe, accennate, anzichè delineate, da qualchezaffardata d'inchiostro. Le braccia, che escivano di sotto ai lembifrastagliati del manto, si raccoglievano sul taglio della vita, e lamano destra, sovrapposta all'avambraccio sinistro, sosteneva unpiccolo uffiziuolo. Sulla testa era gittato un velo che scendeva finoagli òmeri e si confondeva col manto. I contorni della figura e ipochi segni con cui era accennato il viso, apparivan di persona viva,colta da una mano maestra, sull'atto di recarsi alla chiesa.
—Eh, che vi pare?—continuò il Chiacchiera.—Non la riconoscete?
—La figlia del maestro!—gridò Lippo del Calzaiuolo.
—To', è vero;—soggiunse Cristofano Granacci.—È madonna Fiordalisa.
—Infatti,—disse a sua volta Parri della Quercia,—è proprio lei, ouna che le somiglia di molto. Ma perchè dicevi tu dianzi che ilmaestro non ha veduto questo disegno! È impossibile che non abbiariconosciuta la sua figliuola.
—Eh,—rispose il Chiacchiera, stringendosi nelle spalle,—in questocaso bisognerà dire che si è innamorato dello scolaro in grazia delritratto che questi ha fatto della sua Fiordalisa. Già, l'ama tanto!
—Se non c'è bisogno d'altro, per entrar nelle grazie di mastroJacopo,—esclamò Cristofano Granacci,—glielo facciamo tutti, ilritratto a madonna Fiordalisa.
—Credete che sia così facile?—entrò a dire Parri della Quercia.
—Perchè no? Che cosa c'è egli di tanto difficile?—ribattè il Granacci.
—Tutto;—rispose Parri.—-Non avete osservato come ella si muta adogni momento?
—Già,—disse il Chiacchiera,—donna e luna, oggi serena e domanbruna.
—Non parlo dell'umore, parlo del tipo;—ripigliò Parri dellaQuercia.—È un tipo assai delicato, con una certa espressione, che nonè sempre la stessa a tutte le ore del giorno.
—È vero, quel che dice Parri;—notò Lippo del Calzaiuolo.—Ci son de'momenti che non sembra più lei.—
Tuccio di Credi torse le labbra e diede un'alzata di spalle.
—Baie!—diss'egli—-I contorni non si mutano mica così facilmente! Sarà quistione delle parti mobili, le labbra e gli occhi.
—Già, le labbra e gli occhi;—rispose Parri della Quercia.—E ti parpoco! Ora, se un moto delle labbra, o un diverso grado di forza nellosguardo, basta a cangiarti l'espressione del volto, mi pare che laimmobilità dei contorni non ci abbia nulla a vedere. Piuttosto è dachiarire quale delle due parti mobili ha maggiore virtù nelcangiamento del tipo.
—Dev'esser la bocca;—osservò Lippo del Calzaiuolo.
—Infatti,—disse il Chiacchiera,—quando madonna Fiordalisa sorride,vi apparisce due tanti più bella.
—Non si tratta di sapere quando apparisca più bella, poichè lo èsempre moltissimo;—replicò Parri della Quercia.—Io ho detto soltantoche ella vi muta espressione, e sembra avere un'altr'aria da quella diprima. È sempre lei, per chi la conosce, e tuttavia è un'altrabellezza. Il pittore che la ritraesse in uno di quei punti, crederebbedi non averla resa con verità, se la vedesse in un altro.
—Pure,—notò il Chiacchiera,—questo Spinello, che non è un pittore,e neanche un principiante, con due tratti di penna ce l'ha fattaravvisare alla prima.
—Bella forza!—esclamò Tuccio di Credi.—È una somiglianza ottenutanel complesso; buon per lui che non è andato ai particolari. La suaparsimonia gli ha fatto buon giuoco. Vedete qua; con due tratti dipenna vi ha data un'aria di madonna Fiordalisa. Se ne avesse aggiuntialtri due, gli sarebbe andato a male ogni cosa.
—Che diamine gli è saltato, di fare il ritratto alla figlia delmaestro?—chiese Cristofano Granacci.
—Oh bella!—esclamò il Chiacchiera.—E stenti tanto a capirla? Nesarà innamorato. È così naturale che un giovanotto s'innamori d'unabella ragazza! Domandane a Tuccio di Credi: egli ti risponderà….
—Che sei uno scimunito;—interruppe Tuccio di Credi, dando al Chiacchiera una guardataccia, che pareva volesse mangiarselo.
Ma il Chiacchiera non si spaventava per così poco.
—Oh, ecco,—gridò egli, ghignando,—ecco una riprova di ciò che hadetto Parri poc'anzi, sulla varietà delle espressioni. Guardate Tucciodi Credi, se non sembra tutt'altri. O Tuccio, chi ti facesse ilritratto in questo momento, in fede mia, non ti renderebbe unservizio.—
Tuccio di Credi, veduto così sottosopra, cioè computando l'una cosaper l'altra, poteva anche passare per un bel giovinotto. Lacarnagione, è vero, traeva all'olivastro; ma non è detto chel'olivastro sia un brutto colore, e ci son molti a cui simili impastidi giallo e di verde non dispiacciono punto. E poi, s'accordavano benecon quella tinta scura i capegli e le sopracciglia nerissime; di guisache sotto quella vigoria di toni fuligginosi, l'olivastro delle carnipoteva acquistare l'apparenza di un amabile pallore. Ma anche Tucciodi Credi aveva un tipo mobilissimo, che giustificava pienamentel'osservazione beffarda del Chiacchiera. Incominciamo a dire che nelsuo volto si notavano due parti distinte, la superiore virilmentemodellata, a contorni risentiti e gagliardi, l'inferiore timidamentecondotta, quasi appena accennata. Si sarebbe detto che la natura,facendo quella testa, si fosse annoiata a metà dell'opera sua. Ilnaso, ad esempio, non era in proporzione con l'ampiezza della fronte;le labbra sottili e smorte mancavano di fermezza; il mento sfuggivasenz'altro. In quella faccia, fluita di mala voglia, c'era alcun chedi stonato, che i pochi peli vani delle labbra e del mento nonbastavano a dissimulare, e che la barba più folta non avrebbe potutocorreggere. Anche gli occhi, neri, ma senza luce, dipinti di nerofumo,lasciavano qualche cosa a desiderare. Per solito, li vedevate poco;sfuggivano ad ogni esame. Quando Tuccio di Credi parlava con voi,quegli occhi guardavano sempre in basso e da un lato; poi, tutto ad untratto, vi passavano dall'altro, senza che li aveste veduti fermarsisui legacci del vostro giustacore. Osservando il rapido trapasso diquei due lumi spenti, pensavate involontariamente alla lucciola, chenel fosco della notte vi brilla trasvolando da destra, indi viapparisce a sinistra, dopo esservi passata davanti alla chetichella,rattenendo il palpito della sua luce fosforica.
Mastro Jacopo, una volta aveva detto di lui:
—Tuccio di Credi non sarà mai un valente disegnatore. Un uomo che nonguarda mai davanti a sè, può egli vedere quel che si faccia?
Alle beffe dal Chiacchiera. Tuccio di Credi aveva aggrottate le cigliae si era morso le labbra. Indi, facendo spallucce, aveva risposto:
—Che grullerie! Basta che il primo venuto dica una cosa per chiasso,perchè tu ci fabbrichi subito un ragionamento. Già, non l'hannobattezzato il Chiacchiera per nulla. Oggi tu hai visto l'innamorato inuna figurina di donna, e questo è anche peggio della trovata di Parridella Quercia. O che? Non si può egli vedere una bella ragazza pervia, e sentire il desiderio di segnarne il profilo sulla carta, comesi segna il profilo d'un frate che va alla cerca, o d'un cane ches'accosta al muro? L'uomo che vuole avanzare nell'eccellenzadell'arte, studia tutto quello che vede. E se gli capita di vederequalche bella figura di donna, vuoi tu che chiuda gli occhi e dica:Domine salvum fac, come un santo eremita, esposto alle tentazionidel diavolo?
—Se almeno ce ne fossero due, qua dentro, di donne!—ribattè ilChiacchiera, che non voleva darsi per vinto.—Ma, a farlo a posta, nonc'è che questa, non c'è.
—Non prova nulla.
—Prova moltissimo. Che non ci sian più belle donne, in Arezzo? O cheabbiano presa l'abitudine di tapparsi in casa, quando passa il Giottoredivivo?
—Ah sì, Giotto ridivivo! Ben detto!—esclamò Lippo delCalzaiuolo.—Se ti sente mastro Jacopo, ti abbraccia e ti bacia sullegote.
—Chi parla di mastro Jacopo?—gridò una voce, che mise lo scompiglionella brigata.—E chi ho da baciar sulle gote, se è lecito?
—Maestro!—dissero i garzoni, tirandosi indietro mogi e confusi.
Il maestro si avanzò in mezzo al crocchio e vide il quaderno deidisegni di Spinello Spinelli.
—Ah!—riprese egli, con accento mutato.—Studiavate? Ammiravate anchevoi quel che sa fare questo bravo giovinetto? Avanti, su, si facciaavanti quello che ho da baciar sulle gote, e mi dica cosa pensa diSpinello Spinelli.
—Maestro,—scappò fuori il Chiacchiera,—io non so se mi baceretesulle gote, o se piuttosto non mi allungherete una pedata; ma dico,con vostra licenza, che questo Spinello ha voluto fare un ritratto, inquesto piccolo schizzo.
—Orbene,—disse mastro Jacopo, rabbruscandosi;—e se avesse propriovoluto fare un ritratto, che ci vedreste di male voi altri?
—Niente, Dio guardi; niente nell'intenzione. Ma quanto all'esito deltentativo…. Vedete qua Tuccio di Credi, il quale sostiene che lasomiglianza è tutta dovuta alla parsimonia dei tratti. Il vostroprotetto ha trovata l'aria della figura, e nient'altro. Se dovessefare un ritratto, si troverebbe molto impicciato.—
Mastro Jacopo crollò sdegnosamente le spalle.
—Eh via, lasagnoni! Quello è un giovane che, se vorrà fare unritratto, anche da pittore novellino qual è, lo farà, in barba a tuttivoi, quando avrete messo su barba.
—Parri della Quercia non è di questa opinione.
—Ah, Parri?… sentiamo qual è l'opinione di messer Parri della Quercia.—
Parri, così tirato in ballo dalla imprudenza del Chiacchiera, si fecemodestamente a rispondere:
—Io, veramente, maestro, non intendevo di togliere i meriti al vostronuovo scolaro. Non lo conosco ancora di persona, ma lo stimo già assaiper questi tocchi di penna, che voi ci avete proposti ad esempio.Dicevo solamente che madonna Fiordalisa….—
Jacopo di Casentino diede un balzo e guardò il migliore de' suoidiscepoli con aria tra maravigliata e scontrosa.
—Che c'entra madonna Fiordalisa?—diss'egli interrompendolo.
—Eh, c'entra in questo modo,—rispose Parri della Quercia,—che nei quattro tocchi di cui parlavamo dianzi, quando voi siete capitato…. Eccoli qua, del resto; non ci vedete il ritratto di madonna Fiordalisa? Almeno almeno, si può dire che arieggiano la sua figura.
—-Sia pure;—disse mastro Jacopo, col piglio di chi non vuol negarenè ammettere una cosa.—E che cosa dicevi tu dunque?
—Dicevo che madonna può riconoscersi in questi contorni, ma chequesto non può dirsi un vero ritratto. Un ritratto della vostrafigliuola io l'ho per la cosa più difficile del mondo, se non peravventura impossibile. Madonna Fiordalisa ha un'aria così mutevole!
—Aria mutevole! aria mutevole!—borbottò mastro Jacopo.—Non so checosa intendiate di dire, con quest'aria mutevole. I vecchi pittori nonle conoscevano, queste novità del vostro gergo.
—Maestro,—entrò a dire il Chiacchiera, vedendo che Parri della Quercia era rimasto mutolo,—sono le parti mobili del viso, che fanno di questi scherzi. Il viso ha le sue parti mobili; è l'opinione di Tuccio di Credi.—
Mastro Jacopo andava di meraviglia in meraviglia.
—Ah sì! Anche Tuccio di Credi ha un'opinione?—chiese egli, conaccento sarcastico.
Tuccio di Credi fu toccato sul vivo da quelle parole, ma più dal tonocanzonatorio con cui erano profferite.
—Che male ci sarebbe, maestro?—disse egli.—E che ci vedreste distrano?
—Niente, in verità; niente strano in voi altri. E non ci sarebbeneanche ombra di male, se almeno voleste prendervi il fastidio dilavorare. Siete lasagnoni, buoni a nulla…. Cioè, mi correggo; sietebuoni a far chiacchiere; tanto che uno di voi ci ha buscato ilsoprannome. Ragionare di principii, far trattati, inventar dottrine,ecco il fatto vostro. Lavoro, vuol essere, lavoro, e poi semprelavoro. Le ragioni dell'arte son qui, nel braccio e nella schiena; ilresto non vale più che tanto. Fatemi la grazia di lasciare le ragionidell'arte, i principii, i trattati, a coloro che sono invecchiatinell'operare. Anche voi, un giorno, quando sarete giunti a compieta,potrete dire ai giovani: così va fatto e così non va fatto. In nome diche? In nome della vostra esperienza. Senza di questa non ci sondottrine che tengano.
—Maestro,—osò dire il Chiacchiera,—voi restringete il campodell'arte.
—Che campo m'andate voi sfringuellando? Il campo dell'arte! Eccoun'altra invenzione dei pittori parolai. Dovevate vederlo che cos'erail campo dell'arte, quando vivevano i grandi maestri. Non le siconoscevano mica, queste cianciafruscole ai bei tempi di Taddeo Gaddie di Giotto!
—Giotto fu un rinnovatore dell'arte;—ribattè il Chiacchiera.—E noidobbiam mirar tutti a fare del nuovo.
—Ah sì? E credete che sia possibile, far sempre del nuovo? Badate,lasagnoni, che le vostre novità non siano ritorni alle mosse. L'unicanovità, che io possa raccomandarvi è questa: fate, fate, non vistancate di fare. E per intanto smettete le ciance, che il fistolo vicolga!—
Ciò detto, maestro Jacopo si allontanò dal crocchio dando una poderosaalzata di spalle. Al quale atto il Chiacchiera rispose per tutti,facendo le boccacce. Poco stante si affacciava un giovinottosull'uscio della bottega.
—È qui mastro Jacopo di Casentino?—chiese egli con aria peritosa.
—È qui;—rispose il Chiacchiera.—Che cosa volete da lui?—
Mastro Jacopo aveva udito la voce del nuovo visitatore, ed era subitoescito sul limitare della sua camera.
—Oh, bravo, ragazzo mio, fatti avanti!—gridò egli.—Ti aspettavo.Eccoti in casa tua. Questi sono i tuoi compagni di lavoro; Tuccio diCredi, Parri della Quercia, Cristofano Granacci, Lippo del Calzaiolo,il Chiacchiera… cioè, diciamo prima il nome che ha avuto abattesimo, Angiolino Lorenzetti, e poi diremo quello che gli hannoappioppato le persone intendenti.—
Il giovane a cui erano presentati in quella forma gli scolari dimastro Jacopo, li salutò con un cenno grazioso del capo, indisoggiunse:
—Saremo amici, io spero.
—A voi, lasagnoni,—ripigliò maestro Jacopo,—salutate SpinelloSpinelli, l'autore dei tocchi in penna che avete veduti poco fa. È unragazzo che, se non si svia per cammino, farà parlare di sè.—
Gli scolari di mastro Jacopo s'inchinarono davanti a Spinello. Parridella Quercia gli stese la mano, dicendogli:
—Amico e fratello, se vi piace.—
Ma gli altri non si fecero così avanti, non si buttarono via come Parri della Quercia.
—Saremo amici, io spero!—ripeteva sommesso il Chiacchiera, rifacendoil verso del nuovo venuto.—Vedete che degnazione! O che sicrederebbe, per caso, d'essere il duca Namo di Baviera?
—O il Saladino;—soggiunse Lippo del Calzaiolo.
—Sarà poi Calandrino, e nulla più;—conchiuse Cristofano Granacci.
Tuccio di Credi non disse nulla; ma dentro di sè pensava:
—Amico tuo! Sei sciocco, affè mia, se lo speri!—
III.
Abbiano la mala pasqua i pessimisti, gli scettici, ed altri filosofidi tal fatta, i quali sostengono che l'uomo sia un animale invidiosoper natura, e che le nostre buone qualità sieno solamente effetto dipaziente educazione, come a dire di strofinamento e di verniciatura.
Grazie al cielo, e con licenza dei filosofi sullodatì, ci sono ancoradelle anime intimamente buone, la cui virtù è frutto di generazionespontanea, non già conseguenza d'innesto sapiente, o d'artegiudiziosamente educatrice. E ci sono altresì degli uomini che nonsoffrono il male dell'invidia, neanche (e questo è meritorio da parteloro) quando vedono che Tizio o Caio ha ingegno o attitudine dasuperarli di gran lunga, in questa o in quella disciplina.
Vedete, ad esempio, il nostro bravo messer Jacopo di Casentino. Ilvecchio scolaro di Taddeo Gaddi, il degno continuatore dellatradizione di Giotto, indovinava facilmente che quel giovinottino dalui preso a bottega, quando avesse fatto un tantino di pratica nelmaneggio dei pennelli, sarebbe diventato di schianto un artistainsigne, un maestro, da lasciarsi addietro i migliori del suo tempo. Eper lui, per quell'aquilotto che metteva appena i bordoni, mastroJacopo aveva smosso il suo piglio burbero; per lui trovava le paroleamorevoli, la placida assiduità degli insegnamenti, la ineffabiletenerezza dei conforti paterni.
Due sentimenti diversi lo persuadevano a ciò. Il primo era quellodell'ambizione. Esser maestro ad un discepolo che non aveva puntomestieri di rimproveri e così poco di incitamenti a far meglio, poterraccomandare il suo nome ad un nuovo argomento di gloria, eccovil'ambizione di mastro Jacopo; ambizione legittima, e, quel che piùmonta, di effetto sicuro, si sarebbe detto un giorno: SpinelloSpinelli, il famoso pittore d'Arezzo, era scolaro di Jacopo daCasentino. Degno del maestro il discepolo! E se pure si fosse dovutodire: migliore del maestro la gran pezza, sarebbe stato poi un granmale? Avere indovinato un ingegno potente, averlo trattodall'oscurità, avergli per così dire adattate le ali agli omeri, non èforse una gloria, un titolo di merito al cospetto dei posteri, speciequando un simil titolo si può metter di costa ad altri parecchi?
Ora, che mastro Jacopo di Casentino non s'ingannasse in questi suoisogni ambiziosi, la storia dell'arte italiana lo ha dimostrato. Lafama di Spinello Aretino ha confermata, se non per avventuraaccresciuta, la fama del suo vecchio maestro.
L'altro sentimento era d'indole affatto domestica. Gli dò miafiglia;—diceva tra sè mastro Jacopo.—Bello lui, come essa è bella:ha ingegno, salirà presto in eccellenza d'arte; avrò in lui un aiutomaraviglioso; prospererà la mia scuola; Arezzo contenderà la palma aFirenze….—
E qui mastro Spinello….Ma via, non precipitiamo nulla, raccontiamole cose per filo e per segno, non mettiamo il carro avanti ai buoi.
Madonna Fiordalisa, ve l'ho già detto, si dimostrava umana col nuovodiscepolo dì suo padre. Più volte nel corso della settimana, o con unpretesto o con l'altro, Spinello Spinelli era invitato a desinare dalmaestro; onore che toccava di rado agli altri compagni suoi dibottega. Qualche volta anche lei discendeva al pian terreno; ecertamente più spesso che non le accadesse da prima; ora per avvertireil babbo che si dava in tavola, ora per chiedergli il suo parere suquesto o su quel particolare d'economia domestica, ed anche, perchèbisogna dir tutto, anche senza una ragione sufficiente per scendere.Ma già deve trovarla sempre, e per ogni cosa, la ragione sufficiente?I filosofi, che hanno voluto metterla come fondamento dei lorosistemi, si sono trovati anch'essi il più delle volte impacciati.
E Spinello ardeva; e l'interno ardore gli traluceva dagli occhi. Voilo sapete, lettori, perchè di lì ci sarete passati un giorno anchevoi; l'amore e la tosse si nascondono male. Anche madonna Fiordalisanascondeva male il senso che faceva su lei l'amore di SpinelloSpinelli; anzi, non lo nascondeva affatto. Perchè avrebbe dovutonasconderlo? Non era nato, quell'affetto, e non cresceva forseliberamente sotto lo sguardo benevolo di suo padre? Era da principioun po' timida; poi, nel ravvisare la stato del proprio cuore, si erafatta contegnosa. Ma queste deboli difese, pari alle fortificazioniimprovvisate lì per lì da un esercito in aperta campagna, duranoappena quel tanto che basti ad una semplice ricognizione. E madonnaFiordalisa non aveva durato fatica a riconoscere che quel gentile emodesto innamorato non era altrimenti un ingannatore. Si sentìraffidata e gli diede senza contrasto il suo cuore. Dolce abbandono,che non è turbato da nessun sospetto, da nessuna paura!
Mentre faceva quei progressi nel cuore di lei, e forse per la stessaragione che li faceva, il nostro Spinello avanzava rapidamente nelladisciplina che aveva con tanto ardore abbracciata. Imparava facilmentequel che oggi si chiama il meccanismo dell'arte. Sapeva come sidovessero unire i colori, a fresco e a tempera, o come si avessero adipingere le carni e i panni, per modo che ne venisse rilievo e forzaalle figure, mostrando l'opera chiara ed aperta; conosceva qualicolori si dovessero usare nel dipingere a fresco, cioè tutti di terrae non di miniere; con che risolutezza di mano si avesse a condurre illavoro, prima che l'intonaco del muro potesse disseccarsi, e qualforza dovesse dare al colore, perchè le tinte, mentre che il muro èmolle, mostrano una cosa in un modo, che poi, secco il muro, non è piùquella di prima. Ed altre cose aveva prontamente imparate, con potenzadi desiderio, anzichè per pratica; del dipingere a tempera, cioè colrosso dell'uovo e col latte del fico mescolati nei colori; deldipingere a chiaroscuro, contraffacendo le cose di bronzo: efinalmente del fare gli sgraffiti sulle mura, per modo che reggesseroall'acqua piovana.
E tutto ciò senza rifarsi pure una volta ai principii. Tirato dallasua inclinazione a schizzare dal vivo, od altrimenti dal naturale,Spinello Spinelli era già andato molto innanzi nel disegno, esprimendocol lapis rosso di Lamagna, o col nero di Francia, figure,atteggiamenti, partiti di pieghe, od altro che gli toccasse l'animo.Così lavorando, aveva acquistato una maravigliosa destrezza a fare conla penna i dintorni delle cose vedute, dando le velature e le ombrecon una tinta dolce, che otteneva dall'inchiostro stemperatonell'acqua. E da ultimo, come abbiamo veduto dai disegni suoi, cheerano andati sotto gli occhi di mastro Jacopo, faceva ogni cosa atratti di penna, lasciando che i lumi delle figure fossero resi dalbianco della carta.
Del resto, in quei cominciamenti della pittura mancavano i grandiesemplari da proporre ai discepoli, e ognuno ritraeva dal vero,portando nell'opera quei medesimi difetti e qualità, che eranonell'occhio di ciascheduno, e nel suo modo particolare di veder lanatura. Che se a voi, lettori discreti, paresse strano il caso ditanti pittori i quali vedevano la figura umana più smilza delnaturale, di guisa che nei dipinti di quel secolo non si scorge ombradi quella pienezza di forme che è tanto comune in natura, io vipregherò di ricordare che quei bravi rinnovatori dell'arte escivanoallora dagli stecchi della pittura bisantina, e, per vedere tutto ilvero nel vero, dovette mancar loro il coraggio.Natura non facitsaltum, si è detto; anche l'arte ha dovuto andare per gradi.
Per contro, se i pittori della scuola di Giotto davano ancora tropponello smilzo, avevano già la cura lodevole del finito; laonde se icorpi delle loro figure, asciutti come sono, accusano la povertà deglistudi anatomici, la espressione dei volti e diligenza nel disegnare leestremità, ci appalesano quel sentimento profondo della verità, chedoveva rifare di sana pianta le arti figurative e non far rimpiangereal mondo la perdita dei capolavori di Apelle e di Zeusi.
Ho detto, e ritorno a Spinello Spinelli. Il quale, vedendo operaremastro Jacopo di Casentino, si accese del desiderio di dipingere afresco, che era in quei tempi il sommo dell'arte. Ma tacque il suopensiero, che gli pareva troppo audace, anzi temerario senz'altro, esi restrinse ad osservare il modo con cui mastro Jacopo preparava icartoni, ringrandendo a vaste proporzioni i suoi disegni, e qualchevolta, ad ottenere i giusti effetti di luce e d'ombra, facendo modellidi creta, i quali disposti in una data azione tra loro, lasciavanovedere gli sbattimenti, i rilievi, e tutte l'altre particolarità dicui si vantaggia la prospettiva d'un quadro.
Tre mesi erano scorsi dacchè Spinello viveva al fianco di mastroJacopo, e il giovinotto, a mala pena ventenne, aiutava già ilprincipale negli affreschi del Duomo Vecchio, di quel Duomo in cui perla prima volta aveva veduto madonna Fiordalisa. S'intende che Spinellotratteggiava sull'intonaco i disegni del maestro, e sotto gli occhi dilui ci metteva il colore.
Immaginate voi come si struggessero di rabbia i compagni di Spinello.Escludiamo, per altro, il povero Parri della Quercia, modesto e buongiovane, il quale non si sentiva nato per la grand'arte dell'affrescoe si contentava di lavorare a tempera certi trittici, e pale d'altare,che erano commesse a mastro Jacopo da qualche pieve, o da qualcheoratorio del contado. L'affresco voleva ardimento d'ingegno,franchezza di mano, sicurezza di giudizio. e tante altre bellequalità, che non erano nell'indole di Parri. Ma gli altri discepoli dimastro Jacopo, assai meno valenti di Parri della Quercia, erano ancheassai meno modesti di lui, e si rodevano di vedere quel nuovo venuto,che si spingeva in brev'ora tanto innanzi nel magistero dell'arte, e,quel ch'era peggio, nelle grazie del maestro.
Un giorno, essendo Spinello a lavorare sulle impalcature del Duomo, incompagnia di mastro Jacopo, questi gli disse di punto in bianco:
—Ragazzo mio, è tempo che tu voli da te.
—Volare da me!—esclamò il giovine levando gli occhi dal muro, perguardare il maestro.—Che intendete di dire?
—Mi sembra di parlar chiaro;—ripigliò mastro Jacopo.—Il tuo ingegnoha messe le penne maestre; puoi volare senza aiuto di chicchessia.
Spinello si fece rosso, chinò la fronte e rispose:
—Maestro, al fianco vostro ho un cuor da leone. Ma da solo! Cipensate voi! Non mi avverrà egli dì fare come quell'Icaro di Creta,che perse le penne e andò a sommergersi in mare?
—Vedete la modestia, che è andata a stare ad uscio e bottega coigiovani!—gridò mastro Jacopo, ridendo.—Ma sia pur giusto il paragoneche tu fai delle tue ali con quelle d'Icaro. Nessuno ti dice che tuabbia a discostarti dal tuo maestro, dal tuo secondo padre. Lavoreraisotto i miei occhi, se Dio vuole, e baderai sempre ai miei consigli.Hai risolutezza di mano e buon giudizio per fare da te. Vuoi? C'è dadipingere, nella cappella qui presso, un Miracolo di san Donato.L'opera è di grande rilievo, perchè il santo è qui in casa sua; ma hofede che te la caverai con onore.
—Maestro, e se mi fallisse la prova? Vorranno poi i massari dellachiesa commettere a me un'opera di tanta importanza?
—Non lo sapranno che poi;—rispose mastro Jacopo, dando un'alzata dispalle.—E noi cancelleremo il dipinto, se non riescirà secondo lesperanze che io ho concepite di te.—
Spinello tuttavia esitava.
—Bell'ardire!—esclamò mastro Jacopo,—Così ami tu Fiordalisa?—
All'udire quelle parole, Spinello si scosse e il cuore gli diede unbalzo nel petto. Figuratevi! Era la prima volta che mastro Jacopo gliparlava di sua figlia. E per la prima volta ne diceva abbastanza, nonvi pare?
—Ah maestro! maestro, che dite voi mai?—gridò il giovine,turbato.—Ho io bene inteso?—
Mastro Jacopo sorrise, come sanno sorridere i babbi, quando non hannonulla da rifiutarvi, o giovinotti innamorati.
—Se ho bene inteso io, fin dal primo giorno che sei entrato abottega,—rispose allora il vecchio pittore,—sì certamente, tu mi haibene inteso quest'oggi.—
Spinello Spinelli rimase lì, pallido dalla commozione, ansante, congli occhi imbambolati. Non poteva credere alla propria felicità.Guardava il maestro, come se volesse leggere nel volto di lui laconferma delle parole udite; poi guardava in aria, come se cercasseun'immagine cara, che doveva trovarsi là, pronta alle sue invocazioniamorose.
—Orbene, che hai?—disse mastro Jacopo.—Non sei contento?—
Spinello si abbandonò sui gradini del trespolo che serviva a mastro Jacopo per accostarsi alla vòlta, e diede in uno scoppio di pianto.
—Animo, via! Che cos'è questa ragazzata!—borbottò mastro Jacopo.—Seti sentono di laggiù!…
—Ah, lasciatemi piangere, maestro, padre mio, lasciatemi piangere.Avere amato tanto tempo senza speranza!… Essere entrato da voi,temendo che non mi accettaste come vostro scolaro!… Poi, esserevissuto così, accanto a voi, disperando di potervi dire un giorno….di potervi confessare…. E sempre con la paura di sentirmi annunziareda voi, o da altri di bottega, che madonna Fiordalisa era sposa….Oh, maestro, maestro, vorrei che ci foste stato voi, nel mio caso!
—Eh, non dubitare, ci sono stato anch'io,in diebus illis;—risposemastro Jacopo.—Ci si passa tutti, o presto o tardi, per questebenedette ansietà. Ma, come vedi, non era il caso di tremare. Sipensava a te, mentre tu ti guastavi il sangue coi sospetti e con lepaure. E c'è voluto che la fortuna venisse a cercarti lei; che ilbabbo fosse il primo a parlare….
—Oh, padre mio, non dite ciò, ve ne prego! Sapete pure che nonardivo!
—Già, tu non ardisci mai. Ma bada, ragazzo mio, la tua fortuna è aquesto patto. Tu farai il Miracolo di san Donato, e sarà davvero….
—Un miracolo;—interruppe Spinello.—Ve lo prometto.
—Ci fo assegnamento. Ed ora, andiamo a casa, che qui s'è fattoabbastanza, per oggi.
—No, maestro, lasciatemi qui. Voglio pensare al mio soggetto.
—Qui? a cinquanta palmi da terra?
—Che importa? La mia testa è più alta di mille miglia. Non sono io alsettimo cielo? Poi vedete, maestro, qui siamo nel Duomo vecchio.Laggiù—continuò Spinello, accennando in basso, attraverso lecommessure del ponte,—laggiù, presso la quarta colonna di destra, hoveduto per la prima volta madonna Fiordaliso. Non sapevo chi fosse; mane rimasi colpito. Andai quel giorno a nascondermi là, dietro quelpilastro della navata di destra, per poterla vedere di profilo, senzache ella si accorgesse di nulla. Che allegrezza fu quella, per i mieiocchi! E ogni festa, sapete, ogni festa, io la vedevo così. Eravamonel giugno dell'anno scorso. Benedetto mese, che ne ha tante di feste!Gli altri ne hanno meno, o non lo valgono. L'aspettavo all'ingresso,avendo l'aria di guardare tutt'altro; poi me ne venivo laggiù; anzi,ricordo che fu quello un gran dolore per me.
—Sì,—riprese Spinello,—perchè tutti i giovani d'Arezzo laconoscevano come la bellissima tra le belle. Ahimè, pensai, quanti nonsi augureranno di piacerle al pari di me! E quanti non avranno ragionea sperare di essere più fortunati! Temevo, e il soverchio della paurafa quello che mi diede le forze per muovere incontro a voi. Tremavocome una foglia, ve ne ricordate? E quando poi, nella furia, commisil'errore di portarvi tutti i miei disegni, senza pensare li per li chece n'era uno….
—Già, il ritratto della mia figliuola;—disse mastro Jacopo.—Oh,l'ho veduto e riconosciuto alla bella prima, non dubitare. Come avreicapito il resto, se non avessi indovinato il principio? Per altro,bada, ragazzo mio; lasciando passare la faccenda del ritratto, io miero proposto una certa cosa.
—Quale?
—Se questo ragazzo mi si svia,—continuò mastro Jacopo,—se non midiventa un gran pittore, lo mando diritto a quel paese. Fortuna, perte, che ti sei conservato un buon figliuolo ed hai risposto alla miafede. Dunque, siamo intesi, il miracolo sarà fatto!
—Non temete, sarà fatto. Lasciatemi qui, nel Duomo, a prendereinspirazioni dal luogo. Mi sento una forza da leone. Ma ditemi,maestro, il Miracolo di san Donato non è di aver fatto morire unserpente che infestava il paese?
—Già, è una semplice benedizione.
—Andate dunque, maestro; io penso al soggetto, e spero che, prima diescire dal Duomo, mi sarà venuta un'idea.—
Mastro Jacopo sorrise una seconda volta, fece a Spinello un cennoamorevole con la mano e se ne andò giù per la scala a piuoli.
Rimasto solo sull'impalcatura, Spinello Spinelli prese il lapis rossodi Lamagna e incominciò a segnare alcuni tratti sul cartone. Ma subitodopo si fermò. Aveva il cervello in volta; pensava a madonnaFiordalisa e alla possibilità, che per la prima volta gli arrideva, difar sua quella divina creatura.
—Sarebbe stato meglio andar subito a casa,—pensò egli,—e poimettermi a lavorare; mi sarei ispirato.—
Ma fatto appena quel ragionamento, trovò che era sbagliato di pianta.
—No,—soggiunse egli,—bisogna anzitutto aver meritato di vederla. Semi vien fatto un bel partito, sarà segno che l'avrò meritato.—
Così dicendo, si avanzò verso l'orlo dell'impalcatura e volseun'occhiata a quel punto della navata in cui per la prima volta avevaveduto madonna Fiordalisa, gittò un bacio laggiù, sulla punta delledita, e col bacio una ardente preghiera, una giaculatoria mentale. Erala prima, di sicuro, che facesse nella casa di Dio il giuoco discendere, anzi che di salire.
Quindi, invasato dall'estro, si pose a lavoro con ansia quasifebbrile. L'idea e la forma gli escivano insieme, nello stesso toccodal disegnatoio, che scorreva veloce sulla carta.
Spinello immaginò il Santo nell'atto in cui muovendo incontro alserpente, lo fulmina col gesto della mano destra, levata in alto,mentre con l'altra sembra infonder coraggio ad una turba di cittadinispaventati, quali già volti in fuga, quali inginocchiati per invocareil soccorso del cielo. Il Santo si vedeva ritto, in aria di personacommossa, ma non vinta da timore, e la fralezza delle membra e lasoavità dell'aspetto in quella che facevano contrapposto all'orridafierezza del mostro, sembravano raffigurare l'alto concetto dellaretta coscienza che sta salda innanzi ai maggiori pericoli, o dellafede in Dio che vince animosa ogni ostacolo. Il serpente, nella formadelle zampe, delle fauci e dello scaglie ond'era protetto il suodorso, arieggiava i coccodrilli egiziani, nelle ali i favolosidragoni, che erano tanto in voga a quei tempi, per la leggendapopolare di San Giorgio di Cappadocia. La mala bestia guardavatuttavia il suo poco temibile avversario, e con le fauci aperte parevavolesse ingoiarlo; ma già il corpo si piegava, gli anelli del ventresi contorcevano, le zampe spaventosamente unghiate si stendevano nellospasimo e graffiavano l'aria. Era alcun che di terribile, a contrastocol tranquillo atteggiamento dell'uomo miracoloso, dalla cui manolevata intendevate essersi allora allora sprigionata la virtùfulminatrice.
—Ah, finalmente!—gridò Spinello, appena gittati sulla carta icontorni della sua composizione.—Non lo cancelleremo, questo quadro,non lo cancelleremo!—
Poco stante, data l'ultima mano al disegno, ne fece un rotolo ediscese dal ponte.
—Così tardi escite da lavoro?—gli chiese il sagrestano del Duomo,vedendolo attraversare la navata di mezzo.—Ma che c'è? Avete l'ariadi un uomo che ha ricevuta una lieta novella.
—Lieta, sicuramente;—rispose il giovane pittore.—Quantunque, a voiforse non parrebbe tale.
—Se potrò rallegrarmene per voi, perchè non mi parrà lieta? Ditelasu!—
Spinello si avvicinò al prete, accostò le labbra alla guancia di lui egli bisbigliò all'orecchio:
—Prendo moglie.—
Il sagrestano si trasse indietro per guardare in volto Spinello; indibattè le labbra, come un uomo che s'aspettasse tutt'altro, e che adogni modo non vedesse una grande felicità nel settimo sacramento.
—Prendete moglie, Spinello?—esclamò.—Siate felice. Per altro, avreicreduto che, per voi, la moglie dell'artista dovesse esser qui.—
E col dito accennava la testa, dove abita madonna fantasia.
—No, v'ingannate;—rispose prontamente Spinello.—La mogliedell'artista è qui.—
Ed accennò il cuore, dove sta di casa la passione.
—Avrete ragione;—disse il sagrestano, inchinandosi.—Purchè non sisoffra, lì dentro. Nel qual caso, addio arte!
Spinello pensò che il povero prete non era fatto per intendere certecose, e, datagli una di quelle occhiate patetiche, le quali sembranodire tante cose, forse perchè non ne dicono alcuna, infilò la portadel Duomo. Affrettava il passo, perchè quel giorno era invitato adesinare dal maestro, e l'ora, come si è detto, era tarda.
Fra pochi istanti avrebbe veduta madonna Fiordalisa. Ma come avrebbeosato posar gli occhi su lei, dopo quel doloroso discorso di mastroJacopo? Fortunatamente, dalla tranquilla accoglienza che Fiordalisafece al futuro Apelle, gli fu agevole intendere che mastro Jacopo nonaveva creduto opportuno di dir nulla alla sua bella figliuola. ESpinello gliene fu grato, perchè, libero da ogni soggezione, avrebbepotuto guardare in volto Fiordalisa, contemplarla a sua posta, epensare tra sè con gioia infantile:—tu non sai, bambina, tu non saiquel che so io; sarai mia, bella creatura, sarai mia; il pegno dellavittoria è là, in quel rotolo di carta, che io ho riposto su quelcanterano di noce.—
Mastro Jacopo, prima di mettersi e tavola, tirò in disparte ilprediletto discepolo e gli disse:
—Orbene, t'è venuta l'idea?
—Sì, maestro, è venuta.
—E ne sei contento?—
Spinello fece un cenno del capo, che voleva dire: così così; ma le suelabbra si atteggiavano ad un malizioso sorriso.
—Ah, briccone!—esclamò il vecchio pittore. Tu sei contento e non—vuoi confessarlo. Fammi vedere il disegno.
—No, maestro, non ora. Se permettete, sarà per domani. Non sonoancora ben sicuro del mio concetto. Nell'ebbrezza del comporre, mi èparso bello; ma ora, pensando alla grandezza del premio,—e cosìdicendo Spinello volgeva gli occhi a Fiordalisa, il cui eleganteprofilo si disegnava sul fondo luminoso della mensa apparecchiata,—houna gran paura di aver fatto un pasticcio. Aspettate domani. Intanto,ci dormirò su e poi vedrò di ritoccarlo.
—Sia come tu vuoi;—disse mastro Jacopo.—Andiamo a tavola. Io non minutro con gli occhi, come te, ed ho una fame assaettata.—
La mattina seguente Spinello ritornò sull'opera sua. Gli parevamanchevole, e certamente era, come tutte le cose tirate giù in fretta.Ma delle cose fatte in fretta aveva anche i pregi, cioè a dire,insieme con qualche ridondanza facilmente correggibile, unità diconcetto e franchezza di esecuzione. Rimutò qualche parte, rifece ildisegno, accrebbe con alcuni tocchi l'espressione dei volti, efinalmente come gli parve di aver migliorato il suo lavoro, siarrischiò a metterlo sotto gli occhi del maestro.
Tremava, il povero Spinello; tremava, vedendo il vecchio pittoreatteggiato a giudice davanti al suo disegno, e raccolto in un silenzioche non gli prometteva niente di buono.
Mastro Jacopo guardava sempre così. La sua attenzione era concentratanel soggetto, non si perdeva mai in esclamazioni, o inarcamenti diciglia. Quando aveva considerato per ogni verso ciò che dovevagiudicare, meditato, vagliato, pesato tutto sulle bilance dell'orafo,allora soltanto si lasciava sfuggire un bene, o un male, secondo chegli pareva, ma niente di più.
Quella volta, per altro, si mostrò più corrivo.
—Bene!—diss'egli, dopo una lunga disamina. Sono contento di te. La—composizione è saviamente immaginata. L'atteggiamento del Santo è—sobrio e dice molto. Se ti riesce sul muro quell'aria di testa, come—t'è riescita sulla carta, hai vinto per mia fede un gran punto.—
Spinello, fuori di sè dalla gioia, buttò le braccia al collo delmaestro.
—Via, via,—ripigliò il vecchio pittore, schermendosi male da quelladimostrazione d'affetto.—Non son mica Fiordalisa!
—Padre mio, perdonate;—gridò Spinello.—Sono tanto felice! La vostralode è per me il più grande, il più ambito dei premi.
—Sì, dopo la mano di Fiordalisa;—borbottò mastro Jacopo.—Ma già sicapisce, ed io non mi lagno. Del resto, la lode del babbo e la manodella figlia non son tutta roba di casa mia?
Spinello chiese licenza al maestro di poter cominciare quel medesimogiorno a far la macchia, per ottenere una giusta intonazione di tinte.La mattina seguente mise mano al cartone. Aveva misurato lo spazio sucui doveva essere dipinta la storia del Santo e fatto il conto deifogli di carta che gli bisognavano per quel tratto di muro. Non glirestava che di congiungerli ad uno ad uno per gli orli, con la colladi farina cotta al fuoco. Ciò fatto, e come il cartone fu rasciugatosulle giunture, lo stese al muro, incollandolo sui lembi; indi, tiratesul suo primo disegno tante righe orizzontali e perpendicolari che loriducessero ad una fitta rete, segnò lo stesso numero di linee sulcartone, a distanze proporzionatamente eguali, affinchè gli fossefacile di condurre il suo primo disegno alla misura dell'affresco cheaveva immaginato di fare.
Spinello lavorava per quattro, e al paragone suo anche Luca Giordano,soprannominato Luca Fa presto, avrebbe potuto andarsi a riporre.Finito il suo graticolato, mise un pezzo di carbone in capo ad unacanna, e là, ritto davanti al muro, con un occhio al disegno primitivoe l'altro al cartone, incominciò a riportare su questo i contornidell'altro. Due giorni dopo, il cartone del Miracolo di san Donato erafatto, con grande soddisfazione di mastro Jacopo, il quale per tuttoquel tempo non aveva voluto nessuno dei suoi giovani in chiesa. Già, ache cosa gli sarebbero serviti quei lasagnoni? A mesticargli i colori?Mastro Jacopo, per quei due giorni, mesticò i suoi colori da sè, comeavrebbe fatto ogni artista novellino. Tanto è vero che ognuno, purchèvoglia, più passarsi dell'opera d'un altro, sia egli servitore odaiuto!
Per contro, il vecchio pittore aveva anche dato una mano al suoprediletto scolaro, facendogli costrurre il ponte nella cappella incui doveva dipingere. E come il cartone fu condotto a termine chiamò imuratori perchè dessero un'arricciatura grossa sul muro, debitamentescrostato; indi fece incrostare di nuovo tanta superficie di muro,quanta Spinello credeva di poterne colorire in un giorno.
Spianato per benino l'intonaco, il giovine artista vi stese il cartonee calcò su quello il disegno della sua composizione, per avere icontorni precisamente tracciati. Indi prese a mettere il colore, comegli era dato dal bozzetto, che aveva preparato in anticipazione.
Il giorno in cui Spinello aveva incominciato a dipingere, mastroJacopo, sceso dal suo ponte verso l'ora di vespro, andò sul pontedello scolaro, a vedere come se la fosse cavata.
—Bene, perdiana!—gli disse, vedendo già dipinta tutta la figura delSanto, e con un'aria di festa che meglio non si sarebbe potutodesiderare.—Per questa volta son io che abbraccio te.—
Immaginate l'allegrezza di Spinello; io rinunzio a descriverla.
Mastro Jacopo ripigliò:
—Per far bene, è dunque mestieri d'essere innamorati? Ahimè, ragazzomio, a questo patto io non farò più nulla di buono, poichè la stagionedegli amori è passata.—
Quel medesimo giorno, escito di chiesa un'ora prima del solito, mastroJacopo passò da Luca Spinelli, per fargli un certo discorso chericolmò di contentezza il paterno cuore del vecchio fiorentino. Indi,arrivato a casa, prese la sua Fiordalisa in disparte e senza tantipreamboli le disse:
—Sai? Ho deliberato di maritarti.—
Fiordalisa si fece rossa, ma non tremò. Aveva indovinato, e accolsel'annunzio del padre con un eloquente silenzio. Eloquente per noi, chesappiamo tutto; non per Jacopo di Casentino, che non sapeva nulladell'animo di sua figlia.
—Orbene,—disse egli, dopo un istante di pausa,—così ricevi la mianotizia?
—Padre mio.—balbettò Fiordalisa, chinando la fronte,—quello che voifarete… sarà ben fatto.
—Sì, questo va bene;—ripigliò mastro Jacopo, che aveva voglia diridere;—ma se per avventura si trattasse di uno che non ti andasse aiversi?—
Fiordalisa chinò la fronte un po' più che non avesse fatto prima, e sipose a tormentare con le dita i lembi del suo grembiule.
—Veniamo alle corte, poichè tu stai zitta e non rispondi;—continuòmastro Jacopo.—Che penseresti tu di Spinello Spinelli?—
Fiordalisa ebbe una scossa al cuore, ma una scossa piacevole oltreogni dire. Arrossì da capo, e, con un fil di voce, così rispose a suopadre;
—Quello che voi farete….
—Sarà bene fatto; conosco già il ritornello;—rispose mastro Jacopo,dando un buffetto sulla guancia di sua figlia.—E sia dunque benfatto, poichè questa è la tua opinione, com'era da un pezzo la mia. Suil viso, bambina, e preparati a ricevere il tuo fidanzato. Mi par disentire il suo passo per le scale.—
Fiordalisa, che non aveva ancor avuto tempo a riprendere il suo colornaturale, aggiunse vermiglio a vermiglio, quando si vide dinanziSpinello. Questi non sapeva ancor nulla dei discorsi fatti tra mastroJacopo e suo padre, né dell'annunzio che il vecchio pittore aveva datoalla figlia. Ma quella scena muta e il rossore di madonna glienedissero abbastanza per farlo rimanere sconcertato davanti a lei,com'ella era turbata davanti a lui.
—E così? Non vi dite nulla!—gridò mastro Jacopo.—Perchè mi state lìgrulli e confusi?—Vedi un po', Fiordalisa; eccolo lì, l'uomo che nonardisce mai. Ci scommetto che, con la sua paura di non venire a capodi nulla, non ha neanche creduto di ricordarsi che ci voleva unanello.
—Oh, questo poi!—esclamò Spinello toccato sul vivo.
E posta la mano al borsellino che gli pendeva dalla cintola, ne trasseun cerchietto d'oro; indi si accostò alla fanciulla, e prese la suamano tremante, e le disse:
—Madonna, non so se sarà abbastanza piccolo per il vostro ditinod'angiola. Ma, se voi non lo sgradite…—
Madonna non rispose nè sì, nè no. Si era lasciata prender la mano; silasciò mettere in dito l'anello.
Il giovine innamorato cadde in ginocchio e baciò la mano della suafidanzata. Indi, rialzatosi, le si accostò peritoso o guardandola conocchi ardenti d'amore le bisbigliò all'orecchio:
—Son più felice di un re.—
Mastro Jacopo si era allontanato, per non farci la figura del terzoincomodo. Le confidenti espansioni di due cuori innamorati non vogliontestimoni, neanche quando essi siano gli autori della vostra felicità.
Era già l'ora di cena, ma Jacopo di Casentino non parlava ancora dimettersi a tavola, il vecchio pittore aspettava qualcheduno.—
Poco stante si udì un rumore di passi nella camera attigua, e Tucciodi Credi apparve sulla soglia. Il povero Tuccio aveva per solito unafaccia rabbuiata, ma quel giorno aveva senz'altro una cera dafunerale.
—Maestro,—diss'egli,—è qui messer Luca Spinelli.
—Ah, bene, fallo entrare;—gridò mastro Jacopo.—Ragazzi miei, primadi tornare a casa ero passato da Luca Spinelli, mio ottimo amico, e loavevo pregato di volere essere dei nostri. In questo giorno cosìlieto, per voi, i due babbi debbono essere uniti, non vi pare?Peccato,—soggiunse mentalmente, reprimendo un sospiro,—che non cisiano le mamme!—
Tuccio di Credi, che precedeva di pochi passi il nuovo venuto, si tiròda un lato per lasciarlo passare. Il vecchio fiorentino entrò, strinsela mano che gli offriva il pittore, e andò a baciare in fronte la suafutura nuora. Se aveste veduto in quel punto il povero Tuccio diCredi!
—Messer Luca,—disse Jacopo di Casentino,—quello d'oggi non è uninvito in pompa magna. Si faranno quattro chiacchiere tra noi, mentrei nostri ragazzi ne faranno mille tra loro, senza dar retta allenostre. Ma questi sponsali vogliono essere celebrati con una festa difamiglia, che faremo domenica, se vi piace. Tuccio di Credi avvertiràintanto i suoi compagni di bottega, i quali saranno padroni dispargere la notizia ai quattro punti cardinali.—
Tuccio di Credi rispose con un cenno d'assentimento a quell'ultimaparte del discorso di mastro Jacopo.
—Mi congratulo con voi, maestro,—disse egli,—e mi congratulo congli sposi. Quando si faranno le nozze?
—Tra due mesi,—rispose mastro Jacopo,—quando il vostro compagnoavrà condotto a termine un'opera testè incominciata nel Duomo vecchio.Desidero che impariate da ciò, ragazzi; desidero che impariate alavorare di buona voglia. Spinello Spinelli è l'ultimo venuto, edeccolo già molto innanzi a tutti voi. Non ve l'abbiate per male.
—Perchè dovremmo avercelo a male?—chiese Tuccio di Credi,stringendosi nelle spalle con aria di profonda noncuranza.—Chi è dapiù degli altri ha ragione di stimarsi fortunato. A noi basterà chevoi non ci togliate la vostra benevolenza.
—L'avete, andate là;—rispose mastro Jacopo, col suo piglio tra ilburbero e il faceto;—sebbene qualche volta mi facciate disperare, daquei ragazzacci che siete. A domenica, dunque, e preparate le vostrepiù belle canzoni. Si starà allegri.—
Tuccio di Credi salutò gli astanti e se ne andò verso l'uscio.
Quel giorno Tuccio di Credi era rimasto l'ultimo in bottega. E a luiera toccato di ricevere Luca Spinelli, venuto a quell'ora insolita econ aria misteriosa a cercare mastro Jacopo. A lui, proprio a lui, eratoccato di aver le primizie di quell'annunzio matrimoniale,altrettanto doloroso quanto inaspettato.
Tuccio di Credi non sapeva che pensare; non sapeva che dire; avevaperduta la testa. Poco mancò che dimenticasse perfino di chiudere labottega. Escito di là, andò macchinalmente per le vie d'Arezzo, finoall'osteria del Greco, dove c'era la combibbia serale dei garzoni dimastro Jacopo. Aveva una faccia così scura, che i suoi compagnilasciarono tosto di ridere, per domandargli se si sentisse male.
—Vuoi un confortino? Un cordiale? Un lattovaro?—gli disse ilChiacchera.—Prendi questo; è Montepulciano, e il Greco giura di nonaverlo annacquato.—
Tuccio di Credi ricusò brevemente, col gesto, il bicchiere che glioffriva il Chiacchiera.
—Sapete la novella?—disse egli.
—Quale novella?—chiese Cristofano Granacci.
—Se non la spifferi, come possiamo saperla?—soggiunse il Chiacchiera.
Tuccio di Credi rimase un momento sopra di sè, come se volesseraccogliere le proprie forze; indi, con voce sepolcrale, diede iltriste annunzio ai compagni:
—Spinello Spinelli, l'ultimo venuto a bottega, sposa la figlia dimastro Jacopo.—
Un grido di meraviglia accolse le parole di Tuccio.
—Come lo sai?—domandò il Chiacchiera.
—Lo so da mastro Jacopo, che c'invita per domenica alla festa deglisponsali e ci raccomanda di preparare le nostre più belle canzoni.
—Oh, le avrà!—disse il Chiacchiera.—Ti assicuro io che le avrà. Uncosì bel matrimonio! Ci vorranno anche i giullari!
—Già,—osservò tranquillamente Parri della Quercia,—dovevamoimmaginarcelo.
—Immaginarcelo! E perchè?—disse Tuccio di Credi.
—Perchè era facile di scorgere che mastro Jacopo vedeva assai di buonocchio Spinello Spinelli.
—Come scolaro, non nego;—ribattè Tuccio di Credi.—Mastro Jacopo hale sue debolezze, come le ha avute sant'Antonio. Ma neanchesant'Antonio ha portato il suo protetto in paradiso. E non era daimmaginare che mastro Jacopo dovesse dare sua figlia a SpinelloSpinelli. Sapete che già gliel'avevano domandata parecchi: tra glialtri il Buontalenti, che è un ricco sfondato.
—È vero;—disse Parri della Quercia;—ma tu ricorderai per qualragione mastro Jacopo non gliel'ha voluta dare. Egli ha sempre dettoche la sua Fiordalisa avrebbe sposato uno dell'arte sua. SpinelloSpinelli è un pittore; dunque….
—Adagio, Biagio!—entrò a dire il Chiacchiera.—Spinello Spinelli èun mastro Imbratta, finora, un fattore come noi altri, e non puòneanche misurarsi con te, Parri della Quercia, che hai già fatto untrittico a tempera, e n'hai avuto lode dagli intendenti.—
Parri della Quercia sorrise e ringraziò con un cenno del capo.
—Ma infine,—diss'egli di rimando,—se non ha anche dipinto atempera, non si può tuttavia bollarlo col titolo di mastro Imbratta.Rammentate i suoi tocchi in penna.
—Ah sì, bella forza!—gridò il Chiacchiera.—Come se quella fossearte! Il pittore s'ha a vederlo sulla tavola.
—O sul muro;—soggiunse Parri.—Spinello Spinelli può dirsi oramai unfrescante. Mastro Jacopo gli ha dato a fare qualche cosa sulle sueultime composizioni.
—Sì, gli ha dato da calcare i suoi cartoni sul muro e da mettere ilcolore sui fondi.
—Ahimè, dell'altro ancora, dell'altro;—entrò a dire Tuccio di Credi.
—Dell'altro? Che cosa?
—Gli ha dato da dipingere un'intera medaglia nel Duomo vecchio. Micapite? un'intera medaglia. E Spinello ha ideata lui la composizione,ha fatto lui il cartone, tutto lui! Ma non potrebbe anche darsi che ilmaestro avesse ritoccato il disegno, data l'intonazione del bozzetto evia via?
—Non c'è dubbio;—esclamò il Chiacchiera.—E fors'anche avrà ideatala composizione.
—È possibile,—ripigliò Tuccio di Credi.—Tutto si puòcredere,-perchè il lavoro si fa in Duomo, sulle impalcature, dove ilmaestro non ha più voluto vedere nessuno di noi.
—Gatta ci cova!—sentenziò Cristofano Granacci.—Intanto eccolopittore. E che lavoro è, quello che fa, il sornione?
—Un San Donato che ammazza il serpente con una benedizione;—rispose Tuccio di Credi.
—Tu l'hai veduto?
—Io no, l'ho risaputo dallo scaccino della chiesa. Ma su questo nonho a dirvi di più;—soggiunse Tuccio, già quasi pentito di avertoccato quel tasto.
Ma gli altri non avevano bisogno di più estesi particolari, e non cibadarono neanco. Erano su tutte le furie, e non ci vedevano lume.
—Ah! è troppo!—gridò Lippo del Calzaiolo.—Mastro Jacopo ci ha isuoi beniamini. Se avesse adoperato egualmente con noi! Se ci avesseconsigliati, aiutati, messi avanti, saremmo pittori anche noi. Bellaforza! fare il lavoro d'uno scolaro e poi gabellarlo per pittore! Enon si fa celia; pittore frescante! Purchè i massari del Duomo glilascino passar la burletta!
—Che cosa ha da importarne ai massari?—disse Tuccio di Credi.—Sel'opera piacerà, non andranno a cercare cinque piedi al montone.
—E noi lasagnoni! Noi buoni a nulla!—gridò Cristofano Granacci.—Ah,caro e riverito mio mastro Jacopo di Casentino, dite che non son piùio, se non vi pianto lì su' due piedi.
—O su quanti vorresti piantarlo?—domandò il Chiacchiera, che nonrinunciava mai all'occasione di metter fuori una celia.
—Dico che me ne vado,—urlò il Granacci,—posso allogarmi a Firenzedal Giottino, o a Siena dal Berna, che tutt'e due mi vogliono.
—Per che fare?
—Quello che tu non farai, Tuccio, se pure tu campassimill'anni:—ribattè il Granacci.
—Via, non ci guastiamo il sangue;—entrò a dire Lippo delCalzaiolo.—Cristofano ha ragione, ed io seguirò il suo esempio; me neandrò a bottega da Agnolo Caddi, in Firenze. Tanto qui non s'imparanulla.
—È vero, questo;—notò il Chiacchiera.—Mastro Jacopo ha l'aria ditenerci per misericordia, come si tengono gl'infermi all'ospedale. Nonc'è che Spinello, in Arezzo! E a lui concede anche la mano di suafiglia. Questa, poi, è grossa. Di che diamine s'è innamorato?
—Forse del ritratto che Spinello ha inteso di fare a madonna Fiordalisa:—osservò Lippo del Calzaiolo.
—Almeno sapesse farli i ritratti!—esclamò il Granacci.—I quattrosegni d'un tocco in penna a me mi servono poco. In un'opera grande,voglio vederlo.
—Lo vedrete nel San Donato;—disse Parri della Quercia.
—Ma se non è suo!—rispose il Granacci.—Lo vogliamo giudicare daun'opera fatta da lui sotto i nostri occhi, non già in un affresco dimastro Jacopo, gabellato per suo.
—Chi dice che non sia suo?—chiese timidamente Parri della Quercia.
—Non hai inteso? Lo dice Tuccio di Credi.
—Adagio, Cristofano; io non ho detto nulla,—si affrettò a rispondereTuccio di Credi.—Almeno non ho fatto che accennare un sospetto; anzi,la possibilità d'un sospetto. Ma se mi domandate che cosa ne penso, vidirò che io non sospetto nulla, e credo che Spinelli darà tutta farinadel suo sacco. È un gran pittore che nasce di schianto; nasca a suaposta, e facciamola finita. Parliamo d'altro; anzi, non parliamo dinulla. Poc'anzi volevate darmi un confortino, un lattovaro, uncordiale? Ho più fame che sete, e prenderei qualche cosa di sodo.—
IV.
Le avete mai viste, le pecore matte, che Dante Allighieri, esulevagabondo, ha osservate tante volte e descritte nel poema sacro?Escono dal chiuso, ad una, a due, a tre, si seguono alla cieca e ciòche fa la prima fanno tutte le altre, anco se si tratti di andar sulloscrimolo d'un precipizio, a risico di fiaccarsi il collo tutte quante.
I garzoni di mastro Jacopo non potevano mandar giù la fortuna delnuovo venuto e meditavano una grande risoluzione. Escludo dal numeroParri della Quercia, che non partecipava alle loro malinconie perdolcezza di carattere, e Tuccio di Credi che aveva scagliato il sassoe nascondeva la mano.
Parri della Quercia, come vi ho già detto, era onesto e riconosceval'ingegno di Spinello Spinelli. Ma egli era d'animo mite, e perconseguenza un po' timido. Il suo giudizio lo portava a vedere diprimo acchito il bene ed il male; la sua indole lo faceva alieno daogni resistenza e desideroso di tirarsi sempre in disparte. Egli erauno di quegli uomini che conoscono il mondo, o l'indovinano, e nonvogliono prender gatte a pelare. Amava l'arte sua e l'esercitava condiligenza, che è come a dire senza ardore soverchio. Di certo, anchese fosse vissuto cent'anni prima, non sarebbe stato lui che avrebbeliberata la pittura dalle pastoie bisantine; ma si può ammettere che,vivendo a lungo, sarebbe giunto a dipingere le più aggraziate Madonnee i Cristi meno arcigni dello stampo antico. Nato nel secolodecimoquarto e fatto discepolo dei novatori, andava sulla falsarigadei Giotteschi, senza vedere più in là. E quale era l'artista, taleera l'uomo. Buono e cauto, giudizioso e misurato in ogni cosa sua,dissimulava con la dolcezza dei modi il vizio organico che dovevacondurlo pochi anni dopo alla tomba. E voi potete intendere da questocome avvenisse che Parri della Quercia lasciasse correre le bizze deicompagni, senza riscaldarsi il sangue a metterli in pace.
Quanto a Tuccio di Credi, avete veduto come egli, dopo aver data lanotizia e lasciato cadere il sospetto, si fosse affrettato a dire chela cosa non poteva esser vera, e che Spinello Spinelli era un ingegnonato di schianto, una nuova speranza dell'arte. Si era egli ricreduto,parlando? O seguiva in ciò il filo d'un riposto disegno?
Comunque fosse, Lippo del Calzaiolo, Cristofano Granacci e AngiolinoLorenzetti, detto il Chiacchiera, non avevano mestieri del suo aiutoper dar di fuori; erano giunti a tal segno, che le sue esortazionipacifiche, se pure egli avesse creduto di farne, avrebbero sortito uneffetto contrario.
—La vedete così?—aveva detto in fine Tuccio di Credi.—Accomodatevi.Io, poveretto, non ho come voi la fortuna di essere cercato altrove, edebbo contentarmi di questo pane. Quando si ha bisogno, convienebaciar basso.—
I tre arrabbiati avevano fatto consiglio. Non volevano saperne direstare a bottega di mastro Jacopo; sentivano la voglia matta diabbandonare una scuola in cui non s'imparava nulla, e si era costrettia vedere la fortuna degli altri. Il Chiacchiera ebbe il mandato diparlare per tutti.
La mattina vegnente, mastro Jacopo di Casentino, nell'escir di bottegaper recarsi al Duomo vecchio, disse ai giovani, che stavano lavorando:
—Avete sentito? Ci ho allegrezze in famiglia, e voi siete invitatiper domenica a mangiare il pan forte.—
Mastro Jacopo, a dirvela schietta, non ripeteva di buona voglial'invito. Gli sapeva male che non ne avessero parlato essi per iprimi, poichè Tuccio di Credi li aveva avvertiti d'ogni cosa;parendogli giustamente che un maestro, un principale, avesse diritto aquella piccola attenzione da parte loro.
I giovani stettero a sentirlo e si guardarono alla muta tra loro. Eravenuto per Angiolino Lorenzetti il momento di far onore al suosoprannome di Chiacchiera. Egli, perciò, smise di macinar colori, lasola occupazione in cui valesse qualche cosa, e così rispose almaestro:
—Vedete che caso! Dobbiamo rinunziare a questo piacere.
—Come?—gridò mastro Jacopo.—Che cos'è questa novità?—
E guardava gli altri, frattanto, come se aspettasse da loro laspiegazione di quelle parole del Chiacchiera. Ma gli altri stavanozitti. Il Chiacchiera riprese il discorso per tutti.
—Ecco qua, maestro;—diss'egli;—si tratta d'un disegno che abbiamofatto in tre, cioè io, persona prima, Cristofano Granacci e Lippo delCalzaiolo. Ce ne andiamo.
—Ve ne andate?—esclamò mastro Jacopo sgranando gli occhi.—E perchè,se è lecito saperlo?
—Anzi, è obbligo nostro il dirvelo;—rispose il Chiacchiera con ariadi umiltà meravigliosa.—Quantunque, a dir le cose come stanno, trelasagnoni, come siamo noi, tra fannulloni….
—È vero, perdiana!—interruppe mastro Jacopo.—Per la prima volta intua vita, hai detto una verità.
—Eh, che volete, maestro? A furia di sentirle dire,s'imparano;—replicò il Chiacchiera, con ironico accento.—Ma vedeteun po' che combinazione! C'è al mondo qualcheduno che non la pensacome voi, Agnolo Gaddi, per esempio, che sta a Firenze, e sarebbedisposto a prendere con sè Lippo del Calzaiolo; il Giottino, diFirenze, e il Berna, di Siena, che farebbero a spartirsi il nostroCristofano Granacci.
—Ah!—esclamò il vecchio pittore inarcando le ciglia.—Quei trevalentuomini hanno posto gli occhi su voi?—
Cristofano Granacci e Lippo del Calzaiuolo risposero asciuttamente conun cenno del capo.
—Non me ne congratulo con loro;—ripigliò mastro Jacopo, poi ch'ebbeveduta la mimica.—Sentiamo ora, poichè non mi hai dettotutto,—soggiunse, volgendosi al Chiacchiera,—sentiamo ora chi siadisposto a prender te, succiaminestre!
—Oh, non vi date pensiero per me! Io vado dove mi pare. Il primo checapita, mi servirà. Che cosa si fa qui, alla fine? Si macina, simestica, s'incollano i cartoni, si fanno le imbasciate, si apre e sichiude la bottega; insomma, un servizio da fanti, non una scuola dapittori. Scusate, mastro Jacopo; io sarò un succiaminestre, unmangiapane, tutto quel che vorrete, ma ho l'uso di chiamare ogni cosaper il suo nome. Che cosa ci stiamo a far qui? In che modo ci avetevoi insegnati i principii dell'arte?—
Mastro Jacopo cascava dalle nuvole, a tanta audacia di discorso. Giàera sul punto di mandarli tutti e tre al diavolo, per la più spiccia;ma le ultime parole, che racchiudevano un'accusa formale, lo toccaronosul vivo.
—Per l'anima di…—gridò egli, dando di fuori senz'altro.—Che cos'èquest'accusa che voi mi fate? Credete voi che l'arte s'insegni come illeggere, scrivere e far di conto? Bietoloni! Anch'io sono stato ascuola, e ricordo come insegnava Taddeo Gaddi, che a sua voltaricordava come insegnasse Giotto di Bondone. Macinavo, mesticavo,aprivo la bottega e la chiudevo, come voi; facevo le imbasciate delmaestro, maneggiavo la granata, secondo il bisogno, e molto più chenon maneggiassi i pennelli; insomma facevo ogni più umile ufficio comevoi. Con questa differenza, per altro; che voi vi lagnate, ed io nonmi lagnavo; che voi non intendete nulla di nulla, ed io cercavo diprofittare degli esempi che avevo sott'occhio. Guardando ciò che ilmaestro faceva, io, bene o male, e mettete pure che fosse male, hoimparato a fare anch'io qualche cosa. Indovinavo, dov'era facileindovinare, e quello che non intendevo alle prime, chiedevo almaestro. È dei maestri il rispondere, non già il sapere da belprincipio quel che si debba insegnare ai giovani. Avete capito,lasagnoni? Si può egli instillare per via di precetti quello che lanatura dà all'uomo di cogliere dall'esempio quotidiano? Per precettis'insegna la grammatica, non l'arte del dipingere. Ora, quale è statoil vostro costume, in bottega? Mi avete voi mai domandato come sifacesse la tal cosa, o perchè si facesse la tal altra? Avete voi postomai attenzione a ciò che facevo io? Non lo so; ma se bado all'esito,mi pare di poter dire che non avete guardato mai, come non avete maichiesto. E allora, di che vi lagnate?—
Il Chiacchiera lasciò passare quella folata di parole, indi rispose:
—Oh, non a tutti i vostri scolari avete lasciato la cura d'imparareda sè.
—Non a tutti! Lo credo, io,—replicò mastro Jacopo.—Tuccio di Credi,per esempio, e Parri della Quercia, hanno saputo cavar profitto deiloro occhi. Perciò mettete pure che io, vedendoli più attenti di voi,li abbia consigliati qualche volta. Perchè non avete fatto come loro?Vi avrei consigliati ugualmente.—
Il Chiacchiera rispose all'argomento con una crollatina di testa.
—Non si parla di Tuccio, nè di Parri;—diss'egli poscia.—Si parla diSpinello Spinelli, del nuovo venuto, del vostro futuro genero. Quelloè il vostro beniamino, mastro Jacopo, o ch'io non so più che cosa siaun beniamino. Vi capita in bottega con quattro scarabocchi, e voiv'innamorate subito di lui, come Cimabue s'è innamorato di Giotto.
—Benissimo detto; come Cimabue!—ripigliò mastro Jacopo.—Infatti,Spinello Spinelli meritava tutto quello che ho fatto per lui. Che citrovate a ridire, voi altri?
—Nel vostro capriccio, nulla. Della sua pasta può far gnocchiciascuno. Ma il modo!… Vedete? È il modo, che ci offende. SpinelloSpinelli viene da voi con un fascio di tocchi in penna. Bellissimecose, degne di Giotto; lo ammetteremo anche noi, se può farvi piacere.Ma come va che tre mesi dopo la sua venuta a bottega egli passa avantia Tuccio e a Parri, che sono con voi da tre anni? Come va che egli ègià così addentro nel maneggio dei colori, da mettere il pennello neifondi delle vostre composizioni?
—Nei fondi, l'hai detto tu, nei fondi!—gridò mastro Jacopo, conaccento di trionfo.
—Eh!—ripigliò il Chiacchiera, che oramai era in ballo e volevaspendere il suo ultimo grosso; se non si trattasse che dei fondi!…Ma voi avete fatto assai più, mastro Jacopo. A questo pittornovellino, gli avete commesso un'opera di molta importanza, che erastata allogata a voi dai massari del Duomo.
—Ah, tu sai anche questo?—borbottò il vecchio pittore, un tal po'sconcertato.
—Sicuro, che lo so. Lo sa tutta Arezzo, lo sa.—
Mastro Jacopo si strinse nelle spalle.
—Ci ho gusto;—diss'egli,—Così non avrò più mestieri di dar lanotizia a nessuno. Spinello si farà onore; questo è l'essenziale.
—Col vostro aiuto, maestro, non si dubita punto dell'esito;—ribattègravemente il Chiacchiera.
—Che intenderesti di dire, manigoldo?
—Quello che voi avete già indovinato;—replicò l'impertinentescolaro.—Alle corte, qui c'è un salto troppo grande, per gli stinchidel vostro beniamino. Dai tocchi di penna all'affresco! E senza averfatto nel frattempo nulla che meriti di essere osservato! Neanche unatesta! Perchè noi—proseguì il Chiacchiera, riscaldandosi,—noi nongliel'abbiamo mica veduto fare, uno studio dal naturale, dal vivo! Sepure non vi piaccia di contare come uno studio dal vivo il profilo dimadonna Fiordalisa!…
—Ah, ho capito!—esclamò mastro Jacopo.—Perchè non dirlo prima, cheeravate gelosi? Ma io, vedete, mia figlia la dò a chi mi pare. E seanche avessi voluto romperle il collo con uno di voi, non mi sarebbemica riescito di contentarvi tutti!
—No, maestro, disingannatevi, non siamo gelosi nienteaffatto;—rispose il Chiacchiera.—Siamo pieni di rispetto permadonna Fiordalisa, e fermi lì. Del profilo fatto dal vostro Spinellose ne parla ora, per dirvi, anzi per tornarvi a dire, che non era unritratto. Spinello ha indovinata l'aria della figura e nient'altro. Sedovesse fare un ritratto, si troverebbe molto impacciato.
—Sì, sì, vecchia storia;—borbottò mastro Jacopo;—ed io v'horisposto fin da principio che se Spinello vorrà fare un ritratto, lofarà, in barba a tutti voi, scimuniti!
—Non quello di madonna Fiordalisa, per altro:—ribattè ilChiacchiera, che trovava un gusto matto a contraddire ilmaestro.—Parri della Quercia e Tuccio di Credi, che stanno cheti comel'olio, vi hanno pur detto come e perchè un ritratto di madonnaFiordalisa non sia dei più facili.
—Ho capito, ho capito; ritornate in campo coi vecchi dirizzoni. Maappunto per dar noia a voi altri, Spinello farà il ritratto della suafidanzata, e voi resterete con un palmo di naso.
—No, maestro, non resteremo:—rispose beffardo il Chiacchiera.—Vi hogià detto che non si conta di rimanere in Arezzo. Quanto a me, seavete comandi per Firenze….
—Vai dove ti pare, che il fistolo ti colga;—interruppe mastro Jacopo.—E quando fai conto di levarci l'incomodo?
—Oggi stesso. Il tempo di prendere le mie bazzicature, e vi servosull'atto.
—Ottimamente;—brontolò il vecchio pittore.—E voi altri?—
La domanda era rivolta a Cristoforo Granacci e a Lippo del Calzaiolo. Ambedue furono pronti a rispondere:
—Con lui, maestro; alla medesima ora.
—E andate,—tuonò il maestro, dando un'alzata di spalle,—andate conlui, e col malanno che il ciel vi dia.—
Fu questo il commiato di mastro Jacopo di Casentino ai suoi degniscolari, Angiolino Lorenzetti, detto il Chiacchiera, Lippo delCalzaiolo e Cristofano Granacci.
Mastro Jacopo era in collera per la mancanza di rispetto di cui gliavevano dato prova quei tre sciagurati; non già per la loro andata,che lo liberava da tre fannulloni, veri impicci, non aiuti in bottega.Perciò, vi sarà lecito di argomentare che egli dovesse consolarsi benpresto. Era già più tranquillo nell'entrare in Duomo, dove loaspettava il suo pezzo d'intonaco, preparato di fresco. Ma egli nonvolle andare al suo trespolo, senza aver veduto Spinello, che lavoravagià da due ore, intorno al suo Miracolo di san Donato. Bell'opera, inverità; ci si vedeva un'aggiustatezza di parti, una vigoria di colore,una sicurezza di fare, che teneva del maraviglioso.
—Che bricconi!—pensò mastro Jacopo, giunto sulla impalcatura delponte.—Ecco qua un bravo giovane, che è nato pittore com'io son natomaschio. Si può egli far meglio di così? E gl'invidiosi aperfidiare!… Andranno a raccontare a Siena e a Firenze, al diavoloche li porti, che io gli ho dato il disegno; anzi peggio, che io gliho fatto da capo a fondo il lavoro! E ci sarà della gente che locrederà! Che cosa non crede, la gente? C'è anzi da maravigliare che ibugiardi non siano più ricchi d'invenzioni, con tanta facilità che c'ènel mondo di credere ogni cosa peggiore.—
Spinello udì il brontolio e si volse a guardare.
—Oh, maestro, siete voi? Che cosa dicevate?
—Nulla, nulla; borbottavo da me;—rispose mastro Jacopo.—Sai pure, èil vizio dei vecchi!
—Credevo che trovaste a ridire nel mio pasticcio, e ne ero già tuttocontento.
—Contento! O perchè, se è lecito!
—Perchè voi non mi riprendete mai, mentre io sarei tanto felice diavere i vostri consigli, le vostre ammonizioni.
—Consigli! Ammonizioni! Tu non hai mestieri nè di quelli, nè diqueste.
—Voi siete troppo buono, con me. Ma io, vedete, non son mica moltocontento de' fatti miei;—disse modestamente Spinello.—Ho una granpaura che mi riesca un imbratto. Quando ho incominciato a mettere icolori, mi pareva d'aver fatto una bella cosa; ma ora… ora mi sembrauna miseria. Quest'azione così povera!…
—O che volevi fare? La battaglia di Montaperti?—esclamò mastroJacopo, ridendo.—È un miracolo della fede, quello che tu dipingi. SanDonato ha un atteggiamento mosso, ma non da spiritato, che non ce nesarebbe bisogno. Egli non ha fede in sè stesso, ma nell'aiuto di Dio,e questo lo rassicura, lo fa stare tranquillo. Il popolo, nel fondodel quadro, cede al sentimento della paura, ed è naturale, poichè essonon ha la fede così profonda come il Santo. Ma qui appunto è labellezza del contrasto. Non è forse il contrasto che tu hai voluto,nell'ideare il tuo quadro?
—Sì, questo ho voluto, proprio questo;—rispose candidamenteSpinello.—Ma forse…il contrasto m'è venuto troppo forte, e nederiverà un po' di confusione nelle linee.
—Di che ti tormenti? Va bene così. La figura del Santo è nel primopiano; la moltitudine è nel terzo, con una intonazione di colore menogagliarda. Ciò che cresce in movimento di linee si scema in effetto ditinte. Non pensavi a questo, mettendoti a dipingere?
—Sì, ci ho pensato; pareva anche a me che dovesse farsi così, perottener la fusione delle parti.
—O allora?—gridò mastro Jacopo, appoggiando la frase con una dellesue solite spallate. —Va pur là, ragazzo mio! Hai fatto bene, tidico, e crepino gli invidiosi.
—Invidiosi! perchè mi dite voi ciò? Posso io avere degli invidiosi!
—Se ne hai! Oh, se ne hai! Tre, per esempio, che schiattano dirabbia, e se ne vanno dalla nostra bottega oggi stesso.—
Spinello, turbato dall'annunzio inatteso, lasciò di lavorare, pervolgersi tutto sul trèspolo, e chiedere con la muta eloquenza delgesto i particolari di quella novità.
—Sicuro,—proseguì mastro Jacopo.—Ai tre manigoldi gli dava noia chetu dipingessi a fresco nel Duomo. In che modo l'abbiano risaputo, loignoro. Ma già, a tenerle nascoste, certe notizie! Insomma, tiaccusano di non esser buono a nulla, di esserti fatto fare ilbozzetto, i cartoni e tutto l'altro da me….Da me, capisci? da me,che non ho avuto neanche da darti un consiglio. Bricconi! Ma gliel'hodetto, io, il fatto loro. E se ne sono andati col malanno, e mi hannolevato un gran peso dallo stomaco.
—Io spero che tra costoro non ci sarà Parri della Quercia;—balbettò Spinello.—Egli, almeno, che ha un'aria così buona!…
—No, non c'è lui. E neanche Tuccio di Credi. Quello là non ha unaspetto molto piacevole; ma gli è come le pere spine, brutte di fuorie buone di dentro. I tre fannulloni insolenti, che mi levanol'incomodo, sono il Chiacchiera, il Granacci e Lippo del Calzaiolo.Vadano pure; io sarò lieto di non sentirne più nuova, nè canzone.—
Spinello Spinelli ripigliò il lavoro interrotto, ma più per necessitàdi colorire il suo pezzo d'intonaco finchè gli era fresco, che pervoglia che n'avesse. Era mortificato, il povero giovane, vedendo cheper cagion sua il vecchio maestro perdeva tre scolari in un colpo.Veramente, come discepoli, contavano poco; ma Jacopo dì Casentino liadoperava utilmente come fattori, e la mancanza loro doveva farsisentire in bottega. Il beniamino di mastro Jacopo non si consolò diquel danno che a mezzo, dopo aver fatto un esame di coscienza ericonosciuto che egli non ci aveva ombra di colpa. Infatti, egli siera sempre studiato di piacere a quei tre, come agli altri compagni dilavoro; li aveva sempre trattati con urbanità, e più volte era giuntoperfino ad implorare la loro amicizia, con quella spontaneità digentilezza che è così naturale tra i giovani, ma che essi avevanoricambiata con assai poca sollecitudine.
La bottega di mastro Jacopo era triste, quando Spinello rimise ilpiede là dentro, ritornando dal Duomo. Ci mancavano le lingue megliosnodate, le lingue dei tre fannulloni, che qualche volta facevanoperdere la pazienza al principale.
Spinello andò incontro a Parri della Quercia, che stava seduto davantial cavalletto, copiando una Madonnina del maestro.
—Se sapeste come sono dolente di ciò che è accaduto!—gli disse.—Mavoi, almeno, penserete che io non ci ho colpa, non è vero?—
Parri lasciò un tratto il pennello e stese la mano al nuovo venuto;indi brevemente rispose:
—Ci vuol pazienza!—
Non era molto, come vedete, e si poteva pensare che Parri dellaQuercia mirasse a non guastarsi con nessuno. Ma quella stretta di manorimediava alla brevità del discorso.
Lasciato Parri al suo lavoro, Spinello andò oltre, per avvicinarsi a Tuccio di Credi, che macinava colori in un angolo.
Tuccio non gli diede neanche il tempo di aprir bocca.
—Di che vi dato pensiero?—gli disse.—Son tre fattori che se nevanno; ma restiamo ancora in tre, per fare il lavoro di tutti. Non cisarà mica bisogno di chiudere bottega. Io, come vedete, ho giàincominciato a far la parte del Chiacchiera; anzi, fo meglio di lui,perchè macino di più e chiacchiero meno. Credete a me, Spinello; inquesto mondo, non c'è nessuno di necessario.
—Avete ragione,—rispose Spinello;—anch'io, se permettete, viaiuterò. Anch'io adopero troppi colori, e non è giusto che voilavoriate per me. Ma in fondo in fondo,—soggiunse, tornando al primoargomento,—mi sa male che quei poveri giovani abbiano lasciata labottega.
—Che! Non li compiangete troppo. Son certi arnesacci, capaci di starepiù allegri, senza di noi, che con noi. Del resto, troveranno daallogarsi a senno loro. Una cosa dovete far voi; ridere, come essifanno di sicuro, in questo momento, all'osteria del Greco, bevendo ilbicchiere della staffa.
Spinello pensò che Tuccio di Credi era un buon diavolo, ad onta dellasua faccia scura. E ricordò il discorso di mastro Jacopo, che lo avevaparagonato alle pere spine, brutte di fuori e buone di dentro.
—Quando si dice l'apparenza!—conchiuse egli tra sè.—Ecco ungiovanotto che a prima vista vi dà sui nervi: e poi egli è buono comeil pane.—
V.
"Tutta Arezzo lo sa" aveva detto il Chiacchiera. Ma tutta Arezzo nonlo sapeva ancora; bensì lo seppe, quando i tre fannulloni furonousciti dalla bottega di mastro Jacopo ed ebbero divulgata la nuova aiquattro punti cardinali. Spinello, il figlio di Luca Spinelli, quelgiovinotto senz'arte, era un gran pittore…. Cioè, intendiamoci, letre lingue tabane andavano dicendo tutt'altro: Spinello Spinelli, asentirle, era un pittoruccio da pochi soldi che scroccava la nomèa digrande artista, facendosi fare il suo quadro da mastro Jacopo diCasentino. Il vanitoso si vestiva delle penne del pavone; laonde eragiusto che fosse solennemente scorbacchiato. Ma accade di certivituperi, che facciano effetto contrario alle intenzioni deicalunniatori. Rammentate che Spinello Spinelli era vissuto ignoto finoa quel dì. Se fosse stato davvero un gran pittore, o gabellato pertale, e qualcheduno fosse saltato fuori a dire che un altro dipingevaed egli ci metteva il suo nome, sicuramente la cosa sarebbe statacreduta per intiero da molti, e per metà da tutti i restanti. Manessuno sapeva ancora che Spinello Spinelli avesse mai posto ilpennello su d'un muro, e il richiamare così di schianto su luil'attenzione dell'universale non poteva fargli che bene.
—Già, si capisce, invidiosi!—diceva la gente, crollando il capo inaria di compassione.—Il figliuolo di messer Luca è giovane, e ai suoicompagni gli sa male che il pulcino rompa il guscio prima di loro. Mase Jacopo di Casentino gli ha dato a dipingere una delle medaglie cheerano stale allogate a lui, bisogna dire che ha stima del suodiscepolo, e come! Quanto al dipinger lui per lo scolaro, o come sipotrebbe intendere? Per danari, no certo, che gli Spinelli fanno giàmolto ad accozzare il pranzo con la cena. Per un suo capriccio? Lagrazia di quel capriccio, che vi fa rinunziare alla fama e aiquattrini! E poi, che capriccio d'Egitto? Mastro Jacopo dà a SpinelloSpinelli la sua bella figliuola, un bottoncino di rosa, un occhio disole che non ha voluto dare neanche al Buontalenti, ad un riccosfondato. Sapete che lui s'era messo in capo di darla ad un pittore.La darebbe ad un suo fattore, se questi non avesse ingegno e praticada stargli a paro? No, no, le son chiacchiere d'invidiosi; tenete perfermo che questo Spinelluccio è uno sparviero nidiace, il quale ha giàmesse le penne maestre e può far caccia da sè.—
Così, contro l'intenzione dei tre sparlatori, il giovinetto andò inbreve ora per le bocche di tutti, come un speranza dell'arte. Erainoltre aretino di nascita, e questo argomento della patria, per unavolta tanto, faceva servizio. In quel risorgimento dell'arte italiana,Arezzo non aveva ancora un pittore di vaglia che fosse nato fra le suemura. Quind'innanzi si avrebbe avuto lui, e si sarebbe detto: SpinelloAretino. Che vi par poco?
Nacque in tutti una gran voglia, una voglia spasimata, una vogliamatta, di vedere il dipinto. Aspettando che fosse levata l'impalcaturae scoperto l'affresco, s'incominciava a salutare Spinello per via,anche senza essere in dimestichezza con lui.
—Buon dì, maestrino!—gli dicevano.—Come va l'opera vostra?
—Bene, grazie al cielo;—rispondeva il giovane facendosi tuttorosso;—ancora otto o dieci giorni di lavoro, e si leverà il ponte. Maho una gran paura di non rispondere alla vostra aspettazione. Se peravventura mi fosse riescita una ciambella senza buco?—
E si rideva, alle scherzose parole, e gli si augurava che anche quellariescisse, come tutte le ciambelle per bene.
Ma ciò che egli diceva per celia, temevano di buono i massari delDuomo vecchio. Che diamine era saltato in mente a mastro Jacopo, dicommettere ad un suo fattore, novellino nell'arte, un'opera di quellaimportanza, che era stata allogata a lui? Per caso, mastro Jacopo sifaceva beffe di loro? O si doveva argomentare da quel fatto che egliper ingordigia di mestierante usasse accettar commissioni a furia, chepoi, non riuscendo a sbrigarle, doveva spartire tra i suoi pittorellidi bottega? A buon conto non intendevano di passargli la gherminella,e gliene muovevano rimprovero.
Ma Jacopo di Casentino aveva risposto da par suo alle osservazioni deimassari.
—Vi ho promesso,—diceva,—di fare il meglio che sapessi. Ora, checosa direste, miei degni messeri, se io vi dessi per il vostro danaroanche meglio di quello che so far io?
—Meglio!—esclamavano i massari!—Eh via.
—Sì meglio, vi ripeto. Non fo per chiasso. Spinello Spinelli ègiovane, come sapete. Ma un uomo ha forse mestieri d'invecchiare, perfarvi il suo capo d'opera? Quello è un ragazzo che vale assai, epasserà non solo avanti a me, ma anche a molti altri.
—Si vede che ci avete fitto ii capo;—notarono facetamente i massari.
—Sì, messeri, ci ho fitto il capo. Ma credo anche di poter dire chenon fo ad ingannare nessuno. A quel giovinetto io gli concedo la miafigliuola, con duemila fiorini del sole e tutto il resto che ellapotrà avere, quando io passerò a miglior vita, che sarà il più tardipossibile. Volete voi, messeri onorandissimi, reputarvi in ciò piùavveduti di me?
—Mastro Jacopo, voi sapete il proverbio: ognun può far della suapasta gnocchi. Ma noi non ispendiamo del nostro; noi amministriamo ildenaro della comunità.
—È giusto. Ed io non vi chiederò nulla per l'opera di Spinello, seessa non sarà tale da piacervi. S'intende,—aggiunse prontamentemastro Jacopo, da quell'uomo prudente che egli era,—s'intende che intal caso faremo rastiare il muro, e voi pagherete a me il prezzopattuito, quando ci avrò dipinto io un'altra medaglia. Vi avverto, peraltro, che la mia non sarà punto migliore della sua.—
I massari non avevano trovato nulla a ridire in una proposta cosìragionevole. E la loro curiosità fu maggiormente stuzzicata dal tonodi sicurezza con cui egli parlava.
Dieci giorni dopo l'affresco era condotto a termine e lo si potevascoprire. Immaginate voi come si spargesse prontamente la notizia incittà e quanta gente accorresse a contemplare il dipinto. In Arezzonon si parlava più d'altro.
Tolto nella notte il tavolato, nella mattina si erano levati i ponti;indi la chiesa era stata aperta ai visitatori. Primi avevano potutovedere il dipinto i massari del Duomo vecchio, i canonici, il clero egli anziani del Comune. Dopo questi maggiorenti era entrato il popolo,e tutti via via si erano inoltrati fin sotto l'arco della cappella,per guardare la vòlta, dove quel valentuomo di san Donato faceva ilsuo bravo miracolo con un crocione trinciato per aria.
Spinello non era presente, che non aveva ardito restar là, fatto segnoalle occhiaie curiose dei suoi cittadini, e fors'anche ai loro appuntipoco benevoli. Sapete già che egli non aveva più fede nella bontàdell'opera sua, quando gli era toccato di spolverizzarla dai cartonisul muro. Figuratevi poi come dovesse parergli, quando la videcompiuta. Ma in suo luogo era mastro Jacopo, fiero in arme come unpaladino al passaggio d'un ponte.
L'impressione fu buona, anzi ottima. Si maravigliavano che un giovaneavesse saputo far tanto. E più cresceva lo stupore, quando si venivaad osservare in ogni sua parte il dipinto. La composizione erasaviamente ideata e distribuita con raro giudizio. Nobilissimol'atteggiamento del Santo, e bene inteso. Naturalmente collegata, ladoppia azione della figura, con quella destra levata a benedire equella sinistra distesa indietro per accennare al suo popolo chevolesse star cheto e tranquillo. Il terrore, l'ansietà, la speranza,erano efficacemente espressi in quei volti e in quelle mosse d'uominie donne che si accalcavano nel fondo del quadro. Solo alle prese colserpente san Donato mostrava una serenità maravigliosa, giustificatadai primi effetti della sua benedizione. La belva, così minacciosanell'orridezza delle forme e nel lampo degli occhi, da far rizzare ibordoni ai riguardanti, si contorceva nello spasimo dell'agonia;voleva ancora uccidere e si sentiva morire. Tutto ciò era resostupendamente, e composizione e disegno facevano onore all'artista.Nessuno, degli intendenti, poteva dire che fosse opera di mastroJacopo. Si notava un fare che non era il suo, per solito più leccato epiù languido. E il colore? Bisognava vedere il colore, com'era pienodi vaghezza e di sugo.
—Pieno, fin troppo;—aveva notato uno di quei critici che cercano ilpel nell'uovo e non disperano di trovarcelo.
—Il dipinto è ancora un po' fresco;—rispondeva unvicino;—aspettate.
—Vuol dire che non abbiamo ancora la tinta vera;—ripigliavaquell'altro.—Come giudicarne allora? Seccando l'intonaco, nonpotrebbe sbiadire il dipinto? Già nell'affresco, l'essenziale è diconoscere il valore delle tinte. Come volete che lo conosca lui, avent'anni, o giù di lì?—
Ad onta di questa critica, che già voleva tirare in ballo il futuro,l'opera di Spinello Spinelli fece un chiasso da non dirsi a parole. Eper tutto quel giorno e per altri alla fila ci fu grande concorso dipopolo nel Duomo vecchio d'Arezzo. Per giudizio universale, la cittàpoteva rallegrarsi; il suo pittore era nato.
Mastro Jacopo accoglieva con la sua aria burbera le congratulazionidei cittadini.
—Non parlate di me, che non c'entro;—rispondeva egli a coloro chevolevano riferire agli insegnamenti suoi il merito di un così valentediscepolo.—Io non gli ho insegnato quasi nulla. È venuto da me comepoteva andare da un altro, e da un altro sarebbe riescito lo stessoche è riescito da me. L'unica differenza che io posso ammettere èquesta, che un altro si sarebbe ingelosito di lui, lo avrebbe tenutogiù, molto giù, e non gli avrebbe certamente dato da dipingere una trale medaglie a lui allogate. Io, invece, ho fatto per Spinello Spinelliquel che si fa, o che si dovrebbe fare, per un amico. Ma, per carità,non mi parlate d'insegnamenti. Quel benedetto ragazzo aveva già lascintilla in testa, l'ha portata nel mio focolare e s'è acceso il suofuoco da sè. Un'occhiata a ciò ch'io facevo, ecco tutto. Perchè,infine, la parte manuale, la praticaccia dell'arte, bisognaapprenderla da qualcheduno. Ma qui si ferma il merito mio. La verità èuna e va detta senza risparmio.
—Per altro,—gli rispondevano,—Spinello Spinelli si loda molto divoi e ripete a tutti che vi è debitore d'ogni cosa.
—Spinello ha buon cuore e parla come il cuore gli detta. Ma scusate,come sarebbe possibile che io nel giro di pochi mesi gli avessiinsegnato tanto? Volete che vi dica io com'è andata? Spinello aveva latesta fatta in quel modo che l'hanno i grandi pittori, piena di veritàe di magnificenza. Aveva il sentimento del colore negli occhi;l'argento vivo sulle dita; la febbre dell'arte nel sangue. Tale eraGiotto di Bondone, e tale sarebbe stato, anche se, scambio di Cimabue,lo avesse veduto e preso con sè un pittoruccio da dozzina. Perintender Giotto non occorreva, in fede mia, esser neanche una cima;bastava non essere a dirittura un bue.—
Con questa celia mastro Jacopo si liberava dai piaggiatori ostinati.Forse caricava un po' troppo la dose; ma era necessario far così, perlevar di mezzo la diceria del Chiacchiera e de' suoi degni colleghi,secondo i quali mastro Jacopo doveva aver messo mano nel dipinto diSpinello.
—Non lo diranno più, per bacco baccone,—borbottava egli tra identi,—non lo diranno più che il San Donato è farina del mio sacco.—
Ai massari del Duomo vecchio, poichè ebbero veduto il dipinto e uditaquella gara di lodi, mastro Jacopo parlò in questa guisa:
—Orbene, messeri onorandissimi, che vi pare? Dobbiamo noi rastiarel'intonaco e dipingere un altro Miracolo di san Donato?
—Ah, mastro Jacopo, avevate ragione voi;—risposero queivalentuomini.—Ecco uno scolaro che vi farà onore.
—Dite un genero, messeri, un genero che mi farà contento.
—Ah, sì, quello è il premio che gli date. Se è buono d'indole come èvalente di mano, fortunata la vostra figliuola, e fortunato voi,mastro Jacopo.—
Il vecchio pittore tornava a casa con un cuore tanto fatto. Egli erail più felice tra tutti i babbi d'Arezzo.
Spinello, dal canto suo, era oppresso dalla gioia. Quel vincitoreaveva l'aria d'un corbello. Scusate il paragone, ma io mi son semprefigurato così i trionfatori romani, e più particolarmente il Petrarca,quando lo portarono a prendere la corona d'alloro sulla vetta delCampidoglio. Doveva essere abbattuto il povero messer Francesco;doveva essere come sbalordito col pensiero della grandezza di Romanell'anima e l'immagine di madonna Laura negli occhi. L'amore e lagloria, il fuoco vivo e la luce rutilante; ma altresì i due pesi piùgrandi che possa portare un uomo, nel sentiero della vita, che è cosìpieno di ciottoli insidiosi e di buche traditore.
Il maestro lo aveva abbracciato, con le lagrime agli occhi. Parridella Quercia gli aveva stretta la mano dicendogli: "bene!" con tuttele forze dell'anima. Tuccio di Credi, venuta la sua volta, gli avevasoggiunto:
—Godete gli applausi; essi vi aiuteranno a sopportare le fischiate.Perchè, badate, la vita è tutta così; oggi in alto, sul candeliere,domani giù, e costretti a correre come cani bastonati.—
Tuccio di Credi era un filosofo pessimista. Ma il suo ragionamento nondispiacque a Spinello. Si ascoltano bene anche i pessimisti, quando siè nella pienezza della felicità. Il richiamo alle ingiustizie chev'aspettano, fa l'effetto d'una dissonanza armonica, che produce unabella varietà nel pezzo e vi fa solletico non ingrato all'orecchio.
Del resto, le noie erano un retaggio del futuro, e Spinello vivevaaffondato nel presente, si beava negli occhi di Fiordalisa, anche leioppressa dalla gioia, piena d'un senso nuovo, che non aveva tempo astudiare. Perchè, poi, ci avrebbe studiato su? Il mondo le pareva unagran bella cosa, e questo era l'essenziale. L'aria aveva tesoriineffabili, fragranze arcane, che le assopivano il sangue nelle vene.Presentiva una beatitudine, un'estasi, come il corpo mollementeadagiato in un morbido letto attende e pregusta un bel sogno. Inquella soave dormiveglia dei sensi, la bella fidanzata porgevaorecchio al susurro dell'aura e al bisbiglio d'una voce sommessa. Quelsusurro le diceva: la vita è bella così; quel bisbiglio le diceva: iot'amo.
Nell'amore ogni più piccola cosa è un mondo; e un mondo nuovo pergiunta. Ci si ferma piacevolmente intorno a certi nonnulla, che inogni altro momento della vita a mala pena si avvertono. Guardando unviso amato, poi, quante meraviglie si scoprono! Che tesori, cherapimenti, che ebbrezze! Quand'anche un occhio esercitato, e memoredelle sue esercitazioni, scoprisse un lieve difetto, verrebbe subito apiacere il difetto, quasi bellezza nuova, quintessenza di perfezione,suggello di verità, come il marchio nell'oro! Perchè, infatti, checosa si cerca più avidamente nel bello, se non la sua incarnazione? Ela nota del vero non è essa che distingue la donna dalla statua, larealtà dal sogno?
Mettendo qualche necessario intervallo nelle sue contemplazioni,Spinello andava ogni mattino al Duomo vecchio, dove erano ancora dafinire nuove opere di mastro Jacopo. Ma il vecchio pittore sivergognava di occupare in troppo umili uffici il suo famoso scolaro.
—Senti,—gli disse una volta,—non è da te raccattarmi i pennelli emesticarmi i colori. Hai fatto testè un'opera bella e giustamentelodata; ma non devi riposarti sugli allori. Ti consiglio di provartisubito in un'altra, e di maniera diversa dalla prima. Il buonarcadore, quando va alla battaglia, porta sempre con sè due corde dirispetto. Non ti basti di essere un frescante. Il fresco è un bel mododi dipingere, e forse il migliore tra tutti, poichè esso sfida isecoli e si raccomanda alla memoria delle più tarde generazioni. Maanche una bella tavola dipinta a tempera può avere i suoi pregi agliocchi dei posteri. Ed ora che mi rammento, i tuoi nemici ti accusavanodi non aver mai copiato dal vero. Fa un ritratto, e sia quello dellatua fidanzata. Sicuro; tra due mesi me la rubi; lasciami almeno il suoritratto in casa. Ti va?
—Padre mio!—gridò Spinello, confuso.—Se osassi!…
—Già, dovevo rammentarmelo, che tu non osi mai. Strano ragazzo! Ma seson io che ti permetto! se son io che ti prego!
—Oh, non dicevo per questo;—rispose il giovane.—Non oso, perchètemo di non venirne a capo. L'idea di ritrarre il volto di madonnaFiordalisa m'è già passata più volte per la testa. Anzi, ve l'ho adire? Quando sono a casa mia, quando mi trovo solo nella miacameretta, cerco di consolarmi dell'assenza, segnando sulla carta ilprofilo di madonna. E mi vien sempre male, sempre male, che è unamorte a pensarci.
—T'è pur venuto la prima volta; te ne ricordi?
—Sì, ma erano appena quattro segni. Davano l'aria di madonnaFiordalisa, ma non erano il suo ritratto. A fare una cosa che meritiquesto nome, si vogliono giusti contorni; non basta accennare, bisognadipingere, e tutte le parti più minute debbono essere fedelmente rese.Ora, vedete, padre mio, quando io mi metto all'opera, risoluto di noncontentarmi ad una vaga somiglianza, mi trovo subito impacciato, e miaccade che…. con tutte le migliori intenzioni del mondo… con tuttii più saldi propositi.
—-Vuoi dire che ti casca l'asino? Ho capito;—disse mastroJacopo.—Ma questo è naturale. È di pochi il ricordare appuntino tuttele fattezze d'una persona assente, per modo da poterle rendere conprecisione sulla carta. Questa è una bella memoria; ma non gli è daquesta qualità che si conosce il pittore. Val meglio, assai meglio,saper copiare con diligenza quel che si vede, anzi che rammentare a undipresso quello che si è veduto una volta. Abbi l'originalesott'occhio, e se non ti verrà fatto di esprimerlo con verità, allorasoltanto dovrai disperarti. Dunque, siamo intesi; comincierai dadomani.—
Spinello accettò l'invito del maestro con un misto di timore e didesiderio. In fondo in fondo, non avrebbe fatto niente più di quel chefaceva ogni dì. Non era egli sempre con gli occhi addosso a madonnaFiordalisa? Ma il guaio era questo, che egli ci sarebbe statoquind'innanzi, non più per far tesoro di sensazioni dolcissime, bensìper esprimere su d'una tavola ingrata ciò che i suoi occhi vedevanocosì bene, e che le dita avrebbero reso così male.
—Madonna,—diss'egli a Fiordalisa quella medesima sera,—vostro padredesidera che io mi provi a ritrarre le vostre sembianze. Lo consentitevoi?—
La fanciulla arrossì e chinò gli occhi a terra.
—Che idea!—diss'ella poscia, con aria di confusione, ma non senza unpo' di malizietta femminile.—Dovendo guardarmi tanto, finirete coltrovarmi brutta.
—Volete dire che non mi riescirà di farvi bellissima comesiete?—disse di rimando Spinello.—Pur troppo sarà così. La natura,gelosa dell'opera sua, non vorrà mica lasciarsi agguagliare da me!—
La fanciulla sorrise; e Spinello vedendo schiudersi quelle umidelabbra coralline, perdette la testa senz'altro.
—Angiola!—le bisbigliò, avvicinandosi in atteggiamentod'umiltà.—Perdonatemi in anticipazione. Si fa per contentare ilbabbo.—
Così dicendo, osò (egli che non osava mai) prendere una bella mano,che gli fu amorevolmente concessa, e l'accostò alle sue labbra.Baciava la mano, non potendo baciare quello spiraglio del paradiso,che v'ho accennato poc'anzi. Ma che cosa sarebbe stato di lui, se loavesse potuto? Solo a baciar quella mano, parve che una scintillaelettrica lo avesse subitamente investito, perchè tremò tutto, dalcapo alle piante.
Il giorno dopo, per obbedire al comando di mastro Jacopo, egli eraseduto davanti al cavalletto, con la sua tavola preparata a ricevere icontorni di quella stupenda figura. Confuso, trepidante, incominciò adescrivere i primi segni col lapis rosso di Lamagna. Ma la prova nonparve contentarlo, poichè subito cancellò quello che aveva fatto, etornò a segnare, per cancellare da capo. Nove o dieci volte rifece lastessa fatica, sudando freddo, come un povero principiante, a cui sidomandi alcun che di superiore alle sue forze. Quante volte fuassalito dalla disperazione! Quante volte s'augurò di aver da fare,non uno, ma dieci Miracoli di San Donato, e con l'obbligo per giuntadi farsi dir bravo da tutti gl'invidiosi dell'arte! Anzi, per dirvitutto, il povero Spinello si sarebbe adattato perfino ad essere neipanni del santo, e a doverlo uccidere lui, il serpente, con unabenedizione, anche a risico di esser divorato dal mostro, se labenedizione non gli fosse riescita efficace.
Immaginate le difficoltà che gli si paravano davanti agli occhi,pensando che la bellezza, nella figura umana, non è un composto dilinee geometriche. Con la geometria fate una donna brutta, o mediocre;ma una bella figura è un tal complesso di curve, di prominenze, disottosquadri, di delicatezze, che non si possono copiare conesattezza, ma si debbono indovinare, esprimere di primo achito, nellastessa fusione e con quella medesima felicità di trapassi in cui si èincarnato il disegno della natura. E prima di tutto, il contorno dellatesta di madonna Fiordalisa offriva allo sguardo una linea così soave,un molleggiamento così indistinto tra il fondo e l'ovale, che era giàun'impresa sommamente difficile a coglierlo con sicurezza. Inoltre,bisognava pensare che la tavola era una superficie piana, e ilcontorno della figura desumeva le sue apparenze dal digradare delleestremità, dallo sfuggir delle curve, dal lumeggiarsi delle parti inrilievo. Spinello pensò che l'ottenere un contorno perfetto fossequistione di luci e d'ombre, che s'avessero a mettere col pennello piùtardi, e si rassegnò ad accettare una linea, che pure non finiva dicontentarlo.
Mentre egli cerca di cogliere una somiglianza che gli sfugge, vediamodi dipingere anche noi il volto di madonna Fiordalisa. Ne verrà unpasticcio, suppergiù, come quello del povero pittore innamorato; manon importa. Nelle cose difficili, l'aver tentato è già molto.
Il contorno della figura lo avete veduto. Immaginate ora la fronte,breve, ma pura ne' suoi timidi rilievi, ombreggiata dai riccioli deicapegli castagni, traenti al bruno, e fatti parer quasi neri dalcontrasto della carnagione bianca di latte, d'onde trasparivanogentili velature di rosa e di azzurro. Gli occhi non erano grandi maconferiva loro un aspetto di nobile ampiezza sotto l'arco sottile espiccato delle sopracciglia, sotto cui si disegnavano leggermenteinfossate le palpebre. Dalle ciglia lunghe e fitte aveva spicco ilbianco delle pupille, un bianco perlato e vivido, che faceva parernero un occhio castagno dai riflessi dorati. Le guancie tondeggiavano,senza troppo rigoglio; il naso era fine e diritto; breve lo spazio trale nari elegantemente modellate e le labbra sottili, che non erano giàfatte a festoncini come le ha dipinte o scolpite un'arte altrettantofalsa quanto leziosa, ma semplicemente rigirate in una delicatissimacurva; labbra di corallo tenero, facili al sorriso, che increspandoleun tratto, lasciava scorgere due file di perle rilucenti. Divinabocca, nido d'amore, e veramente spiraglio di paradiso, come sembravaa Spinello!
Tralascio molti altri particolari e vi dico alla svelta che madonnaFiordalisa era una piccola perfezione. Un non so che di virgineo,d'infantile, di fresco, traluceva, traspariva da quei soavissimicontorni. Si pensava, vedendo lei, ad Eva appena nata, a Venereuscente dalle spume del mare, e insieme a quei frutti saporiti, giuntia maturità sul ramo natio, sui quali ama fermarsi la rugiada inimpercettibili gocce, e che (Dio mi perdoni, se ardisco dir tutto)invitano il riguardante ai morsi, mentre gli fanno correre l'acquolinaalla bocca.
E Spinello doveva dipingere! Povero Spinello! Incomincio anch'io acapire come andasse che non indovinava i contorni, e che al terzogiorno di lavoro fosse ancora lì, impacciato con le tinte, che non glirendevano mai il tono giusto.
Il degno mastro Jacopo, togliendosi un'ora prima dell'usato dai suoilavori in Duomo, andava a vedere come procedesse il ritratto, e stavalà, dietro a Spinello, guardando la sua bella figliuola e lepennellate che il suo prediletto discepolo veniva gettando nel quadro.
—Ah, padre mio!—diceva Spinello, sospirando.—Non va, pur troppo,non va.
—Tira via, ragazzo incontentabile,—brontolava allora il maestro.—Loso anch'io che non va, se tu vuoi ad ogni costo la perfezione, che nonè di questo mondo. Vedi? Ti riesce tormentato, per la smania di notareogni nonnulla.
—O non bisogna render ragione di tutto?—chiedeva Spinello.—Nondebbo io far risaltare quell'impasto di rosa e di azzurro che si vedenella carnagione, attraverso il bianco ed il giallo?
—Sicuro, ed anche l'arancione e il violetto, il gridellino e ilpavonazzo;—rispondeva mastro Jacopo, ghignando,—Ti consiglio dimetterceli tutti. Se non sarà il ritratto di Fiordalisa, sarà ilritratto dell'arcobaleno.—
Persuaso dalla celia del maestro assai più che da ogni ragionatoparere, Spinello si faceva a cambiare, ma sempre in peggio. Il guaioera questo, che i contorni della figura, quantunque rifatti unadozzina di volte, non lo contentavano affatto; ed egli, mettendo giù icolori, pensava sempre a quel difetto originale dell'opera. Ma doveera, dove si nascondeva, il difetto? Impossibile rintracciarlo. Leproporzioni delle parti c'erano tutte; ma la linea mancava, la lineamisteriosa che le collega e le fonde nel complesso armonico dellaverità. Indovinate la linea, ecco il gran punto. Vedete quanti pittorici si son beccati il cervello, e non ci sono riesciti! Checchè nedicano i moderni, è a gran pezza più facile diventar coloristi, cheafferrare la linea. So bene che si mette in campo la fotografia, lacamera lucida e la camera oscura, aiuti potentissimi a trovare ciò chel'occhio non può dar sempre all'artista. Ma forse che il sole noninganna anche lui? La differenza di piano tra due parti, ancovicinissime, della cosa veduta, produce un errore da nulla, il quales'ingrandisce a mano a mano nel giungere fino a voi, e vi guastal'euritmia del modello; di guisa che la linea, la misteriosa linea delvero, non vi è data neanche dai fedeli riflessi delle camere oscure,lucide, ottiche, nere, e via discorrendo.
Spinello, povero lui, si struggeva di rabbia e faceva ridere madonnaFiordalisa. La bella fanciulla aveva capito istintivamente che quelloera l'unico modo di consolarlo. Sembra a tutta prima che debba esserel'opposto. Ma voi sapete, lettori umanissimi, che c'è riso e riso.Quello di una bella bocca, per esempio, fa l'effetto di un raggio disole agli occhi, combinato con un effluvio odoroso alle nari e con unsuono piacevole all'orecchio. Pensateci, e vedrete che ho ragione io,cioè, no, che aveva ragione madonna Fiordalisa a sorridere.
La fanciulla, del resto, non si annoiava punto di stare in quel modo,per cinque o sei ore al giorno, seduta davanti a Spinello. Daprincipio arrossiva, vedendosi guardare con tanta attenzione, e via,diciamo le cose come stanno, anche con tanto desiderio. Ma laconsuetudine aveva portati i suoi frutti. Non era necessario cheSpinello la guardasse a quel modo? Si sa, un ritratto non è un'impresada nulla; complesso di linee, impasto di colori, luci ed ombrecollocate al loro posto, non sono cose che si possano improvvisare; ènecessario tener conto di tutto, e perciò bisogna vedere, notarediligentemente ogni cosa, spesso anche tornarci su cinque o sei volte.E quando le sei non bastano, Dio buono, ci vuol pazienza, arrivareanche alle dodici.
Inoltre, ci sono di certe minuzie, che vogliono esse sole un tempoassai lungo, e perfino un'intiera seduta; specie se il pittore èdiligente e se ha la consuetudine di rimanere incantato davanti allabellezza.
Pure, con tanta diligenza, con tanto desiderio di far bene, nonriescire che ad un'opera mediocre, era doloroso, e il povero Spinellone aveva un profondo rammarico.
—Ci dev'essere una malìa!—diceva egli a mastro Jacopo, che sisforzava di consolarlo.—O sulla tavola, o nei pennelli, o nella miamano, o in qualche altra parte di me, ci dev'esser una malia. Vedete,maestro? Non mi vien fatto di cogliere certi piccoli rapporti tral'ovale del mento e il tondo della guancia. Infatti, qui è sbagliatoil contorno; non c'è che dire, è sbagliato. L'ho già rifatto unaventina di volte. Quell'altra piegolina impercettibile tra il naso ela guancia! Non l'ho mica saputa indovinare. E l'espressionedell'occhio, Dio buono! E la bocca! Vedete come mi riesce stentata.
—Già, vorresti che parlasse;—notò mastro Jacopo.
—Almeno che ci avesse un po' di moto;—rispose Spinello.—Qui m'èvenuta dura, che è una pena a vederla.
—Ragazzo mio, te l'ho già detto, ti tormenti per trovar l'ottimo, eil buono ti sfugge. Daresti tu ragione a Parri della Quercia?
—A Parri! Che c'entra Parri, nel mio ritratto?
—Sì,—ripigliò mastro Jacopo,—rammento una disputa curiosa che èavvenuta tra i miei riveriti scolari. Parri della Quercia sostenevache il ritratto della mia figliuola era un'impresa difficile, anziaddirittura impossibile, perchè Fiordalisa ci ha un'aria mutevole.Intendeva dire che il suo viso muta aspetto ed espressione ad ognitratto. E Tuccio di Credi, quell'altro sapientone, soggiungeva che ilguaio era tutto nelle parti mobili del viso. Secondo lui, le partimobili del viso sono gli occhi e le labbra.
—Eh,—disse Spinello,—potrebbe aver ragione Tuccio di Credi.
—Un altro che perde la testa!—esclamò mastro Jacopo.—Forse non liabbiamo tutti, quanti siamo, gli occhi e le labbra? E in che dovrebbeesser difficile di indovinare le parti mobili di un volto, e facile diindovinar quelle di un altro?
—Scusate, maestro, ma mi pare d'intenderlo;—replicò Spinello.—Percogliere la somiglianza d'un volto, ho il più delle volte un aiutonelle fattezze risentite, nelle prominenze più forti, nella barba,secondo che è piantata, nelle basette che nascondono il labbro, e viadiscorrendo. Un volto di donna è più difficile a ritrarre, e tanto piùdifficile quanto più s'ingentiliscono i lineamenti, quanto più sondelicati i trapassi da una parte ad un'altra. E allora, se voiaggiungete che gli occhi e le labbra, che sono tanta parte del viso,mutano spesso di espressione….
—Vedete che sciocco son io!—gridò mastro Jacopo, interrompendo lacicalata del suo discepolo.—Non credo alle alchimie di Tuccio e diParri, e le tiro in ballo, io, per appiccicare a Spinello la malattiade' suoi compagni. I quali, in fede mia, non sanno nulla di nulla eparlano a vanvera da quei gaglioffi che sono. Perchè, vedi, ragazzomio, l'arte si guasterà, quando verranno fuori i chiappanuvoli con leloro dottrine. Ti dico che la è quistione di lavorare e non d'altro,di lavorar sempre e di lasciare che i fannulloni cantino. Copiare eimmaginare, immaginare e copiare, ecco il punto. Una cosa non ti vienfatta alla bella prima? Si prova da capo; verrà alla seconda volta, oalla terza. Non verrà neanche alla dodicesima? Pazienza; sarà per laventiquattresima. Ritieni in mente questo, che manda a rotoli tutte ledottrine dei fuggifatica; è sempre un errore di veduta, quello cheguasta il lavoro e ti fa perdere il tempo nelle rabberciature. Che tiserve ritornare col pennello su questa parte e su quella, se ildisegno è squilibrato da bel principio? Rifai di sana pianta, e saràmolto meglio.—
Quel giorno, Spinello deliberò di piantar lì il suo ritratto, percominciarne un altro.
V'ho a dire che gli riescì meglio del primo? Sarebbe una bugia. V'ho araccontare come non gli riescisse? Sarebbe una ripetizione. Di certoquella non era ancora la volta buona. E Spinello, o sbagliando leproporzioni, o non sapendo cogliere certi rapporti insensibili dellafigura, seguitava a credere che ci fosse una malìa. Ad un certo punto,riconoscendo che il secondo ritratto era peggiore del primo, gittò latavolozza e i pennelli, cedendo ad un impeto di sdegno improvviso.
—O Fiordalisa!—gridò.—La natura si ride di noi, poveri sciocchi, iquali ci siamo fitti in capo di agguagliarla, o almeno almeno diseguirla da presso, coi nostri miseri spedienti. O forse son io chegetto sull'arte la colpa della mia ignoranza! Forse ho presunto troppodelle mie forze, ed ho commesso una profanazione, una veraprofanazione. Ma io non lo volevo, ve lo assicuro, è stato vostropadre che mi ha stimolato; è stato lui che mi ha acceso questa febbrenell'ossa.—
E piegatosi a mezzo sulla seggiola, appoggiò i gomiti alla spalliera,nascondendo il volto tra le palme, piangeva di rabbia, il poveroSpinello Spinelli.
Madonna Fiordalisa si era alzata, e si appressava a lui con aria dicompassione. Spinello non la vide giungere, ma sentì una mano gentileposarsi sulla sua testa e un morbido braccio sfiorargli le tempie.
—Chetatevi, messere;—diceva frattanto la divina creatura.—Abbiateun po' di pazienza. Non è poi un male così grave, non poter fare unritratto.
—Non è grave!—esclamò egli, restando fermo nel suo atteggiamento,per non avere a perdere il contatto di quella mano adorata.—Non ègrave, voi dite? Ma è il vostro ritratto, che non mi riesce di fare, èil vostro ritratto, capite, Fiordalisa? Ora, se io non vedessi…. seio non sentissi la vostra bellezza, intenderei il mal esito; ma inquesto caso soltanto. E poichè questo non è….
—Poichè questo non è,—riprese madonna Fiordalisa con accentoscherzevole,—bisogna studiarne un altro. Se fosse vero che lasentiste troppo?—
Spinello si voltò tutto d'un pezzo.
—Ah, questo sì, potete giurarlo!—esclamò con accento di convinzioneprofonda.
E la vide così bella, così splendida nel suo divino sorriso, che nonseppe resistere al desiderio di afferrar la sua mano, indi, fattoardito dalla sua stessa condiscendenza, di rigirarle un bracciointorno alla cintura e di stringere al seno l'adorata fanciulla.
Istanti di dolcezza inenarrabile, di beatitudine celeste, voi rimaneteimpressi nell'anima e vi si ricorda per tutta la vita. Quella cheavete stretta al seno in un impeto d'amore, che avete sentitapalpitare ed ardere sul vostro cuore, era la più bella tra le creaturedi Dio; e per un momento, anche rapido come la folgore, ella è statavostra, così pienamente vostra, che nessun potere geloso, neppurl'ombra d'un pensiero profano, ha potuto mettersi tra il vostro cuoreed il suo. Che altro si può desiderare o sperare, che non sia da menodi quel momento sublime? E come tutto il resto della vita, vanitàappagate, ambizioni soddisfatte, altezze superate, è nulla al paragonedi queste ineffabili possessioni dello spirito! Lo si sente quando lavita sta per fuggire, o quando incomincia a prendervi l'enormefastidio di tutto ciò che vi parve desiderabile in essa.
Fiordalisa si era lentamente disciolta dai lacci dell'innamorato Spinello.
—Lavorate, lo voglio;—diss'ella, non tanto per desiderio dicomandare a lui, quanto per rimettersi in contegno e riavere lapadronanza di sè medesima.
Spinello, obbediente, ripigliò tavolozza e pennelli.
—Oh, quando sarete mia!—mormorò, rimettendosi al cavalletto.
—Non lo sono io già, per la fede che v'ho data?—chiese ella con unplacido riso.
Le dolci promesse di un'estasi invocata passarono davanti agli occhidi Spinello, che ne fu come abbagliato. E gli fu necessario un grandesforzo di volontà per rimettersi in pace, poichè il brivido di quellastretta gli correva ancora per le vene.
Ad aiutare la sua volontà giunse un rumore di passi che veniva dallescale. Poco stante, mastro Jacopo appariva sulla soglia.
Spinello non poteva vederlo, poichè volgeva le spalle all'uscio; ma lovide Fiordalisa e notò che aveva la cera stravolta.
—Che c'è?—chiese la fanciulla, turbata.
—Che c'è?—ripetè Spinello, turbato dal turbamento di lei.
—C'è… c'è… che siamo nati sotto una cattiva stella,—brontolòmastro Jacopo abbandonandosi su d'una scranna, e gettando la berrettain un angolo.
—In nome di Dio, parlate;—gridò Spinello, lasciando dilavorare.—Che v'è egli intervenuto di grave?
—Di grave, sì, proprio di grave!—esclamò il vecchio pittore,guardando la sua berretta, che era andata ruzzoloni per terra.—E queimassari! Con che aria me l'hanno detto! Quasi che la colpa fosse mia,e che io li avessi traditi! Se ne farà un altro, col malanno che ilciel vi dia; se ne farà un altro, e tutti pari. Ma intanto… chefiguraccia! Che cosa non si dirà dei fatti nostri in Arezzo?
—Che?—disse allora Spinello, credendo di aver capito da quelle rotteparole l'argomento delle ire di mastro Jacopo;—avrebbero peravventura biasimato un vostro dipinto? Entrerebbero a disputar d'artecon voi?
—Che biasimato? Che disputare con me? c'è ben altro;—gridò ilvecchio pittore.—Si tratta del Miracolo di san Donato, mi capisci?Del Miracolo di san Donato.
—Ah, meno male!—esclamò Spinello.—E che cosa gli ha fatto, aimassari del Duomo, il mio povero dipinto?
—Nulla; è andato a male.
—Che? come?—balbettò Spinello.—Andato a male?
—Sì, ragazzo mio; bisogna vederlo, che cos'è diventato. Un veroguazzabuglio. Ma procediamo con ordine; altrimenti non capirai nulla.Ero sul ponte, a lavorare, e si trovava con me Parri della Quercia,per mesticarmi i colori. Ad un tratto, i massari mi vogliono giù. Chebisogno hanno di me, da chiamarmi così in fretta? Per fortuna, non miero ancor messo a dipingere. Scendo dal ponte, vo in sagrestia: e là,con aria di mistero, mi mettono in mezzo, per dirmi: Messer Jacopo,mala nuova abbiamo a darvi quest'oggi. Restai di sasso—-A me? Non sitratterà mica di persone che mi appartengano.—No, rassicuratevi,nessuna disgrazia di persone; si tratta dell'affresco di Spinello, delvostro scolaro prediletto.—Orbene? Che ci avete ancora conquell'affresco? Non lo avete accettato? Non v'è egli piaciuto, come,oso dire, è piaciuto a tutti, in Arezzo?—Sì, moltissimo, in verità;ma che volete, messer Jacopo? Egli pare che il vostro discepolo, comeè forte in disegno, non sia altrettanto pratico dei colori.—Oh,diamine! Che cos'è questa novità? Nell'uso dei colori l'ho istruitoio, come in tutto il rimanente. Che cosa ci avete coi colori diSpinello Spinelli?—Eh, veniteci voi, a vederli, il maravigliosoaffresco non si riconosce più da quello di prima.—Andiamo, gridai,turbato da quella notizia.
—E siete andato?—interruppe Spinello, tremante.—E avete veduto?
—Ragazzo mio, sono andato ed ho veduto, sicuramente. Per la croce diDio, non so come ciò sia avvenuto. Che colori hai tu adoperati, perdipingere il Miracolo di san Donato?
—I vostri, padre mio. Non ne avevo altri. Siete voi, che me li aveteforniti. Erano quelli che si macinavano in bottega dal Chiacchiera.
—Ah! dovevo ricordarmene!—gridò mastro Jacopo, battendosi lafronte.—Il Chiacchiera, che se n'è andato così d'improvviso!… Chediavolo ci avrà messo dentro? Colori di miniere, certamente; e permandarti a male ogni cosa.
—Ma dite, parlate;—ripigliò Spinello.—Finora non mi avete spiegatoche cosa sia avvenuto dell'affresco.
—Immagina il peggio che potesse accadere. La figura del Santo non siriconosce più. C'è il verde, l'azzurro, il nero, tutto quello chevuoi, meno il color naturale delle carni. Il tuo povero Santo è piùlebbroso di Giobbe. E quei massari degnissimi! A sentirli, come ticonciavano! E come, senza parere, davano la baia anche a me! Già, nonero io il colpevole, per averti allogato il lavoro? Ecco un grandanno, mi dicevano, con le beffe per giunta; e queste non solamenteper voi. Maledetti! Non ho voluto saperne più altro e li ho piantatilà, con tutto il loro veleno.—
Spinello era rimasto avvilito, quasi istupidito, come il poverovillano che veda il suo campo devastato dal turbine e perdute inun'ora tutte le speranze d'un anno. La similitudine, se non m'inganno,è classica; ma a questo che ci posso far io? È la sola che mi siaffacci alla mente. Vedete, del resto, che io non la tiro in lungo enon ne cavo il costrutto che si potrebbe.
—Orbene, che c'è?—disse Fiordalisa, vedendo il suo fidanzato cosìsbalordito.—Già vi perdete d'animo?
—Oh, madonna!—esclamò allora Spinello.—Come resistere ad un colposimile? Credevo poc'anzi ad una malìa. Ma ora mi avvedo che l'arte nonè fatta per me. Vedete? Qui, con la vostra immagine, non vengo a capodi nulla. E laggiù mi va male d'un tratto ciò che da principio erabene e poteva assicurar la mia fama. Che debbo io pensare? D'averfatto un bel sogno, e d'essermi svegliato nella più grande miseria.—
La bella figliuola di mastro Jacopo scosse la testa, in attod'incredulità.
—Alla fin fine,—diss'ella,—non è un sogno esser qui.—
Spinello alzò gli occhi a guardarla. Non era un sogno, davvero. Labella creatura stava davanti a lui, lo consolava con le sue dolciparole e col suo divino sorriso. Era, infine, la sua fidanzata; e diquesto non poteva egli dubitare, come della sua vocazione per l'arte.
—Animo, via!—soggiunse mastro Jacopo.—Vieni in Duomo, a vedere comete l'hanno conciato, il tuo povero affresco. Sarà un altro dolore, locapisco: ma ti farà andare in collera. In certi casi la collera valmeglio dell'abbattimento. E se ti sentirai andare il sangue allatesta, tanto meglio; ti verrà la voglia di cancellare il dipinto, perrifarlo di pianta.
—Dite bene, maestro. Oh, voi non dubitate ancora di me, come nedubito io! Ma lo consentiranno i massari?
—Che vuoi che facciano di diverso?
—Ma… potrebbero volere che l'opera fosse fatta da voi. E forse,anzi senza il forse, sarà meglio così.
—Tira via, sciocco! I massari non mi faranno il torto di credere cheio possa accettare una sostituzione di questa fatta. Poi, metteremo iponti e si vedrà. Basti a loro che io m'assuma la malleveria d'ognicosa. Se l'opera non riesce bella e salda come è nostro desiderio chesia, lo giuro a san Luca, che è il patrono dei pittori, saremo in duea smetter l'arte. Per altro,—soggiunse mastro Jacopo, ridendo,—nonci sarà questo pericolo. Ricordati che non c'è più il Chiacchiera amacinare i colori.
—Oh, non dubitate, padre mio;—rispose prontamente Spinello,—Nessunometterà mano nelle tinte. Macinerò io, mesticherò io, farò ogni cosada per me.—
Così dicendo, Spinello si alzò, per seguire il maestro. Era un tristeviaggio, quello che stava per fare; ma lo avevano confortato le soaviparole di Fiordalisa. E l'arte, per gli occhi di madonna, tornavaancora a sorridergli.
VI.
Il guasto intervenuto nell'affresco di Spinello Spinelli aveva fattochiasso in città; ne aveva fatto forse più della notizia, corsa unmese addietro, che ad Arezzo fossa toccata la fortuna di possederetra' suoi cittadini un pittore.
Molta gente accorreva nel Duomo vecchio, per vedere il povero SanDonato, il patrono della città, diventato di tutti i colori. E gliamici di Spinello si dolevano a quella vista, e i nemici sirallegravano. Aveva già dei nemici, Spinello, oltre i suoi compagni dibottega? Sicuro; e perchè no? Tra i nemici di un uomo che lavora, cipotete mettere tutti i fannulloni d'ogni risma, il maggior numero,insomma; gente leggiera, che vi loda quando non può farne di meno, mache, venuto il momento buono, è sempre felice di potervi assestare unoscappellotto.
Con tanta folla, e di un umore così benevolo come potete immaginarvi,le chiacchiere erano molte, davanti all'affresco del pittor novellino.Quando giunse in Duomo il vecchio Jacopo, seguito da Spinello Spinellie da Tuccio di Credi, che aveva voluto andarvi anche lui, perconfortare l'amico, si faceva capannello intorno ad un pezzo grosso,che era (fategli di berretta!) messer Lapo Buontalenti. I quattrininon gli mancavano, a quel giudice di cose d'arte; n'aveva tanti, chepotevano tenergli luogo di giudizio.
—Buon dì, mastro Jacopo!—disse il cavaliere, accompagnando la frasecon un risolino sarcastico.—Che siete forse venuto per vedere illebbroso?
—Maisì, messere;—rispose il vecchio pittore;—un lebbroso che saràrisanato.
—Ah, bene!—ripigliò il Buontalenti.—Sarete dunque voi, che fareteil miracolo?
—Non lo farò io, messere; lo farà il mio discepolo Spinello, a cui ètoccato questo tiro mancino.
—E riderà bene chi riderà l'ultimo;—soggiunse Spinello, passandoattraverso il crocchio, e dando un'occhiata severa al beffardo suogiudice.
—Il Buontalenti non poteva lasciar passar nè l'occhiata nè larisposta. Egli rideva, appunto, e scherzava sulla disgrazia delpittore. La bottata era dunque per lui.
—Dite per me, giovinotto?—chiese egli con piglioaltezzoso.—Sappiate che io non rido di voi. Solamente compiango chisi crede da più degli altri e non sa far buon viso ad una giustaosservazione.
—Compiangete dunque voi stesso, messere,—gli rispose Spinello,—chevenite ad impancarvi tra i giudici, senza sapere da che parte si tengaun pennello.—
E passò oltre, appoggiando la risposta con una alzata di spalle.
—Sentite questo ragazzaccio?—gridò il Buontalenti.—Se non fossimonella casa di Dio, mi verrebbe voglia di allungargli una pedata.
—Lasciate correre, messere;—gli disse un savio.—Questi pittorellisono otri pieni di vento, e s'hanno a sgonfiare da sè.
—Sapessero almeno il valor delle tinte!—soggiunse un altro.—Einvece mettono negli affreschi i colori di miniere, scambio deivegetali.
—Chi l'ha detto?
—Eh, l'han detto parecchi; tra gli altri messer Bindo del Rosso, cheè dei massari. Anch'io, del resto, che ho avuto pratica con pittori,posso assicurarvi che la cosa non è andata altrimenti. Lavorare infresco, che si canzona? Non è mica come sorbire un uovo;—continuòl'oratore, vedendo di avere tirato a sè l'uditorio.—Certo, è il modopiù maestrevole e bello di dipingere, perchè consiste nel fare in ungiorno solo ciò che con gli altri modi si può in molti giorniritoccare sopra il lavorato. Ma, per fare un'opera che valga, bisognalavorare sulla calce che sia fresca, nè lasciata mai sino a che siafinito quel tanto che per quel giorno si vuole lavorare. Mi spiego?Infatti, quando il pittore indugia a dipingere quel tratto di muro cheè stato preparato per ricevere i colori, la calce fa subito una certacrosterella, pel caldo o pel freddo, pel vento o pel ghiaccio, e viammuffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuol esserecontinuamente bagnato il muro che si dipinge; i colori che vi siadoperano, tutti di terre, non di miniere; e il bianco, poi, ditravertino cotto. Da ultimo, quando si è dipinto, bisogna guardarsi dinon avere a ritoccare il quadro con colori che abbiano colla dicarnicci, o rosso d'uovo, o gomma, o draganti, come fanno certiguastamestieri; perchè, oltre che il muro non fa il suo corso dimostrar la chiarezza, vengono i colori appannati da quel ritoccar disopra, e in poco spazio di tempo anneriscono. Ora, io dico, questogiovinotto che s'è buttato a dipingere in fresco, non le sapeva,queste cose? E se non le sapeva, come pare da quest'opera sua andata amale, perchè allogare a lui una medaglia di tanta importanza?
—Già,—disse il Buontalenti,—perchè allogare a lui la medaglia? Chene pensate voi, Tuccio?—
La domanda era rivolta a Tuccio di Credi, che poco prima si eraavvicinato al crocchio.
—Io, messere,—rispose Tuccio con aria discreta,—penso che il poveroSpinello sia stato tradito da qualche compagno d'arte, invidioso dellasua fama. Perchè, in verità, supporlo ignaro dell'effetto dei colori,non si può. Tanto varrebbe il dire che egli non conosce i primielementi della pittura.
Indi, accostatosi con bel garbo a messer Lapo Buontalenti, come sedomandasse licenza di passar oltre, gli fece un inchino e gli gittòun'occhiata d'intelligenza.
—Fermo qua,—disse il Buontalenti, prendendolo famigliarmente per unbraccio, ma accompagnandolo un tratto più oltre, anzi chetrattenerlo.—Voi dunque pensate?… Voi sospettate che….—
Indi, a bassa voce, mutato argomento, proseguì:
—Che ci avete di nuovo?
—Ho da parlarvi, messere;—rispose Tuccio di Credi.—Il padre è piùincocciato che mai a volergli dare la ragazza. Bisognerà pensarneun'altra.
—Bene, venite stasera da me; saremo soli;—disse il Buontalenti.
Tuccio di Credi si allontanò, per andare a raggiungere Spinello emesser Jacopo, che stavano in sagrestia a leticare coi massari delDuomo. Dico che stavano, ma potrei restringermi al singolare, poichèSpinello taceva, e mastro Jacopo sosteneva tutto il carico dellaconversazione con quei bisbetici messeri.
Mastro Jacopo, quando lasciava di brontolare e si disponeva achiacchierare, avrebbe potuto dar dieci punti dei sedici a MarcoTullio Cicerone. S'intende a Marco Tullio, quando parlavapro domosua. Infatti, il vecchio pittore, trattando la causa di Spinello,parlava anche un pochettino per sè. Non era lui che aveva allogato illavoro al discepolo? E quel discepolo non doveva sposare la sua bellafigliuola? Immaginate dunque gli sforzi d'eloquenza che fece coimassari del Duomo. Spinello aveva fatto un'opera maravigliosa, e suquesto non ci cascava dubbio, lo avevano riconosciuto tutti, massari enon massari. Quanto alle tinte e alla buona preparazione della calce,non c'era stato niente di diverso, pel Miracolo di san Donato, da ciòche aveva fatto lui, mastro Jacopo, per gli altri affreschi del Duomo.Il tradimento era certo, e veniva da qualcheduno dell'arte. Anzi,mastro Jacopo e Spinello Spinelli sapevano già dove metter le mani.Del resto, non temessero i massari; a quel guaio si sarebbe rimediatoprontamente. Se a loro premeva il decoro della chiesa, a SpinelloSpinelli premeva altrettanto, se non più, la sua fama. Ai tristi nonsarebbe rimasto altro guadagno che di far lavorare doppiamente quelpovero e valoroso giovinotto. Ma questo non importava, e nello spaziod'un mese si sarebbe veduto un Miracolo di san Donato bello come ilprimo e condotto secondo ogni regola d'arte. Non era solamenteimpegnato in quell'opera l'amor proprio di Spinello, ma altresìl'onore del maestro e di tutta la sua scuola, a cui non era maiaccaduta una cosa simile.
—Del resto,—soggiungeva mastro Jacopo,—questa volta ci sarò io avegliare, e non entreranno in Duomo altri colori che quelli macinati emesticati da noi.—
I massari chinarono la testa, in atto di assentimento, e diederolicenza a mastro Jacopo di fare in tutto come gli piacesse meglio, maa sue spese e sotto la sua malleveria.
—Non temete, messeri onorandissimi;—rispose il vecchio pittore,abbastanza contento di averla aggiustata in quel modo.—Ho giurato dismettere i pennelli, se la cosa non va come è giusto che vada.—
La mattina seguente, chiuso il Duomo ai curiosi importuni, i manovalisi fecero tosto a rizzare una nuova impalcatura, nella cappella di SanDonato. Frattanto, Spinello Spinelli, andando dalla bottega al Duomo,ci aveva da rispondere a tutti coloro che lo fermavano per via, e damandar giù le condoglianze più o meno sincere, che tornano cosìmoleste ad un galantuomo, quando ci ha l'anima oppressa.
Io non riesco a capire come mai non ci pensino, le personecerimoniose, all'effetto di certi loro discorsi. Basterebbe il dire:"v'e andata male, abbiate pazienza, rifate e prendete la vostrarivincita". Ma no, bisogna proprio che vi s'accostino con ariamalinconica, che vi stringano la mano con tutt'e due le loro, chelevino gli occhi al cielo in atto di fare a Dio l'offerta dei vostridolori, e che vi facciano una stampita da non finirla più. E voiescite dalle loro consolazioni più disanimati che mai. Peggio, poi,quando le condoglianze vi sanno di bugiardo, perchè allora ci aveteanche la nausea, dovendo dar fuori il dolce e tenervi in corpol'amaro.
Spinello Spinelli, come potete argomentare da questo discorso che iovi ho fatto secondo la sua intenzione, cansava molto volentieri ogniincontro. Nello stato d'animo in cui egli si trovava, ogni conoscenteera un seccatore. Da bottega al Duomo; dal Duomo a bottega; era questoil suo itinerario quotidiano, compiuto con una rapidità da meritargliil soprannome di Saetta.
La nuova impalcatura era stata rizzata dai manovali; e Spinello, comepotè avvicinarsi al suo povero affresco, non durò fatica a riconoscereche, scambio di terre, gli avevano macinato colori minerali, conqualche altra diavoleria per giunta alla derrata. Ma che cosa fosseveramente questa diavoleria, nè egli, nè mastro Jacopo riuscivano adintendere, mancando a quei tempi il benefico trovato delle analisichimiche. Ambedue maledissero un'altra volta il Chiacchiera e lovotarono agli spiriti maligni, come usavano fare gli antichi Ebrei colcapro emissario della tribù; indi Spinello si diede a rifare i suoicartoni, in quella che i manovali scalcinavano la vòlta.
Disgraziato affresco! Egli sparì dopo aver brillato una settimana agliocchi della moltitudine stupefatta; sparì, come sparisce una donnaleggiadra, dopo avere innamorato mezzo mondo della sua fiorentebellezza. Ma quantunque la fine dell'affresco di Spinello Spinellifosse stata precoce, non gli era toccata la sorte delle belle donneche muoiono giovani, poichè s'era da un giorno all'altro imbruttito ene avevano detto corna quegli stessi che più lo avevano lodato.Instabilità degli umani giudizi!
Animato da un po' di rabbia, ma più dai conforti della bellaFiordalisa, Spinello si pose all'opera e lavorò per quattro. Già sicapisce che il ritratto di madonna fu per allora rimesso a dormire.Infelice ritratto! Non era venuto bene da principio, e meritava la suasorte.
Mastro Jacopo non si dolse di ciò. Egli, che pure aveva spese tanteparole a consigliare quell'opera, fu il primo a dire che era megliolasciarla da banda. Un po' di intervallo ci voleva, perchè l'animo simettesse in pace e l'occhio del pittore si liberasse da certidirizzoni; più tardi si sarebbe veduto. Ma Spinello non contava diripigliare il lavoro, nè più tardi, nè mai. Sapete già che nellaimpossibilità di ritrarre i lineamenti di Fiordalisa egli ci vedeval'effetto di una malia. Perchè avrebbe richiamato lo spirito maligno,che si beffava così crudelmente di lui? Meglio era non pensarciaffatto.
Del resto, il Miracolo di san Donato richiedeva tutto il suo tempo.Spinello era pieno d'ardore e passava sul trespolo le intieregiornate, lavorando alla brava. I pennelli, nelle sue mani, andavano evenivano come la spola in mano alla tessitrice. Un mese dopo la scenacoi massari del Duomo, che v'ho raccontata più su, il nuovo affrescoera condotto a termine. Tutto era stato osservato con diligenza, edirei quasi passato allo staccio, la calce, la rena, i colori. MastroJacopo vegliava come uno degli Otto; nessuno, oltre lui e Spinello,aveva potuto metter piede sul ponte. Anzi, il vecchio pittore avevaspinto il rigore a tal segno, che lo scaccino del Duomo dovessevietare a lui stesso a lui, mastro Jacopo, di salire sull'impalcatura,se non fosse stato presente Spinello.
—Non si sa mai!—diceva egli ridendo.—Potrei essere sonnambulo,venire in Duomo senza avvedermene e tentare di salire quassù; per farequalche tiro mancino, sotto la guida del diavolo.—
I massari degnissimi videro il nuovo dipinto e si congratularono colgiovine artista per la sua diligenza, come per la sua valentia. Ilpopolo fu chiamato e ammirò. Spinello, rifacendo, aveva mutato alcunecose, pensando che potesse vantaggiarsene il quadro. E certamente lacomposizione, restando suppergiù quella di prima, ci aveva guadagnatodi scioltezza; il disegno appariva più corretto, e tutte le partiassai meglio dipinte. Chi ha dovuto rifare un lavoro, anche lodatonella sua prima forma, intenderà queste cose. Ma non mancarono neanchei sofistici, per sentenziare che il primo affresco era meglio. Eforse, anche senza saperlo, dicevano il vero, poichè la freschezza diuna prima impressione non si ripete più, anche facendo un più correttolavoro.
Lodato, levato a cielo, messo a confronto con sè medesimo, Spinellonon era tuttavia con l'animo all'altezza della sua riputazione. Ilpoveretto sfioriva, avvizziva, intristiva ad occhi veggenti.
—Ragazzo mio,—gli disse un giorno Mastro Jacopo,—tu non seicontento dei fatti tuoi; tu aspetti qualche cosa, come a dire la mannadel cielo.
—Che dite, maestro!—esclamò il giovinetto, confuso.
—Negalo, se ti basta l'animo. Non sarà la manna, lo capisco, maqualche cosa di simile. Per esempio,—soggiunse maliziosamente ilvecchio pittore,—una parolina di quel certo babbo. Ed io, scimunito,m'ero messo in testa che ti bastasse la gloria!
—Oh, padre mio,—rispose Spinello, indovinando finalmente dovevolesse andare a battere mastro Jacopo,—la gloria è una bella cosa,soltanto perchè è donna. Ma una donna vera, sia detto con vostralicenza, vale assai più della gloria, che è donna solamente pergrammatica.
—Eh! non dirai mica sempre così;—ripigliò mastro Jacopo.—Come tu mivedi, io amo adesso la gloria, che è donna per burla. È vero cheanch'io non sono più l'uomo di prima. Tuttavia, quando aveva i tuoianni, amavo una cosa e l'altra, anzi una cosa per l'altra. Ma infine,siamo giusti, non è questo ciò che tu fai? Desideri di risplendere,d'innalzarti, per raggiungere un fiore.
—Ed un fiore che voi tenete tropp'alto con la mano;—disse Spinello,ridendo.
—Sì, eh, manigoldo! Troppo alto? Stiamo a vedere che dovreibuttartelo tra' piedi! Ma basti di ciò;—soggiunse mastro Jacopo,vedendo che il povero innamorato si faceva serio da capo;—che direstitu del giorno di San Luca? Sai pure. San Luca è il patrono deipittori.
—Dico,—rispose il giovane, chinando la testa,—che san Luca verràfra trentadue giorni.
—Ti paion troppi? Contentati! Anche Fiordalisa ci ha i suoiapparecchi da fare.—
Spinello Spinelli si buttò nelle braccia di mastro Jacopo.
—Animo, via!—brontolò il vecchio pittore.—Non piangere, io credo diaver disimparata quest'arte, e potrei esser geloso di te.
Così dicendo, mastro Jacopo asciugava due luccioloni, che erano venutiproprio allora a farlo bugiardo.
Quel giorno, Spinello Spinelli entrò raggiante in bottega. E Parridella Quercia e Tuccio di Credi, opachi e taciturni lavoratori,levarono gli occhi stupiti a contemplare quel giovine cherubino, chenon capiva più nella pelle.
—Che c'è?—disse Parri della Quercia.—Vi fiammeggiano gli occhi.
—Lo credo io!—rispose Spinello.—C'è… c'è, amici miei, una grandenovità. Ve la dò a indovinare alle cento.
—Dio buono!—esclamò Parri della Quercia,—si tratta di una cosa chevi fa molto piacere.
—Benissimo! Avete indovinato alla prima.
—Eh, che sia una cosa allegra lo si vede dalla vostra cera. Che cosasia, poi, aspettiamo di udirlo dalle vostre labbra, poichè nonbasterebbero a noi, nè le cento, nè le mille.
—San Luca! San Luca!—gridò Spinello, saltando, e abbracciandol'amico Parri.—Mi capite? Il giorno di San Luca.
—Cade se non m'inganno ai 18 di ottobre;—rispose Parri della Quercia.
—Che importa a me quando casca? Volevo dirvi che quel giorno iosposerò madonna Fiordalisa.
—Ah!—disse Parri.—Abbiate le mie congratulazioni. Quantunque,potete anche farne di meno.
—V'ingannate, Parri; le congratulazioni degli amici ci esprimono illoro animo e portano fortuna come gli augurii. E il vostro e quello diTuccio mi saranno carissimi.—
Tuccio di Credi, così chiamato a parte della gioia di SpinelloSpinelli, lasciò di macinar colori, per rispondere col suo accentograve, che pareva scaturire dagli abissi:
—Siate felice!
—E voi mi sarete compagni alla cerimonia, non è vero?—ripigliòSpinello, che era avvezzo al tono di voce dell'amico Tuccio e nondoveva farne più caso.
—Sicuramente,—rispose Parri della Quercia.—La vostra allegrezza èla nostra.
—Ed è grande, sapete? Così grande che io non la posso contenere; cosìgrande, che ho sempre paura di…. Ma non diciamo sciocchezze. Volevosoltanto farvi intendere che gioia profonda sia quella di possederechi s'ama, quando si ama….
—Come voi amate, ho capito;—disse Parri della Quercia, col suoplacido viso.
Era contento quel buon diavolaccio di Parri. Non si sentiva nato pernessuna altezza, e dalla sua mediocrità consapevole, ma non gelosa,godeva di ammirare i fortunati che andavano su, fin dove un uomo puòandare, per cogliere ciò che è più desiderato nel mondo, una corona dialloro o un amplesso, il bacio della gloria o un bacio di donna.
Tuccio di Credi, per contro, era diventato livido come un cadavere. Magià, voi lo sapete, Tuccio di Credi aveva la faccia di coloreolivastro, e queste tinte illividiscono facilmente ad ogni commozionedell'animo. Ora, il lividore di Tuccio poteva essere un segno diallegrezza profonda, come era di profondo rancore.
Anch'egli aveva amato Fiordalisa, ma senza speranza, prima cheSpinello Spinelli entrasse in bottega di mastro Jacopo e innamorassela bella figliuola del pittore. Per altro, avrebbe voluto che glielarubasse un altro; il Buontalenti, per esempio, o il primo venuto tra icavalieri d'Arezzo. Egli certamente avrebbe odiato il rivale, ma noncosì fieramente come un compagno d'arte, la cui felicità dovessestargli sempre davanti agli occhi, quasi un rimprovero alla suadappocaggine.—Ecco qua (parea dirgli un matrimonio di quella fatta);madonna Fiordalisa, quest'angelo di bellezza doveva toccare in premioad uno che avesse in petto il sacro fuoco dell'arte; e tu non eriquell'uno.—
Ma che importa, quando si ama (dirà il lettore), che importa che lapersona amata vi sia rapita da Caio, anzi che da Sempronio? Importamoltissimo, se all'amore aggiungete l'invidia.
VII.
Siamo già presso al gran giorno, e ancora non si è fatta un'intimaconoscenza con madonna Fiordalisa, che dovrebb'essere l'eroina dellafesta. Abbiamo ammirata la sua bellezza esteriore, ma l'anima sua nonci è nota. Abbiamo veduto il fiore, non abbiamo sentito il profumo.
Fiordalisa era vissuta molti anni da sola in casa di mastro Jacopo,padre amoroso, ma burbero e tutto sprofondato nell'arte sua. Escivaappena d'infanzia quando le era morta la madre, e ciò le aveva portatol'obbligo di molte cure domestiche non intese subito, ma vedute edaccettate a mano a mano che in lei cresceva con gli anni il giudizio.Era una bambina grave prima di essere una donnina forte.
Inoltre, ella aveva veduto assai presto la necessità di custodirsi dasè. Il fiorire della bellezza era stato precoce, e il ronzio deicalabroni del pari. Lodata, ammirata, corteggiata alla larga ma convisibile assiduità, bersagliata da sguardi languidi, salutata daesclamazioni subitanee, da voltate e da fermate che dicevano esse soleun mondo di cose, madonna Fiordalisa ci aveva tutte le tentazioni perdiventare una vanerella. E forse sarebbe finita così, se la presenzadi una mamma, tenendo lontani gli adoratori importuni, avesse lasciatolibera quella bella creatura di scegliere nella turba i più modesti, ead ogni modo di inebbriarsi in tutte le generazioni d'incenso chevaporavano intorno a lei. Ma io ve l'ho detto, Fiordalisa era sola;non aveva tempo nè modo di raccapezzarsi; doveva guardarsi da tutti,non osservando nessuno. E si era concentrata in sè chiudendo nelprofondo dell'anima tutte le sue belle fantasie giovanili. Ora, voisapete che cosa avviene dei liquori generosi, quando sono chiusiappuntino; fermentano da sè, si rinforzano in una specie dimeditazione solitaria. E nell'anima di Fiordalisa, la fantasia avevatanto più lavorato, quanto più era stata rinchiusa. La vita realel'opprimeva con tutte le sue convenienze, i suoi riguardi, le suenecessità, ma lo spirito si ricattava di quella tortura, affinando,abbellendo, innalzando il proprio ideale.
Mastro Jacopo credeva di comandar lui alla sua bella figliuola,perchè, quando le diceva: "facciamo la tal cosa" ella si affrettava adobbedirgli. E non sapeva, il babbo, che egli non comandava mai e chenon consigliava mai nulla che non fosse ispirato da lei, e preparatoda lunga mano con sapienti rigiri. Per esempio, la fanciulla avevainteso assai presto che un giorno le sarebbe toccato di andare amarito, e che forse avrebbe dovuto escire di casa. E allora, chiavrebbe avuto cura del babbo? Un uomo solo ha bisogno di tante cose,nel governo della casa, che una donna gli è più che utile, necessaria.Nè basta a lui di essere in tal condizione d'agiatezza, che gliconsenta il lusso di due o tre donne di governo. Fossero anche dieci,esse non valgono l'occhio ed il cenno di una buona massaia. Perciò,immaginate con quanti graziosi artifizi madonna Fiordalisas'industriasse a insinuare bel bello nella mente di suo padre che lafigliuola di un artista non doveva sposare che un artista. La cosatornava bene all'umore bizzarro di mastro Jacopo; ed egli aveva fattasua l'ideina germogliata nel cervello della sua Fiordalisa.
Perchè s'era messa in testa di consigliarlo a quel modo? Son certo chevoi, lettor sottile, non mi menate buona la ragione domestica,rammentando la massima, confermata da una osservazione costante, chenoi accogliamo le idee savie solamente quando esse s'accordano con unarealtà che ci piace. Ma, a farlo apposta per isbugiardare la massima,Fiordalisa non ci aveva nessuna realtà di quelle che potrestefigurarvi. Ella non aveva davanti agli occhi la più piccola immaginedi genio nascente. Gli scolari di suo padre erano rozzi, o gaglioffi,veri fattori, garzoni di bottega, non artisti da innamorare lefanciulle. Madonna Fiordalisa non aveva condotto l'animo di suo padresu quella via, che per un senso d'orgoglio. Ecco in che modo.
L'arte della pittura incominciava allora ad essere tenuta in qualchepregio, più per la fama di Giotto e de' suoi valenti discepoli, chenon per sè medesima, come arte liberale. Solo da pochi anni i pittoriavevano istituita in Firenze la loro confraternita speciale, e mastroJacopo di Casentino, che v'era ascritto dei primi, aveva dipinto perl'oratorio di quella unSan Luca che ritrae la Nostra Donna in unquadro. Ma ciò non bastava ancora a nobilitare i pittori, poichè, losapete, tutte le distinzioni hanno mestieri di pigliar lustro daltempo. Inoltre la compagnia di san Luca non era nata con intendimentimolto orgogliosi, ma solo perchè i maestri che allora vivevano, cosìdella vecchia maniera greca, come della nuova di Giotto, ritrovandosiin gran numero e considerando che l'arti del disegno avevano inToscana, anzi proprio in Firenze, avuto il loro rinascimento, s'eranoconsigliati di creare la detta compagnia, sotto il nome e laprotezione di san Luca evangelista, sì per render lode e grazie a Dionell'oratorio di quella, sì anco per trovarsi alcuna volta insieme esovvenire nelle cose dell'anima e del corpo a chi, secondo i tempi,n'avesse bisogno. Il periodo è lungo; ma non è che l'abbreviatura d'unaltro, anche più lungo, di messer Giorgio Vasari. Del resto i pittorinon erano che una frazione degli scudai, rotellai, palvesai, ed altriartefici di quella fatta; nè si credevano diversi da questi, poichètutti dipingevano le pezze onorevoli e le imprese negli scudi degliuomini di guerra. La famosa risposta di Giotto a quel villan rifattoche voleva farsi dipinger l'arme da lui, è la riprova di questacomunanza di lavoro. Il rinnovatore dell'arte italiana non si dolevatanto di dover dipingere uno stemma, quanto di dover accettare lacommissione d'un uomo di picciolo affare, che ragionava d'armi come sefosse il duca Namo di Baviera.
Accadeva dunque all'arte della pittura ciò che è dei piccoli aquilottinel nido, che sentono nascer le penne e già batton l'ali, quantunqueabbiano ancora i bordoni. Madonna Fiordalisa sentiva il gentileorgoglio dell'arte paterna, e in ciò spero che nessuno le vorrà dartorto. Quegli angioli e quelle Vergini che dipingeva suo padre e chefacevano rimanere a bocca aperta tanti gentiluomi di Firenze e diArezzo, erano quarti di nobiltà per la sua casa, che valevano pure learmi di concessione degli imperatori di Lamagna e dei reali diFrancia. Madonna Fiordalisa aveva dunque la sua piccola superbia intesta. E poichè al matrimonio bisognava pensare, per la ragionenaturalissima che una bella ragazza come lei non avrebbe potutosottrarvisi, ella incominciò a fare il suo ragionamento dentro di sè.Un artefice di umili lavori non lo voleva, e ad ogni modo non loavrebbe voluto mastro Jacopo; ma un gentiluomo, ancorchè fossepiaciuto a suo padre, non lo avrebbe voluto lei sentendoistintivamente che i grandi, i potenti della terra, non erano fattiper la figliuola d'un pittore. Madonna Fiordalisa non amavadiscendere, ma non voleva neanche salire ad una altezza, dove poi lesi potesse rinfacciare l'umiltà relativa dei suoi natali. In quelcorpicino leggiadro batteva un cuor di regina.
Nessuno, io spero, vorrà dirmi che io la rendo brutta, dipingendola untantino orgogliosa. L'ipocrisia non deve guastar l'arte, come qualchevolta pur troppo le avviene di guastar la natura. Orgogliosi lo siamtutti la parte nostra, e meglio sarebbe confessarlo sinceramente,ognuno per sè medesimo, anzi che fermarsi a biasimare la cosa neglialtri. Fiordalisa a buon conto, era superba come doveva essere, diquella superbia che non reca offesa ad alcuno, ma che basta a farcisentire non indegnamente di noi, ed è stimolo potente ad opereegregie, o almeno almeno a non volgari pensieri.
La realtà piacevole che, come ho detto, mancava ancora alla bellaFiordalisa quando ella incominciò ad insinuare nella mente di suopadre l'idea di non volere che un artista per genero, si presentòfinalmente, nella persona di Spinello Spinelli. La fanciulla riconobbein lui l'ultimo venuto e il più modesto de' suoi adoratori di strada.Si turbò, a tutta prima, immaginando che fosse un temerariointrodottosi destramente in casa di mastro Jacopo, sotto colore di unavocazione artistica che non sentisse davvero nell'anima. Fiordalisaera una di quelle donne che non amano gli audaci. Ma ella non istettemolto ad accorgersi che Spinello non aveva mentito, e incominciò avedere in lui l'incarnazione di quell'ideale che ella vagheggiavanella sua mente. Si raccolse allora in sè medesima, assaporando lanuova sensazione che il caso portava nella sua esistenza. Il cuore diFiordalisa si era svegliato; per contro, la sua fantasia, vigile daprima e avvezza a vagar dietro alle chimere, si addormentava in un belsogno, che aveva argomento nel vero.
C'è nell'amore un grazioso dormiveglia, di cui come di tante altrecose piacevoli, si sente la delizia, quando la sensazione è cessata, os'è trasformata in un'altra. Il cuore incomincia a farsi vivo, nelconfuso bisbiglio d'una voce arcana. La ragione, acquietata da onestiargomenti, o persuasa dalla lontananza del pericolo, trova nel fattoil suo tornaconto e sonnecchia, lasciando che l'anima si abbandoniintieramente al soave sentimento che la invade. Tutti gli amori lohanno, questo dolce periodo d'infanzia, del non desiderare, del nondiscuter nulla, dell'accettare la vita e la cosa come ci sono offertedalla lieta occasione. È il tempo in cui l'uomo osserva la vesteportata da una donna, per rammentarsene poi, come d'ogni parte piùappariscente della bellezza di lei; è il lampo in cui la donna meditasulle frasi più insignificanti, e finisce a trovarci un senso riposto.E più tardi l'uomo può dire: "Sapete? la prima volta che ho sentito diamarvi, eravate vestita così e così." E la donna dal canto suo: "Virammentate? Un giorno, nel tal luogo, alla tal ora, mi avete detto chenon vi piacevano imarrons glacés." Cara infanzia d'amore! In quelsoave dormiveglia si è compiuto il grande mistero dellacompenetrazione (stavo per dire della transustanziazione) di duecuori, di due anime, di due esistenze. E quando ci si trova innamoratia buono, non si sa mica come la sia andata, nè quando sia entrato, nèda che uscio, l'amore. Si vorrebbe saperlo, per appagare una gentilecuriosità, e rinnovarne la grata sensazione. Ma invano; l'indaginenostra non può risalire all'origine, o, se vi giunge, non trova nulladi chiaro. Così è l'infanzia del linguaggio, di quest'altro sublimemistero. Come ha imparato a parlare il bambino? Quando e per che vieha trovati i nessi della frase e i segreti della coniugazione? Cercatee non troverete; bussate e non vi sarà aperto, nè ora, nè mai.
Quando madonna Fiordalisa si accorse di amar tanto il nuovo discepolodi suo padre, mastro Jacopo era già più infatuato dei meriti diSpinello che ella non fosse invaghita del giovane. Una bella mattinamastro Jacopo le disse così di schianto: "Sai? Spinello ti ama; io amolui; resta che lo ami anche tu, perchè la catena sia fatta". Ella risedella forma bizzarra che suo padre avea dato alla notizia; ma non ebbea maravigliarsene punto. Come l'amore di Spinello Spinelli, così leintenzioni benevole di mastro Jacopo non erano una novità per lei; lesapeva già, le sentiva nell'aria.
Anche il trionfo artistico di Spinello nell'affresco del Duomo, pergrande che fosse, era preveduto. La cosa andava da sè. Era, per dircosì, la chiave della camera nuziale, ed era giusto che Spinellofacesse miracoli per ottenerla. Di questo ella non aveva mai dubitato,poichè la ragione dell'impresa, il segreto della vittoria di Spinello,era in lei, consapevole virtù teologale. Quante cose sapeva la bellaFiordalisa! Ma badate, non più tante come prima. Per esempio, unavolta ella sapeva quanti uomini in Arezzo fossero innamorati di lei.Nè già perchè ella si fosse fermata a contarli, vi prego di crederlo,ma perchè non poteva non vederli, non sentirsi fischiare all'orecchiole loro giaculatorie, anche quelle che non escivano fuori in paroleformate. Madonna Fiordalisa vedeva senza guardare, udiva senzaascoltare. Ma quando ella sentì di amare Spinello, non vide, non udìpiù nulla del mondo. Il sesto senso che hanno le donne, per cogliereciò che sfugge all'attenzione dell'universale, fu spento d'improvvisoin lei. Madonna Fiordalisa non vedeva, non udiva che un uomo. Inapparenza, era sempre contegnosa e tranquilla, come quando sentiva ilsusurro degli inni che volavano a lei d'ogni parte, e direi quasi ilcrepitio dei cuori che ardevano sul suo passaggio trionfale. Manell'anima sua era un pensiero che non pativa rivali, nel suo cuoreun'immagine che non lasciava posto a nessuna impressione esteriore.
La rammentate, la favola di quella bella principessa a cui una fatabenigna aveva concesso di poter leggere nel cuore di tutti, fino atanto che ella potesse veder chiaro nel suo? Un giorno la principessasi svegliò più triste dell'usato; guardò nel suo cuore e ci videtorbido. La poverina era innamorata. La favola dice che da principioella non sapeva darsene pace; ma che poi ne fu consolata dalla suaprotettrice. Che ti giova, le disse la fata, di leggere nel cuore ditutti? Le più grandi soddisfazioni della vanità non valgono il piùpiccolo conforto d'amore.—
Il guasto dell'affresco era venuto in mal punto, per indugiare lafelicità dei nostri innamorati; ma non doveva altrimenti distruggerla,poichè la mano che aveva condotto a termine il primo lavoro, potevaincominciarne un secondo. Fiordaliso indovinò la presenza del nemico,e sospettò anzi un geloso. Ma suo padre non ci aveva veduto che iltiro mancino di un compagno d'arte invidioso, e mostrava anche disapere dove metter le mani. La partenza improvvisa del Chiacchiera,del Granacci e di Lippo del Calzaiuolo dalla bottega di mastro Jacopo,confermava i sospetti del vecchio pittore. E Fiordalisa lasciò indisparte i suoi dubbi, non cercò altro, non si volse attorno perinterrogare i sembianti, che avrebbero potuto impallidire. Del resto,che importava cercare il nemico, se Spinello doveva ad ogni modoriportare la palma? Fiordalisa rianimò il coraggio del suo fidanzato egli persuase che da quel male ne sarebbe derivato un bene maggiore,poichè nella seconda prova egli avrebbe dimostrato, se era possibile,una più grande franchezza di mano.
Così avvenne, com'ella aveva pronosticato. Spinello ebbe vendettaallegra dello sconosciuto nemico, nel plauso di tutti i suoiconcittadini, che avevano ammirato il primo dipinto e che levarono acielo il secondo. E mastro Jacopo, contento come poteva esserlo unpadre, diede a Spinello il maggior premio che per lui si potesse,annunziandogli che il matrimonio si sarebbe fatto fra un mese. Unmese! Appena quanto occorreva per gli apparecchi nuziali.
Gran giornata, quella festa di San Luca! Ma ogni santo ha la suavigilia, e mastro Jacopo pensò giustamente che dovesse averla anche ilterzo degli evangelisti e il primo dei pittori cristiani. Il giornodelle nozze doveva essere un giorno di raccoglimento; bisognava dunquesolennizzarlo in anticipazione, facendo alla vigilia il pranzonuziale.
La casa di mastro Jacopo era di persona agiata, ma non ricca. Delresto, a quei tempi, anche i popolani grassi vivevano semplicemente.Al servigi della famiglia di mastro Jacopo non c'era che una vecchiafante, la quale bastava a tutto, e a governare la casa e adaccompagnare madonna Fiordalisa, quando esciva per andare agli uffizidivini. Essa per altro non sarebbe bastata ai bisogni di quellacircostanza solenne, e fu mestieri provvedersi di quattro o cinquemezzi servizi per quel giorno di grandi faccende domestiche. Parridella Quercia e Tuccio di Credi, volonterosi aiutanti, si fecero inquattro, per servire il maestro in quelle ricerche e in tutto l'altroche gli fosse bisognevole. Nella necessità si conoscono gli amici; equello era il meno che potessero fare, per dimostrargli la lorogratitudine.
Il vecchio pittore si rallegrava di vedere raccolta in casa sua tantagente. I congiunti non erano molti, poichè egli non era nato in Arezzoe messer Luca Spinelli neppure. Ma una zia si trovò, ed anche unacopia di cugini o di cugine, a cui si aggiunse una mezza serqua diamici vecchi, che potevano considerarsi come parenti, o giù di lì.C'erano poi gli scolari di Mastro Jacopo, ed anche qualche bell'umore,di quei tali che si invitano a tutte le feste, perchè rallegrino lebrigate coi loro motti arguti o con le loro canzoni.
Messer Luca Spinelli, quel giorno, baciò sulle gote la gentilFiordalisa e la chiamò col dolce nome di figlia. Com'era bella, nellasua veste di ferrandina a larghe pieghe e la radice del collo copertada un baveretto bianco! Era la veste che ella indossava per recarsi alDuomo; la veste con cui l'aveva veduta per la prima volta Spinello, evoi intenderete, io m'immagino, il delicato pensiero che l'avevaconsigliata di vestirsi a quel modo, lasciando al giorno seguente lepiù sfarzose abbigliature.
Ma ohimè, se Fiordalisa, era bella, non era altrimenti lieta. MesserLuca osservò che la sua nuora futura, anzi, la sua cara figliuola,poichè oramai poteva anch'egli chiamarla così, portava sul volto letraccie d'un interno rammarico.
—Luca mio,—gli disse mastro Jacopo, traendolo in disparte,—chevolete? Son donne e ci hanno le loro piccole superstizioni. S'è dovutoprendere quattro o cinque persone a mezzo servizio, per dar mano atutto il bisognevole in questa casa, dove pare che ci sia ilfinimondo. E stamane, uno di questi gaglioffi anzi una di questesventate, poichè si tratta d'una donna, nel riporre certe robe nelforziere di mia figlia, ha lasciato cadere un piccolo specchio, che èandato, come potete immaginarvi, in tanti minuzzoli. E per giunta(vedete che sciocca!) non s'è messa a gridare che era una grandedisgrazia?
—Lo è certamente;—notò messer Luca Spinelli.—Costa caro unospecchio!
—Oh, per questo avete ragione; ma non era il caso di vederci altroguaio. La mia figliuola veramente non li aveva, certi pregiudizi peril capo; ma voi mi capirete bene; sentirsi dire che il rompere unospecchio porta sventura, non è certamente una cosa piacevole, speciealla vigilia d'un matrimonio. Io per altro l'ho consolata, dicendoleche la rottura d'uno specchio porta sventura, bensì, ma solamente achi lo ha lasciato cascare. Non ho detto bene? Ma lasciamo questeragazzate;—conchiuse mastro Jacopo;—e andiamo a tavola, con labenedizione di Dio.
Del resto, se madonna Fiordalisa era grave all'aspetto, non crediateche fosse per quel piccolo guaio, dimenticato pochi istanti dopo cheera avvenuto. Ed ella e il suo fidanzato stavano in contegno, come ècostume di tutti gl'innamorati, giunti a quel momento, in cui hanno dacustodire la loro allegrezza dallo sguardo importuno dei curiosi, edanche da nascondere, per debito di cortesia, la noia che provano adover perdere il loro tempo in compagnia di profani.
Fortunatamente, se i due innamorati apparivano un po' malinconici,mastro Jacopo era gaio per essi e per altre undici coppie di sposi. Èsempre andata così. I caratteri più burberi quando girano per caso albuon umore, diventano così pienamente e così rumorosamente allegri damettere in sacco una dozzina di giullari.
Mastro Jacopo aveva ragione d'essere così allegro. La sua figliuolaandava a marito. Era la sorte di tutte le ragazze; ma per quella voltala frase non era precisa, poichè Fiordalisa non andava restava, ed erail marito che faceva la strada. Mastro Jacopo aveva voluto tirarsi ilgenero in casa, e Luca Spinelli che non era ricco, già lo sapete, siacconciava al desiderio del vecchio pittore. Il quale poteva diregiustamente di aver concessa con una mano sua figlia, ma di averlaritenuta con l'altra.
Alle gioie domestiche di mastro Jacopo avevano preso parte moltissimi,in Arezzo, e si potrebbe aggiungere tutti gli abitanti della contrada.Mastro Jacopo era universalmente stimato; la sua figliuola erauniversalmente amata, anzi per dirla con una iperbole tutta nostrana,adorata. Figuratevi che davanti all'uscio di casa erano stati piantatidegli alberi inghirlandati di fiori. Era la confusione del calendario;ii maggio in ottobre! E sotto alle finestre della casa si affollavanoi cantori popolari, per festeggiare le nozze di madonna Fiordalisa coiloro rispetti, frammezzati da certe rifiorite, che era una delizia asentirle.
Non vi descrivo il pranzo. Vi dirò solamente che fu degno dellacircostanza e lieto per una bella confusione di bicchieri e di lingue.Il vin toscano, specie quello di Val di Chiana, è generoso, nontraditore; vi dà una dolce allegria, senza turbar la ragione.
Spinello non mangiava e non beveva che a fior di labbra. GuardavaFiordalisa. Stava a sentire i motti, sorrideva ai complimenti,accettava gli augurii, ma senza meditarci su. Guardava Fiordalisa. Ditanto in tanto, facendo uno sforzo di volontà, si concentrava in sèmedesimo e chiedeva:
Son io, proprio io, che la sposo? Non è un sogno, che faccio? In fedemia non lo so. Vedrò di persuadermene domani.—
La giornata era bellissima, forse un po' troppo calda, per il mezzod'ottobre. Guardando Fiordalisa ad ogni tratto, Spinello s'immaginòch'ella dovesse soffrire. Come Dio volle, anche il pranzo finì; edegli, accostandosi alla sua fidanzata, le chiese sotto voce:
—Madonna, che avete? Vi sentite qualche cosa?
—Oh, nulla;—rispose ella.—Un po' di caldo.
—Dovevo figurarmelo;—riprese Spinello.—Si sta male, chiusi quidentro, ed in tanti! Venite con me, madonna, a respirare un po' diaria libera.—
Fiordalisa accettò l'invito di Spinello, ed escì con lui sul loggiato.Era l'ora di vespro, e il sole incominciava a nascondersi dietro itetti delle case vicine. Il cielo era splendido scintillante d'oro conriflessi di porpora. L'aria, sul loggiato, era tiepida ancora dellalunga refrazione dei raggi solari sulle pareti e sui colonnini dimarmo; ma dalla strada incominciava a spirare il timido soffiodell'aria vespertina. Fiordalisa bevve con desiderio quell'alitoconsolatore.
—Bella sera!—esclamò Spinello!—E miglior giorno sarà domani!—
Fiordalisa si volse a lui e sorrise, ma d'un sorriso stanco, che morìappena nato su quelle pallide labbra.
—Anima mia!—proseguì Spinello avvicinandosi.—Voi non vi sentitebene, quest'oggi!
—È vero;—diss'ella—-Non so proprio che cosa sia. Mi parea dimorire, là dentro.
—Dio mio!—esclamò il giovane, commosso—bisognerà prendere qualchecosa. Se io sapessi!…
—Oh, non vi date pensiero. Anche oggi, prima di venire a tavola, hopreso un cordiale. Mi sentivo già un poco abbattuta!….—
Spinello si sarebbe turbato per molto meno. Volgendo la testa, comechi cerchi qualche cosa che non sa, gli venne veduta, nel vanodell'uscio che metteva al loggiato, la faccia scura di Tuccio diCredi.
Tuccio si era inoltrato fin là, con aria tra curiosa e indifferente.Gli dava noia d'esser colto sull'atto di spiare i due giovani; ed eragià per tirarsi indietro, sperando di passare inosservato, quando gligiunse la voce di Spinello.
—Subito;—rispose egli, confondendo nella scossa del comando ricevutoquella del vedersi scoperto.
E andò prontamente a far l'imbasciata. Poco dopo, mastro Jacopogiungeva sul loggiato.
—Mi avete chiesto? Che c'è? Che cosa è avvenuto?—gridò egli, vedendo Spinello che si volgeva a lui, con la cera sconvolta.
—C'è… Oh, padre mio, non vi turbate oltre il necessario! Fiordalisanon si sente troppo bene. Il caldo la soffocava, là dentro.
—Eh, capisco;—rispose mastro Jacopo, riavutosi dal primospavento.—Non è avvezza a queste confusioni. Per fortuna, non vengonoche una volta sola. Fiordalisa, figliuola mia, ora ti senti meglio,non è vero?
—Sì, babbo;—rispose la fanciulla, con un filo di voce.—Quest'ariami fa bene. Ma vorrei berne tanta…tanta! Ho un po' di stanchezza…eun po' di sonno, anche.—
In quel mentre, capitavano sul loggiato parecchi dei convitati.
—Che cos'è avvenuto?—chiese Luca Spinelli. Abbiamo veduto Tuccio di —Credi così stralunato! Ah, Fiordalisa! Si sentirebbe male?
—Un po' di stanchezza; non è nulla;—rispose mastro Jacopo, ma con untono di voce che contrastava con le parole.—Il caldo della sala dapranzo…le nostre chiacchiere!…
—Già, il caldo; lo sentivamo anche noi;—entrarono a dire lecugine.—Ma l'aria libera le farà bene. Non è vero, Fiordalisa?
—Sì;—mormorò la fanciulla, socchiudendo le palpebre.
—In verità,—disse Spinello, che aveva notato quell'atto.—sarebbemeglio un po' di moto. Non vi pare, Fiordalisa?
E avvicinatosi a lei, le bisbigliò all'orecchio una dolce parola.
—Andiamo;—balbettò ella.—Mi farà bene… con voi.
Ma ella non accennò altrimenti di volersi alzare. Scosse in quellavece il capo e si recò la mano al petto, come se volesse trattenerequalche cosa che era per fuggirle in quel punto.
Spinello si buttò ginocchioni davanti a lei e l'afferrò per lebraccia.
—Che è ciò? Dio santo!—gridò egli sbigottito.—Fiordalisa, amormio!—
Scossa da quell'accento supplichevole, la fanciulla aperse a stento leciglia e rivolse a Spinello una languida occhiata; ma le palpebre sirichiusero tosto. Mosse ancora le labbra, come per dire qualche cosa,indi si abbandonò come persona stanca e lasciò ricader la testasull'omero.
Due grida strazianti proruppero ad un tempo; il grido di mastro Jacopoe il grido di Spinello Spinelli. Ma la bella Fiordalisa non udì più idisperati richiami di que' due amori che si concentravano in lei.
—Che avete?—entrò a dire messer Luca.—. Ella si è addormentata.
—Ah, diceste il vero, padre mio!—gridò Spinello Spinelli.—Unmedico! Un medico! Chi trova un medico?—
Il sospetto di una disgrazia era penetrato nel cuore di tutti. E tuttisi offersero di andare in cerca d'un medico. Ma primo tra tutti balzòfuori mastro Jacopo, e nessuno ebbe il coraggio di contendergliquell'ufficio. Il vecchio padre andò via come un disperato. Chi lovide in volto, mentre usciva a furia dal crocchio, senti corrersi unbrivido di terrore per l'ossa.
Intorno alla povera Fiordalisa era una confusione, un tramestio da nondirsi a parole. Tutti volevano esser utili, tutti si confidavano difarle ricuperare i sensi. Prime le donne, che si erano affrettate aslacciarle la veste. Spinello e gli altri uomini, mossi da unsentimento di rispetto, si ritrassero in disparte. Alcuni, obbedendoai comandi della vecchia zia, che prendeva ad esercitare l'autoritàinerente all'età sua ed al suo grado di parentela, andarono a cercarel'aceto, le acque nanfe, e tutto quell'altro che poteva parere piùacconcio al bisogno. Il viso e la radice del collo furonoabbondantemente spruzzati, ma invano; Fiordalisa non dava segno divita.
Erano tutti ancora intenti a quell'opera quando ritornò mastro Jacopo.Il vecchio pittore era andato e tornato come un fulmine, trascinandocon sè mastro Giovanni da Cortona, uno dei più valenti discepolid'Esculapio, che fossero allora in Arezzo.
—Orbene?—gridò il vecchio, affacciandosi al loggiato.—Èrinvenuta?—
Gli sguardi abbattuti della brigata dissero a mastro Jacopo che lasperanza con cui era tornato in casa era vana. Allora il povero padresi cacciò avanti con impeto disperato, gridando:
—Mia figlia! mia, figlia!—
Povero padre! Faceva compassione a vederlo.
—Animo, via,—disse messer Giovanni da Cortona,—non vi disperatecosì. Sarà uno svenimento.—
E si avanzò in mezzo al crocchio, il degno seguace di Galeno, pervedere da vicino la fanciulla. Notò da principio il volto che orabianco come il marmo; indi toccò il polso e pose la mano al petto,interrogando le fonti della vita; da ultimo accostò la guancia allelabbra, per sentire se ci fosse ombra di respiro. A mano a mano cheegli procedeva nelle sue indagini, gli astanti si stringevano intornoa lui, fissandolo negli occhi, come per indovinare il suo responso,prima che gli escusse dal labbro. Messer Giovanni era grave, daprincipio; ma, seguitando l'esplorazione, divenne triste senz'altro euna lagrima gli apparve sul ciglio.
—Parlate, in nome di Dio!—gridò mastro Jacopo, in preda ad un'ansiamortale.—C'è speranza, non è vero?—
Messer Giovanni gli rivolse un'occhiata malinconica.
—Povero padre!—rispose.—Avete nominato Iddio; rivolgetevi a lui epregate. Egli solo, con un atto della sua misericordia, potrebberestituirvi quest'angiola vostra.
—Ah!—esclamò il vecchio, con voce soffocata dai singhiozzi.—Cheavete detto, Giovanni da Cortona? A Dio? Rivolgermi a Dio? Mia figlia!Voglio mia figlia! Medico, medico, hai inteso? Tu devi salvarla; lovoglio.—
Messer Giovanni chinò la testa come un uomo che sente il dolorealtrui, ma che non può consolarlo altrimenti.
—Ma è impossibile! Impossibile!—ripigliò mastro Jacopo.—Miafiglia…mia figlia morire? Se non aveva nulla, stamane!Ah,—soggiunse, ricordandosi,—lo specchio! lo specchio!—
Il medico si volse ai vicini, chiedendo col gesto una spiegazione diquelle oscure parole. Messer Luca credette necessario di raccontargliciò che sapeva, intorno alla rottura dello specchio e alla dolorosaimpressione che il tristo presagio aveva fatto sull'animo diFiordalisa. Messer Giovanni allora volle sapere minutamente ogniparticolare dalle donne di servizio.
—E che cosa le avete dato?—diss'egli.
—Un cordiale, messere. La poverina si sentiva languire, e abbiamopensato di confortarle lo stomaco. S'è ammannito un brodo, con tuorlid'uova sbattute e un poco d'agro di limone. Abbiamo forse fatto male?
—No, niente di male;—rispose il medico.—Ma forse nessuna bevandaconfortativa poteva giovarle più, dopo quella commozione violenta. Soncose che avvengono;—soggiunse, come parlando a sè stesso.—Le veneche s'innestano al cuore son troppo deboli, qualche volta, e unospavento improvviso può romperle. Ah, povera macchina umana!
Chiuso con questo malinconico epifonema il discorso, messer Giovannida Cortona ritornò verso mastro Jacopo, che veramente aveva bisogno dicure amorevoli. Quel povero padre urlava come un forsennato.Avvinghiatosi al corpo della sua figliuola, baciava il suo voltofreddo, accarezzava, cercando di ravviarli, i suoi lucidi capellicastagni, che l'acqua aveva impiastricciati alle tempie; la scuoteva,tornava a baciarla, a carezzarla, e la chiamava per nome. Ma invano;quella povera carne non rispondeva più; le braccia ricadevanopenzoloni sui fianchi.
La scena era troppo straziante. Si scongiurò mastro Jacopo a togliersidi là, ma le preghiere non facevano che accrescerne il furore, e funecessario di trascinarlo a forza. Intanto le donne, preso sullebraccia il cadavere della fanciulla, lo recarono in casa e andarono adeporlo nel suo letticciuolo verginale.
Spinello Spinelli non aveva più proferito parola. Era caduto in unostato di prostrazione, che meglio si sarebbe potuto dire stupidità. Losguardo languido che Fiordalisa gli aveva rivolto, morendo, gli stavasempre negli occhi. Pareva guardarvi, ma non vedeva nulla davanti asè; pareva ascoltarvi a bocca aperta, ma non intendeva nulla di ciòche si diceva all'intorno.
Parri gli si accostò, e, postogli un braccio intorno alla vita, cercòdi trascinarlo in casa.
—Animo, via! Siate forte,—gli disse,—e pensate a consolare quelpovero padre, che sta per uscire di senno.—
Spinello guardò il suo compagno d'arte con aria melensa.
—Perchè?—gli chiese.
Ma in quel punto parve risovvenirsi, e diede in uno scoppio di pianto.
—Chi piange qui?—domandò mastro Jacopo con voce tuonante.—Nonvoglio che pianga nessuno. Finiamola con gli strepiti! Volete farlamorire? Non voglio che muoia. È la mia figliuola, è il sangue mio. Lacustodirò, la rinchiuderò, che non abbia più a vederla anima nata.Nessuno la sposerà, avete inteso? Il Buontalenti meno d'ogni altro.Già,—esclamò il vecchio, con ironico accento,—pretendeva di averlalui, perchè è ricco. Nè ricchi, nè poveri, voglio. Fiordalisa ha darestare con me, sempre accanto a suo padre, per conforto alla suavecchiaia. Si ostineranno! E noi partiremo, lasceremo questa casa,andremo a cercare sua madre. Medico, tu la salverai, siamo intesi.Bada a te, medico! Sua madre mi ucciderebbe, se io non le riconducessil'amor suo. Ed io, vedi, prima di morire, ucciderei te con questemani.—
Messer Giovanni da Cortona guardava con occhio triste il poveropittore impazzito. E pensava dentro di sè che nella compagine umanatroppo breve spazio intercede dalla sanità di mente alla follia.
E qual breve distanza altresì dalle nozze alla tomba! Lì, nellacameretta verginale, posava sul letto la bianca salma di Fiordalisa.Si sarebbe detto che dormisse, tanto era riposato l'atteggiamento etranquillo l'aspetto, e si poteva ripetere col poeta
"Morte bella parea nel suo bel viso."
Le donne stavano intorno al letto piangendo e pregando. Spinello,rannicchiato in un angolo, non dava altro segno di vita che ilsinghiozzo, ond'era preso alla gola. Nella camera vicina, Tuccio diCredi e Parri della Quercia si guardavano in viso, crollavano la testae sospiravano, come uomini percossi da una medesima sventura.
Quella sera il curato del Duomo mandò il sagrestano alla casa dimesser Jacopo, per chiedere a che ora del mattino gli facesse comododi andare in chiesa per la cerimonia nuziale.
Mastro Jacopo, custodito da parecchi di casa, i quali reputavano utileper il momento di non contrariarlo nella sua fissazione, si feceinnanzi e rispose:
—Non posso dirvelo; mia figlia dorme e non vo' che si svegli. Delresto, le nozze non si faranno più.
—O come?—esclamò quell'altro, volgendo intorno gli occhi attoniti enon intendendo i segni che gli facevano le persone di casa.—Che cos'èaccaduto?—
La vecchia zia si fece innanzi e condusse il sagrestano sull'uscio.
—Dite al curato che venga per le preghiere dei defunti;—glibisbigliò con voce soffocata dalle lagrime.—Fiordalisa è morta.—
VIII.
La sventura toccata a mastro Jacopo di Casentino fu profondamentesentita in Arezzo. Il vecchio pittore aveva molti amici, ed era benvoluto anche da coloro che lo conoscevano appena. Madonna Fiordalisa,poi, era celebrata da tutti come un miracolo di bellezza e di grazia.L'annunzio della sua morte fece l'effetto d'uno schianto di fulmine.
Povero mastro Jacopo! Le anime caritatevoli, compiangendo il suo caso,giustamente osservarono che Iddio gli aveva mandato il confortoaccanto alla disgrazia, togliendogli la coscienza del suo dolore. Inverità, quando siffatte sciagure vengono a rapirvi la vostra felicità,e vi levano ogni pregio alla vita, non è meglio impazzire, che averedì e notte davanti agli occhi l'immagine spaventosa della vostramiseria? Morire, sì, sarebbe il meglio: ma non è sempre dato questoconforto agli infelici. La vita, che in tante occasioni è sospesa adun filo, in altre è molto più salda e sembra quasi che lo stessodolore aiuti a serbarvi questo inutile dono. Ed anche dopo esserestato colpito dalla folgore, che l'ha incenerito a mezzo, il troncodella quercia rimane qualche volta in piedi, nutrendo per unrimasuglio di corteccia i pochi rami superstiti.
Così visse Jacopo di Casentino, ignorando di vivere. Ma, due mesi dopola perdita della sua Fiordalisa, anch'egli trovò la via dell'eternoriposo. Non aveva potuto serbare in vita la figlia morì, credendo diricondurla egli stesso a sua madre.
Non compiangete mastro Jacopo. Assai più di chi muore è da compiangerechi vive, condannato ad una esistenza in cui gli sia venuta meno ognigioia.
Le ossa del vecchio pittore ebbero tomba onorata in Sant'Agnolo, badiadell'ordine dei Camaldoli, fuori di Prato Vecchio, nelle cui vicinanzei parenti avevano condotto il povero pazzo, sperando che le aurenatali del Casentino potessero ridare un po' di calma al suo spirito.Ma anche quell'ultima speranza fu vana.
La morte del vecchio scolaro di Taddeo Gaddi risaputa in Arezzo, nonfece altro che rinfrescare il dolore di un'altra morte, a cui essa eracollegata, come l'effetto alla causa. Si pensava sempre a madonnaFiordalisa e si rimpiangeva la sua fine miseranda; si rammentava lasua maravigliosa bellezza, raggio di sole così presto invidiato allaterra, e nessuno sapeva acconciarsi all'idea di averne perduto persempre il divino sorriso.
Mi chiederete come avesse accolto il triste annunzio messer LapoBuontalenti. Il ricco e potente uomo, qualche giorno prima che madonnaFiordalisa morisse, si era allontanato da Arezzo. Che egli amasse lafiglia del pittore e l'avesse chiesta in moglie, si sapeva da molti, esi sapeva altresì che mastro Jacopo gli aveva dato un rifiuto. Eranaturale che messer Lapo se ne fosse adontato; non essendo piacevole anessuno di sentirsi dire un no, anche colorito da oneste ragioni.Perciò s'intendeva facilmente come il Buontalenti non avesse volutorimanere in Arezzo, testimone delle nozze di Fiordalisa con SpinelloSpinelli, e non parve strano che egli si fosse ritirato a vivere perqualche tempo in una sua terra sulla montagna pistoiese. Messer Lapoaveva dunque portato il suo rammarico molto lontano da casa, e nonc'era modo di sapere se, udendo della morte di madonna Fiordalisa,egli ce ne avesse aggiunto un altro più grande, o se invece non nedovesse avere la consolazione dei dannati. La quale, come sapete,consiste nel rendere meno grave il proprio dolore, pensando che altril'ha eguale o maggiore.
Anche Spinello, dopo quella grande rovina della sua felicità, si eraallontanato da Arezzo. Se ci fosse vissuto più a lungo, sicuramentesarebbe morto di crepacuore, non essendo maggior esca al dolore che ilvivere nei luoghi in cui si è patito il danno e in cui ne è semprevivo il ricordo. Unico degli scolari di mastro Jacopo rimase nellanota bottega il mite e timido ingegno di Parri della Quercia. Vedetestranezza di casi! Un dipintore di tavole a tempera, che non si eramai arrischiato a lavorare in muro, ereditava il luogo e la tradizioned'un artista come Jacopo di Casentino, che aveva sempre dipinto afresco, senza lasciar pennelleggiata una tavola. Infatti, la memoriadi mastro Jacopo doveva essere ricordata da questo epitaffio in versilatini, della cui prosodia non posso starvi mallevadore:
Fingere me docuit Gaddus; componere plura Apte pingendo corpora doctus eram. Prompta manus fuit; et pictum est in pariete tantum A me; servat opus nulla tabella meum.
Tuccio di Credi, anima caritatevole, si fece compagno volenteroso edassiduo al povero Spinello, e questi si lasciò condurre da lui aFirenze. Messer Luca aveva consigliato egli stesso il viaggio,sperando che ne potesse ritrarre qualche giovamento lo spiritoconturbato di suo figlio, e immaginate come dovesse esser grato aTuccio di Credi, che si profferiva custode e guidatore del suodisgraziato figliuolo.
Spinello non aveva più ombra di volontà. Lasciava che Tuccio di Crediprovvedesse lui ad ogni cosa. Era come il naufrago che ha tuttoperduto, fortune e speranze, e che, dalla riva deserta su cui l'hannosbalestrato i marosi, guarda con occhi smarriti, senza sdegno e senzapaura, il torbido elemento che ha portato i suoi danni. Spinelloseguiva alla muta il suo compagno, accettandone i servigi edascoltandone i conforti, ma senza avere un'idea chiara di ciò chequell'altro facesse o dicesse. Per fortuna, Tuccio di Credi non erauomo di lunghi discorsi, nè di molte delicatezze, e non c'era pericoloche per quel verso potesse mai diventare importuno. Alla tacitaobbedienza di Spinello non poteva convenire che l'amichevole ruvidezzadi Tuccio.
Questi badava alle noie della vita comune; l'altro seguiva il corsovagabondo de' suoi tristi pensieri, che lo riconducevano ad ogniistante nel chiostro del Duomo Vecchio di Arezzo, dove egli avevapregato sulla tomba di Fiordalisa. L'immagine della donna adoratarompeva qualche volta il suggello del sepolcro e veniva aintrattenersi con lui. Ah, se egli avesse mai potuto ritrarla, qualeessa gli stava sempre negli occhi!
A Firenze i due amici erano andati ad alloggiare in una povera casa,nella via della Scala. Escivano insieme ogni giorno, passeggiandolentamente fino alla piazza di Santa Maria Novella, dove Spinelloandava a sedersi su d'un muricciuolo, e vi restava a lungo, senzaparola, guardando il sole che tramontava. Quando era una cert'ora,Tuccio di Credi si avvicinava all'amico e gli diceva: andiamo!Spinello si alzava e lo seguiva senza far motto, come un fanciullinosegue la madre. Tornati al loro alloggio, la vecchia padrona di casadava loro il lume acceso e la buona notte. Era una vita monotona. Maai grandi dolori queste vite convengono.
Ora avvenne che, passando ogni giorno per la via della Scala e davantialla chiesa di San Nicolò, nuova fabbrica edificata allora allora pervoto di messer Dardano Acciaiuoli, l'accoramento di Spinello Spinellidesse nell'occhio ad un cavaliere, che per sue ragioni doveva trovarsispesso colà.
Tra i due taciturni viandanti e il cavaliere sconosciuto s'erastabilita quella mezza dimestichezza di veduta, che occorre in similicasi. Ad ognuno di voi sarà certamente capitato di farequotidianamente una via e di avvezzarvi così a certi sembianti dipersone ignote, da farvi parere quasi una trista giornata, quella incui non vi è dato di abbattervi nelle persone medesime, e in quegliaspetti, ai quali, come suol dirsi, avevate fatto l'occhio.
Il vecchio gentiluomo (perchè infatti lo sconosciuto non era più diprimo pelo) aveva notato l'aria malinconica di Spinello, e veduto inlui un uomo che portava nell'anima il peso di una grande sventura. Unsentimento di pietosa curiosità lo persuase a seguire i due taciturni,e per tre volte alla fila vide Spinello andarsi a posare su d'unmuricciuolo in piazza di Santa Maria Novella dove restava lungamenteassorto nelle sue meditazioni, mentre l'amico andava alle sue faccendeper ritornarne più tardi a riprenderlo. Chi erano quei taciturni? Equale era la cagione della tristezza profonda che si leggeva sul voltodel più giovane dei due? Il vecchio gentiluomo volle saperlo; e perciòlasciato che Spinello andasse per la terza volta a sedersi in piazzadi Santa Maria, corse dietro al compagno.
—Scusate,—gli disse fermandolo,—forse vi faccio una domandaindiscreta; ma il sentimento che mi consiglia è d'uomo che vorrebbegiovare a' suoi simili.
—Messere,—rispose Tuccio di Credi, inchinandosi.—Il vostro aspettoe di uomo ragguardevole. Vogliate dirmi in che cosa io possacompiacervi.
—Vedo ogni giorno con voi un giovinotto dall'aspetto assaitriste;—ripigliò il vecchio gentiluomo.—Egli ha certamente avuto apatire una grave disgrazia.
—Maisì, messere, una disgrazia irreparabile;—replicò Tuccio di Credi.—Gli è morta una donna a cui era fidanzato.
—Ah, dovevo immaginarmelo!—esclamò il cavaliere.—E il suo nome?
—Spinello Spinelli, aretino; ma i suoi maggiori erano di Firenze. Lasua fidanzata, poi, era figliuola a mastro Jacopo di Casentino.
—Il pittore?
—Sì, messere, morto anche lui due mesi dopo la sua figliuola.
—Triste cosa!—mormorò il vecchio gentiluomo.—E il vostro amico chefa?
—Nulla, per ora, tanto è rimasto percosso da quella grande sciagura. Ma egli è pittore.
—Come voi, probabilmente.
—Sì, messere; ma io valgo assai meno;—rispose Tuccio di Credi conaria modesta.—Egli s'è già mostrato un valoroso frescante, e un suodipinto si ammira nel Duomo vecchio d'Arezzo, ove gl'intendenti diconoche non isfiguri al confronto di quelli del suo vecchio maestro.
—Mi sembra d'averne udito parlare:—notò il vecchio gentiluomo.—Evoi mi dite che adesso non fa nulla?
—Nulla affatto, messere. La sua afflizione è tale che gli toglieperfino il pensiero delle necessità della vita. Suo padre l'haaffidato alle mie cure; e se non ci fossi io, egli certamente silascerebbe morir di fame.
—Povero ragazzo!—esclamò il vecchio gentiluomo, crollandomalinconicamente il capo.—Vorrei essergli utile…. Egli stessopotrebbe esserlo a me. Vi piacerebbe dirglielo? Anzi, meglio, dicondurlo da me?
—Volentieri; ma dove?
—Laggiù, in via della Scala, nella chiesa di San Nicolò. È chiusa,finora; ma potrete passare dall'uscio della sagrestia. Domani stesso,all'ora in cui usate andare a diporto, io sarò ad aspettarvi,
—Ci verremo, messere;—rispose Tuccio di Credi.—Ma, di chi dobbiamonoi domandare?
—Di Dardano Acciaiuoli: è questo il mio nome.—
Tuccio fece un atto di meraviglia, seguito da un inchino profondo. Lacasa degli Acciaiuoli era una tra le più chiare di Firenze.
Il giorno seguente, scambio di accompagnare l'amico fino in piazza di Santa Maria Novella, Tuccio di Credi si fermò davanti alla chiesa di San Nicolò.
—Entriamo?—diss'egli.
—Per che fare?—domandò Spinello.
—Per vedere. È una chiesa nuova, e forse ci saranno degli affreschida osservare.—
Così dicendo, senza aspettare la risposta del compagno, Tuccio diCredi si avviò verso l'uscio della sagrestia. Spinello tenne dietroall'amico.
La chiesa era vuota e bianca tuttavia dell'ultima mano di calce. Magiù, nella navata di mezzo, stava un vecchio cavaliere, in atto diguardare la volta. Spinello pensò che egli fosse l'architetto, oppureuno dei massari della nuova chiesa.
Il vecchio cavaliere si avvicinò bel bello ai due giovani, erivolgendo il discorso a Tuccio di Credi, gli disse:
—Forse vi occorre qualche cosa, messeri?
—No;—rispose Tuccio di Credi, ammiccandogli;—eravamo entrati perosservar le pitture; ma non ne vediamo traccia.
—Da pochi giorni s'è finito di fabbricare: rispose cortesemente ilvecchio.—Gli affreschi verranno, quando avremo trovati i dipintori.Siete dell'arte, voi?
—Maisì, messere; io di poco valore, il mio compagno di molto.
—E il vostro nome, se è lecito saperlo? Io mi chiamo Dardano Acciaiuoli.—
Spinello fece una mezza riverenza, per obbligo di cortesia. Intanto ilcompagno rispondeva per ambedue alla domanda del gentiluomo.
—Io mi chiamo Tuccio di Credi: il mio compagno è Spinello Spinelli. Tutt'e due della scuola di mastro Jacopo di Casentino.
—Ah!—disse messer Dardano.—Il vostro amico è l'autore d'un San Donato, nel Duomo Vecchio d'Arezzo?—
A quel ricordo, Spinello Spinelli trasse un profondo sospiro dalprofondo del petto. E frattanto s'inchinò leggermente, per ringraziaremesser Dardano Acciaiuoli del suo accenno cortese.
—Mi congratulo con voi;—proseguì messer Dardano, volgendosi allora aSpinello.—Così giovane e già tanto valoroso dipintore! Ma perdonate,se io penso a me, intrattenendomi con voi. È l'occasione che passa, edio l'afferro pei capegli. Messer Spinello, volete dipingere per me?Queste mura vi aspettano.—
Spinello Spinelli non si aspettava una simile conclusione, e ne rimasesconcertato.
—Messere,—diss'egli,—in verità…Io debbo esservi grato della stimache fate di me. Ma come volete che io riprenda il lavoro? La mia animaè triste.
—Orbene, che importa? Io non vi dico già d'esser lieto. I grandidolori non vogliono consolazione, ed io rispetto il vostro. Ma badate,il lavoro è il più possente dei farmachi. Piangete una persona cara?Il vostro lavoro sarà come una preghiera per lei.
—Vorrei morire; la vita mi pesa;—mormorò Spinello.
—Oh, non parlate così, messere. Alla vostra età si hanno ancora degliobblighi col mondo. Ad ogni età, se n'hanno sempre con Dio. Possiamodesiderare di giungere a lui per la strada più breve; a lui stad'esaudirci, se lo avremo meritato, con una vita scevra di viltà.Accettate la mia proposta, messer Spinello. Voi non lavoreretesoltanto per me, lavorando nella casa di Dio.—
Come resistere ad un invito così amorevole? La stessa miscèa chel'Acciaiuoli faceva del lavoro e della preghiera, doveva piacere adun'anima afflitta come quella di Spinello Spinelli. E il giovanepittore non uscì quel giorno dalla chiesa, senza avere accettata laproposta.
Dardano Acciaiuoli aveva fatto fabbricare quel tempio, per darvisepoltura ad un suo fratello vescovo. Perciò l'intitolazione a SanNicolò, che in suo vivente era stato vescovo di Bari. E la dedicazionedella chiesa, come potete immaginarvi, dava il tema obbligato alpittore, che ideò per l'appunto e compose parecchie storie ricavatedalla vita del Santo.
Una settimana dopo il dialogo che io v'ho riferito brevemente, sirizzavano i ponti e Spinello si metteva al lavoro, aiutato da Tucciodi Credi, il quale macinò e mesticò i colori del suo compagno d'arte,diventato suo principale, assai meglio che non avesse fatto in Arezzo.
Nè messer Dardano Acciaiuoli ebbe a pentirsi della commissione data aSpinello Aretino. Egli dovette anzi lodarsi grandemente della buonaidea che lo aveva condotto a seguitare per istrada quel giovinetaciturno, e vederci quasi una ispirazione del cielo. In quei tempi difede viva, la cosa poteva benissimo intendersi per quel verso, e ilragionamento non faceva neppure una grinza.
Spinello si portò tanto bene in quell'opera, così nel colorirla comenel disegnarla, che presto non si parlò più d'altro in Firenze, etutti gli amici e conoscenti di messer Dardano vollero vedere gliaffreschi del giovine aretino, anche prima che fosse levatal'impalcatura. Tirato dalla fama di Spinello, e veduta la bontà dellefigure che egli dipingeva, un altro ragguardevole cittadino diFirenze, messer Barone Capelli, volle che il giovane protettodell'Acciaiuoli dipingesse nella cappella principale di Santa MariaMaggiore molte storie della Madonna, a fresco, ed alcune disant'Antonio abate, indi la cerimonia stessa della consecrazione dellachiesa, che era stata fatta da papa Pelagio. In questo quadro, cheebbe molte lodi dagl'indipendenti, Spinello ritrasse lo stesso messerBarone Capelli, al naturale, in abito di quei tempi, molto ben fatto,e somigliante che nulla più. I ritratti gli riescivano sempremirabilmente, quasi ad accrescergli il rammarico di non aver potutocogliere la somiglianza di madonna Fiordalisa!
Finita la cappella principale di Santa Maria Maggiore, lavorò Spinellonella chiesa del Carmine, dipingendo nella cappella dei santi apostoliGiacomo e Giovanni alcune storie del Vangelo; tra l'altre quella dellamoglie di Zebedeo, madre all'apostolo Giacomo, quando ella domanda aCristo che faccia sedere uno dei suoi figliuoli alla destra del padrenei regno dei cieli, e l'altro a sinistra. Ai massari della chiesaparve questo un meraviglioso lavoro; e tosto ne vollero un altro,commettendo a Spinello di dipingere un'altra cappella, accanto allamaggiore. Quivi Spinello fece prova d'ingegno singolare, poichè,volendo esprimere l'Assunzione di Maria, e la storia dovendo riescirepiù grande della vòlta, egli la rigirò per modo, tra la parete e lavòlta medesima, che ai riguardanti parve tutta una cosa, condotta insoavissima curva, senza interruzione d'angoli o di sottosquadri.
Come vedete, le commissioni fioccavano. E non erano solamente questeche io v'ho accennate. In una cappella di Santa Trinita, Spinello feceuna Nunziata in fresco, molto bella secondo l'opinione di tutti; indinella chiesa di Sant'Apostolo una tavola a tempera, ov'era raffiguratolo Spirito Santo quando discende sopra gli Apostoli in lingue difuoco. Tralascio i dipinti in Santa Lucia de' Bardi e in Santa Croce,per non venirvi a noia, e perchè il racconto non si tramuti incatalogo.
IX.
In mezzo a tante fatiche e trionfi dell'arte, non era dimenticataFiordalisa. La bella immagine aleggiava sempre davanti agli occhi diSpinello. L'idea, insinuata nella sua mente da messer DardanoAcciaiuoli, che il lavoro fosse preghiera, e che la preghiera loavrebbe avvicinato alla sua povera morta, gli aveva, come suol dirsi,raddoppiate le forze. Indi, ne accadde quel che doveva accadere, cioèche la stessa assiduità del lavoro gli recasse un po' di quiete allospirito.
Questo va detto, s'intende, pel caso di Spinello Spinelli; che, inverità, non sarebbe più giusto nel caso di un altro, il quale sistruggesse d'amore per una persona viva. Amare ed esser privi dellavista di chi s'ama, è un male senza rimedio, o il lavoro non ci puòfar nulla; se pure è vero che si possa lavorare di buona voglia.
Del resto, la quiete dell'animo di Spinello va intesa con discrezione.Era una quiete, come oggi si direbbe, relativa. Gli restava un granvuoto nel cuore, e sul volto l'impronta di una rassegnata tristezza.
Da qualche tempo il nostro pittore aveva cambiato d'alloggio, o, perdire più esattamente, aveva cambiato Tuccio di Credi, quello tra i dueche pensava alle cose materiali della vita, e che aveva riconosciutala necessità di un alloggio in cui si potessero muover le braccia. Leopere commesse a Spinello avevano recato una certa agiatezza, e nonera più convenevole che si vivesse stretti e pigiati nella poveracameretta in via della Scala. Inoltre, bisognava possedere unquartierino con una camera abbastanza spaziosa per uso di studio, incui preparare i disegni e i cartoni che dovevano servire agliaffreschi.
Con queste ragioni si era persuaso Spinello. Ed anche meno sarebbebastato; per esempio la volontà di Tuccio, a cui Spinello siacconciava mai sempre. E i due compagni d'arte, abbandonando la viadella Scala, erano andati ad alloggiare in un quartierino di là dalPonte Vecchio, anzi nel borgo Santo Jacopo, tra il Ponte Vecchio e ilponte di Santa Trinita. Spinello ci guadagnava di non dover più esciredi casa alla sera, poichè l'edifizio dava dalla parte posterioresull'Arno, ed egli aveva presa l'usanza di sedersi su d'una terrazzacoperta, e di star là fino a ora tarda, contemplando le acque delfiume, che sbucavano gorgogliando di sotto gli archi del ponte.
Di tutti gli spettacoli monotoni, i quali possono accordarsi con lamalinconia d'un pensiero dominante, è questo certamente il piùacconcio. Passano le acque, si seguono i fiotti: ma questo che seguitecon gli occhi non è più quello di prima, eppure vi sembra la medesimacosa. Non dissimilmente la vita umana e le sue molte vicende, chi leguardi nulla nulla dall'alto.
La terrazza di Spinello Spinelli prendeva luce da tre arcate, sorretteda colonnini di marmo nello stesso piano della facciata, la qualefaceva angolo con un'altra casa, che usciva alquanto più fuori sullariva del fiume, ed era terminata da un balcone, o terrazza scoperta,in cima all'edifizio. Colassù si vedevano di tanto in tanto parecchiedonne, intente a rasciugare il bucato. Spinello le vedeva solamenteverso sera, quando egli si riduceva nel suo osservatorio. Le donne chestavano allora levando i pannilini dal sole, salutavano lui moltogarbatamente; ed egli rendeva il saluto, né più altro aveva che farecon esse.
Una di loro, più giovane all'aspetto, restava più lungamente invista, lavorando di cucito. Così almeno si doveva argomentaredall'atteggiamento del viso, chinato su qualche cosa che il parapettonon consentiva di scorgere, e dal moto uniforme e continuo, come dipersona che tragga il refe. Questo aveva osservato Spinello, senzabadarci più che tanto. Del resto, una savia e costumata fanciulla,che non alzava mai gli occhi a guardarsi d'attorno. Quando egli,disoccupato com'era, alzava a caso la testa, intravvedeva la suavicina, con lo sguardo basso sempre intento al lavoro.
Diciamo, ad onore di Spinello, che se l'avesse veduta mai in atto diguardarlo, anche alla sfuggita, egli n'avrebbe preso sospetto e nonsarebbe più tornato sul terrazzo.
Tuccio di Credi, dopo il pranzo, andava sempre fuori da solo, e nontornava che a notte alta, per andare a dormire. Ma una sera egli vennecon un pretesto a fare un po' di compagnia al suo principale.
—Dio santo! che occhio di sole!—esclamò egli dopo aver guardatoverso il balcone della casa vicina.—Ecco un bel modello per la SantaLucia—-
Per intendere la frase di Tuccio, vi bisognerà sapere che Spinelloaveva avuto alcuni giorni prima la commissione d'una tavola a tempera,per l'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.
Spinello alzò gli occhi per guardare lassù, dove guardava Tuccio di Credi, ma non rispose nulla al compagno.
—Che, forse vi pare ch'io non abbia ragione?—ripigliò Tuccio diCredi.—A me sembra bellissima. Una vera trovata, per un pittore comevoi, che fa, a detta universale, i bei visi di Madonne e di Sante. Oforse non l'avevate ancora osservata?
—No;—rispose asciuttamente Spinello.
—Osservatela, maestro, osservatela. Proprio adesso che guarda inaria. L'occhio ha una grande espressione, mi pare.
—Sì;—disse Spinello per farla finita con le esortazioni di Tuccio.
Quell'altro si fermò lì, che forse aveva parlato per una prima voltagià troppo. E poco stante, detto al compagno quel che aveva da dirgli,se ne andò a fare la sua solita passeggiata. Spinello rimase sullaterrazza, ma senza rivolgere più oltre lo sguardo alla sua bellavicina.
Pure negli occhi doveva essergliene rimasto abbastanza. E quando ebbea fare il bozzetto della Santa Lucia per la chiesa de' Bardi, senzavolerlo, gittò sulla carta qualche cosa che somigliava abbastanza altipo della fanciulla.
Quando finalmente la tavola fu esposta all'adorazione dei fedeli, sitrovò, nel quartiere, che Santa Lucia somigliava tutta a monna Ghitadei Bastianelli, la figliuola dell'orafo, che abitava per l'appuntonel sobborgo Santo Jacopo.
S'intende che le donnicciuole non erano giunte di per sè a quellaconclusione, e che la loro perspicacia era stata aiutata daqualcheduno. Tuccio di Credi, per esempio, passava le mezze giornatedavanti all'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.
—Che vi pare, monna Tessa? Non si direbbe die il pittore ha preso amodello la figlia dell'orafo, che sta qui nel Borgo, nelle case deiNucci?
—O madonna delle poerine! Ma sicuro, è tutta lei. Vuol esseresuperba, la Ghita, quando saprà che l'han messa sull'altare, a far lafigura di Santa Lucia!
—Eh, bisogna pur dire che la ci ha un visino di santa. È un bel toccodi ragazza, e se non fosse zoppina a quel modo!
—Zoppa, voi dite? Non mi par mica! È vero che cammina un po' stenta.
—E che credete? che sia per le scarpe? È zoppina, vi dico. Ma infondo, è un difettuccio da nulla, e quando è ferma non ci si vedeneanche.—
Questi ed altri erano i discorsi delle borghinelle di Borgo SantoJacopo, poste in sull'orma da Tuccio di Credi. E voi già immaginate, olettori, che la cosa giunse all'orecchio di monna Ghita. Io, inverità, non potrei starvene mallevadore; ma credo tuttavia lo si possaammettere come molto probabile. E non mi stupirebbe se venisse inchiaro che la fanciulla del Bastianelli era andata anche lei,zoppicando un tantino, in Santa Lucia de' Bardi, per vederequell'immagine, in cui tutti dicevano di riconoscere il suo graziosovisino.
Una cosa io posso dirvi di certa scienza, ed è questa: che Spinello,non sapendo nulla di tante chiacchiere fatte sopra la sua tavola,passava sempre le sue serate sotto gli archi della terrazza, dondeintravvedeva la fanciulla, sempre seduta accanto al balcone e intentaa lavorare di cucito.
Uno di quei giorni, entrando sulla terrazza, Spinello non vide lassùle altre donne. Forse era giunto più tardi del solito, e quelleavevano già levati i pannilini dal sole. O forse non era giorno dibucato. Insomma, tutto ciò importa poco al racconto, ed io l'hoaccennato solamente per dirvi che lassù egli non vide quella volta chela fanciulla, e non ebbe altro saluto che il suo.
—Poverina!—pensa egli, mentre si affacciava al parapetto dellaterrazza.—Ella non fa che lavorare da mattina a sera. Già, lavoriamotutti, a questo mondo. E perchè, poi? Per morire.—
Vi fo grazia del soliloquio, che avviato su quel tono, andò moltolungo. Quando ebbe finito di filosofare, alzò gli occhi, sempre acaso, come soleva, tanto per muovere il capo, e intravvide lafanciulla del balcone. Gli parve da un lieve motto della testa, cheella avesse finito allora di guardarlo. Ma non badò più che tanto aquel segno di curiosità femminile. Ormai ci aveva presa la piega, enon doveva insospettirsi per una guardata innocente.
Ma il giorno dopo, mentre stava per mettersi a tavola, Tuccio di Credigli disse:
—Sapete, maestro? L'hanno riconosciuta.
—Chi?
—La vicina, nella figura di Santa Lucia.—
Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.
—Che novità è questa?—esclamò.—Io non so che cosa si sia potaloriconoscere….
—Ma sì, vi dico, il popolino del Borgo ha riconosciuta la figliadell'orafo. Perchè dovete sapere che quella ragazza del balcone quipresso, è la figlia d'un orafo, che lavora in una bottega del PonteVecchio. Ho udito io con questi orecchi, ho udito le donnicciuole che,dopo aver guardata la vostra bella tavola, dicevano; to', è monnaGhita dei Bastianelli. E infatti….
—Infatti,—interruppe Spinello,—io non ho mai pensato di fare ilritratto alla nostra vicina.
—Sarà;—disse Tuccio chinando la testa.
—È, vi dico, è.
—Sia pure come voi dite, maestro. Ma a me, ve lo confesso, parevadavvero un ritratto. E mi figuravo anche come fosse andata la cosa.
—Sentiamo quest'altra.
—Sicuro! Rammentate quel che v'ho detto, forse un mese fa, vedendodalla terrazza la fanciulla dei Bastianelli? Sarebbe un modelloeccellente per la Santa Lucia.
—Rammento benissimo il discorso,—rispose Spinello,—ma io allora nonci ho pensato più che tanto.
—Lo capisco,—ripigliò Tuccio di Credi.—Ma bisogna dire che la cosavi sia rimasta impressa nell'animo, come accada qualche volta senzabadarci, e che perciò, disegnando la Santa Lucia, vi siano venutiinavvertitamente i contorni della nostra bella vicina.
—Sarà così;—disse Spinello che non amava disputare.
—Del resto,—continuò Tuccio di Credi,—son casi che si danno. E noipossiamo prender questo come un augurio.
—Un augurio! Di che?
—Di matrimonio, perbacco!—osò rispondere Tuccio di Credi.—Via, nonmi fate quella brutta cera. Non ho mica parlato del diavolo! IBastianelli son brava gente, stimati per tutto il Borgo, e di monnaGhita si parla assai bene; perfino dalle donne, che è tutto dire! Voisiete solo, maestro. Io non potrò mica esser qui sempre, a tenervicompagnia!
—Povero Tuccio!—mormorò Spinello.—Io debbo esservi grato di tantecure amorevoli. Cure inutili, del resto;—soggiunse egli,sospirando.—A che serve la vita?
—Serve ai fini di Domineddio, e vi par poco? Fino a tanto che egli citiene quaggiù, bisogna starci. Non ricordate quel che dice messerDardano quando gli fate dei discorsi come questo? Il gentile uomo viama assai. Anche ieri me lo diceva:—Bisognerebbe che Spinellotogliesse moglie.
—Ah!—gridò Spinello.—E voi?
—Io…. Scusate, maestro. Io gli ho raccontato di questo ritratto,che tale è parso a tutti, come a me.—
Spinello si morse le labbra e diede una guardataccia all'imprudentecompagno.
—Questo non dovevate far voi!—esclamò.—Mettere in piazza una onestafanciulla!
—Oh, per questo, non ci vedo alcun male;—rispose Tuccio di Credi,appoggiando la frase con un'alzata di spalle.—Ella stessa, rimanendoogni giorno in vista, presso al balcone….
—O perchè dovrebbe allontanarsene, se è in casa sua?—disseSpinello.—E non credete che possa starci per consuetudine e senzabadare a me, come ci sto io, sulla terrazza, e senza occuparmi di lei?
—Potrebb'essere così, come voi dite, se non fossealtrimenti;—rispose Tuccio di Credi.—Il fatto è questo, che lafanciulla vi ha osservato e pensa a voi di continuo.
—Come sapete voi ciò?
—Eh, Dio buono, nel modo più naturale del mondo. Sapete pure! Leragazze, quando ci hanno un segreto di questa fatta, provano subito ildesiderio di confidarlo a qualcheduno. Mettete dunque che monna Ghitane abbia parlato ad una sua parente; che questa parente conosca me,sapendo per giunta che io vivo insieme con voi, e che essa sia venutain gran segretezza a darmene un cenno, con la speranza che io spendauna parola presso di voi, come faccio per l'appunto ora.—
—Spinello rimase un po' sconcertato da quelle notizie dell'amico, chetanto s'accordavano con le sue medesime osservazioni. V'ho narratopoc'anzi com'egli si fosse avveduto di qualche sguardo furtivo dellasua bella vicina. Ma egli lo aveva attribuito a mera curiosità, e nonsi era fermato a vederci altro di più grave.
—Ve ne avrei toccato prima d'ora,—soggiunse Tuccio di Credi,—ma mene sono astenuto, perchè volevo consigliarmi con messer DardanoAcciaiuoli.
—E vi siete consigliato!
—Certamente. Messer Dardano è un uomo di gran giudizio e pieno dibenevolenza per voi. Ora, anch'egli vedrebbe assai volentieri levostre nozze.—
Spinello fremeva dentro di sè dalla stizza. Gli cuoceva che sioccupassero tutti della sua felicità, come la chiamavano, mentre eglinon consigliava niente a nessuno e ai casi suoi intendeva diprovvedere da sè. Ma si trattenne dal manifestare ciò che gli bollivanel cuore, per non dir cosa la quale potesse far contro allagratitudine che egli sentiva per Dardano Acciaiuoli e all'amiciziache, ad onta di quella seccatura, egli sentiva di dover professare aTuccio di Credi.
Questi, frattanto, veduto che l'amico si richiudeva nel suo guscio,non pensò più che a mangiare. E finito il pasto, infilò l'usciosenz'altro.
Quella sera, Spinello, già arrivato sul limitare della terrazza, mutòprontamente opinione e uscì di casa a sua volta, per andare a diportolungo l'Arno, dove la riva, era più deserta, di là dalle case de'Bardi. Anche lui non tornò che a notte alta, per andarsene a letto. Ela mattina seguente si recò in Santa Croce, dova lavorava in queltempo, e a Tuccio non disse parola che alludesse al discorso delgiorno innanzi, nè Tuccio a lui. Venne l'ora del pranzo, e si parlòpoco, di cose da nulla; indi Tuccio se ne andò pei fatti suoi, eSpinello, rimasto solo, uscì da capo, per recarsi a diporto lung'Arno.
Il cangiamento non era piacevole. La sua triste e cara consuetudineera interrotta. Spinello non poteva più esser solo, poichè un uomo chepasseggia è sempre esposto ad imbattersi in qualcheduno. Inoltre,vedeva il suo fiume, i cui fiotti lievemente increspati si seguivanolentamente; ma non era più lo spettacolo della terrazza, donde eglivedova lo acque limacciose illuminarsi di qualche riflessocristallino, mentre gorgogliavano intorno alle pile del suo PonteVecchio.
Uno di que' giorni, capitò una visita inaspettata nel quartierino diSpinello Spinelli. Era Parri della Quercia, giunto allora da Arezzo.Fu accolto, come potete immaginarvi, a braccia aperte. Alla vistadell'amico che gli ricordava i suoi giorni più lieti, Spinello piansecome un bambino. Era un pezzo che non piangeva, e quelle lagrime losollevarono un poco.
Parri della Quercia era venuto a bella posta da Arezzo per dare al suocompagno d'arte una lieta notizia. Prendeva moglie, e la gioiadomestica di cui voleva far parte a Spinello colorava alquanto le sueguance scarne, su cui si leggeva il destino del giovine e modestopittore.
—Ci avete ben pensato, Parri?—chiese allora Spinello.
—Ci ho pensato;—rispose Parri, con l'usata placidezza.—Appuntoperchè ci ho pensato, fo conto di affrettare le nozze. Son condannatoa morire di mal sottile; lo so, ma che volete? Con questi mali sicampa qualche volta più a lungo di molti sani.
—Speriamo che il vostro male non sia così grave come dite;—replicòSpinello.—Ma se lo fossa, Parri, vorreste voi condannare una poveradonna a vivere con voi, per restar vedova anzi tempo?
—-Quando vi dico che ci ho pensato!—disse di rimandoquell'altro.—Sentite qua. La mia fidanzata è una ragazza povera, nonbella, nè felice. La tolgo da una casa, dove i suoi non l'amano comedovrebbero, e dove la vita le è divenuta un inferno. Come vedete, foanche un'opera buona. Ella ha poi un cuor d'oro; mi terrà compagnia,assisterà i miei ultimi giorni e li renderà meno dolorosi. Infine,erediterà quei pochi ch'io vo guadagnando dalle opere mie. Non saràuna gran cosa, perchè la mia arte è meschina; ma per lei sarà semprela ricchezza.
—Ottimo Parri!—esclamò Spinello, intenerito.—Speriamo che la nuovavita vi giovi, e le miti gioie domestiche vi restituiscano a sanità.
—Eh, tutto può darsi. Quantunque io non lo speri, voi poteteimmaginarvi che lo desidero. E voi, Spinello, non risanerete dellevostre malinconie? Non prendete moglie anche voi?—
A quelle parole, buttate là a caso, Spinello rizzò prontamente latesta.
—Avete parlato con Tuccio?—gli chiese, fissandolo in volto.
—Mio Dio, sì;—rispose Parri, che non sapeva mentire.
—Che noia!—gridò Spinello, sbuffando.
—Tuccio vi ama;—osservò placidamente quell'altro.
—Lo so, e m'è uggioso questo amore, che vuole ad ogni costoimpicciarsi nei fatti miei. Mi lascino alle mie tristezze. Parri, ioci ho i morti nell'anima; come volete che pensi alle creature vive?
—Ecco il male;—ripigliò Parri.—Io non credo che ciò vi consiglino imorti, sibbene di andare per la via retta e di avere un po' dipazienza.
—Ne ho.
—Ma per uccidervi lentamente. E questo è un grave peccato innanzi aDio. Così amate i morti, Spinello? E vorrete voi mettere sull'anima diquella poveretta la rovina del vostro ingegno, la morte vostra, ladisperazione del vostro povero padre?—
Era la prima volta, dopo un anno, che si accennava così direttamente amadonna Fiordalisa, in presenza di Spinello Spinelli. E il modo eraingegnoso, come ispirava l'affetto al mite animo di Parri dellaQuercia.
Spinello rimase alquanto sconcertato dalla novità dell'argomento. Unteologo, dugent'anni più tardi, ne avrebbe fatto un caso di coscienza,sicuro di vincere con esso la riluttanza di un credente come SpinelloSpinelli, più che allora non isperasse di vincerla quel bravo giovined'un Parri.
E certamente non poteva sperarlo, poichè Spinello non gli avevarisposto più nulla. Era la sua consuetudine, quando un discorso nongli andava a' versi, di chiudersi in sè medesimo, alla maniera deigrandi, e di lasciarvi lì, a mezzo della vostra perorazione.
Parri, come potete immaginarvi, fu trattenuto a desinare. La casa diSpinello Spinelli doveva essere la sua, per tutto il tempo che eglicontava di rimanere a Firenze. Ma dopo il desinare, Tuccio di Credi lotirò in disparte e gli disse:
—Lasciamo solo il maestro; questa è l'ora in cui egli si raccoglie untantino, per meditare le sue composizioni.
—Che gli fanno tanto onore!—esclamò Parri, con accento di profondaconvinzione.—In Arezzo si parla sempre de' suoi trionfi, e tutti sene rallegrano di cuore. Suo padre, poi, ne è veramente orgoglioso.Povero messer Luca! Come sarebbe contento, se voi poteste mandargliuna buona volta l'annunzio che suo figlio ha cacciate dal capo le suemalinconie!—
Spinello udiva il dialogo dei due compagni d'arte. Alle ultime paroledi Parri della Quercia si volse in soprassalto, e gli chiese:
—È mio padre che vi ha incaricato di parlarmi in tal guisa?
—Sì;—rispose Parri volgendosi a lui;—ma lo ha fatto con una frasepiù calda. Morrei contento, mi disse, morrei proprio contento, seSpinello mi desse prova d'aver risanato lo spirito.
E congedati gli amici, andò verso la terrazza, dove lo tirava lavecchia consuetudine. Ma, come fu giunto sul limitare, tornò indietro.Avrebbe voluto contentar tutti, ma in verità non se ne sentiva laforza.
Passarono così altri due giorni, senza che si tornasse su quel tristeargomento. Spinello era a lavorare in Santa Croce, quando gli fuannunziata la visita di messer Dardano Acciaiuoli. La cosa non parvestrana a Spinello, poichè messer Dardano era stato il suo primoprotettore in Firenze, e rimaneva il suo migliore amico. Spesse volteil vecchio gentiluomo andava a cercarlo e stava qualche ora a vederlodipingere, in questa o in quella delle chiese che Spinello decoravade' suoi mirabili affreschi.
Quella volta, salendo sul ponte, messer Dardano gli disse,incominciando:
—Maestrino, ho a farvi un lungo discorso. Non vi spaventerete mica?—
Spinello indovinò subito dove messar Dardano volesse andare a battere. Ma ci voleva pazienza; bisognava ascoltarlo.
—Sedete, messere;—gli rispose, additandogli uno sgabello.—Il luogoè forse incomodo, per una lunga conversazione; ma tal sia, come voi visiete degnato di sceglierlo.
—Oh, si sta benissimo qui;—disse l'Acciaiuoli.—Sedete anche voi.—
Spinello voltò dalla parte di messer Dardano il suo trèspolo, e siassise sul gradino più basso nell'atteggiamento del minore che ascoltail maggiore.
Messer Bardano incominciò:
—Sapete se vi amo, Spinello!…
—Oh, messere! Me ne avete dato tante prove!—rispose il giovinepittore.—Senza il vostro aiuto, che sarei? Mi conoscerebbero, forse,a Firenze?
—Non parliamo di ciò;—disse il vecchio gentiluomo, dandovi sullavoce.—È debito d'un cavaliere che ami la patria, promuovere con ognisforzo tutto ciò che le torni ad onore. E in questo io sono ancora ilvostro debitore.—
Spinello s'inchinò, arrossendo.
—Volevo parlarvi in quella vece dell'amicizia che ho pervoi,—continuò messer Dardano,—che vorrei vi fosse nota in tutta lasua profondità. Vi amo come un figlio, maestrino mio, e vorrei vedervifelice.
—Felice!—mormorò Spinello.—È forse possibile?
—Se lo vorrete, sì certamente.
—Risuscitate i morti, messere?
—Ahimè, troppo mi domandate. Un solo, al mondo, ha potuto far ciò, equell'uno non era un uomo;—replicò messer Dardano.—Ma quell'unosopportò molte miserie e bevve il calice delle amarezze per noi,insegnandoci in questa guisa a patire, a vivere fortemente in mezzoalle prove più dolorose. Siete voi certo, Spinello, di fare il debitovostro, chiudendovi in questa cupa tristezza! E siete voi certo dipiacere a quell'anima santa che avete perduta? Credete voi che lassùnon si dolgano di vedervi cagionare tanto rammarico al vostro vecchiopadre? Pensate com'egli sarebbe consolato se vi sapesse più lieto! Melo ha confessato ieri un vostro amico, Parri della Quercia, che fucondotto a casa mia da Tuccio di Credi. Un altro che vi ama. Spinello!E voi vedete che io non vi faccio misteri; vengo subito a mezza spadacon voi. Orbene, proseguiamo a parlarci schiettamente; vostro padrevuole da voi questa consolazione, l'ultima che potrete dargli, da quelbuon figlio che siete. Morrà triste, se non saprà che il vostrospirito ha ritrovata la pace.
—Messere,—balbettò Spinello, confuso,—vorrei…. Lo sa il cielo, sevorrei!…
—Vogliate dunque; dipende da voi;—ripigliò messer Dardano.—Voidovete ammogliarvi. Una compagna vi è necessaria. Non credete a ciòche sentenziano taluni, che l'artista ha da viver solo, perchè l'artenon vuole rivali. Chi immagina e crea, deve trovare in casa la paceallegra, che ritempra le forze, e il viso sorridente di qualchedunoche l'ama. Si narra d'un gigante, che combattè con Ercole, e cherinfrescava il vigore delle membra, quante volte toccava coi piedi laterra. La terra, per l'artista è la sua famiglia. Fatevi una famiglia,Spinello. E poichè ho udito d'una buona fanciulla che vi ama….Suvvia, perchè non la sposereste?
—Messere,—disse allora Spinello,—per far ciò che voi dite, bisognaamare. Ed io non amo.
—Pazienza! Cerchiamone un'altra che vi piaccia di più. Quantunque,monna Ghita, che io ho veduta l'altro dì….
—Come?—gridò Spinello.—Anche questo avete fatto?—
Messer Dardano sorrise, come sa sorridere un uomo accorto, quandoaltri s'avvede di qualche sua bella trovata.
—Sicuramente;—diss'egli.—Avevo udito di questa ragazza vostravicina di casa, ed ho voluto vederla. Domenica mattina, per l'appunto,il nostro Tuccio di Credi è venuto a prendermi a casa mia, peraccompagnarmi agli uffizi divini in Santa Lucia dei Bardi. Monna Ghitaha un'aria modesta e buona che innamora. E certamente se tutta lapersona fosse così bella come il viso…. Ma già, non si nasceperfetti, a questo mondo.
—Ah!—notò Spinello, incominciando a respirare.—Ci avete trovatoqualche difetto?
—Una cosa da nulla, in verità, e quasi non metterebbe contoparlarne,—rispose messer Dardano.—Ma infine, se questo può essere unostacolo per voi, ve lo torno a dire, cerchiamone un'altra che vipiaccia di più.
—No, no;—disse Spinello.—Se io volessi pure risolvermi al granpasso, credetelo, io non andrei a cercare la perfezione. Tutt'altro!Mi parrebbe un'offesa alla, memoria di quella poveretta;—soggiunseegli rabbrividendo istintivamente.—Voi lo avrete saputo da Tuccio, oda altri, messer Dardano mio veneratissimo; Fiordalisa era un miracolodi bellezza. Iddio non ha voluto che tanto splendore privilegiasse laterra, e l'ha ripreso con sè, per ornamento del suo trono. Ma io nonne cercherei altra, che valesse altrettanto, quand'anche sapessi ditrovarla al mondo: nè vorrei cercarne una che agli occhi altruipotesse parere scelta da me per le grazie della persona. Su ciò mitroverete saldo, messere; nè essere, nè parere, anco lontanamente,infedele a quell'immagine di celestiale bellezza, che la morte hapotuto rapirmi, ma che non potrà farmi dimenticare più mai.
—Orbene, eccovi nel caso;—replicò l'Acciaiuoli. Monna Ghita non ha—di veramente gentile che il viso. Alla sua persona mancano affatto—quei contorni delicati che hanno, per esempio, le vostre Madonne, e—che certamente ebbe la vostra povera morta. La figlia del—Bastianelli cammina male, per giunta, ed anzi la dicono un po'—zoppa. Chi potrà dire che voi vi siate invaghito di lei, per le—grazie della persona? Diranno che dovevate farvi una famiglia,—perchè questo è l'obbligo d'ogni uomo per bene, d'ogni artista che—voglia lavorare da senno. E poi, ella vi ama, mio bel maestrino, ed—anche questo va considerato. La sua figura, che fu ritratta da voi—nella Santa Lucia….
—Un caso!—interruppe Spinello.—Un mero caso, di cui non soneanch'io rendermi ragione. Tuccio di Credi ve lo avrà detto, cheio….
—Sì, sì, m'ha detto ogni cosa, ed io ho capito benissimo come siaandata questa faccenda. Infine, un pittore ha da prenderli in qualcheluogo, i suoi tipi. Non ci mancherebbe altro che l'artista dovessereputarsi innamorato di tutte le figure che ha da ritrarre, per darvarietà alle sue opere! Una cosa rimane, che il viso di monna Ghita hauna grande espressione, ed è l'indizio di una bell'anima. Pensateci,Spinello, e poi mi direte che cosa avrete deliberato di fare. Mabadate, maestrino, non dovete rattristarmi, dovete dirmi di sì.—
Spinello non rispose. E in verità non aveva da risponder nulla, perchèmesser Dardano gli dava tempo a pensare, risparmiandogli il rimorso diun no troppo reciso e pronto, che sarebbe parso un atto di scortesiaverso quell'uomo onorando.
Pensò, difatti, quando fu solo, pensò lungamente a tutte le cose chegli aveva detto il vecchio gentiluomo, ed anche ai discorsi di Parri,come a quelli di Tuccio. Benedetto chiacchierone, quel Tuccio! Eralui, proprio lui, che aveva destato quel vespaio, tirandogli addossotante esortazioni ad un tempo. Spinello, per altro, non potevalagnarsene troppo. Il suo compagno d'arte non aveva peccato che pereccesso di zelo. Così grande era il tesoro dell'amicizia, sotto quellaruvida scorza d'uomo.
Monna Ghita! Dunque egli, per essere andato ad abitare in Borgo SantoJacopo, doveva acconciarsi a prender moglie? Ma già, fosse andato aPor Santa Maria, a porta Pinti, a Santa Croce, in Ognissanti, sarebbestato lo stesso. Quando gli amici hanno stabilito di darvi moglie, ledonne non mancano e se ne trova una ad ogni uscio. Manco male lafigliuola dell'orafo, poichè messer Dardano ci aveva trovato un grossodifetto. Era zoppa, e tozzotta per giunta. Poverina! Non lo avrebbetrovato facilmente, un marito. E gli divenne cara, quella poverafigliuola, già condannata nell'animo suo a rimanersene in casa, glidivenne cara per quel tanto di ambizioncelle e di vanità a cui ellaavrebbe dovuto rinunziare. Infatti chi nol sa? La donna, destinata arisplendere per la bellezza, e ad essere dal più al meno unameraviglia per qualcheduno, scade nella propria estimazione, quando lemanchi questa piccola speranza, in cui è riposta ogni sua contentezza.
Quel giorno Spinello si arrischiò a tornare sulla terrazza, ove da unasettimana non aveva più posto piede. Monna Ghita non si vedeva albalcone, ed egli si trovò meno impacciato. La corrente del fiumescendeva gorgogliando di sotto gli archi del Ponte Vecchio, ed eglistette ad osservar la corrente.—Così la vita;—pensò tornando almonologo;—poi si finisce nel gran mare dell'essere. Bella cosa, ilfinire, non sentir più nulla delle usate molestie, e ricongiungersi aciò che s'è avuto di più caro nel mondo!—
La mattina seguente, Parri della Quercia faceva ritorno ad Arezzo.
—Che dirò a vostro padre?—chiese egli all'amico.
—A mio padre?…—balbettò Spinello.—Ditegli….—
E trasse, così dicendo, un sospiro. Poi, facendo uno sforzo, riprese:
—Ditegli che lo contenterò.
—Ah!—grido Tuccio di Credi.—Davvero?
—Sì,—mormorò Spinello.—se la vicina mi vorrà, io sono disposto. Vicontenterò tutti, non dubitate.—
Gli occhi di Tuccio sfavillarono d'allegrezza. Quel bravo Tuccio di Credi! Amava tanto Spinello!
X.
L'anno era trascorso dacchè madonna Fiordalisa era morta per losventurato Spinello. Ed egli, il fedele, l'inconsolabile amante,circuito, spronato, incalzato, oppresso dalle esortazioni di tutti,dava tregua al lutto del suo cuore, per impalmare un'altra donna.
Così finiscono, direte, così finiscono gli eroi da romanzo! Ma, digrazia, umani lettori (e vorrei soggiungere umane lettrici), sentiteun pochino le ragioni del narratore. Si grida tanto alla debolezza deiromanzieri, che si son fitti in capo di presentare al pubblico deitipi perfetti, soprannaturali, impossibili! E i romanzieri, che sonouomini veri, cioè a dire imperfetti la parte loro, si seccano diquesta chiacchiera, oramai troppo ripetuta. Ah, volete del vero?Eccone. Voi pretendete, osservatori giudiziosi della natura, che ildolore non duri eterno nell'anima umana. L'esempio costante di ciò chevedete intorno a voi sembra dirvi che la gioventù della carne,mortificata a lungo da un profondo rammarico, si ribella un bel giornoal suo tormentatore e ripiglia i suoi diritti? Ammettiamo che siavero, e rifacciamo i nostri poveri eroi su questo grazioso esemplare.Noi dunque dicevamo….
No, non dicevamo nulla; o piuttosto, dicevamo che non è proprio così.Il senso morale si ribella anche lui, respinge queste superficialitàdell'osservazione quotidiana, ed anche in un atto di debolezza vuolvedere le ragioni di un grande sacrifizio. Andate coll'indagine minutae paziente, andate in fondo a queste apparenti infedeltà che sonoportate dai casi e consigliate dagli obblighi della vita, e trovereteancora il dolore, più profondo e più grave che mai, poichè i contrastidegli affetti lo avranno mutato in rimorso.
Lo abbiamo tutti, non dubitate, lo abbiamo tutti, un alto idealenell'anima. Lo si nega da molti, a cui pesa di nutrire un ospite cosìragguardevole, e di apparire poco padroni in casa propria. Ma lacoscienza lo svela a tutti e col testimonio della coscienza non c'ènegazione che tenga. Quando la commedia del giorno è finita e l'attoresi trova solo nel suo camerino, dove non ha più da ingannare nessuno,spoglia le vesti e gitta gli arnesi della sua parte, incominciando daquei mustacchi neri e arroncigliati che gli davano un'aria digradasso, o da quelle fedine bionde, che lo facevano parere un ingleseannoiato. Quando tacciano intorno a voi le voci del mondo, ascoltatela voce arcana che è dentro di voi e che vi dice: Così devi essere,non come ti sei dato a vedere. Nobiltà, grandezza, culto della virtù,non sono vuote parole. Perchè vuoi mostrarti spregiatore delle coseinvisibili, solo perchè non si riflettono nello specchio che tirappresenta la tua immagine arcigna? E chi credi tu d'ingannare, conquesta tua scettica asseveranza? Chi ti dice che tutto ciò che fu, siamorto davvero e per sempre? Chi ti assicura che gli occhi vigili, dilà dalla tomba, non guardino ancora, con tristezza o pietà, ciò che tufai di malvagio o di sciocco?
Spinello Spinelli vedeva la propria condizione e pensava conraccapriccio che avrebbe dovuto mentire davanti ad una poverafanciulla un affetto che non sentiva nel cuore. Ma gli soccorreva inquel punto l'esempio di Parri della Quercia. Già condannato ad unafine immatura, non impalmava egli una ragazza, col nobile proposito diliberarla dalle strette della miseria e dai mali trattamenti dellafamiglia? E Spinello, dal canto suo, condannato al lutto eterno dellesue morte speranze, non avrebbe assicurato a monna Ghita deiBastianelli uno stato di gran lunga superiore a ciò che ella potevaripromettersi? Perchè, infine, egli era giunto in breve oraall'eccellenza dell'arte e ne raccoglieva i frutti ogni giorno. La suamedesima tristezza, appartandolo dal mondo, gli recava il benefizioinestimabile di una febbrile operosità. La ricchezza si facevaincontro a Spinello, più che egli non andasse a cercarla; e quellaricchezza egli avrebbe data a monna Ghita, in compenso di un amore chenon era in poter suo di offerirle.
E poi, che cosa doveva ella sapere delle cose d'amore, quella verginecreatura, vissuta sempre rinchiusa tra le pareti domestiche? Cosìpensava egli, ingannandosi; ma in quella stessa guisa che si ingannanotutti, credendo che amore sia una scuola, mentre esso è unarivelazione. Una donna, anche più facilmente e meglio dell'uomo, siinizia all'amore da sè, Non ne ha imparati i segreti; eppure ellasente subito, appena il suo cuore abbia incominciato a dare i battitipiù frequenti dell'usato, ella si addestra a discernere l'amore verodal falso, l'accento della passione da quello della tenerezza e dellapietà. Ma infine, ve l'ho detto, Spinello s'ingannava come tanti etanti altri, e poteva credere che quella innocente fanciulla non gliavrebbe saputo chiedere più di quello che egli poteva darle inricambio. E all'ombra di Fiordalisa, che gli stava sempre negli occhi,mostrava gli amici, i protettori, messer Dardano, suo padre, tutticollegati nell'opera di volerlo ammogliato. E le soggiungeva, quasi afinire di persuaderla: vedete, la donna che io ho, non già trasceltafra mille, ma accettata dalle mani del caso, è una povera creatura, acui mancano le grazie della persona, e nessuno potrà credere che ilmio cuore, ancor pieno di voi, si sia infiammato per una donna cosìpoco paragonabile a voi.
In questo modo e con questi ragionamenti, Spinello Spinelli siacconciò al nuovo proposito. Messer Luca, a mala pena ne ebbe ilfelicissimo annunzio, si partì da Arezzo, per venire a Firenze. Gliantichi odii partigiani che lo avevano cacciato dall'ombra del suo belSan Giovanni erano da gran tempo sopiti. Riabbracciò il suo figliuoloe gli parve di vederlo tornato da morte a vita; nè si dolse, nel suocuore di padre, aperto a tutte le ammirazioni come a tutte letenerezze, di dover mandare il rispetto di costa all'amore, trovandoSpinello così grande, per le sue opere, nella estimazione di tutti.
—Figliuol mio,—gli dicea, non sapendo saziarsi mai di guardarlo e dibaciarlo sul viso,—sei tu? proprio tu? il dipintore famoso, checontende la palma ai migliori della scuola di Giotto? E sono io tuopadre?—
Dopo una così lunga notte di amaro sconforto, Spinello Spinelli ebbe iprimi sorrisi di gioia, vedendo l'allegrezza di quel povero vecchio,che per lui, per suo figlio, tornato alla quiete dell'animo, cresciutoalla gloria dell'arte, dimenticava perfino le ebbrezze del fuoruscito,che dopo tanti anni d'esilio rivede finalmente la patria.
Messer Dardano Acciaiuoli accolse anche lui amorevolmente il padre delsuo giovine amico e gli fece gran festa. Ambedue andarono dalBastianelli che lavorava, come vi ho detto, in una botteguccia d'orafosul Ponte Vecchio.
Il bravo e modesto artefice cascò dalle nuvole udendo quella domandadi matrimonio fatta a sua figlia da un pittore famoso e recata a luida un uomo così ragguardevole, da uno dei maggiorenti di Firenze, qualera messer Dardano Acciaiuoli. Non accettò lì, su due piedi, perchèvoleva interrogare sua figlia, ma in fondo in fondo perchè non credevaa' suoi medesimi orecchi. Non poteva darsi che quei due visitatoriavessero preso un granchio e fossero andati da lui, scambio dì andareda un altro?
—La mia figliuola, non fo per dire, è un'angiola;—rispose ilBastianelli, com'ebbe udita la domanda di messer Dardano.—Ma forsemesser Spinello, di cui mi parlate, non l'ha vista bene. Agli occhidel mondo, che non conosce il suo cuore, la mia Ghita è una poveraragazza, senza garbo, come senza sostanze. Troppo le manca di ciò chepuò far piacere una donna, specie ai pittori, che s'innamorano diveduta, anteponendo, com'è naturale, i pregi della persona a quellidel cuore.
—Via, mastro Zanobi,—rispose l'Acciaiuoli, non fate così poca stima—del sangue vostro. Spinello conosce la vostra Ghita e ne è—innamorato morto. E poi l'ho veduta anch'io, che me ne intendo, per—antica esperienza;—soggiunse usando dei diritti che concede—l'età.—Non vi date dunque pensiero di certi nonnulla. Piuttosto—chiedete a lei che cosa pensi di questa proposta. Si sa, poichè col—marito ci ha da vivere lei, è anche giusto che sia interrogata la—sua volontà.
—È giusto, sicuro, è giusto;—disse il Bastianelli, che non sapevaraccapezzarsi, tra il dubbio e l'allegrezza.
Siamo dunque intesi;—ripigliò l'Acciaiuoli.—Chiedete l'avviso dellavostra figliuola. Noi ripasseremo domani da voi.
—No, messere, so il debito mio;—replicò 11 Bastianelli facendo uninchino.—Passerò io alle vostre case, messere.—
Quel giorno mastro Zanobi chiuse bottega alle undici del mattino,quantunque non fosse giorno di festa. Ma era festa per lui, a bastava.Gli sapeva mill'anni di essere a casa, di avere interrogata sua figliae di saperne l'intiero.
Monna Crezia, che tale era il nome della moglie dell'orafo, fece lemeraviglie, vedendo ritornare in casa a quell'ora insolita il marito.
—Domine!—gridò ella, inarcando le ciglia. Che cos'è stato? Perchè—avete lasciata la bottega?
—La bottega è la bottega e la casa è la casa; sentenziò mastro —Zanobi.—Dov'è la Ghita?
—È di là, che lavora. Ma si può sapere che cosa abbiate, Zanobi!
—Crezia, voi saprete ogni cosa a suo tempo. Venga la Ghita; hobisogno di parlarle.—
Venne la Ghita. Una bella ragazza, a non guardare che la testa;capegli neri come l'ebano, occhi neri e pieni d'espressione; nobili edelicati i lineamenti, bianca la carnagione, e soave il sorriso, cheprendeva lume in giusta misura dalla bontà dell'animo e dalla bellezzadella bocca. Peccato che il collo non fosse lungo abbastanza, ma infine, era un collo bianco e tondeggiante, indizio di forte e serenamaternità. La vita era un po' tozza, ma seguitava anch'essa ilcarattere e l'espressione del collo, quasi preparando l'occhio aquella andatura impacciata, che in parte lasciava indovinare e inparte nascondere il difetto già noto ai lettori. Un difetto da nulla,in verità, quello che aveva meritato a monna Ghita il soprannome dizoppina, e si poteva dimenticarlo, quando essa non si muoveva;condonarlo, e trovarci anzi una certa grazia, quando ella si facevainnanzi, con quella sua andatura di persona stanca e svogliata.
—Ghita,—incominciò gravemente mastro Zanobi,—dimmi la verità. Conosci tu un giovane, qui presso, che ti fa…. mi capisci?
—Babbo, io non capisco;—rispose la Ghita.
—Vo' dire che ti fa l'occhiolino. Capisci ora?—
La Ghita si fece rossa come una fravola montanina.
—Padre mio…—balbettò ella, più confusa che mai.
—Rispondi! Non voglio mica mangiarti. Qui presso alla nostra casa,abita forse un giovanotto, che tu vedi qualche volta?
—Non so…. Io non conosco nessuno;—rispose la fanciulla.—Ce nestanno due, qui presso, nella casa degli Ammannati. Si vedono qualchevolta sulla terrazza, senza volerlo, stando quassù, presso al balcone.
—Il loro nome!
—Non lo so. Si dice che siano due pittori. Ma la mamma potrà saperlomeglio di me. Io non parlo con nessuno, lo sai.
—Che c'è? che c'è?—entrò a dire monna Crezia.—Perchè domandate ilnome dei vicini, Zanobi?
—Perchè? Perchè uno di costoro ha chiesta la Ghita in moglie. Vi pareche io non abbia il diritto di domandarvi qualche ragguaglio?
—Bene! Voi sapete già il nome?—ripigliò ironicamente, ma senzasdegno il marito.—E tu, Ghita, lo sapevi anche tu, non è vero?—
Ghita chinò la testa, arrossendo di bel nuovo. Voi capirete, lettoridiscreti, che, alla sua età e nella sua condizione di figlia alcospetto del babbo, la fanciulla non poteva far altro.
Mastro Zanobi seppe quel che voleva sapere, e rimase lì un trattosenza parole, guardando la moglie e la figlia, con una cert'aria chevoleva parere arcigna, e con una gran voglia in corpo di abbandonarsialle più matte dimostrazioni di gioia. Maritare una figlia, levarsi dicasa la zoppina, che vi pare? Non c'era da far le capriole? Il reDavid, uomo gravissimo pel suo tempo e per la sua dignità in Israele,ballò davanti all'Arca per molto meno.
—Sicchè,—disse finalmente mastro Zanobi, conchiudendo ad alta voceun suo ragionamento mentale,—non sarà neanche il caso di chiedervi sesiete contente? Meglio così. Io, tanto e tanto, avrei risposto di si,anche senza il vostro consenso. Vi ho interrogate perchè la cosa mipareva strana, e ancora adesso non so capacitarmi in che modo sia natoquesto innamoramento del pittore.
—Oh, non stiate a credere che noi si sia fatto un passo per andargliincontro;—rispose prontamente monna Crezia.—Si vedevano qualchevolta i due giovani sulla terrazza degli Ammannati, nella casa quipresso dove sono venuti da qualche mese ad abitare. Uno di essi cirestava a lungo seduto, guardando in Arno, come se aspettasse unabarca, che non veniva mai. L'ho capito un po' tardi, che barcaaspettasse! Ma come indovinarlo subito, Dio buono, se non guardava maiin alto, salvo una volta in principio, per salutarci, come s'usa trabuoni vicini? Bisogna proprio dire che ci abbia gli occhi sullafronte, alla guisa delle chiocciole!
—Abbreviate, Crezia!—disse mastro Zanobi. Quando incominciate a—parlar voi, benedetta donna!
—Oh, vi contento subito. Un giorno, sarà forse due settimane fa, èvenuta da noi monna Tessa, la cognata di vostro fratello, povero Meo,che Iddio abbia in gloria l'anima sua, e m'ha detto che nel Borgo sifaceva un gran parlare d'una tavola esposta in Santa Lucia de'Bardi.—Che importa a me di quella tavola?—Può importarvi perchè lafaccia della Santa è il ritratto puro e pretto della vostrafigliuola.—Che volete, Zanobi? La curiosità ci ha prese e siamoandate a vedere anche noi questa Santa Lucia. Monna Tessa avevaragione; la Santa somigliava alla Ghita come… come… aiutatemi adire!
—Abbreviate, Crezia, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.
—Che uomo impaziente siete voi! Ci avete sempre vent'anni. Basta,sappiate che, dopo la faccenda del ritratto, monna Tessa, che conoscei due pittori, è venuta a dirmi dell'altro. I pittori le avevanochiesto di noi, chi fossimo, che cosa facessimo, se la Ghita avessegià un fidanzato, ed altre scioccherie di questa fatta.
—E non mi avevate avvertito di nulla? Brava la mia Crezia!
—Madonna delle poerine! O che volevate che io venissi subito aconfidarmene con voi! Monna Tessa me ne aveva parlato così in aria,senza assicurarmi nulla. Erano chiacchiere fatte tra noi donne, ed iocredevo che non ci avessero neanche ombra di fondamento, perchè dopoquel discorso avevo incominciato a fare un po' di guardia e non m'eroavveduta di nulla. Il giovanotto non veniva neanche più a sedersisulla terrazza. Oh, per questo, non dubitate, dev'essere un uomodabbene.
—Meglio così;—sentenziò mastro Zanobi;—senza contare che è unartista di grido e che la domanda di matrimonio mi è stata fatta dasuo padre, venuto a bella posta d'Arezzo, e accompagnato alla miabottega da uno dei più ragguardevoli cavalieri di Firenze. Non capiscocome una sorte così grande sia toccata alla nostra casa. Ma già, diceil proverbio: fortuna e dormi. Siete contente voi altre? Io sonoarcicontento. Preparatevi a ricevere il fidanzato, che un giorno ol'altro bisognerà pure aprirgli l'uscio di casa. E a due battenti, selo accompagna messer Dardano Acciaiuoli. Voi, Crezia, mi direte poiche cosa gli bisogna alla nostra figliuola, non siamo ricchi, magrazie a Dio, tanto da non farla sfigurare lo avrà.—
Così ebbe fine il primo dialogo dei coniugi Bastianelli intorno almatrimonio di monna Ghita. La quale, poverina, ci perdette l'appetito,tanto era sconvolta dall'idea di quelle nozze, che certamentel'avrebbero fatta invidiare da tutte le ragazze del vicinato.
Mastro Zanobi temeva un pochino quantunque non lo lasciasse trapelarea nessuno, che il pittore, entrato una volta in casa, non gli girassenel manico, trovando, come suol dirsi, il vino troppo diverso daquello che prometteva l'insegna. Spinello venne, e fu proprio il casodi aprir l'uscio a due battenti poichè messer Dardano Acciaiuoli siera degnato di accompagnare il suo giovane amico. Per fidanzato gliparve un po' grave; ma forse era da attribuirlo alla timidità delcarattere e alla confusione di un primo incontro. Infatti, come ilghiaccio fu rotto, Spinello Spinelli parve rasserenarsi a grado agrado, e mezz'ora dopo non c'era in lui più traccia di musoneria.
Comunque, egli l'aveva voluta; doveva pensarci lui. Mastro Zanobi andòbravamente all'ultimo esperimento. Bisognava far onore agli ospiti, edegli mandò le sue donne a prendere nell'armadio una bottiglia di vinSanto. Monna Ghita dovette muoversi dalla sedia, su cui era rimasta acosì dire inchiodata, e andare attorno come avrebbe fatto Ebenell'Olimpo, o Briseide nella tenda di Achille. Gli occhi del babboseguirono la fanciulla che camminava più stenta del solito; indi sivolsero a indagare il viso di Spinello Spinelli. Lo credereste? Ilgiovinetto non parve darsi per inteso del difetto; anzi, da quelmomento, incominciò a mostrarsi più franco, e poco stante si alzavaanche lui, chiedendo licenza di aiutar la fanciulla in quell'umileufficio di servitù familiare.
E bisognava vederlo, con che garbo ci si adoperava. Forse unosservatore più diligente e più acuto avrebbe trovato che SpinelloSpinelli mirava a dissimulare con quella mostra di operosità unsentimento di freddezza che poteva benissimo essersi impadronito dilui. Perchè gli uomini son fatti così, e si cavano volentierid'impaccio fingendo una gran voglia d'esser utili, che li dispensa dalrimanere estatici. La sollecitudine s'inventa lì per lì; l'estasi nonsi comanda. Essa, è come quel tal segreto degli artisti, che
A cui natura non lo volle dire Nol dirian mille Ateni e mille Rome.
Per fortuna, mastro Zanobi non era un osservatore di quei tali, e alui la spigliata sollecitudine del fidanzato poteva e doveva pareretutt'altro.
—Non siete scontento di noi?—gli chiese in un momento che potèaverlo in disparte.—Siamo povera gente, messere, e ancora tutticonfusi dal grande onore che ci fate.—
Spinello Spinelli si commosse a tanta semplicità di parole.
—Che dite mai, padre mio?—esclamò.—Son io che debbo esser confusodi gratitudine. E che io lo sia davvero ve lo dimostra il non avereancora saputo trovar l'occasione di dirvelo. Nel seno della vostracara famiglia io troverò la pace che non ho potuto avere nella mia, datroppi anni disfatta. Mia madre è morta, quando io ero ancora bambino;mio padre, esule dalla sua Firenze e triste come tutti gli esuli, nonha potuto circondare di gioie domestiche la mia fanciullezza. Sonvenuto su triste come lui e lo sono rimasto, come vedete. Egli emesser Dardano potranno dirvi che questa è la mia indole. Ma io viprego di credere una cosa, mastro Zanobi; la vostra figliuola non avràmai a dolersi di me. Questo posso promettere, sulla mia feded'onest'uomo.—
Mastro Zanobi, intenerito, strinse fra le sue braccia il futuro suogenero.
—L'avete detto,—rispose,—l'avevo detto fin dal primo momento che viho veduto: ecco un giovine dabbene!—
Le nozze furono affrettate quanto più si potè, senza danno deiconsueti apparecchi. C'era in tutti una gran furia di far presto.Furia del Bastianellì, a cui non parea vero di allogare la figliuolain quel modo; furia di messer Luca, che non vedeva l'ora di veder suofiglio sottratto ai pericoli dell'umor nero; furia di messer Dardano,che adempiva con coscienza a tutti i suoi uffici di protettore;finalmente (e forse era da metter questa innanzi alle altre) furia diTuccio di Credi, il quale voleva riconquistare la sua libertà. Non giàper abbandonare la bottega di Spinello Spinelli, che migliorprincipale di lui non avrebbe trovato in tutta Firenze; ma perliberarsi, diceva lui a messer Dardano, da quel faticoso mestiere diangelo custode, che messer Luca gli aveva appioppato.
Monna Ghita accettava la sua sorte con una allegrezza raccolta, evorrei quasi dire concentrata, di cui ella stessa non misurava laprofondità. Era sbalordita, oppressa, e la felicità si mostrava per laprima volta a lei sotto l'aspetto di una cosa inaudita. Perciòimmaginate voi se monna Ghita avesse tempo o modo di studiar l'animo oil contegno di Spinello Spinelli. Era bello, famoso e aveva chiesto lasua mano. Che cosa avrebbe ella potuto cercare di più? Quel fidanzatoera agli occhi di lei un essere soprannaturale.
Il matrimonio, per espresso desiderio di messer Dardano Acciaiuoli, sicelebrò nella chiesa di San Niccolò, fatta edificare da lui e dipintada Spinello Spinelli. Quelle Madonne, quei Santi e quelle gloried'angioli, che coprivano le volte, dovevano assistere alla cerimoniache consacrava la felicità del loro celebre autore. E non erano isoli, poichè quel giorno ci fu gran concorso in chiesa e le tribuneerano tutte piene di ragguardevoli cittadini e di donne gentili, chela fama del giovine pittore chiamava allo spettacolo della sua finemiseranda. Non parlo per celia. Il matrimonio di un artista è sempreun fatto luttuoso, un evento lagrimevole, come a dire un suicidionella mente dei più.
Monna Ghita entrò in chiesa, vestita di bianco, secondo il costumedelle spose. Il suo bel volto, per verità, rosseggiava un po' troppo,a cagione dello sforzo che ella faceva per camminare ritta enascondere la lieve imperfezione del piede; ma quelle fiamme sipotevano credere accese dalla verecondia, e la cosa apparivanaturalissima. Spinello, per contro, era contegnoso, impacciato, quasitriste; ma quell'aria, che s'accordava così poco con la felicità delmomento, poteva essere attribuita ad un pochettino di confusione. Giàsi sa, un uomo, con tutta la sua pratica del mondo, non può mica andarfranco in una congiuntura così difficile, che gli capita per la primavolta in sua vita.
Quando giunse il momento di profferire il monosillabo che lo avrebbelegato per sempre, Spinello ebbe una stretta al cuore e rimase unistante perplesso. Intravvide, quasi in nube, l'immagine diFiordalisa, e chiuse gli occhi, come se da quel moto di riluttanzainfantile dovesse venirgli la forza di compiere il suo sacrifizio. Mafu invece la paura che lo vinse; quel momento di esitazione gli eraparso un secolo; ed egli si affrettò a rispondere un sì più vivo e piùsonoro, che forse non avrebbe fatto in una diversa condizione dispirito. E più sonoro e più vivo glielo fece sembrare il rombo chesentiva negli orecchi, per effetto della commozione del sangue.
Era inganno dei sensi, o realtà? Gli parve che a quel sì rispondesseun grido dall'alto, un grido acuto e breve, come di persona colpita daun improvviso stupore,
—Ah!—pensò egli, sbigottito.—Non è questa la mia dolce Fiordalisa,che mi rimprovera di averla dimenticata?—
Ma proprio allora gli si fecero intorno congiunti ed amici, percongratularsi con lui e con la sua gentile compagna; e la confusionedi quel momento e l'obbligo di rispondere a tante cortesie,soverchiarono in lui lo smarrimento dell'animo.
Poco stante, egli esciva dalla chiesa, dando il braccio alla sposa. Ioveramente non saprei dirvi quale del due avesse maggior bisogno diessere sorretto dall'altro.
Tuccio di Credi presentò alla sposa un mazzolino di fiori.
—Li ha colti l'amicizia;—diss'egli inchinandosi.—Rammentando questobel giorno, madonna, non dimenticate il fedel servitore della vostracasa.—
Quel caro Tuccio di Credi, a tempo e luogo, sapeva anche mostrarsigalante. Ma già quando si ha un cuore ben fatto, le son cose chevengono spontanee come… come…. Domandiamolo a mastro Zanobi, ilparagone. Ed egli ci risponderà come fece a monna Crezia, sua moglie:
—Abbreviate, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.—
E sia, facciamone dunque di meno.
XI. [2]
Non vi è egli mai occorso di pensare, o lettori, a tutte le cose chesi fanno, nel corso della vita, sapendo che non andrebbero fatte, edanche provandone un certo dispiacere? La più parte deboli di tempra,perchè la forza è il privilegio di poche anime, e non sempre buone,noi siamo troppe volte i servitori umilissimi dell'altrui volontà, piùspesso dell'ambiente in cui la necessità ci fa vivere. Sacrifichiamoagli dei falsi e bugiardi dell'uso comune, delle convenienze sociali,e via discorrendo; comperiamo la quiete del momento, a prezzo dellafelicità, di tutta la vita.
Spinello Spinelli aveva dovuto farsi una famiglia. Non ne sentiva ilbisogno, eppure l'aveva fatta; non per sè, ma per gli altri, cioè adire per suo padre, che non avea pace, e per gli amici, che non glidavano tregua. Ma la sua anima, si era come avvilita in quello sforzodi obbedienza,
[Footnote 2: Nel testo "XI"] che lo conduceva a bandire perfino la suatristezza, quella tristezza che gli era tanto cara, dopo la mortedelle sue speranze giovanili, dopo la distruzione del suo bel sognod'amore.
E come se ciò non bastasse ancora, il povero Spinello dovevacontentare suo padre in un'altra cosa, e restituirsi ad Arezzo. MesserLuca pregava, i maggiorenti della città mandavano inviti su inviti.
In Arezzo, lui! Mai e poi mai. Chiedessero pure i maggiorenti dellacittà l'opera sua e gli promettessero mari e monti; Spinello non eraavido di ricchezze e di onori; Spinello sarebbe rimasto a Firenze.
Ma un giorno, gli giunse la nuova che suo Padre era infermo. Gli onorie le ricchezze non c'entravano più per nulla, il suo debito di figliolo chiamava in Arezzo. E ci andò, conducendo seco la moglie.
Malinconico ritorno, nel paese in cui si è sofferto! Ma egli bisognaadattarsi anche a queste dolorose impressioni, e saper rivedere conanimo forte i luoghi delle tristi memorie. Con animo forte! Quando efin dove si può. Eravamo avvezzi a vedere quel tratto di paesepopolato dalla immagini della speranza; quella corona di montichiudeva tutto ciò che avevamo di più caro nel mondo; quelle mura,quegli archi, quelle vie, prendevano luce d'allegrezza dal pensieroche un'amata creatura vedeva con noi la medesima scena e vi respiravale medesime aure vitali. Ad un tratto, più nulla. Aure, luce,allegrezza, tutto è sparito; la città e morta, la corona dei monti nonvi dà che lo scheletro ignudo di ciò che amavate. È questa, e non cen'è altra, la vera sensazione del vuoto.
A sviare un tratto i dolorosi pensieri, Spinello ebbe le onoranze de'suoi concittadini. I sessanta che governavano Arezzo, saputo del suoarrivo, deputarono quattro dei maggiori a muovergli incontro sulla viadi Firenze e gli fecero accoglienze così schiettamente amorevoli, cheavrebbero reso invidioso un trionfatore, tornato pur mo' daglisplendori del Campidoglio, per ricondursi a più semplici dimostrazionidi gioia, a Tuscolo, a Lanuvio, ad Arpino.
Messer Luca era meno ammalato di quello che a tutta prima paresse. Mafosse stato anche più grave, l'arrivo del figliuol suo, tantoinvocato, lo avrebbe certamente rimesso in salute. Madonna Ghita,angiolo di bontà (questa giustizia le va resa anche dai divoti dimadonna Fiordalisa), non si spiccò più dal capezzale del vecchio.
Frattanto, i rettori della città erano tutti intorno a messerSpinello, al valente pittore, e lo richiedevano con gran desideriodell'opera sua.
—Vedete, maestro,—gli dicevano, additandogli il San Donato da luidipinto nel Duomo vecchio,—quello è il vostro primo lavoro, dondeincominciò la vostra fama. Non farete voi altro per la città che hasalutato il vostro ingegno nascente?—
Spinello non seppe resistere a tante preghiere, e fece promessa ditrattenersi qualche tempo in Arezzo, per dipingere nel Duomo vecchio,secondo la richiesta dei massari, una Storia dei Magi.
Ma dopo i massari del Duomo vennero quelli di San Francesco. La chiesamancava affatto di affreschi, ed era quella una eccellente occasioneper dar campo all'ingegno di Spinello Spinelli. I Marsupini, riccafamiglia di Arezzo, ottennero primi che egli dipingesse nella lorocappella un Papa Onorio, in atto di confermar la regola dei santofraticello di Assisi.
Dopo i Marsupini venne la volta dei Bacci. Messer Giuliano Bacci avevail patronato di una cappella in San Francesco, e volle che il valenteartista vi dipingesse una Nunziata. A questo nuovo desiderio risposeprontamente l'opera di Spinello Spinelli, ed anche a quello deimassari di San Francesco, che vollero un arcangelo San Michele, nellacappella intitolata al gran giustiziere del cielo.
Lavorava, il povero e glorioso Spinello, lavorava assiduamente ognigiorno, ma senza che il lavoro lo aiutasse a dimenticare per un'ora ilsuo profondo rammarico. L'immagine della bellissima estinta era sempredavanti agli occhi dell'artefice:
Madonna Fiordalisa, come sapete, era stata seppellita nel chiostro delDuomo vecchio. Spinello trovò nel suo memore affetto il coraggio diandare fin là, ad inginocchiarsi sulla pietra che copriva le spogliemortali della sua fidanzata, e vi rimase lungamente piangendo echiedendo perdono a quell'ombra adorata di aver data la mano adun'altra donna.
Gli perdonò Fiordalisa? Ahimè, il povero Spinello non ebbe neanchequel triste conforto al dolore. Nessuna voce arcana giunse dal regnodella morte alla sua anima afflitta. Fiordalisa era muta, ed eglisentì più vivo il rimorso di ciò che aveva fatto, per appagare ildesiderio di suo padre. Era poi necessario di appagarlo? E non sarebbestalo meglio persuadere messer Luca Spinello che quel matrimonio eraimpossibile? Il cuore d'un padre non avrebbe intese le ragioni delcuore di un figlio?
Abbandonato da quella speranza, l'animo di Spinello Spinelli cadde inballa dello scoramento. Era malinconico e si buttò al disperato;desiderava la morte e si compiaceva soltanto nella solitudine, che gliconsentiva di pensare al più bel giorno della sua vita, il giorno incui sarebbe cessata ogni sua pena. Lodato a gara da tutti, non davaretta alle lodi, o mostrava solamente di udirle, per mostrarneimpazienza. Voleva esser lasciato solo, per darsi tutto alle suesmanie, alle sue alternative di fatica e di lagrime. Infatti, spessodeponeva i pennelli per piangere; poi rasciugate in fretta le lagrime,afferrava i pennelli e lavorava a furia, come un uomo che non ha tempoda perdere. Ineffabile angoscia, quella che non può avere neanche unalontana speranza di pace, poichè la tregua è solo di là dalla tomba!
Intanto, la religione dei sepolcri si era impossessata dell'animo diSpinello Spinelli. Quante volte gli era dato di escir solo dal suolavoro quotidiano, egli andava nel chiostro del Duomo vecchio, peringinocchiarsi sulla pietra di madonna Fiordalisa, e ripetere conpienezza d'affetto la sua triste domanda: mi avete voi perdonato?Ahimè, povero Spinello! La pietra sepolcrale era muta; la voce arcana,invocata da lui, non si faceva sentire. Si sarebbe dello che le animedei trapassati sdegnassero di vigilare qualche volta sulle ossaabbandonate, o che la salma di madonna Fiordalisa non fosse là dentro.Spinello, nel suo disperato dolore, pensò che ella non volesseascoltarlo, amando meglio tacere, che dirgli una troppo amara parola.Infatti, la risposta di Fiordalisa egli se la immaginava qualchevolta, e gliela ripeteva il suo rimorso.—Sei tu che l'hai voluto,disgraziato; sei tu che l'hai voluto. Di che ti lagni ora, nel tuotardo pentimento, e che cosa domandi ad un cuore, che hai contristatocon la tua ingratitudine?—
Per avvicinarsi meglio alla morte, a questo pensiero dominante di chinon trova più consolazioni nella vita, Spinello Spinelli incominciòallora a metter l'animo in quelle pratiche di coraggiosa pietà che itempi consigliavano ai cuori angustiati. Pareva a lui che l'amante diuna persona morta dovesse pensare più che ad altro agli estinti;epperò si ascrisse alla confraternita di Santa Maria dellaMisericordia.
Non invento nulla; sèguito passo passo il nostro malinconico eroe. Laconfraternita della Misericordia, che io accenno qui per necessità delracconto, era nata da un sentimento di gentile pietà, cresciuto nelcuore di parecchi buoni ed onorati cittadini d'Arezzo, i qualiandavano attorno, accattando limosine per i poveri vergognosi e pergl'infermi, vegliavano al capezzale dei moribondi e portavano aseppellire i trapassati. E Spinello, essendo entrato a far parte dellacompagnia, andava anche lui con la tasca al collo e il martello dilegno in mano, picchiando all'uscio dei ricchi, ed entrava nelle casevisitate dalla morte, per recarsi sulle spalle i cadaveri. La cosa nonera senza un grave pericolo, perchè allora la peste entrava di soventenelle mura indifese delle città italiane, e quell'ufficio dimisericordia, era una vera e propria milizia per gli animosispregiatori della morte, o per coloro che amassero dissimulare con undebito di carità cristiana il tedio dell'esistenza.
Di queste nobili cure il valoroso artefice aveva più lode in Arezzo,che non delle stupende tavole dipinto senza compenso per l'oratoriodella confraternita, a cui, tra l'altre cose, una bella invenzioneartistica, di Spinello, destando gli spiriti caritatevoli deifacoltosi aretini, aveva grandemente accresciute le entrate, e perconseguenza le forze necessaria ad operare il bene. Della qualeinvenzione io vi dirò solamente questo: che egli dipinse sullafacciata della chiesa dei Santi Laurentino e Pergentino una Madonna,che, avendo aperti davanti i lembi del mantello, vi raccoglieva sottoil popolo di Arezzo, nel quale si scorgevano molti uomini tra i primidella confraternita, con la tasca al collo e il martello in mano,simile a quelli che s'usavano per andar ad accattar le limosine.
Madonna Ghita, poverina, ammirava e taceva. Il che significa in buonvolgare, che ammirava a mezzo e che il silenzio nascondeva qualchealtra cosa, come a dire un pochettino di tristezza. Ma egli è di certedonne il soffrire con misura, e perchè soffrano veramente meno dicerte altre, e perchè manchino loro le forme in cui si esprime aglialtri e si rappresenta a noi stessi il dolore. Questa vi parrà unasottigliezza, ma è tuttavia una verità. Chiedetene a tutti i filosofie vi diranno che l'uomo non sente i bisogni di cui gli manchiun'esatta cognizione. Resta una vaga tristezza di cui non si conoscela causa, e il non conoscer la causa basta più delle volte a toglierogni importanza agli effetti. Così in di grosso, e senza pensarci su,monna Ghita intendeva che un antico dolore pesava sull'anima diquell'uomo, parco di parole, avaro di tenerezze. Ma pur sempre buonocon lei. Anch'ella ebbe le sue tristezze, ma non si fermò più chetanto a farne argomento di meditazione. L'animo di monna Ghita non erafatto per uno studio così fine. E se pure una vaga malinconias'impadronì un giorno del suo cuore, ben presto venne a mutarl'indirizzo de' suoi pensieri, e darle una vera e profondaconsolazione, la nascita di un angioletto, che ebbe il nome di Parri,il nome del primo e prediletto amico di Spinello Spinelli. Infine, cheimportava l'umor triste del marito, se di lui, e dell'affetto che lalegava a lui era nato il suo Parri? Monna Ghita si consolò,raccogliendo su quella bionda testolina l'amore che non potevaespandere nel seno del suo triste o glorioso compagno.
Ghita, anima buona, sa Iddio se mi duole di voi. Ma siamo giusti,forse ci avete avuto dalla vita assai più che non vi riprometteste neivostri sogni di vergine, ed io penso che voi non abbiate avuto mai unaidea molto chiara della vostra infelicità sulla terra.
L'umor nero di Spinello non potè sfuggire all'occhio vigile di Tucciodi Credi. L'astuto malveggente seguiva con attenta cura le fasi moralidel suo compagno d'arte, o poichè bisognerà distinguer meglio, del suoprincipale. Ma egli non cercava più di consolarlo, come faceva inprincipio. Lo aveva ammogliato, gli aveva assicurata la pace; il suoufficio amichevole era adempiuto.
Tuccio di Credi, del resto, soffriva anche lui la sua parte. S'erafatto più cupo e più verde del solito. Quella potenza d'ingegno cheniente bastava ad uccidere, nè la perdita di Fiordalisa, nè unmatrimonio fatto a suo mal grado, gli riusciva molesta. Di sicuro,egli non poteva argomentarsi di competere mai con Spinello Spinelli.Egli era uno di quegli artisti che restano sempre sull'uscio, chehanno preso un pennello a caso come altri prenderebbe una scopa, evanno avanti senza sapere il perchè, imparando il meccanismodell'arte, per ridurla ad un mestiere che più oltre non saprebberointenderne.
Ma anche condannato a restare sull'uscio, e consapevole di quellacondanna, Tuccio di Credi sentiva la gelosia, questa brutta sorelladell'emulazione. Vedeva Spinello salire sempre più nella estimazionedelle genti, triste, ma operoso, anzi più operoso quanto più eratriste. Nè solo Arezzo chiedeva miracoli d'arte a Spinello Spinelli,ma anche molte altre città di Toscana. Lo aveva voluto la famosa Badiadel Camaldoli in Casentino; lo aveva voluto Firenze, nella Badia degliOlivetani, in San Miniato al Monte; lo aveva voluto Pisa per il suoCamposanto, maraviglia dell'arte e della pietà italiana; lo volevaPistoia, per la sua chiesa di Sant'Andrea.
Tuccio di Credi aveva portati in pace, o giù di li, gli inviti delCasentino; aveva mandati giù, senza troppo dolersi, gl'inviti diFirenze; aveva rizzato muso agl'inviti di Pisa, ma non si eraarrischiato a dir nulla. Ma non portò in pace, non mandò giù, nonlasciò correre senza proteste, gl'inviti di Pistoia. O perchè?Aspettate, lettori umanesimi, e vedremo di sapere anche questo.
Per intanto, sappiate che Tuccio di Credi si dichiarò contrario alviaggio di Pistoia. La città delle fazioni, anzi la culla, perchèlassù erano nate e di là s'erano propagate per tutta la Toscana, nonera fatta per Spinello Spinelli. Il suo ingegno avrebbe trovatoammiratori, ma anche detrattori in buon dato. Voleva egli che la suaeccellenza nell'arte fosse contrastata? Voleva proprio comperarsi co'suoi danari un amarissimo pentimento? Andasse allora a Pistoia. Ma seamava la sua quiete, se voleva provvedere degnamente alla sua fama, sicontentasse di Firenze e di Pisa, di Arezzo, di Rasentino e di Siena.
Spinello non diede retta a Tuccio di Credi. Della sua famagl'importava poco, dei detrattori anche almeno. Checchè ne pensasse edicesse il suo compagno d'arte, egli aveva promesso e sarebbe andato aPistoia.
Tuccio di Credi chinò la testa e non argomentò più nulla in contrario.Ma prima che il principale avesse fatta una risoluzione intorno a quelviaggio, Tuccio di Credi si presentò a Spinello Spinelli per prenderecommiato da lui.
Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.
—Come?—gli disse.—Anche tu hai risoluto di lasciarmi?
—Sì, maestro. Tanto non sono buono a nulla, e l'opera mia nonpotrebbe esservi utile più di quella d'ogni altro fattore.
—Andiamo, via! Buono a nulla!—esclamò Spinello, con accento di dolcerimprovero.
—È la coscienza che me lo dice;—replicò Tuccio di Credi;—e perciòvi domando licenza di andarmene.
—Quando è così… se ad ogni modo lo vuoi, disse allora —Spinello,—sia fatto secondo il tuo desiderio.—
Spinello era come tutti gli uomini i quali vivono raccolti in sèstessi, che non credono conveniente di far violenza amichevole connessuno, poichè a lor volta non amano di essere oppressi dallabenevolenza altrui. Lasciò che Tuccio di Credi andasse con Dio, e ilgiorno seguente partì per alla volta di Pistoia.
Era solo, ma la solitudine non tornava uggiosa al suo spiritomalinconico. Il pensiero che vaga dietro allo immagini del passatoprova una voluttà tutta sua nel trovarsi abbandonato a sè stesso, nonobbligato a seguire, anche per poco, il pensiero degli altri. ESpinello fu più calmo a Pistoia, che non fosse a Pisa o a Firenze. Lavalle dell'Ombrone gli recò un senso di pace, che doveva tornarglinuovo, poichè della pace, come della allegrezza, egli aveva quasiperduto il ricordo.
La città, sebbene scaduta alquanto dell'antica grandezza, per le irecittadine ond'era stata così lungamente travagliata, era bella avedersi, per la quieta grandiosità delle sue vie, come per la elegantenobiltà, de' suoi monumenti. Pistoia non aveva avuto un'arte propria;nell'architettura aveva sentita da principio l'influenza dei pisani;nella pittura sentiva quella dei fiorentini. Ma fosse di Firenze o diPisa, quella era sempre arte paesana. La Cattedrale, Sant'Andrea, ilBattistero, San Giovanni Fuoricivitas, il palazzo del Podestà, eranosaggi mirabili di quello stile che una critica poco degna del suo nomes'affanna ancora a chiamar gotico, laddove esso apparisce ed èprettamente italiano, e non ammette mistura di forme straniere se nonin alcuni luoghi dove erano più vicini gli esempi, o più strette lerelazioni con l'arte tedesca, normanna, araba, bisantina e viadiscorrendo. Quello che era avvenuto da noi per la lingua, che,scaduto l'idioma latino, riprendessero a mano a mano i loro dirittigli antichi dialetti italici, surrogando agli strascichi dellamagniloquenza romana le loro forme grammaticali più snelle e piùefficaci nella loro medesima spontaneità, era avvenuto per l'arte. Lostile romano si era imbastardito, per le ragioni che tutti sanno e chead ogni modo non mette conto dir qui; doveva ritornare per conseguenzain onore l'antica forma toscana, più leggiera e più aggraziata,accettando necessariamente qualche cosa dal gusto dei dominatori o daibisogni del tempo, e rimutando in nuova leggiadria una certa rozzezzad'ornati, che qua i bisantini, là i longobardi, avevano appiccicataagli artefici italiani.
Vi ho già detto che Spinello Spinelli era chiamato a Pistoia, perdipingere nella chiesa di Sant'Andrea, la vecchia basilica del XIIsecolo, pregevole per la severa nobiltà delle sue forme e per lesculture onde l'aveva arricchita Giovanni Pisano. Spinello Spinelli,andato a vederla, appena giunto in Pistola, fu contento di averci alavorare. E tosto si diede a meditare qualche cosa che potesserispondere alla magnificenza del luogo e alla buona opinione che ipistoiesi s'avean fatta di lui.
Spinello Spinelli era alloggiato, a grande onor suo, nelle case deiCancellieri, antica e potente famiglia, ed una tra le due che avevanodata la stura alle ire cittadine di Pistoia, dilagate poscia aFirenze, e via via per tutte le città e per tutte le borgate d'Italia.Ma, a proposito di ire cittadine, dov'era in quel tempo l'umor ferocedi Pistoia a cui alludeva Tuccio di Credi? La città delle primediscordie posava da molti anni in pace, e ci fioriva liberamente lagentilezza naturale delle valli toscane, affinate da un certo che diarguzia montanina, per cui Pistoia la bella è rimasta famosa tra levecchie città lucumoniche.
Nè solamente la città piaceva a Spinello Spinelli, ma eziandio e piùparticolarmente la campagna. Fin dai primi giorni della sua dimora inPistoia, tratto dall'amor solitario che in lui era diventato come unaseconda natura, Spinello usava andare a diporto nel borgo, e di làfino al colmo di una collina piantata di querci, donde l'occhiodominava la gran valle dell'Ombrone e quella dell'Arno che le vienpresso. Era quello il suo luogo prediletto. Spinello non aveva maiveduto una più larga distesa d'orizzonte; non aveva mai veduto unospettacolo più bello di quella conca di verde e d'azzurro, nel cuiprimo piano si stendeva la turrita Pistoia e nel cui fondobiancheggiava Firenze, circonfusa di soavi vapori alla luce del sole.
Nelle sue gite quotidiane al Poggiuolo (che così si chiamava il suocolle prediletto) Spinello Spinelli aveva stretta amicizia con unvecchio contadino di lassù, sentenzioso come tutti i vecchi montaninie garbato come tutti i contadini della montagna pistoiese. Pasquinodava il buon giorno o la buona sera al giovine forestiero, gli offrivauna tazza di latte, che Spinello ricusava quasi sempre, non accettandoche un bicchier d'acqua della Brana, picciolo ruscello che correva alpiano, tra la costa del Poggiuolo e quella di Colle Gigliato,
Spinello aveva preso ad amare il vecchio Pasquino. E Pasquino cheaveva veduto il forestiero con una cartella rilegata in pelle, entro acui erano parecchi fogli di carta che il giovinetto andava spessocoprendo di disegni a matita, aveva preso a stimar grandemente ilpittore.
Così, di chiacchiera in chiacchiera, il vecchio Pasquino era venuto asapere chi fosse Spinello e di qual parte di Toscana.
—To'—aveva egli esclamato, udendo che il pittore era nato ad Arezzo.—Abbiamo un altro aretino nel vicinato.—
E accennava col dito a manca, verso una collina poco distante dalPoggiuolo, dove si scorgeva un edifizio di forme robuste, tra ilpalazzo di campagna e il castello.
—Come si chiama quel luogo?—chiese allora Spinello.
—Colle Gigliato, messere. È un bel sito, ma non quanto il Poggiuolo. Sa anche qui ci fosse un castello, ci farebbe il doppio di figura.
—No, non guastate il Poggiuolo con una fabbrica così tozza,Pasquino;—replicò Spinello Spinelli.—Amo meglio questa piantata diquerci, che campeggia così bene sul fondo e divide in due laprospettiva della valle, lasciando incerti se l'una sia più belladell'altra. La natura, mio vecchio Pasquino, la natura dispone i suoiquadri assai meglio di noi. Dove volete trovare uno spettacolo piùvago! Una costruzione superba su questo colmo non guasterebbe ognicosa? E ditemi, ora, come si chiama l'aretino di laggiù?
—Dovete conoscerlo, messere, perchè lo dicono d'una potente famiglia. È un Buontalenti.—
A quel nome, Spinello Spinelli aggrottò le ciglia. Ricordava infattiquel superbo cavaliere e le parole scambiate con lui nel Duomo vecchiodi Arezzo.
—Sì, mi pare d'averlo conosciuto;—rispondeva frattanto.—Un uomotarchiato di membra, dal volto bruno e con un certo piglioaltezzoso….
—Oh sì, davvero, il piglio non è bello;—disse Pasquino,ridendo.—Messer Lapo Buontalenti m'ha l'aria d'esser superbo più diLucifero. E qui, non dubitate, lo vedono volentieri come il fumo negliocchi. Già, non è entrato in dimestichezza con nessuno, e vi fa graziaquando vi rende il saluto. Anzi, scusate, messere, ma qui si fa perdire qualche cosa;—soggiunse Pasquino;—io ho pensato un giorno chese tutti gli aretini fossero come quello lì, non sarebbe davvero unbel vivere, nella vostra città. Grazie a voi, messere, ho cangiatoopinione e penso oggi che ce ne sia di buoni e di tristi in ogniluogo.
—Voi dunque lo fate addirittura un tristo?—chiese Spinello.
—O che altro volete che sia, un uomo che non parla con nessuno, chevi guarda tutti dall'alto al basso, e fa passare una grama vita allepersone che vivono con lui? Basta vedere come tratta la sua donna!
—Davvero? È ammogliato!
—Sì, con una donna che ha portata da Arezzo, a quanto dicono.—
Spinello fece il gesto dell'uomo a cui riesce nuova una notizia e chenon ha altro da aggiungervi. Infatti, egli rammentava che ilBuontalenti s'era allontanato da Arezzo, per recarsi a vivere nelpistoiese; ma non sapeva che avesse condotta un'aretina con sè. Paraltro, siccome la cosa non gli importava affatto, lasciò cadere ildiscorso.
Ma non lo lasciò cadere il vecchio Pasquino, che aveva trovato unargomento di chiacchiera, e pensava che Spinello, nella sua qualitàd'aretino, dovesse udire le sue notizie con una certa curiosità.
—Oh, non pare che la lo sposasse volentieri; continuò.—Già, quando—arrivarono a Colle Gigliato, madonna era assai male di salute.—Pareva di vedere una statua di marmo, come quelle che sono nella—cattedrale di Pistoia, tanto era bianca nel viso. Io ho potuto—vederla da vicino, nell'andare in giù per le mie faccende, mentre—essa tornava con messer Lapo dalla cerimonia nuziale, che tu fatta—in San Giovanni. La via era stretta ed io ho dovuto tirarmi contro—il muro, per lasciarla passare. Se l'aveste veduta in quel punto,—messere! Pareva una madonna, di quelle che disegnate voi, in quei—vostri cartoni. Una carnagione bianca come il latte, i capegli neri,—le labbra smorte, ma due occhi… due occhi che parevano stelle! Un—sorriso, poi, un sorriso pieno di tristezza e di bontà, un sorriso—che faceva tenerezza e sgomento. Da quel giorno non m'è mai più—avvenuto di vederla da vicino. Dicono che non esce mai dal recinto—del castello e che vive là dentro come quella principessa—prigioniera d'uno stregone, di cui si narra nella storia di—Lancilotto del Lago. Verso la sera la si vede qualche volta laggiù,—da quella loggia die guarda verso la pianura. Rimane là per due o—tre ore alla finestra, con le braccia appoggiate sul parapetto, e—gli occhi fissi a guardare il sole, che si nasconde dietro i monti—pisani. Povera dama! Dev'essere molto disgraziata. A che pensate,—messere?
—Penso,—disse Spinello,—che anche voi siete pittore alla vostramaniera. Mi par quasi di vederla.
—E non vi dico nemmeno la metà della sua bellezza;—ripigliò ilvecchio contadino.—Anche così malandata, è un portento. Doveva essereun occhio di sole, prima che le toccasse quella brutta sorte. Ma già,voi siete aretino come lei, e la conoscerete.
—Io no;—rispose Spinello.—Da tre anni ho lasciato Arezzo.
—E anche da tre anni messer Lapo Buontalenti è venuto ad abitare neinostro contado. Quel castello e il podere che ha intorno gli sonotoccati in eredità, dopo la morte di un suo zio materno, che fu messerRoselino Sismondi. E quando venne, aveva giù con sè quella bellacreatura. Dovrebb'essere una sua parente orfana,—soggiunsediscretamente il vecchio Pasquino,—perchè è venuta a dimorare conlui, senza essere ancora sua moglie. Anzi, sulle prime, noi s'immaginòche lo fosse già; ma le nozze celebrate un anno dopo, ci hanno fattoricredere.
—Un anno dopo;—ripetè Spinello Spinelli.—-Dunque, due anni fa?
—Sì, messere, per l'appunto, saranno due anni a San Michele.
—Due anni fa!—mormorò Spinello, crollando mestamente il capo.—Dueanni fa mi sono ammogliato anch'io.—
E questa doppia coincidenza lo colpì. In verità era strano il fattoche il Buontalenti, partito d'Arezzo poco prima che la morte diFiordalisa ne cacciasse anche Spinello, prendesse moglie nello stessotempo di lui. E la donna era un'aretina? Condotta via da messer Lapo,quando aveva abbandonata la sua terra? In Arezzo, di quel fatto, nonsi aveva cognizione; o almeno nessuno ne aveva fatto cenno a Spinello.O fors'anche Spinello, nella tristezza ond'era tutto compreso, non ciaveva fatto attenzione.
Comunque fosse, la cosa era strana e colpiva di stupore la mente diSpinello Spinelli. Come mai, pensava egli, come mai messer LapoBuontalenti, che la voce pubblica diceva invaghito della figliuola dimastro Jacopo, aveva potuto amarne un'altra così presto? E chenecessità di bandirsi da Arezzo, se con un'altra doveva partire? Dopoavere a lungo almanaccato su quel fatto, Spinello si accostò all'ideache messer Lapo avesse amato madonna Fiordalisa come poteva amare unpari suo, per il solo desiderio di possedere colei che tutticelebravano bellissima tra le fanciulle d'Arezzo, e che il rifiuto dimastro Jacopo non avesse ferito il suo cuore, ma piuttosto il suoorgoglio smisurato.
Ma chi era l'aretina che aveva così presto consolato il Buontalentidella patita ripulsa? Una strana curiosità s'era infiltrata nell'animodi Spinello Spinelli. Dico strana, perchè in fondo non dovevaimportargli molto di conoscere un nome, e tuttavia il suo pensierotornava con una certa insistenza a quella pallida castellana,intravveduta nel racconto del vecchio Pasquino. Forse era da ascriverela cosa a un senso di gentile pietà, naturalissimo in un cuore benfatto come il suo. Egli, invero, pensando alla signora di ColleGigliato, rammentava la bella e infelice Pia de' Tolomei, di cui sinarrava la storia lagrimevole, resa popolare dai versi di Dante,popolarissimo allora.
Quel giorno, scendendo dal poggiuolo per ritornarsene in città, simise per una via che non aveva ancor fatta; di guisa che, scambio dirientrare in Pistoia da porta al Borgo, rientrò da porta San Marco.Avrete già indovinato da questo cenno che Spinello Spinelli si calòverso il letto della Brana, per costeggiar le falde di Colle Gigliatoe rasentare la villa del Buontalenti, cinta da un muro nerastro, chesi vedeva tutto rivestito d'edera e sormontato dalla frappa scura deinocciuoli e degli elci.
Lì presso, nel greto della Brana, il nostro pittore s'abbattè in unapovera donna che stava lavando alcuni pannilini all'acqua corrente. Ladonna lo salutò, secondo il costume dei contadini, ed egli, resolecortesemente il saluto, si fermò a dimandarle:
—Sposa, sapreste voi dirmi a chi appartiene questo castello?
—Maisì, messere, poichè ci abito da quarant'anni. Era di messer Rosellino Sismondi, buon'anima sua; oggi è di messer Lapo Buontalenti.
—Non è un casato pistoiese;—osservò timidamente Spinello.
—No, messere; il nuovo padrone del castello è un cittadino d'Arezzo.
—Dev'essere un ragguardevole uomo;—ripigliò Spinello.—Questo suocastello ha un aspetto assai nobile, e penso che ci si abbia a stareda principi.
—Eh, potete giurarlo, messere;—rispose la contadina.—Il vecchiopadrone lo amava su tutti i suoi poderi, che n'aveva parecchi, e cis'era fatto un luogo di delizie. Eppure, i padroni d'adesso non ci sivedono tanto volentieri!
—Davvero? E come va? Se ci fossi io, vi assicuro che mi parrebbe distare in paradiso.
—Che volete, messere? Bisogna proprio dire che nessuno è contento delproprio stato. Del resto, messer Lapo non farebbe differenza traquesto luogo ed un altro; è piuttosto madonna Fiordalisa che non cigode l'aria….
—Fiordalisa!—esclamò Spinello, dando un sobbalzo improvviso.
Ma subito, facendo uno sforzo violento per dominare la sua commozione,riprese:
—Ha un bel nome, la vostra signora!
—Un bel nome e un bel viso, messere. Che Iddio la prosperi com'ellasi merita; perchè, in verità, non c'è dama in tutto il contado, edirei quasi in tutta Pistoia, che possa entrare in paragone con lei.—
Spinello Spinelli noci ascoltava già più la sua interlocutrice.Fiordalisa! pensava egli. Fiordalisa! Perchè quel nome, venuto al suoorecchio in quell'ora e in quel modo, come una voce dalla tomba?
Anche voi, lettori, mi chiederete perchè tanta curiosità fosse venutaa Spinello, da farlo discendere a manca del Poggiuolo, anzi che adestra, per avvicinarsi alla casa del Buontalenti. Ma questa non deeparervi una cosa fuori del naturale. Chiunque ha perduto una personacaramente diletta ama il suo dolore e prova come un'amara voluttà arinfrancarlo, nel culto delle memorie in una sollecitudine quasiinfantile per tutto ciò che abbia avuto relazione con l'argomento deisuoi poveri amori, come se nei superstiti, od anche nelle coseinanimate, sia rimasto alcun che del tesoro perduto. Ora, ilBuontalenti aveva amata e chiesta in moglie la figliuola di mastroJacopo di Casentino, prima che questi accogliesse come discepolo ilgiovine Spinello. Il Buontalenti era stato un rivale; ma che importavaciò, in quel punto, so il Buontalenti lo ravvicinava al passato?
Ed ecco perchè Spinello era disceso verso la Brona, scambio di far lastrada degli altri giorni. Quel nome, poi, il nome di Fiordalisa,buttato là dalla vecchia contadina, gli disse tutto. Non già tuttoquello che potreste immaginarvi voi, fatti accorti in buon punto, matutto quello che egli poteva supporre, nello stato in cui era.Infatti, che cosa doveva significare per lui il nome di Fiordalisa, senon questo, che il Buontalenti serbava fede in qualche modo alla suafiamma antica? Non potendo avere la bella figliuola di mastro Jacopodi Casentino, messer Lapo aveva voluto sposare una donna che portasseil medesimo nome.
Fatto dentro di sè questo ragionamento, Spinello Spinelli stette adascoltare la vecchia contadina. E non vi faccia senso che eglil'avesse salutata col nome di sposa. Nel pistoiese le donne del popolosono tutte spose, o sposine, per l'uomo che le combina in istrada. Ilnome di sposina è un augurio gentile per le giovani; il nome di sposaè una continuazione di giovinezza, cortesemente accordata allevecchie.
Spinello Spinelli rimase ancora un tratto, chiacchierando con ladonna, o, se vi piace meglio, facendola chiacchierare. Indi, presocommiato con un grazioso "arrivederci" scese verso la città, non senzaaver dato più d'una occhiata alle mura nerastre del castello delBuontalenti, e pensando involontariamente a quel poetico capriccio cheaveva fatto trovare a messer Lapo una sposa col nome di Fiordalisa.
—Ha tradita la memoria della prima!—diceva egli tra sè.—Ma che cosaho fatto io di diverso? E con assai maggior torto di lui; perchè infine, egli era un pretendente rifiutato, mentre io…. Ah, padre mio,se voi non eravate, con le vostre preghiere!…—
Era giunto frattanto ad una svolta del sentiero dove sorgeva una rozzacroce di legno, piantata su d'una mora di sassi. Colà, di certo, erastato ucciso qualcheduno.
—Ah! fossi io morto,—esclamò Spinello, abbandonandosi a' piedi dellamora,—fossi io morto, come questo poveretto! Vi avrei raggiunta,madonna; avrei finito di patire. A che mi giova la gloria, senza divoi? È bello il vivere, quando si spera; è bello il rispondere peropere egregie in mezzo a' suoi simili, quando si può riferire ad unapersona cara i proprii trionfi, deporre a' suoi piedi le palmeraccolte e gli allori mietuti. Ma io?… Costretto continuamente amentire, costretto a fingere un sorriso agli uomini che mi lodano,mentre delle lodi loro, e della stessa coscienza di ciò che sono, nonm'importa più nulla; costretto a fingere con una povera creatura chemi ama, e che dovrebbe maledirmi; io non so davvero perchè rimangaancora quaggiù. Signore Iddio, liberatemi da questo peso, che èdavvero troppo grave per me.—
Un rumore di passi e di voci dietro la svolta del sentiero tolseSpinello dalla sua triste meditazione. Temendo di esser colto in quelluogo con le lagrime agli occhi, e fors'anche mal soffrendo diimbattersi in qualcheduno, balzò in piedi e corse a nascondersi dietrola mora, in mezzo ad alcuni cespugli d'eriche e d'imbrèntini, ond'erafolto il ciglione.
Poco stante egli vide inoltrarsi due viandanti, dalla parte dellacittà. Non erano contadini, ma gentiluomini, come appariva dalle cappeche indossavano e dalle berrette piumate che portavano in capo. In unod'essi, Spinello non tardò a riconoscere messer Lapo Buontalenti.
Fu lieto di essersi nascosto in tempo. Più lieto, quando riconobbel'altro viandante. Ma ho detto più lieto? Avrei dovuto direstupefatto, perchè quell'altro era il suo compagno d'arte; era l'uomoche aveva creduto opportuno di separarsi da lui, per non accompagnarloa Pistoia; era Tuccio di Credi.
Che cosa veniva a fare costui nella città che gli era parsa cosìuggiosa! E se aveva pur risoluto di venirci, perchè non era andato acercare l'amico, il suo compagno d'arte? Perchè, infine, quella sualega con messer Lapo Buontalenti? E che voleva dire quel ravvicinametodi personaggi aretini, in un angolo della campagna pistoiese? Il caso,il semplice caso, poteva egli recare una serie di coincidenze cosìfatte?
Un vago terrore s'impadronì della mente di Spinello Spinelli, e glibalenò tosto il sospetto delle cose ignote. Vide chiarori che a dirvero non gli illuminarono nulla, ma che sembrarono dirgli: c'è quisotto un mistero, e tu devi scoprirlo. Non dissimilmente, una credenzapopolare ravvicina i fuochi fatui ai tesori nascosti nella campagna,di guisa che le pallide fiammelle erranti nella notte sembrinoinvitare il passeggiero alla ricerca del più ingannevole tra i beniterrestri.
I due viandanti passarono davanti alla mora che nascondeva Spinello.Parevano in buonissima armonia e infervorati in un colloquio di moltaimportanza per ambedue.
Spinello, dal nascondiglio in cui era e da cui non gli parve prudentemuoversi, non udì che queste parole:
—Voi farete quel che vi parrà meglio, messer Lapo degnissimo. Io, dafedel servitore, ho reputato necessario di darvene avviso.—
Parlava Tuccio di Credi, come avrete capito. E messer Lapo rispondeva:
—Partirò, non dubitate, partirò. Quantunque io non credo che eglipossa giungere fin qua. Forse, egli ignora perfino che io…—
La voce di messer Lapo si perdette dietro la svolta del sentiero, e Spinello non potè udirne più altro.
—Che cos'è questa novità?—pensò egli, balzando fuori dal suonascondiglio.—Tuccio di Credi a Pistola, e con messer LapoBuontalenti! Quale avviso ha creduto egli necessario di recargli? Equal relazione può correre tra loro?—
Immaginate in che condizione d'animo giungesse egli in quel giorno incittà. E doveva rispondere alle cortesie de' suoi ospiti, come se nonavesse nulla, nè tristezze, nè sopraccapi; come se fosse l'uomo piùtranquillo del mondo!
Proprio quel giorno i massari di Sant'Andrea si recavano alle case dei Cancelleri, per avere un colloquio con lui.
—E così, messere,—gli chiedevano,—avete voi ideata la composizioneche Pistoia potrà ammirare nella nostra vecchia cattedrale?
—Non ancora, messeri onorandissimi, non ancora. Ho la mente confusa;non m'è venuto ancor nulla che sia degno della chiesa e di voi.Perdonate, sarà per un altro giorno, se Iddio mi aiuta.—
Così rispondeva Spinello. Ma in cuor suo cominciava a pensare cheIddio non l'avrebbe aiutato e che Pistoia non avrebbe ammirato nulladi suo.
XII.
Tra i pensieri del giovine pittore c'era anche quello che Tuccio diCredi dovesse andare quella sera, o la mattina seguente, a cercarlo.Infatti era naturale supporre che Tuccio fosse venuto a Pistoia perlui, e non avendolo trovato subito, ed essendosi imbattuto a caso nelBuontalenti, vecchia conoscenza, di Arezzo, si fosse accompagnato untratto con quest'ultimo.
Se non che per ammettere questa spiegazione, bisognava dimenticare cheTuccio di Credi andava dicendo a messer Lapo:—"ho reputato necessariodi darvene avviso" e che messer Lapo gli aveva risposto, come uomo chericonosceva il pregio dell'avviso ricevuto:—"partirò, non dubitate,partirò". Donde appariva evidente che Tuccio di Credi non fosse venutoa Pistoia per vedere il suo compagno d'arte, ma per abboccarsi conmesser Lapo Buontalenti, a cui si professava fedel servitore.
Comunque fosse, era da credere che Tuccio di Credi, venuto a Pistoia,non avrebbe potuto altrimenti, nè voluto, cansare l'amico. E SpinelloSpinelli lo attese per tutta la sera; lo attese per tutta la mattinaseguente; ma invano. Tuccio di Credi non si era fatto vivo con lui;forse, quella stessa mattina egli aveva lasciato Pistoia.
Spinello rimase sconcertato, con una fiera curiosità in corpo, e contutta l'impazienza che no doveva conseguire. Che cosa significava quelmisterioso viaggio? E non era possibile che risguardasse anche quellapovera vittima, che portava il nome gentile della sua Fiordalisa?
Agitato da questi sospetti, uscì verso l'ora di vespro dalla porta delBorgo. Messa la sua spada al fianco e il pugnale alla cintola, gittatoun mantello sulle spalle e calata la berretta sugli occhi, andò dibuon passo verso la collina. Ma come fu alle falde del Poggiuolo, nonascese altrimenti per l'erta, e proseguì il suo cammino verso il lettodella Brana.
Aveva portata, per ogni buon fine, la sua cartella da disegno. Appenaebbe passato il torrente e fu in vista del castello dei Buontalenti,andò a sedersi sulla proda d'un campo, fingendo di copiare qualchecosa dal vero, ma volgendo gli occhi curiosi qua e là, e più spesso almuro nerastro che girava torno torno alla villa. Un terrazzino dipietra sporgeva dal ciglio del muro. Se la donna del castello usavauscire ogni sera all'aperto, come diceva Pasquino, certamente dovevaandar là, ed egli, dal suo osservatorio, l'avrebbe veduta senz'altro.
Il sole calava, in una gloria di fiamme, dietro la collina diSerravalle, che chiude la valle dell'Ombrone da quella della Nievole.Tutto ad un tratto, Spinello vide comparire sul ciglio del muronerastro una figura di donna. Era la dama del castello Buontalenti; lodimostrava assai chiaramente la nobiltà delle vesti e l'eleganza delleforme.
Giunta al terrazzino, la dama si fermò. Quella doveva essere la metadelle sua passeggiate quotidiane. Era venuta con passo lento, comepersona stanca; poscia, rimasta un tratto in piedi davanti allabalaustrata, si era adagiata sopra un sedile, sporgendo per mezzo ilbusto dal davanzale di pietra.
Spinello si alzò dal suo posto, col cuore tremante, e andò verso ilrecinto della villa. Che cosa intendeva di fare? In verità non losapeva neppur egli. A mano a mano che si accostava al muraglione e lafigura s'innalzava davanti a lui, uscendo in risalto sul fondo azzurrochiaro del cielo, la commozione del giovane si andava tramutando instupore. Dei immortali! Quel viso bianco, che gli appariva da lunge,non rammentava il tipo di madonna Fiordalisa, ma dell'antica, dellafigliuola di mastro Jacopo, della sua fidanzata? Già gli pareva diriconoscere l'atteggiamento consueto di quella graziosa testa, il cuicontorno era così armoniosamente rigirato. Accostatosi vieppiù,riconobbe il profilo soave del volto, la fronte prominente, incoronatadalle ciocche ricciolute dei capegli neri e lucenti, l'occhio profondoe pieno d'espressione, la bocca tenue, aperta ad un languido sorriso,che non era sempre di gioia, e il mento, sì anche il mento, quel mentoarguto e tondeggiante di paggio, che era stato una volta l'argomentodelle sue ammirazioni.
Ma egli, per allora, non doveva ammirare con occhi d'artista, od'innamorato, come prima faceva. Era attonito, abbacinato da quellastessa rassomiglianza, che gli cresceva allo sguardo. Come fu acinquanta passi dal muro, si fermò, levando gli occhi, per guardarepiù attentamente la dama. Dio santo! Era lei, era la sua Fiordalisa, ouno spirito maligno ne aveva assunta la forma, per farsi giuoco dilui.
Confuso, sbalordito, e nondimeno anche più attratto da quella caravisione, Spinello tese le braccia verso il terrazzino e con impeto diamore gridò:
—Fiordalisa!
—Chi mi chiama?—domandò la gentildonna, chinando gli occhi a' piedidel muro, dond'era venuta la voce.
Vide allora l'atto supplichevole e riconobbe Spinello. Ma in quellache metteva gli occhi su lui, lo vedeva cadere a terra come fulminato.Il povero Spinello aveva riconosciuta la voce di madonna Fiordalisa,della sua fidanzata. Era dunque lei? Lei, tornata dalla tomba, perfarlo morire d'angoscia? Agitò le braccia, come se tentasse diaggrapparsi a qualche cosa, balbettò alcune parole die non avevanosenso, e cadde tramortito al suolo.
Disgraziato Spinello! Compatitelo. Non accade a tutti di avere perdutauna donna fieramente amata e di vederla di punto in bianco ritornaredai regni della morte.
Quando il povero giovane ricuperò i sensi smarriti, si trovò accantola dama, escita dal recinto della villa per recargli soccorso.
—Mio Dio, messere, che avete?—diceva ella, sbigottita.—Fatevianimo!—
Spinello Spinelli, senza darsi ragione di quel che faceva, e trattosolamente da una forza quasi istintiva prolungò di qualche istante ilsuo smarrimento, per ascoltare la musica di quelle parole che escivanodalle labbra di Fiordalisa. Gli pareva, in udirla, di rassicurarsimeglio che era lei.
—Ah, madonna!—esclamò finalmente.—Non sogno io? Non sono io illudibrio di una visione? Iddio misericordioso vi restituisce al vostropovero Spinello?—
Madonna Fiordalisa, commossa da quel grido, in cui parlava un amoreinfinito, chinò la testa su lui. E il povero Spinello, insieme con lacertezza di avere ritrovata la sua Fiordalisa, ebbe il secondodeliquio.
—Dio, soccorretemi!—gridò madonna Fiordalisa. Questo poveretto mi—muore nelle braccia. Permettete che io mi discolpi a' suoi occhi e—poi datemi la morte, che da tanto tempo vi chiedo.—
Monna Cia, chiamata da lei, giunse prontamente in aiuto. Era lacontadina che il giorno innanzi Spinello aveva veduta, intenta alavare i suoi pannilini nel letto della Brana. Le braccia di monna Ciaerano robuste: il giovine fu trasportato entro il recinto e adagiatosu d'un sedile di pietra, in quel medesimo terrazzino donde pur dianzigli era apparsa la figura di madonna Fiordalisa.
—Va, te ne prego, va, mia buona Cia; prendi un po' d'acqua,dell'aceto, quello che troverai, per ridar la vita a questo poveretto.
—Sì, madonna, vo subito. Oh, disgraziato giovane! Così buono, cosìgentile! Non si direbbe l'arcangelo Gabriele! L'ho conosciuto ieri….Chi m'avrebbe mai detto che oggi….
—Va, corri,—gridò madonna Fiordalisa.—Ma bada, non una parola alcastello!
—Non dubitate, madonna; prenderò ogni cosa nelle mie stanze.—
Così dicendo, monna Cia, ottima donna, andò speditamente lungo laredola che metteva al castello. Madonna Fiordalisa rimase sola accantoa Spinello, che, povero lui, durava fatica a riaversi.
Infelice Fiordalisa! Anche lei, che il caso metteva di punto inbianco, senza preparazione, a faccia a faccia con Spinello Spinelli,anche lei era degna di compassione. Lo stato dell'animo suo non sidescrive, come non si descrivono le commozioni violente. In qual modoera avvenuto quel ravvicinamento improvviso? Spinello aveva dunqueritrovato il suo nascondiglio, dopo tre anni di ricerche? Quando maigli era balenato il sospetto che ella non fosse morta? E quando, ecome, il sospetto si era tramutato in certezza? Anch'egli avevaprofanata la santità d'una tomba, per giungere alla scoperta del vero?E come era vissuto fino a quel giorno? E come, e perchè, quellacerimonia nuziale, per cui Spinello si era allontanato da lei? Maanche ella non si era allontanata da lui? Non apparteneva ella ad unaltro? Ahimè, triste cosa; le due anime che un primo amore avevacongiunte, il destino le aveva separate per sempre.
Com'era avvenuto ciò? Spinello, tornato finalmente in sè, dovevaudirlo dalle labbra di madonna Fiordalisa. Fu un doloroso racconto,che lo fece fremere di raccapriccio e di sdegno.
Fiordalisa era morta per i suoi cari; messer Giovanni da Cortona,chiamato al letto della vergine, aveva dato il triste responso. Emorta appariva per tutti, e la compagnia della Misericordia era andataa prendere con gran pompa la bella salma, per chiuderla in un modestoavello, nel chiostro del Duomo vecchio. Ma Fiordalisa, come vi saràfacile immaginare, non aveva memoria di ciò. Rammentava l'improvvisomalore ond'era stata colpita, in mezzo alle gioie domestiche, erammentava d'essersi risvegliata alla coscienza di sè, in una camerasconosciuta. Si sentiva spossata, senza volontà, con una granpropensione a riaddormentarsi. Infatti, le era avvenuto di assopirsi,e di quelle ore non ricordava che brevi intervalli, come pallidichiarori in un buio fitto, nei quali si sentiva trasportata verso unameta ignota, da uomini prezzolati, tra cui non spiccavano che duefigure: quella del Buontalenti, che l'aveva turbata, e quella d'unoscolaro di suo padre, che l'aveva atterrita, poichè le lasciavaindovinare il tradimento, ond'era stata vittima, e tutto il peggio chedoveva toccarlo in futuro, senza alcuna speranza di salvezza. Infine,che più? Ella si era veduta in balla di due feroci che l'avevanoamata; e uno di costoro la dava in preda all'altro; il più povero lavendeva al più ricco.
E non poteva resistere; le mancava perfino la forza di gridare alsoccorso. Poco stante, non aveva più veduto uno dei due traditori.L'altro, messer Lapo Buontalenti, restava padrone del campo. Ella erachiusa in una lettiga, che viaggiava di notte, scortata da undrappello d'uomini armati, secondo l'uso del tempo, per le viemaestre, così poco sicure al paragone d'adesso. Evidentemente, quellierano i servi, i masnadieri di messer Lapo Buontalenti. A che lesarebbe giovato il gridare?
Messer Lapo era grave all'aspetto, severo ed arcigno come la vendettache gli covava nel cuore. Ma quando gli occorreva di rivolgersi a lei,in atto di chiederle se avesse mestieri di nulla, assumeva un'aria traimpacciata e cortese. Non c'ora, per altro, da ingannarsi a quelleapparenze,
Quando Fiordalisa potè finalmente parlare, gli chiese risoluta:
—Dove mi conducete voi? Dov'è mio padre?—
Il Buontalenti increspò le labbra ad un mezzo sorriso e pacatamenterispose:
—Madonna, voi siete morta per tutti, così per vostro padre, come perogni altro cittadino d'Arezzo. Vi hanno sepolta l'altro dì, con pompasolenne, entro il chiostro del Duomo vecchio. Gli sciocchi! Pareva cheavessero fretta di liberarsi di voi. Ma vigilava per la vostrasalvezza un amore antico e gagliardo. Il mondo vi ha compostasotterra, per dimenticarsi di voi; io vi ho restituita alla luce delgiorno; siete mia, finalmente.—
Fiordalisa fremette, pensando a ciò che era accaduto di lei. Maindovinò in pari tempo che la sua morte apparente era stata procuratadalle arti d'un tristo, che lavorava a benefizio d'un altro. E ilsenso che questa scoperta doveva produrre nell'animo suo, le sidipinse nel viso.
—Comunque vediate la cosa, datevi pace, madonna;—ripigliò messerLapo, che notava ogni moto più lieve.—Vi ho detto che siete morta pelmondo.
—E per opera vostra, non è vero?—chiese ella, fissandolo negliocchi.
—Mettete pure che sia così;—disse di rimando ilBuontalenti.—Credete che un amatore par mio sia disposto a perdervi,dopo avervi ottenuta con un delitto? Datevi pace, vi ripeto, datevipace, madonna. Lapo Buontalenti, vostro fedel servitore, non imiteràmesser Gentile dei Carisendi, che, dopo aver disseppellita la donnasua, la restituì scioccamente al marito.—
Messer Lapo non poteva citare il caso di Ginevra degli Amieri, che eraancora di là da venire. E poi foss'anche avvenuto prima d'allora, essonon poteva servirgli come argomento di persuasione con madonnaFiordalisa. Ginevra degli Amieri, gentildonna fiorentina d'altolignaggio, sotterrata per morta, da per sè stessa uscì fuoridall'avello, e andò a picchiare a casa di Francesco degli Agogolanti,suo marito, che la credette un'ombra e non la volle ricevere. Inquella vece, gli serviva benissimo l'esempio di Catalina Caccianimico,gentildonna bolognese, amata da messer Gentile dei Carisendi. Essendoil cavaliere andato podestà a Modena e avendo colà ricevuto ildoloroso annunzio della morte di lei, tratto fuor di sè dall'angoscia,fece disegno di rapire all'estinta il bacio che mai non aveva avuto dalei viva. Andato di notte tempo a Bologna con un suo famigliare,aperse la sepoltura, e ivi, con molte lagrime, baciò il viso dimadonna Catalina. La quale non era altrimenti morta, siccome tuttiavevano creduto; laonde, messer Gentile, che aveva sentiti i battitidel suo cuore, soavemente quanto più gli venne fatto la trasse dalsepolcro, e postosi il dolce peso in arcione, cavalcò speditamente iocittà, dove, commessa l'amatissima donna alle cure di sua madre, potèvederla presto rifiorita in salute, E perchè la bella Catalina, perquello stesso amore che egli le aveva portato, lo pregava dirimandarla a casa sua, messer Gentile, da quel prode cavallero cheegli era e veramente degno del suo nome, la restituì al marito, inquella commovente maniera che sanno tutti coloro i quali hanno lettola bellissima storia nel Decamerone di messer Giovanni Boccaccio.
Quant'era distante il Buontalenti da messer Gentile dei Carisendi!Madonna Fiordalisa, udito il beffardo racconto, conobbe di essereirremissibilmente perduta.
Giunta a Pistoia e rinchiusa nel castello che messer Lapo avevaereditato da Rosellino Sismondi, la povera fanciulla visse là dentrocome in una prigione, senza aver più contezza di ciò che era avvenutode' suoi. Era una debole creatura; ma ai deboli soccorre spesso ilcoraggio della resistenza inerte, e Fiordalisa anche fuor di speranzacom'era, si chiuse nel suo triste silenzio, aspettando la morte che laliberasse dalle istanze del feroce amatore.
Il quale, un giorno, stanco della ripulsa di lei, se fece a parlarlein tal guisa:
—Voi piangete, madonna, e turbate il riso divino della vostrabellezza. A qual pro' se tutti vi hanno dimenticata?
—Non parlate così!—diss'ella con accento severo.—Quando tuttim'avessero dimenticata, non mi abbandonerebbe il pensiero di miopadre.
—Ahimè, madonna!—replicò il Buontalenti. Vostro padre….—
E s'interruppe tosto, chinando la fronte a terra, in segno di granderammarico. Fiordalisa ebbe una stretta violenta al cuore.
—Mio padre!—ripetè ella, turbata.—Orbene, che volete voi dire? Chevolete tacermi?
—Madonna,—ripigliò allora il Buontalenti, sa Iddio se mi pento di—ciò che ho fatto, e se non darei la mia vita per restituirvi il—vostro ottimo padre. Ma egli, almeno, è ora più felice di me, che mi—trovo così povero della grazia vostra e non ispero di ottenerla mai—più.—
Argomentate il pianto e la disperazione della infelice creatura. Suopadre era morto da sei mesi, ed ella soltanto allora ne aveva notizia.Povero padre! Ed ora morto di crepacuore, sperando di ricongiungersiall'anima della sua diletta figliuola.
Passarono giorni, passarono settimane, e le lagrime di madonna Fiordalisa si rasciugarono. Ma non cessava altrimenti il dolore.
—Di che vi accorate?—le disse un giorno il suocarceriere.—Spinello, a cui pensate in silenzio, di cui vagheggiatel'immagine, Spinello non pensa più a voi.—
Ella rizzò la testa, e diede al Buontalenti un'occhiata sdegnosa.
—Oh! non v'inalberate;—riprese egli freddamente.—La cosa è così,com'io vi racconto, che credete voi, madonna? Che l'amore sopravvivaalla morte della persona amata? Spinello si consolerà.
—Che non mi dite ch'egli ha già data la sua mano ad un'altradonna?—diss'ella.—Voi mentite, messer Lapo. La menzogna è chiaranelle vostre parole. Spinello si consolerà, voi dite. Egli non si èdunque consolato.—
Messer Lapo si morse le labbra. Il colpo gli era andato fallito. Maegli promise a sè stesso che quella donna non si sarebbe più oltrebeffata di lui.
Due mesi passarono, tristi coma gli altri che la povera donna avevavissuti nella sua solitudine di Colle Gigliato. Ahi, non era unasolitudine, quella, se ogni giorno ella doveva vedersi davanti agliocchi messer Lapo Buontalenti. Meno infelice di lei, una povera eroinadella favola era stata abbandonata su d'uno scoglio, dannata ad esserla preda d'un mostro. Per Andromeda, infatti, vedere il suo nemico edesserne divorata era quasi tutt'uno; laddove madonna Fiordalisa dovevascorgere il suo ad ogni istante, appostato in attesa, come una fieraall'agguato, e tremare ogni giorno, pensando che nessuna difesaavrebbe più avuta contro di lui; pensando che suo padre era morto eche Spinello, il suo fidanzato, non avrebbe potuto far altro per leiche piangere su d'una tomba.
E il Buontalenti osava dire che il suo rivale si sarebbe consolato!No, non era possibile, Fiordalisa era una fanciulla inesperta e nonaveva anche potuto giudicare la vita nei disinganni che questa puòoffrire a mano a mano, in compenso d'ogni nostra speranza. Ma ella siera sentita così fortemente amata, che veramente l'affetto di SpinelloSpinelli doveva parerle una cosa eterna. Argomentiamo così facilmentedai nostri i sentimenti degli altri! Eppure, le beffarde parole dimesser Lapo, anche respinte da un'intima convinzione, non potevanoessere dimenticate, e l'eco doveva restarne in quel povero cuore. E inquella guisa che noi tutti raccogliamo con superstiziosa paura ognifrase, udita a caso, la quale si riferisca ad un pensiero dominantedell'anima nostra, avvenne a lei che altre parole, e non da messerLapo, ridestassero i dubbi suscitati da lui. "Chi muore giace e chivive si dà pace." Questo proverbio, che ella aveva udito le centovolte, senza avvertirne la dolorosa filosofia, accennato sbadatamenteda quell'umile contadina che sapete, e che era l'unica donna con cuimadonna Fiordalisa scambiasse qualche parola nel castello Buontalenti,la ferì profondamente, più che non avrebbe fatto ogni altro discorsodel suo carceriere. Chi vive si dà pace! Era proprio vero così! Eperchè, infine, sarebbe stato diverso? È in noi potentissimo l'istintodella conservazione; la fibra umana ha qualche cosa in sè, che lapersuade a resistere, a desiderare la vita. Il dolore opprime lospirito; ma la fibra si ribella al dolore; la schiava non obbedisce alpadrone. E non è forse così in tutti gli ordini di natura? Non è leggecomune che tutto si rinnovi, e che ogni forza depressa si prepari arisorgere? È possibile che la natura umana ci condanni a morte, e chela gioventù non trovi in sè medesima quella forza di risurrezione chetrova la più umile pianta, nella vicenda delle stagioni? L'oblio èfatale come il sonno, e il tempo è rimedio per tutti gli affannidell'esistenza. Del resto, se per una creatura viva si può soffrireaspettando, come si potrebbe soffrire eternamente per una creaturamorta? Aspettare è sperare; e non si aspetta più, quando non si sperapiù nulla.
E Fiordalisa era morta, per il suo fidanzato. Spinello poteva, dunque,doveva cedere anch'egli alla legge comune. Triste cosa, ma vera.Restava solamente di vedere quanto sarebbe durato il lutto inquell'anima solitaria.
Così avvenne che, quando messer Lapo le annunziò le nozze di SpinelloSpinelli, Fiordalisa tremò tutta, ma non osò più negare la possibilitàdel fatto. L'anima sua era preparata a quel tristissimo evento.
—Madonna,—le disse il Buontalenti,—che io vi ami, e quanto, losapete da un pezzo. Voi farete quel che vi parrà meglio; chi puòaspettare, non vi domanderà nulla anzi tempo. Giuratemi soltanto chese io vi farò vedere Spinello al fianco d'un'altra donna, voi nontenterete cosa alcuna per fuggirmi.
—Che mi chiedete voi?—gridò ella, turbata.
—Nessuna cosa che non possiate fare, rimanendo per me quella chesiete stata finora. Vi chiedo una promessa semplicissima, per condurvifino a Firenze, dove Spinello impalmerà fra due giorni un'altra donna.
L'istinto della resistenza lampeggiò negli occhi di Fiordalisa.
—Ah!—gridò ella.—Spinello è libero ancora?
—Sì e no;—rispose freddamente messer Lapo.—Un uomo che andrà domanl'altro all'altare non è già impegnato oggi? Non è già risoluto difare ciò che vi torna tanto increscevole sapere di lui! Non ama giàegli la donna a cui darà la sua mano?
—È vero;—diss'ella chinando la fronte.—Messere, conducetemi pure aFirenze; io vi giuro per la memoria di mio padre che non tenterò difuggirvi.—
Madonna Fiordalisa pianse dirottamente, quel giorno, stemperò il suopovero cuore; indi segui Messer Lapo a Firenze.
Una mattina, la chiesa di San Nicolò, in via della Scala, era parata afesta. Madonna Fiordalisa, con un fitto zendado sugli occhi, entrò inquella chiesa e andò a sedersi sulla tribuna dell'altar maggiore.Stette immobile lassù, senza volger neppure uno sguardo ai dipinti chetutti ammiravano, aspettando ciò che tutti aspettavano e pregandoIddio, nell'amarezza del suo cuore, che fosse delusa la suaaspettazione. Ma Iddio fu sordo alle preghiere della povera fanciulla.
Quando apparve nella navata di mezzo il suo fidanzato, tenuto per manoda un vecchio gentiluomo che ella non conosceva, ma seguito da unadonna, la cui bianca veste e la ghirlanda di fiori dicevanochiaramente chi ella fosse e perchè si trovasse colà, Fiordalisa sisentì venir meno. Supplicò Iddio che dettasse nella sua misericordiaonnipotente un'altra parola a Spinello. Se avesse udito un no, comesarebbe morta volentieri! Ma Spinello appartenere ad un'altra! E là,davanti agli occhi suoi! Ma era insensibile, quell'uomo? Ma niente glidiceva che la sua Fiordalisa era vicina, e lo vedeva, e lo udiva!Ahimè, Dio poteva essere sordo, se non aveva cuore Spinello! La poveracreatura non resse più oltre all'angoscia; un grido straziante leruppe dal petto, all'udire quel sì che le rapiva per sempre il suofidanzato; e in quel grido le vennero meno le forze.
Quando ritornò in sè, la chiesa era vuota. Restavano soltanto presso alei alcune pietose gentildonne, che le avevano spruzzato il visod'acque nanfe e lo prodigavano le più sollecite cure.
Lo svenimento di madonna Fiordalisa era stato attribuito al caldosoffocante che aveva prodotto nella chiesa quella calca straordinariadi persone. Altri pensava che le avesse dato sui nervi l'odore dellacalce, trattandosi d'una chiesa nuova, che da poco tempo erauffiziata. Infatti, parecchie dame accennavano di aver sofferto,durante la cerimonia, un pochettino di mal di capo. E tutti gliastanti si dolsero che non si fosse pensato da nessuno ad aprirequalche spiraglio, nelle invetriate dei balconi. La colpa era tutta dimesser Dardano Acciaiuoli e dello scaccino di San Nicola; innocentiambedue, come potete immaginarvi. Ma che farci? Si era così lontanidall'indovinare la vera cagione, che ogni congettura otteneva fedepresso gli astanti.
Madonna Fiordalisa volle ritornare quello stesso giorno a Pistoia. Emesser Lapo non indugiò a farla contenta nel suo desiderio, che tantos'accordava co' suoi fini. I cavalli erano pronti, e la partenza seguìdi poche ore l'arrivo.
Intanto, nel cuore della povera bella si era fatto uno stranomutamento. L'immagine di Spinello Spinelli, che vi era cosìprofondamente scolpita, si cancellò a grado a grado. Così presente a'suoi occhi quando era lontano, egli rimpiccioliva improvvisamente dopoesserle stato vicino. Madonna Fiordalisa non l'odiava ancora, e già loaveva discacciato dal sacrario delle sue ricordanze. Lo sposo di GhitaBastianelli era diventato uno straniero per lei.
E lo aveva amato tanto! Nessun uomo al mondo avrebbe potuto vantarsid'essere amato di più. Ma quell'animo fiacco aveva avuto ribrezzodella morte! L'ingrato, dopo aver posseduto quel cuore di vergine,pieno per lui di tenerezza ineffabile, non aveva saputo serbar fedealla tomba!
Immaginate quel che seguì da questo mutamento improvviso. Il dispettocontro Spinello fu più forte dell'odio contro Lapo Buontalenti.Madonna Fiordalisa aveva consentita la sua mano a quell'uomo, a cuiparve grande fortuna ottenere dall'ira ciò che non avrebbe potutodargli l'amore. A quell'uomo bastava di possedere; poco gl'importavadel modo.
Ed anche madonna Fiordalisa aveva avuta la sua cerimonia nuziale. Magli echi di San Giovanni di Pistoia non la avevano recato nessun gridod'angoscia, quando ella aveva profferito il sì che doveva legarla persempre. La vittima era immolata; il sacrificio piaceva agli uomini,com'era accolto da Dio.
Era naturale che così fosse. Spinello ignorava come sanno ignorare ifelici. Non aveva egli dimenticata l'estinta! Eppure, sarebbe statocosì bello in lui serbarsi fedele alla tomba! L'uomo che si ama ha daessere perfetto. E costa così poco esser tale! Ma non è eglipossibile, Dio santo, che un forte amore vi occupi l'anima e vi rendainsensibile ad ogni lusinga della vita? E perchè non si potrebbe amareeternamente una persona morta, quando ella, vivente, è stata tutto pervoi? Ci sono delle donne che hanno questa virtù di raccoglimento; enon l'avranno gli uomini?
Così pensava, e l'amarezza di quel pensiero la vinse. L'immagine diSpinello fu cancellata dal suo cuore. Nello stordimento che l'iracontro di lui e la vergogna di sè medesima avevano recato nell'animosuo, madonna Fiordalisa non solamente si diede animosa in balia delBuontalenti, ma disse il suo sì con un ardore, che parve impetod'affetto, tanto più forte, quanto più repentino. Cose che avvengono!Questi inganni del cuore son più comuni che la gente non creda.
Ma quando ella appartenne a quell'uomo, quando conobbe di avergli datala sua libertà, la sua vita, e tutto ciò che vale assai più della vitae della libertà, Fiordalisa vide che la sua promessa d'amore e di fedele era stata carpita da un sentimento bugiardo. Si pentì, ma eratardi, e la poveretta ebbe paura. Ah, non era così l'amore che ellaaveva sognato. L'amore è l'abbandono consapevole e volenteroso delnostro essere; l'amore e una profonda allegrezza, anche in mezzo aitormenti; l'amore è una superba rinunzia di sè ad una creatura che sicrede superiore a tutte le altre, o solamente uguale a noi medesimi.Che cos'era invece messer Lapo Buontalenti? Un codardo, che non avevasaputo vincere in guerra leale, e si faceva forte d'un sotterfugio, unastuto che giungeva dopo e faceva suo pro d'un movimento di sdegno. Equell'uomo era diventato il suo signore e padrone. Abbominevole cosa!E la bellezza di lei, che aveva infiammato il più nobile dei cuori, sisarebbe data a lui, avrebbe patite le sue ardenti carezze!
Pure, così doveva essere. La vita ha più drammi che non si pensi;drammi tanto più dolorosi, quanto più inavvertiti. Perchè egli c'èqualche cosa di grande nei dolori patiti alla luce del sole, conmigliaia di sguardi rivolti su voi e di cuori compassionevoli ches'inteneriscono per voi, imprecando ai vostri oppressori. Ma il drammaintimo, il dramma rinchiuso nelle quattro pareti d'una casa,senz'altro testimonio che la vostra coscienza abbattuta, quello è ilpiù orribile dei drammi. Rammentate la leggenda, che narra di donnerapite dagli abitatori delle selve? Anche certi animali, a noi vicininell'ordine della creazione, sentono come noi la bellezza. Sommessi alsuo potere e terribili nelle ire gelose, amano e digrignano i denti;proteggono, nutrono, e sono disposti a percuotere, ad uccidere per unnonnulla che svegli i loro sospetti. Ma di tali belve non sonopopolate solamente le boscaglie africane. In ogni consorzio umano èdato di trovare l'uomo feroce dei boschi. Gran mercé sentirsi amate intal guisa! E come fuggire a quella forma d'affetto? La donna, si sa, èdebole e paurosa. Quanto meno è saldo in lei il vincolo che lega lavita alla carne, tanto più grande è il timore di perderla. Desdemonatrema. Peggio ancora, ella non osa dire a sè stessa di amar Cassio,così dolce e così buono; il dramma finisce, e finisce la vita per lei,nella persuasione di avere amato il suo furibondo carnefice.
Così la bella Fiordalisa apparteneva a messer Lapo Buontalenti. Lapovera anima tentò a quando a quando di ribellarsi, ma finalmente sispense nella sommissione a quella volontà, volgare ma forte. Il suosignore e padrone la soggiogava con la sua stessa ferocia. Qualchevolta le avvenne di sentire la forza di quell'amore violento, e (debbodirvi ogni cosa, per l'ossequio che merita la verità) si compiacque diessere amata in tal guisa. Se in uno di quei momenti le fosse capitatodavanti il povero Spinello, essa gli avrebbe detto: Sai? Io amoquell'uomo, che un giorno o l'altro mi ucciderà; lo amo, perchè eglimi ucciderà. Ma altre volte ella sentiva un odio profondo, e, insiemecon l'odio, il desiderio di mormorare all'orecchio messer Lapo: Sai,uomo feroce? Io ti disprezzo, quanto tu mi ami. Checchè tu faccia, noncancellerai dal mio cuore l'immagine di Spinello. Uccidimi pure,poichè questo è il tuo diritto; ma, io amo quell'uomo.
E certo ella avrebbe parlato in tal forma, se Lapo le avesse domandatoquali pensieri passavano per la sua mente, nelle ore più segrete, incui il signore d'una donna s'atteggia più superbamente a padrone. MaLapo Buontalenti non chiedeva nulla. Egli era uno di quegli spiritivolgari, destinati a vincere nelle battaglie della vita, perchè hannoun'idea sola, e in quella appuntano tutti i loro desiderii, tutte leforze della loro volontà. Siffatti uomini, quando l'occasione li fainnalzare a più grandi propositi, appaiono anche uomini insigni, e sichiamano Cesare, o Napoleone, perchè, scambio di vincere una donna,hanno soggiogata la patria, caduta, per effetto di tristi circostanze,nelle condizioni miserande di una povera donna, che deve cedere senzafallo al più forte, e al più temerario. Per essi, nessun dubbio,nessuna perplessità, nessuna esitanza nell'animo; vanno diritti allameta, godere e comandare, comandare e godere. L'impero del mondo è unaposta, essi la giuocano. Non hanno guadagnato ciò che giuocano;l'hanno trovato sul tappeto verde e se ne sono impadroniti,approfittando della disattenzione di tutti. Che cos'è la morale peressi? Non sentono che il loro egoismo. E il mondo crede a questepovere teste; il mondo s'innamora di questi giuocatori audacissimi, daqualunque parte essi vengano, a qualunque fazione si ascrivano. Ed èforse perciò che tanti pensatori modesti, i quali hanno lungamentevagliato dentro di sè il pro ed il contro, delle cose umane noncredono agli entusiasmi del mondo e vivono a giornata in questa caraBabele, senza pigliarla sul serio.
Spinello aveva ascoltata la confessione di madonna Fiordalisa, e leaveva fatta sinceramente la sua. La bella creatura udì per quali viel'amor paterno di Luca Spinelli e l'odio astuto di Tuccio di Crediavessero vinto l'animo del suo fidanzato e fossero giunti astrappargli un sì che doveva renderlo felice per tutto il rimanentede' suoi giorni.
—Ahimè, non è possibile;—risposa egli.—Ed ella lo sa.
—Come? Avete avuto il coraggio di dirglielo?
—Sì, madonna; era il debito mio. Veramente,—soggiunse Spinello,—viparrà che il debito mio fosse anche di non condurla all'altare. Maquesto, voi sapete oramai come andasse. Lo stato dell'animo mio nonpoteva sfuggire all'occhio attento della povera Ghita; mi chiese checagioni di turbamento fossero in me, e come avvenisse che nulla potevarimuoverle dal mio spirito; ed ho parlato, le ho aperto,schiettamente, il mio cuore.
—E lei?
—Povera Ghita! Mi ha inteso e mi ha perdonato. Vedete, Fiordalisa, ilsuo perdono mi pesa. Oh, se m'avesse odiato! Se mi avesse tradito!Credetelo pure, io l'avrei benedetta, anche prima che voi foste viva,mia bella e dolce fidanzata. Rinchiudermi nel mio lutto, senza essercagione di rammarico a lei, vivere con le immagini del passato,lasciando altrui di trovare le sue gioie nel presente, era questo ilmio voto, era questo il mio sogno.—
Fiordalisa non rispose parola. Chinò la fronte e rimase pensosa, quasiascoltando dentro di sè l'eco delle ultime parole di SpinelloSpinelli.
Il sole si era nascosto allora dietro i monti pisani. Una brezza soaveincominciava a spirare dal piano, recando alla giovine coppia le acutefragranze degli orti pistoiesi.
—E voi, Fiordalisa,—mormorò Spinello, dopo un lungosilenzio,—pensavate al vostro povero amico?
—Sempre;—rispose ella con un filo di voce.
—Angelo, ed io l'ho meritato, sapete? Ogni giorno della mia tristevita è stato un assiduo pensiero per voi, un ricordo continuo,doloroso e caro, delle mie speranze perdute. Oh Fiordalisa, come t'hoamata, e come t'amo tuttavia! Sorriso della mia giovinezza, ti hodunque ritrovato? E non sei più mia! L'ira dei tristi ci ha separati.Ma è forse vero? L'amore che mi legava a te, dal giorno che ti hoveduta per la prima volta e ti ho votato il mio cuore, non dura eternoqui dentro? Fiordaliso, anima dell'anima mia, senti, è il destino checi ha divisi, è il destino che ci ricongiunge. Non è desso che m'hachiamato a Pistola? E contro il desiderio dell'infame Tuccio di Credi?Oh, quell'uomo, quell'uomo! Come dovrà pagar caro il suo tradimento!Perchè io lo ucciderò, sai, lo ucciderò come si uccide un rettileschifoso e malefico!—
Fiordalisa fremette a quelle parole di minaccia.
—No, Spinello, amico mio, non giurate la morte di nessuno. È lavostra Fiordalisa che ve ne prega. Chi siamo noi per farci giudici,dov'è la mano di Dio? E tu ed io,—soggiunse ella abbassando lavoce,—siamo forse così puri, nel profondo dell'anima, per non avermestieri di perdono davanti alla giustizia degli uomini ed allamisericordia di Dio?
—Ah!—gridò egli, colpito da quelle parole, e più dall'accento concui erano stato profferite.—-Tu m'ami dunque, o Fiordalisa! Mi ami…come t'amo?
La bella creatura gli volse uno sguardo in cui si dipingeva tutta laconfusione dell'animo suo, e cadde perduta nello bracciadell'innamorato Spinello.
Ore soavi, ore di cielo, chi potrebbe descrivere la vostra dolcezzainfinita? Parole sussurrate da labbro a labbro, quasi paurose diessere udite dall'aria, chi potrebbe ridirvi? Quei due nobili cuori,separati dalla tristizia degli uomini, erano dunque resi a sè stessi,e si confondevano allora tanto più infiammati l'uno dell'altro, quantopiù lunghi erano stati il desiderio e la pena? Si erano amati; siamavano. Il doloroso intervallo spariva; quei due cuori non avevanomai cessato di amarsi.
La luna, apparsa pur dianzi dal colmo del poggio, s'innalzò lentamentesu per la volta azzurra: Ed essi erano là, immobili, ebbri di amore,gli occhi cupidamente fisi negli occhi, le braccia intrecciate allebraccia. Il mite chiarore dell'astro notturno, che pioveva sui duefelici e pareva involgerli d'una velatura bianca, li facevarassomigliare a due figure di marmo, che, aggruppate dal sentimentod'un gentile artefice, eternassero il loro amplesso nella radura d'unbosco; delizioso spettacolo d'amore, e veramente degno di esserecontemplato dalle stelle. Quete notti della bella Toscana, in mezzo alcupo smeraldo dei poggi digradanti, al biancheggiare dei nitidi borghiin lontananza, al luccicare dei fiumi, serpeggianti in fasciad'argento lunghesso le valli, avevate mai accolta e accarezzata dalvostro raggio amoroso una felicità così piena?
Ella guardando lui, ed egli vedendo il creato negli occhi di lei,avevano dimenticato ogni cosa. Ma che cos'altro è un vero e forteamore, se non un profondo oblio! Respirare le dolci fragranze d'unaguancia adorata, farsi collana di due candide braccia, è come affogarenell'infinito; anticiparsi il maravigliosonirvana dei filosofiindiani. Sopra tutto, se duri tra voi e intorno a voi un grandesilenzio, che vi dà l'illusione d'esser cullati sul flutto, in un maresenza sponde, e senza tempeste. Ogni piena allegrezza è naturalmentemuta, la beatitudine non si dice; è la cosa sublime, ineffabile, chesi tiene gelosamente in serbo, nel segreto dell'anima, per rammentarlanei giorni malinconici, d'ogni luce muti.
E poi, che bisogno avrebbero avuto di manifestarsi i loro pensieri avicenda? Un linguaggio più tenero e più efficace parlavano quellelabbra ardenti, quegli occhi confusi di voluttà. E tacevano, intanto,ed ogni cosa taceva intorno a loro. Da lunge, si udiva solamente lostridio dei grilli, monotono ma lene, che non urtava l'orecchio, maconciliava il raccoglimento, e pareva la voce della natura, la notadella realtà, che dicesse loro: voi siete persone vive, non ombrevane; quel che sentite, è gaudio consapevole, non illusione del sogno.
Amore, amore! Quanti inni non ha sciolti per te l'anima umana ne' suoiimpeti di poesia! Ma tu sei così vario e profondo, che nessuna formadell'arte basterebbe a comprenderti. Tu non sei intiero in nessuno deinostri cantici, perchè ogni cantico è in te. Scioglierò anch'io, gramopoeta, il mio inno alla tua potenza infinita? No, chiuderò gli occhi,e contemplerò i tuoi miracoli nella penombra delle mie ricordanze:evocherò il caro fantasma che meglio risponde alla tua immagine nonmai ritratta da umano pennello. E a me, pur troppo, non risponderà dalontano il monotono e lene stridìo dei grilli canterini; la voce dellanatura, la cara nota della realtà, sarà muta per questo poverocantastorie.
Mentre io parlo, ricordando troppo, ed essi tacciono, dimenticandoogni cosa e vivendo un'eternità nello spazio d'un'ora, un frusciodella frappa s'è udito tra le piante.
All'improvviso rumore, Fiordalisa tremò; Spinello balzò prontamente inpiedi tendendo l'occhio sospettoso e l'orecchio. Ambedue rimaserolungamente in ascolto, rattenendo il respiro; ella più innanzi, epronta ad allontanarsi dal terrazzo; egli più indietro, ma con la manoagli elsi della spada.
—Non è nulla;—diss'ella poco stante;—forse il vento tra i rami.
—Ah!—sospirò egli.—Povera vita! Tremare, nascondersi…. E perchè? Tu verrai meco, non è vero, amor mio!—
Fiordalisa si strinse al petto di Spinello, e non rispose parola.
—Dimmi, te ne prego,—ripigliò Spinello,—verrai?
—Verrò, sì, non dubitare, verrò;—rispose ella, turbata.—Ma, peramor del cielo, per me, non cedere alla tua impazienza! Una cosa tisia certa;—soggiunse, parlandogli all'orecchio come se vergognasse diudire il suono delle proprie parole,—che io non vivrò con quell'uomo,non profanerò l'impronta dei tuoi baci.—
Spinello premette al seno quella fronte adorata e depose un bacio trai suoi bruni capelli. Ma Fiordalisa, non bene rassicurata, stavaancora in ascolto.
—È il vento, dicevi, è il vento che stormisce nella frappa;—mormoròallora Spinello.—Di che temi tu dunque? Ma lui, a quest'ora dov'è?
—Non so;—rispose Fiordalisa;—forse ancora in città, dov'è andato asalutare un amico.
—È un fedel servitore;—notò amaramente Spinello;—il suo Tuccio di Credi, venuto a Pistoia per lui.
—Ah! forse per avvertirlo della tua presenza?—diss'ella, guidata daquel senso indovino che hanno in simili casi le donne.
—Orbene, sia pure così;—rispose Spinello.—Io lo aspetterò di pièfermo.
—No, te ne supplico, parti! Egli sarà qui tra poco. Potrebb'esseregià ritornato, e cercare in questo punto di me.
—Andrò,—disse Spinello, sospirando.—Ma non intendi tu, Fiordalisa? Ieri ho colto a volo una sua frase, in risposta all'infame Tuccio di Credi. "Partiremo, diceva egli, partiremo." E se egli domani ti conducesse via da Colle Gigliato? Dove ti troverei io, adorata?
—È vero;—rispose ella perplessa.—Ma tu conosci Cia, la buonacontadina. Ella mi ama; a lei posso confidarmi, ove sia necessario.Ella ti avvertirà d'ogni cosa. Ma parti, ora; che egli non abbia aritrovarti qui! Saremmo perduti ambedue.
—Sì, partirò. Dio Santo!—mormorò Spinello, comprimendosi il petto,che pareva volesse scoppiargli dalla pena.—Ecco la luce degli occhimiei, e debbo ritornar nelle tenebre! Quando ti rivedrò, mia dolcesignora?
—Se Iddio lo consente, domani. Ma non venire di giorno. Attendi ilcolmo della notte. Cia verrà ad aprirti. Io troverò un pretesto perescire in giardino.
—Pronta a seguirmi?
—Sì, pronta a tutto. Iddio mi usi misericordia, perchè io ti amo efarò ogni cosa per te.—
Parlavano a bassa voce, guancia a guancia, tenendosi per mano, comepersone che vorrebbero separarsi e non sanno risolversi, tanto è fortel'affetto.
In quel mentre, un nuovo rumore si udì dalla rèdola. Spinello misemano alla spada.
—Zitto!—diss'ella.—Sicuramente è tornato, e questa è Cia che vienea cercarmi.
—Vado a vedere:—bisbigliò Spinello, facendo atto di muoversi.
—No, fèrmati; essa non deve trovarti ancora qui, così tardi! Mio Dio,chi sa che cosa ella avrà già pensato di noi! Lascia almeno che io ladisponga a domani. Tu rimarrai qui, fino a tanto che io non sia pressodi lei, avviata al castello; indi scenderai verso il portone. Andrai asinistra e troverai a scala di pietra.—
Così dicendo, si allontanò. Spinello la seguì un tratto, fino allimitare del terrazzo, per stringervi la sua mano e deporvi un ultimobacio. Ella, si volse con moto rapidissimo, lo baciò in fronte efuggì.
Il giovane innamorato rimase in sull'ali, pronto a muoversi, appenafosse sparita, e a discendere da quella parte che essa gli avevaaccennata. Ma proprio nel punto che egli stava per togliersi di là,udì un grido di spavento, che gli gelò il sangue nelle vene. E subitodopo vide riapparire madonna Fiordalisa, che correva a furia verso ilterrazzo, come persona inseguita.
—Ah, salvami!—gridò ella.—Salvami! Egli mi ucciderà.—
Spinello fu pronto come la folgore. Con la spada nel pugno, si cacciòtra lei e il suo persecutore invisibile.
Ma appunto allora un uomo comparve dalla rèdola e venne a piantarsisull'entrata del terrazzo. Veduto a lume di luna, in mezzo alla raduradelle piante, pareva un fantasma.
—Chi siete voi, messere!—gridò egli, con accento impresso disdegno.—Perchè vi trovo io con la mia donna, in quest'ora notturna, esenza avervi dato licenza di entrare?
—La vostra, donna!—ruggì Spinello Spinelli.—Voi parlate, messerLapo Buontalenti, da quel ladro sfacciato che siete. Teneteviindietro, o per la croce di Dio, è questa la vostra ultima ora.—
Ma in quella che faceva dare indietro il suo nemico, udì un gemito evide Fiordalisa abbandonarsi sul fianco.
—Fatevi animo, madonna;—diss'egli;—il tristo non potrà nulla controvoi. Ma che è ciò!—soggiunse egli, con accento mutato, dalla baldanzaal terrore, poichè aveva veduto luccicare nella mano di messer Lapo lalama d'un pugnale.—Ah! L'avete ferita? Vigliacco! Ferire un donna!
—È il mio dritto;—rispose il Buontalenti.—In mia casa son giudice epunisco senza il vostro beneplacito.—
Indi, alzando la voce gridò:
—A me la mia gente! A me!
—Vivaddio!—rispose allora Spinello.—Voi siete un giudice? Ed iosono la giustizia divina, in quest'ora. A voi, Lapo Buontalenti; iorenderò cento per uno.—
E si avventò a messer Lapo, con la spada levata. L'impeto fu tale, cheil Buontalenti non ebbe tempo a causarlo e ricevette il colpo nel belmezzo del petto. La punta della spada si ruppe sul corsaletto di cuoioche messer Lapo indossava. Ma la violenza del colpo lo aveva fattostramazzare a terra. Spinello, lesto come una tigre, gli fu addossocol ginocchio, e afferrata la spada sotto gli elsi, gli piantò iltroncone nella gola, prima che quell'altro potesse menargli unapugnalata attraverso il costato.
I famigli del Buontalenti erano accorsi al frastuono. Tra i primi erala Cia.
—Vergine santa!—gridò ella atterrita.—Che è ciò? La mia signora?…
—È là, sul terrazzo. Andate, buona donna, ella aspetta i vostrisoccorsi;—rispose Spinello, balzando in piedi, col suo troncone dispada nel pugno.—E voi,—soggiunse, rivolgendosi agli uomini, cheerano rimasti sbigottiti, davanti a quella scena di scompiglio neibuio, senza sapere con chi e con quanti avesse a fare,—andate subitoal castello. Portate acqua, una lettiga, una scranna, quel che vicapita, per adagiarvi la vostra signora, che questo infame ha ferita.
—La mia signora!—gridò la contadina.—La mia signora ferita! Ah, Diodi misericordia! Andate, correte, obbedite a questo buon cavaliere. Èun congiunto di sangue della nostra padrona.—
Quella povera donna non sapeva quel che si dicesse; parlava a caso,seguendo l'ispirazione della paura. Aveva sospettato, poche oreinnanzi; ma in quel punto indovinava il triste dramma, a cui ildestino aveva data una così dolorosa catastrofe. Mentre i famigli delcastello ritornavano sui loro passi, per obbedire ai comandi dellosconosciuto, altrettanto storditi dall'accento di sicurezza delladonna, quanto dallo spettacolo atroce che si era parato davanti ailoro occhi, la buona Cia accorreva presso la sua diletta signora.
Spinello non la seguì, prima di aver dato uno sguardo al suo rivale,disteso supino per terra a boccheggiante nel proprio sangue.
—Lapo Buontalenti,—diss'egli.—Domineddio non paga il sabbato, mapaga. Così gli piaccia di perdonare a me, se ho ardito di farmi suoministro di giustizia.—
Ciò detto, andò anch'egli verso il terrazzo, ove giaceva madonnaFiordalisa, col capo già sollevato sulle ginocchia della fedelcontadina.
—Fiordalisa! Angiola mia!—esclamò egli, con voce lagrimosa.
—Sei tu, Spinello!—mormorò Fiordalisa, volgendo languidamente lafaccia verso di lui.—Sia ringraziato il cielo! Disperavo già divederti.
—Amor mio, sempre daccanto a te!—rispose egli, chinandosi al fiancodi lei.
—Sempre!—ripetè la bella creatura.—Ahimè, sarà per poco. Ormai, èfinita, per me. Il crudele, sai, mi ha ferita…. qui!—
Aveva recata, in quel mentre, la mano al petto, e la mostrava a Spinello intrisa di sangue.
Così era, pur troppo. Messer Lapo Buontalenti, appostato dietro uncespuglio, si era scagliato su lei e l'aveva ferita, senza che ella sene accorgesse. Era fuggita, la misera donna, credendo di cansare ilcolpo che aveva veduto balenare nell'ombra; ma il suo movimento diterrore non era servito che a mutare di breve distanza il punto a cuimirava il carnefice. Il ferro, che doveva colpirla a mezzo il petto,l'aveva colta nel fianco.
La buona Cia si era fatta da principio a sollevarle il busto, peraiutarla a respirare. Ma, veduto il sangue che grondava dal costato,si era affrettata a slacciarle la veste, e, appena giunsero i famiglicon l'acqua, v'inzuppò un pannilino, che pose con ogni diligenza eraffermò sulla ferita. L'impressione del freddo parve ristorare lasofferente, ma non ristorò altrimenti le speranze de' suoi assistentiamorevoli. Poco stante, la bella creatura incominciò a rammaricarsi, equalche goccia di sangue le apparve sugli angoli delle labbra.
Spinello si cacciò le mani nei capegli.
—Oh, per colpa mia! per colpa mia!—gridava egli, con accentodisperato.
—No, amico mio;—mormorò Fiordalisa;—non ti accusare! È stato ildestino. Perchè ti ho trattenuto io questa sera? Dio santo, ero cosìavida di questa felicità! Ho pianto, sai, ho durato tre anni tra ildolore dell'anima e la menzogna del volto, disperando di vederti,amandoti e odiandoti…. Perdonami, non si odia così, che quando siama così. E dovevo io discacciarti, appena ritrovato? Non eri mio? Nonmi eri reso? E non dovevo accettare il dono che mi era fatto daldestino? Oh, lo sapevo, sai, lo sapevo, che m'avrebbe uccisa. Ma inquesta certezza è stata anche la mia scusa. Ti amo! ti amo!—
Un fiotto di sangue interruppe lo sfogo di quell'anima addolorata.
—Mia buona signora, chetatevi;—disse amorevolmente lacontadina.—Voi vi affaticate troppo.
—No, no, lasciami parlare, ottima Cia; ho pochi istanti di vita.—
Il petto di Spinello parve rompersi dai singhiozzi.
—Amico mio, perchè ti lagni?—ripigliò Fiordalisa.—Non mi seguiraitu? Ho bisogno d'esser seguita da te. Ma bada, non sia per opera delletue mani, e solo quando a Dio piacerà. Pregalo con tutta l'anima,digli che la tua Fiordalisa si sentirà troppo sola, senza di te. Mano, son crudele; vivi, mio povero amico, vivi per i tuoi figli. Soloti prego che tu non abbia a scordarti di me. Verrò a visitarti, ognigiorno, se Iddio lo permetterà; il mio pensiero ti sarà sempre vicino.Oh, misericordia divina! Quante cose da dire, e la vita misfugge!…—
La buona Cia le spruzzò acqua sul viso, ed ella si riebbe un tratto.
—Che è avvenuto… di lui?—domandò volgendosi alla contadina.
—Oh, mia dolce signora, di che vi date pensiero? Egli rende conto a Dio di ciò che vi ha fatto soffrire.
—Dici bene, mi ha fatto soffrire; molto mi ha fatto soffrire; tanto,che lingua umana non potrebbe ridire. Sono colpevole…. ma per lui.Dio perdoni all'anima sua!—
Quindi, volgendosi a Spinello, gli disse:
—Amico mio, vorrei esser sorretta da te.—
Spinello si affrettò a prenderla tra le sue braccia.
—Mia buona Cia, allontana quegli uomini. E allontanati anche tu, tene prego. Vorrei dire qualche cosa a Spinello. Mi perdoni tu, non èvero?—
Cia baciò la mano della sua padrona e si tirò in disparte, dall'altrolato del terrazzo, dopo aver congedato i famigli. Spinello rimase soloaccanto alla morente, sostenendola nelle sue braccia.
—Spinello, amico mio, amante mio,—diss'ella,—qua, la tua mano sulmio cuore! Oh, come sarebbe stato dolce vivere sempre così! Ma Iddionon l'ha voluto. Egli non consente che si ami troppo la vita.Ringraziamolo, poichè almeno egli ci ha dato quest'ora. Non basta,forse? Ci siamo amati. Ho dimenticato ogni cosa nelle tue braccia.Vedi, che notte serena! che splendore di stelle! E che bel giorno saràdomani! Ah, ma tu non lo vedrai tale, non è vero, amor mio? Se questavalle sorriderà del suo più amabile sorriso alla luce del sole, tu nonvedrai che tenebre? Giuralo, perchè io muoia contenta. Sai, quando lapersona amata non è più, il mondo non deve avere più nulla, più nulla,che lo faccia amare da chi resta.
—Oh, io ne morrò;—disse Spinello, con voce soffocata dalle lagrime.
—Vivi, le l'ho detto; vivi triste, ma vivi. Col desiderio di me,ricordati, col desiderio di me! Sentirei freddo, nella tomba, se iltuo amore non venisse a ricingere le mie povere ossa, là dentro. Ahi,triste cosa, morire! Non voglio morire! Di grazia, ancora un giorno!Un'ora, almeno un'ora di vita! Spinello, mio fidanzato, amor mio, dovesei? Non mi lasciare! Non mi lasciare! Prega il Signore per me…. perl'anima della tua Fiordalisa.—
La bella creatura balbettò ancora poche parole, il cui suono si spensenel sangue che le gorgogliò sulle labbra, e la testa ricadde inertetra le braccia dell'amato. Nè le lagrime ardenti di lui valsero atrattenere quella vita che fuggiva; le sue grida disperate siperdettero nel gran silenzio della notte.
XIII.
Vi ho detto come quel degno gentiluomo che era messer BardanoAcciaiuoli amasse Spinello Spinelli. La mestizia del giovine pittorelo aveva colpito; il suo ingegno messo alla prova, lo avevastupefatto; la sua bontà gli aveva parlato al cuore, lo avevainnamorato senz'altro. E il vecchio cavaliere, poi che Spinello si fuallontanato da Firenze, prese a seguire i suoi trionfi artistici nellevarie città di Toscana, che facevano a gara per averlo, come un padreseguirebbe da lunge, con gli occhi dell'anima, i trionfi d'un figliodiletto.
Però, immaginate voi con che cuore messer Dardano leggesse un giornocerta lettera di madonna Ghita Spinelli che gli annunziava tristi cosedel suo povero marito. Ridottosi in patria dopo lunghe e vaneperegrinazioni, Spinello Spinelli era comparso davanti alla madre de'suoi figli, pallido, sparuto, coi capegli quasi bianchi, e colcervello in volta. Sicuro, il povero Spinello Spinelli era impazzito.
Di questa catastrofe messer Dardano aveva avuto come un presentimentoalcuni mesi prima quando Spinello gli era capitato d'improvviso aFirenze. Il giovine pittore tornava allora da Pistoia, senza averposto mano agli affreschi, che quei cittadini s'aspettavano con tantodesiderio da lui. Non si sentiva di far niente che avesse garbo;quella bella città non lo aveva ispirato. La cosa parve strana amesser Dardano; ma egli stando qualche ora col suo protetto, non avevadurato fatica ad intendere che un grande infortunio e una profondaafflizione lo avevano oppresso, offuscando in lui la coscienza delproprio ingegno e del proprio dolore. Infatti passava con la massimavolubilità dal pianto alle risa, incominciava un discorso o finiva inun altro, se pure si poteva dire che ne finisse mai uno. MesserDardano aveva cercato di penetrare il segreto di quella mente turbata,ma non ne era venuto a capo. E Spinello Spinelli aveva lasciatoFirenze, dicendo al suo protettore che gravi cose lo chiamavanoaltrove; tra l'altre, e prima di tutte, un voto da sciogliere.
Il degno gentiluomo si era industriato a trattenerlo ancora qualchegiorno: ma Spinello, promettendogli di tornare a prender commiato dalui, gli era fuggito di mano. Ricordando l'accenno a quel voto, messerDardano pensò che Spinello dovesse recarsi a qualche famoso santuario.Lo aveva conosciuto religiosissimo; aveva saputo delle sue pratiche dipietà in Arezzo, condotte, a dir vero, oltre le medesime costumanzedel tempo, e aveva detto tra sè, rassegnandosi a quellasparizione:—"Povero giovane! Speriamo che il tempo, questo granmedico delle anime afflitte, rechi un po' di sollievo ai suoi mali, ech'egli non abbia a perderci l'ingegno; che sarebbe veramentepeccato!"—
La lettera di monna Ghita ricordò a messer Dardano Acciaiuoli le sueprime apprensioni. Era stato il protettore di Spinello e il pronubodella giovine coppia, e intendeva benissimo come in un giorno ditristezza domestica, la moglie di Spinello dovesse ricorrere a lui colpensiero e invocare il suo patrocinio. Quel degno gentiluomo nonistette in forse, e il giorno dopo che ebbe ricevuto il messaggiodella povera donna, si avviò con gran diligenza ad Arezzo, per vederein che modo potesse tornar utile alla dolente famiglia.
Era appena giunto in Arezzo, che gli si parò davanti agli occhi latorbida figura di Tuccio di Credi. Quel disgraziato era assai male inarnese; ma messer Dardano lo riconobbe subito. Rammentate che Tucciodi Credi era il compagno inseparabile di Spinello, nella sua gita aFirenze, e che proprio a lui si era rivolto messer Dardano, per averenotizie intorno alla tristezza di quel giovinotto, che andava ognigiorno a sedersi sulla piazza di Santa Maria Novella. Inoltre, Tucciodi Credi era l'aiuto di Spinello Spinelli, quando questi dipingevanella chiesa di San Nicolò, in via della Scala, e messer Dardano nonpoteva averlo dimenticato così facilmente.
—Tuccio di Credi!—esclamò egli andandogli incontro.—Che fortunad'imbattermi in voi, appena entrato in Arezzo!—
Tuccio di Credi aveva veduto messer Dardano anche prima che messerDardano vedesse lui. E avrebbe voluto cansarlo; ma, come accade insimili circostanze, che il timore d'essere osservati vi trattiene e vifa cadere più presto nelle unghie di chi volevate sfuggire, andò a luicome la biscia all'incanto.
—Messere,—diss'egli,—mi duole di presentarmi a voi… in questopovero stato.
—Ah, sì, gli è proprio il momento di badare a queste cose;—esclamòl'Acciaiuoli.—Come va il nostro caro Spinello? Son venuto a bellaposta per lui.
—Messere,—balbettò l'altro turbato,—io non lo vedo da un pezzo.
—Come? non siete con lui?
—No, messere, ci siamo lasciati, dopo che egli ebbe dipinto nelcamposanto di Pisa. Non lo sapevate?
—Io no; Spinello non mi ha detto niente di ciò. Ma spera che nonsarete diventati nemici.
—Per quanto è da me, no, certamente;—rispose Tuccio di Credi.—Delresto, abbiamo avuto da dire su cose da nulla, e il torto è stato ilmio. Ho parlato di andarmene ed egli mi ha lasciato andare. Già nongli servivo gran fatto. E da quel giorno sono andato qua e là, pertutta Toscana, in cerca di lavoro…
—E non ne avete trovato?
—Ahimè, messere! Con tutta la miglior volontà del mondo, non sonvenuto a capo di nulla. Che volete? Non si nasce tutti sotto una buonastella, e la mia è stata la più trista.
—E siete senza lavoro?
—Come voi dite, messere.
—Ma lavora Spinello, m'immagino.
—Sì,—rispose Tuccio di Credi;—quantunque io non riesca ad intenderecome gli venga fatto. Voi saprete che egli è impazzito?
—La voce ne è corsa; ma speriamo che sia esagerata;—disse messer Dardano.
—Lo volesse il cielo!—esclamò Tuccio di Credi; ma facendo la suabrava restrizione mentale, di cui messer Dardano Acciaiuoli non dovevaavvedersi.
—Ah, sì!—ripigliò il vecchio gentiluomo,—Questo dobbiamo tuttidesiderare. Forse non si tratterà che delle solite malinconie. Sapetepure, Tuccio, che il nostro amico ha sempre dato nel triste. Sarà lastessa malattia di Firenze. Certi dolori, quando si sono impadronitidi noi, amano ritornare e non c'è verso di liberarsene del tutto.
—Non sa nulla!—pensò Tuccio di Credi, udendo le parole di messer Dardano.
E ad alta voce proseguì:
—Messere, da quando non avete più visto Spinello?
—Dal suo ritorno da Pistoia a Firenze;—rispose l'Acciaiuoli.—Ilnostro amico doveva essere già in balia de' suoi tristi pensieri,poichè non è riescito a far nulla, in quella città, deludendo cosìl'aspettazione di tutti. Come diamine è andata? Io non ho potutocavarne un costrutto. Non ne sapete nulla, voi? Ma già, dimenticavoche eravate separati.
—Ve l'ho detto, messere, ci eravamo lasciati, prima che egli andassea Pistoia.
—Spero che non sarà una separazione eterna;—disse alloral'Acciaiuoli.—Se Spinello ha avuto dei torti con voi, dovetedimenticarli. Se la colpa è stata vostra, dovete farvela perdonare,cercando di rinfrescar l'amicizia.
—Non sa nulla! Non sa nulla!—ripetè in cuor suo Tuccio di Credi.—Ah, se non sapesse nulla neanche quell'altro!
—Siamo dunque intesi;—proseguiva messer Dardano.—Gli parlerò divoi, aggiusterò io questa faccenda. Giovinotto, queste freddezza nonistanno bene tra compagni d'arte, che sono sempre andati d'accordo. Lavita è già troppo piena di noie; non la turbiamo ancora con le nostrecontese. Vi vedrò, questa sera?
—Volentieri;—disse Tuccio di Credi.—Voi siete così buono con me! Passerò da voi, se vi piace.
—No;—rispose messer Dardano.—Forse rimarrò presso il nostro amico,e non sarà bene che io vi dia la posta in casa sua. Verrò dopo ilvespro in piazza del Duomo. Vi torna?
—Ci sarò, messere. E siate ringraziato per l'onesta intenzione.
—Che! che! Non mi ringraziate di nulla. Sarò proprio felice di averposto fine a questa mala intesa; che altro non può essere davvero.—
Fatte queste parole, che vi daranno misura della sua bontà di cuore,messer Dardano Acciaiuoli si avviò alla casa di Spinello Spinelli.Tuccio di Credi se ne andò per i fatti suoi, contento diquell'incontro, donde gli appariva che il suo compagno d'arte nonsapesse niente delle sue marachelle.
—È strano,—pensava egli,—è strano che egli non sia venuto in chiarodi nulla. Ma già, chi può averglielo detto? Il Buontalenti, nocertamente, che dev'essergli capitato addosso alla sprovveduta, e perfarsi ammazzare come un cane. Che sciocco! È vero che egli, prima dimorire, ha freddata la moglie; e in questo io ho riconosciuto il miouomo. Povera madonna Fiordalisa! Ma già, così doveva finire. Ed ella,di sicuro, non ha neanche avuto il tempo di raccontare al suo anticofidanzato che parte ci avessi avuto io nella sua risurrezione. Ah,madonna Fiordalisa! Siete voi che l'avete voluto. Se non vi prendevaquella sciocca mania per l'amico Spinello! Mastro Jacopo vi avrebbeconcessa a me, suo primo discepolo; ed io, chi sa? avrei potuto anchediventare un maestro. Dicono che l'amore faccia miracoli! Ma vedetequel dannato di Spinello! È fortunato anche nella disgrazia! Haperduta due volte la sua innamorata, è impazzito e conserva l'ingegnoper dipingere!—
Tuccio di Credi era tornato in Arezzo, perchè in nessuna città diToscana aveva trovato modo di occuparsi. E sentiva più dura la suacondizione, rientrando così male in arnese nella sua terra natale,donde era escito con tanti disegni ambiziosi nell'anima. Una speranzalo sosteneva, nel ritorno; la speranza di appoggiarsi a Parri dellaQuercia, modesto ma non ultimo tra gli scolari di mastro Jacopo diCasentino. E vedete disdetta; Parri della Quercia era morto; lo studiodi mastro Jacopo era chiuso per sempre. Ma se Parri mancava, eratornato Spinello; e la notizia di quel ritorno aveva datomaledettamente sui nervi a Tuccio di Credi. Era già sul punto ditornarsene via, anche non sapendo dove sarebbe andato a battere delcapo; tanto gli riusciva molesto di averlo ad incontrare per via. Masubito dopo l'annunzio dell'arrivo di Spinello, aveva avuto quellodella sua pazzia, naturalmente spiegata a' suoi occhi da ciò che peraltra via, gli era giunto all'orecchio, intorno alla tragedia di ColleGigliato. E allora, Tuccio di Credi aveva mutato proposito; erarimasto in Arezzo. Messer Dardano gli era capitato proprio in buonpunto. Da lui avrebbe potuto sapere che cosa pensasse Spinello, e checosa egli avesse a sperare per sè.
Spinello non era in casa, quando messer Dardano Acciaiuoli vi giunse.Ma il vecchio gentiluomo ne fu contento, poichè l'assenza del suoprotetto gli dava agio d'intrattenersi con monna Ghita.
Egli la trovò malinconica, ma rassegnata. La povera donna non avevasaputo nulla da nessuno, ma aveva indovinato ogni cosa. Un uomo sinasconde male con la compagna della sua vita, e Spinello, che nonmirava a nascondersi, aveva lasciato scorgere a Ghita assai più cheella non fosse curiosa di sapere. La buona creatura apparteneva aquella classe di donne, per cui è natura il soffrire in silenzio,rinchiudersi nell'esercizio dei proprii doveri e trovarci anche uncompenso bastevole a tutti i disinganni della vita. Certo il vivere inquesta guisa è un sacrificio; ma per il desiderio di rendergligiustizia, non è mestieri esagerarne la grandezza. Spesso è quistionedi nervi; più spesso di educazione. Le anime avvezze fin dai primianni alle freddezze, ai mali trattamenti, alla mancanza d'ogniaffetto, alle aperte ingiustizie degli uomini e della sorte, siraccolgono in sè medesime, imparano a non chieder nulla al di fuori, eacquistano a lungo andare una padronanza di sè, che sfida ognitraversia, rende men gravi i patimenti, innalza all'eroismo, fa parerbello all'occorrenza il martirio.
E se vi parrà che con questo ragionamento io tolga merito alsacrificio di Ghita Bastianelli, pensate che le ragioni della veritàson superiori a tutti gli artifizi della rettorica, come a tutte leillusioni del sentimento, e che un elogio modesto è l'omaggio piùconveniente alle modeste virtù. Beati gli umili, e beati coloro chesanno contentarsi del poco. La mammola ascosa nel fogliame, a' piedidelle ripe, non ha lieti splendori per gli occhi del riguardante, malo trattiene con la cara soavità delle miti fragranze. E queste animeelette, che adempiono ai loro uffizi senza ombra di ostentazione, nondomandano lodi smaccate; si dorrebbero troppo di ottenerle.
Perchè vi magnificherei io il carattere di Ghita Bastianelli, oltre iconfini che gli erano assegnati dalla sua propria coscienza? Certo, adun uomo come Spinello Spinelli, carico di gloria e pieno di angosciecosì grandi come la gloria, si conveniva una donna simile. Illustrisventurati, anime ferite a morto nelle battaglie dell'esistenza,auguratevi gli estremi conforti di un'umile compagna, la quale, se nonpotrà risanare la nostre piaghe, non aiuterà ad inasprirle. Soldatiche una palla cieca ha colpiti, pensatori che una grande ambizione hatravolti, fidenti giostratori che il mondo ha abbandonati sull'arena,non lo trovate voi, quel mite conforto, nella corsia d'un ospedale,dove le ebbrezze, gli splendori, le speranze, i sogni, andaronomiseramente a far capo? Il sorriso tranquillo e benevolo d'una suoradi carità, donna come vostra madre, che è morta, come vostra sorella,che è lontana, come la vostra amante, che s'è data ad un altro, nonbasta a fare men doloroso il vostro ultimo giorno? Pure, quella donnaadempie senza sforzo un ufficio di altissima carità; si è appartatadalle gioie del mondo, per ereditarne solamente i dolori; ma nonv'intenderebbe, o riderebbe d'un riso tutto suo, se in quella bontàche è la sua consuetudine voi voleste trovare l'argomento di un inno.
Messer Dardano Acciaiuoli udì da monna Ghita come Spinello fosseritornato in patria, grandemente mutato da quello di prima, e come ilsuo animo, di triste che era, ed inchinevole ad una dolce malinconia,si fosse ottenebrato di schianto. Non gli restava altro lume chequello dell'arte; ma era un lume a sprazzi momentanei, quando l'uomosi trovava sulla sua impalcatura, con la tavolozza e i pennelli tramani. In quei momenti, si riconosceva ancora Spinello; mancavano leaudacie, mancavano quei lampi in cui si mostra la battaglia internatra il magistero dell'arte e l'idea che vuol condurre a nuove altezzel'ingegno; ma l'ingegno tuttavia si vedeva, e l'ingegno è sempre unaluce. Levato dal suo trèspolo, il povero Spinello diventava un altrouomo: si addensavano le ombre intorno al suo spirito; non si vedeva unmentecatto, ma si compiangeva uno scemo.
Il vecchio gentiluomo ascoltò con grande rammarico la storia dolentedel suo povero amico, e confortò come potè quella ottima donna, chegli additava i suoi figli, Parri e Forzore, in cui si raccoglievanotutte le sue tenerezze.
—Son essi la mia consolazione e la mia forza;—diceva monnaGhita.—Quando sento che il mio cuore non regge più a tantidispiaceri, guardo quelle due testoline bionde. Ecco una gioia cheIddio mi concede;—soggiungeva ella sorridendo malinconicamente;—equello che Iddio mi ha concesso non mi toglie nessuno.—
Messer Dardano Acciaiuoli ammirò quella serenità di mente, e, presa lamano di Ghita, l'accostò da buon cavaliere alle labbra.
—Dio vi guardi, madonna;—diss'egli;—con tali conforti voi nonpotrete mai reputarvi infelice.—
Dopo ciò, messer Dardano escì, per andare in cerca di Spinello, chedipingeva allora nella chiesa di Sant'Agnolo.
Vi accenno senza descriverla, che oramai s'andrebbe troppo per lelunghe, la scena commovente di quell'incontro tra il vecchiogentiluomo fiorentino e il suo protetto di via della Scala. A malapena lo vide comparire sul ponte, Spinello depose la tavolozza, sicalò a furia dal trespolo su cui stava seduto, e andò a piangerolagrime di tenerezza tra le braccia di messer Dardano.
—Su, su, ragazzo mio!—disse il vecchio gentiluomo.—Non vi commovetepiù del bisogno. Che cosa c'è egli di strano? Ho voluto vedervi edabbracciarvi ancora una volta, prima di andarmenead patres. Sonvecchio oltre i settanta, che sono il colmo della vita, se dobbiamcredere agli antichi; e tutto il resto è un di più, sul quale nonbisogna far conto.
Con queste chiacchiere allegre, messer Dardano Acciaiuoli cercava disviare le idee malinconiche, naturalissime in quell'incontro, chedoveva svegliare tanti dolorosi ricordi nell'animo di Spinello.Frattanto, il nobile fiorentino sbirciava il suo protetto, che maleavrebbe riconosciuto, se, scambio di trovarlo al suo posto d'onore, loavesse incontrato per via. Spinello aveva le guancie scarne, gli occhiinfossati, i capegli largamente brizzolati di bianco; era, a dirvelain due parole, una rovina d'uomo. La gioventù e la forza si vedevanosolamente in quegli occhi; ma l'una e l'altra parevano fittizie, comese la vita che traspariva da essi non fosse altro che un effetto diebbrezza momentanea, od anche di pazzia.
Ma perchè egli non poteva guardar sempre Spinello, senza aver l'ariadi far confronti tra il presente e il passato, messer Dardano si volseintorno a guardare i dipinti. L'impalcatura su cui era salito, sistendeva dall'arco del presbiterio fino all'emiciclo del coro, e gliaffreschi di Spinello Spinelli si vedevano stesi lungo la facciatadell'altar maggiore. Vi ho detto che la chiesa avea nome daSant'Agnolo; aggiungo ora che si diceva Sant'Agnolo per mo'd'antonomasia, dovendo intendersi l'arcangiolo San Michele, che è ilprimo e il più ragguardevole tra gli spiriti celesti. Gli affreschi diSpinello Spinelli rappresentavano per l'appunto la più nobile impresadel Santo, vo' dire la rovina degli angioli ribelli, e il pittore liaveva colti quasi tutti nel punto critico, in cui, piovendo sullaterra, si tramutarono in diavoli. Terribile all'aspetto, campeggiavain alto l'arcangiolo Michele, che combatteva da par suo con l'anticoserpente di sette teste e di dieci corna; un serpente assai brutto,come potete immaginarvi, e diventato anche più brutto per ladisgraziatissima circostanza in cui era.
Messer Dardano meravigliò in cuor suo che Spinello avesse fatto provadi tanta fantasia. Forse, ce n'era più che il pittore non avessemostrato mai; perchè, se non sapete, lo scolaro di mastro Jacopo diCasentino ora salito in gran fama per la sua eccellenza nel trattaresoggetti più quieti e nel dare espressione di gravità, e di tenerezza,ad aggruppamenti di poche figure. La grazia semplice dei suoi Santi edelle sue Madonne sentiva qualche cosa della divinità. Ed era tenutaper l'opera sua più maravigliosa una Vergine che porgeva a Cristofanciullino una rosa, affresco condotto da lui su d'una parete, inSanto Stefano fuori le mura d'Arezzo. La fama di quel dipinto dovevasopravvivere all'autore e alla chiesa, poichè, quando questa cadde inrovina nel 1561, gli Aretini, senza guardare a nessuna difficoltà ospesa, tagliarono il muro intorno all'affresco, e allacciatoloingegnosamente lo portarono in città, per collocarlo in via delleDerelitte, sotto il nome poco appropriato di Madonna del Duomo.
Contro tutte le consuetudini, anzi meglio, contro l'indole del suoingegno, Spinello Spinelli dava allora nel fantastico e nel truce. Esi compiaceva, mentre Dardano Acciaiuoli contemplava il dipinto, sicompiaceva in quella rovina d'angioli, quasi dovesse riescire il suocapolavoro. Forse egli sentiva dentro di sè che sarebbe statol'ultimo?
—Vedete, messere;—diceva egli, dopo avere esposto il suo concetto alvecchio gentiluomo;—sono ormai presso a finire. Quel vano chescorgete nel centro è il posto di Lucifero. Ho incominciato con SanMichele; finirò col suo grande inimico. È il più difficile, e l'holasciato per l'ultimo. Ci penserò stanotte, e domani, senz'altro, misbrigherò anche di lui.
—Che?—esclamò messer Cardano.—Avete lavorato senza cartoni?
—Sì, messere; per questa volta ho seguita l'ispirazione. Daprincipio, per darne un'idea a questi massari, avevo disegnato ognicosa di rossaccio, così alla grossa, non dipingendo di buono che unapiccola parte di questa composizione. L'idea è piaciuta, e m'hannoallogato il lavoro.—
Spinello non diceva tutto, poichè non lo sapeva appuntino. Le suedistrazioni, la sua aria melensa, e certi segni che dava d'esser tocconel cervello, avevano fatti rimanere dubbiosi i massari diSant'Agnolo. Perciò, ad assicurarsi che l'artista era sempre queldesso, e che non ne sarebbe venuta un'opera da doversi cancellare,avevano chiesto un disegno sul muro. E Spinello, che era sempre lui,quando si trovava sul suo trèspolo, aveva fatto il disegno richiesto,meritando in tal guisa la lode di tutti e la pronta commissionedell'affresco.
Quel giorno, Spinello Spinelli lasciò il lavoro assai prima delsolito, volendo dedicare tutto il suo tempo al nobilissimo ospite.S'intende che messer Dardano, per isviare l'animo del suo protetto daidolorosi pensieri, che avevano purtroppo il triste effetto dioffuscargli la ragione, si adoperò come potè meglio a tenere ildiscorso nel campo dell'arte. E Spinello da principio segui benissimoil filo della conversazione, ragionando dei lavori che aveva in mentedi fare. Ma a poco a poco si smarrì, e, un'ora dopo, messer Dardanovide di non aver più accanto a sè che un povero scemo.
Quando giunsero a casa per desinare, monna Ghita fece all'Acciaiuoliun gesto malinconico, che voleva dire:—Orbene, messere, lo vedeteanche voi, come è ridotto?—
Infatti, il povero Spinello non aveva più coscienza di sè. Solamenteil lavoro poteva rialzarne lo spirito; cessato il lavoro, tornavano leombre. Strana forma di pazzia, non è vero? Ma se non fosse strana, nonsarebbe pazzia.
Mentre erano a tavola, messer Dardano entrò a ricordare il nome diTuccio di Credi. E Spinello ne parlò come di un amico, da cui si fosseseparato pur dianzi, con una fraterna stretta di mano.
—Ottimo Tuccio!—diss'egli.—Come va che non si trova con noi?
—Non ha osato presentarsi;—rispose messer Dardano.—Egli è tornatoassai male in arnese. Figuratevi che in nessuna scuola delle tantecittà di Toscana ha trovato da vivere.
—Da vivere!—esclamò Spinello.—O che bisogno aveva di trovar davivere. La mia scuola non gli basta?—
Messer Dardano capì facilmente che il cervello del suo amico andava inprocessione, e ripigliò tranquillamente il discorso.
—Voi ricorderete, Spinello mio, che Tuccio di Credi, qualchetempo fa, si era risoluto di andarsene dal vostro servizio. Temevadi esservi inutile, il poveretto! Non ha molta levatura d'ingegno,ma per contro, ci ha un discreto amor proprio. Malattia deipoveri,—soggiunse il vecchio gentiluomo,—e va curata con garbo.Volete voi ripigliarlo a bottega?
—Non rammento di averlo mai congedato;—rispose Spinello.—Setornerà, l'avrò caro.
—Ah bene!—gridò l'Acciaiuoli.—Così va fatto. Voi siete sempre unnobile cuore.
Quella sera, passeggiando col suo ospite in piazza del Duomo, messerDardano vide Tuccio di Credi e gli accennò di accostarsi. Quell'altroobbedì prontamente.
—Ecco Tuccio di Credi;—incominciò l'Acciaiuoli, volgendosi al suoospite.
Spinello si scosse a quelle parole, alzò gli occhi e salutò il suocompagno d'arte.
—Buona sera, Tuccio!—diss'egli stendendogli la mano.
—Buona sera, maestro!—rispose Tuccio, sporgendo timidamente la sua,e chinando gli occhi a terra, come se volesse ringraziare messerDardano della sua benevola intercessione.
—Ecco un patto conchiuso;—disse allora l'Acciaiuoli.—Domanitornerete a lavoro col nostro ottimo Spinello. Eravate amici e nonavete mai cessato di esserlo. A voi, Tuccio, sarà grande fortuna dilavorare con un tant'uomo; egli, poi, sarà lieto di avervi aiutatore,secondo l'antica consuetudine, che era così profittevole ad ambedue.—
Messer Dardano era contentissimo di aver fatta quella pace, non tantoper il piacere di averla fatta, quanto per l'utile che doveva, secondolui, derivarne a Spinello.
—Tuccio è un uomo serio;—pensava egli;—conosce da lunga manol'umore del suo compagno e potrà tenerlo in riga più facilmente di unaltro. Ora, più che mai, il nostro povero amico ha bisogno diqualcheduno che abbia pratica con lui e lo sostenga nei momentidifficili. Sia lodato il cielo!—conchiuse il vecchio gentiluomo.—Mene andrò via da Arezzo con l'animo più tranquillo.—
XIV.
La mattina seguente, Spinello Spinelli andò per tempo alla chiesa diSant'Agnolo. Gli premeva di metter mano a dipingere il suo Lucifero,che aveva già tratteggiato sull'intonaco.
—No, verrò più tardi;—rispose messer Dardano.—Verrò con Tuccio di Credi. Frattanto ci guadagnerò di vedere il vostro Lucifero abbozzato.
—Ed anche dipinto, solo che v'indugiate due o tre ore;—disseSpinello.—Sarà un Lucifero abbastanza nuovo. L'ho ancora sognatostanotte, bello come l'angelo che ha dato agli uomini l'esempio dellasuperbia. Perchè, io dico, d'onde gli può esser nata la superbia aLucifero? Non già da una speciale predilezione di Domineddio, poichèquesti non può non avere amato in ugual modo tutte le sue creature. Iopenso adunque che debba essere montato in superbia, a cagione dellasua grande bellezza.—
Messer Dardano intendeva poco questa distinzione. Infatti, ammettendoche Domineddio non potesse aver preferenze, si doveva anche credereche non avesse fatto Lucifero (Helel, come lo chiamarono gli ebrei)più bello degli altri spiriti, creati insieme con lui. Ma infine, inquella vecchia storia religiosa, molte generazioni avevano lavorato difantasia e si poteva ammettere senza sforzo che gli uomini, dopo averefoggiato a loro immagine il Creatore, si pigliassero uguale libertàcon le sue creature più nobili.
Per queste ragioni, o per altre consimili che gli balenassero allafantasia, messer Dardano Acciaiuoli lodò grandemente il concetto delsuo amico Spinello. In fin dei conti la pittura ha una filosofia tuttasua, che ne vale molte altre, vo' dire la filosofia dei contrasti; e icontrasti, appunto per quella impressione che fanno immediamentesull'animo del riguardante, offrono argomento a profonde meditazioni.Un Lucifero bello! Che vi pare una cosa da nulla? Una similestonatura, certamente voluta dall'autore, non è forse tale da farpensare che quel diavolo non meritava poi la sua trista sorte? Eperchè subito viene in mente che Iddio non può aver fatto una cosaingiusta, o almeno egli non può averla lasciata fare a spiritiperfetti, come sono senza dubbio i suoi angeli, non dee venire diconseguenza il pensiero che la malvagità dello spirito ribelles'intenda aggravata dalla sua medesima bellezza? E non deve risaltareagli occhi di tutti una certa rispondenza tra i figli di Dio e i figlidegli uomini, per cui negli uni e negli altri sia necessario fare unadistinzione tra la bellezza esterna e la bellezza interiore? Ahimè!dice il filosofo. Vedete il triste uso che noi facciamo dei donicelesti! Anche Lucifero, spirito eletto e prediletto del Padre, dovevaesser guasto nella propria ambizione. Bello tra tutti gli immortali,doveva precedere nella sua caduta la istessa caduta dell'uomo, e adonta della sua grande bellezza esteriore, averci il baco nell'anima,come tanti e tante che conosciamo noi!
—Bene!—esclamò dunque messer Dardano Acciaiuoli, poichè ebbe uditoil ragionamento di Spinello Spinelli.—Seguite il vostro pensiero,maestro; noi verremo ad ammirare gli effetti.—
Caldo del suo concetto, il pittore si era messo all'opera. Mi pare diavervi già detto (e se non ve l'avessi detto prima, ve lo dico adesso)che il nostro gentile artefice precedeva di oltre dugent'anni quelfamoso Luca Giordano, pittore immaginoso e delicato se altri fu mai,chiamato dai suoi contemporanei "Luca Fa presto" poichè, a colorire inbreve spazio di tempo le sue leggiadre invenzioni, usava dipingere afuria, con ambedue le mani, quasi temesse di non aver tempo a faretutto quello che gli passava per la mente. Spinello Spinelli nondipingeva con due pennelli ad un tempo; la storia non lo dice, ed ionon posso usurpare i diritti della storia. Ma posso dirvi che egli erapronto di mano, oltre il costume di tutti gli artisti del suo tempo;donde si spiega come egli abbia potuto compiere tante opere mirabili,in una vita di cui i biografi si contendono a gara i confini, e chelascerebbe ai tardi nipoti il diritto di accorciarla assai più che ionon mi sia attentato di fare.
Lucifero era già abbozzato sull'intonaco, e non si trattava più che dicolorirlo. Spinello ci lavorava a furia. Il corpo era già fatto, e ilpittore stava per attaccare la figura poco prima dell'ora di vespero,quando giunse sul ponte messer Dardano Acciaiuoli insieme con Tucciodi Credi, pecorella smarrita che tornava all'ovile.
Spinello non li vide neanche, invasato come era. La febbre dell'artegli ardeva nel sangue e sarei quasi per dire che gli faceva bruciareil pennello tra le dita. Maraviglioso artista! E più maraviglioso agran pezza per chi conosceva la storia delle sue grandi mestizie!
Tuccio di Credi guardò il dipinto e si sentì correre un brivido pertutte le vene. Quella rovina d'angioli era veramente un miracolo difantasia e di esecuzione. L'arcangelo Michele si vedeva in alto,atteggiato a battaglia come un paladino antico, e così fieroall'aspetto, così forte all'assalto, da rovesciare ad ogni colpo unnemico. La battaglia poteva dirsi già vinta. Come non avrebbe avutovittoria d'un serpente, anche con sette teste e dieci corna, chi avevabattuto e piombato negli abissi il più forte de' suoi avversari, chetale era certamente Lucifero? Anche in ciò l'ingegno di Spinello avevadato nel segno. La sua composizione sarebbe stata manchevole, nonavrebbe espresso pienamente il concetto di quella storia grandiosa, seMichele fosse stato ancora alle prese col maggiore dei ribelli. Lasorte della giornata, almeno per ciò che si rappresentava all'occhio,poteva rimaner dubbia, ed esserne scemato per conseguenza l'effetto.Ma Lucifero, in quella vece, era vinto; Lucifero piombava giùnell'abisso. E come era giustamente collocato nel mezzo del quadro!Michele trionfava; ma il protagonista era Lucifero, poichè lacatastrofe era appunto la sua.
I due nuovi venuti restarono immobili in un angolo, guardando quellascena terribile; messer Dardano estatico, beato di assistere ad unmiracolo dell'arte; Tuccio di Credi avvilito, rodendosi dentro di sè,alla vista di quell'ingegno singolare che resisteva ai colpi piùgravi.
Ma che cosa avveniva in quel punto? A mano a mano che i contorni delviso di Lucifero prendevano forma sotto le pennellate dell'artefice,cresceva la bellezza del tipo, e, insieme con la bellezza, balzavafuori una rassomiglianza, che faceva sudar freddo lo sciagurato Tacciodi Credi.
Strano a vedersi, e più strano a raccontarsi! Quel pittore che, adonta del suo ingegno smisurato e dell'amore che suol raddoppiare, anzicentuplicare l'ingegno, non era mai venuto a capo di cogliere lesembianze di una donna adorata, quel pittore, postosi in mente di darea Lucifero l'impronta di una straordinaria bellezza, andava effigiandonel volto dell'angiolo ribelle la divina immagine di madonnaFiordalisa.
A qual sentimento obbediva in quel punto la mano di Spinello Spinelli?Operava egli con piena coscienza di sè, o non faceva che seguire unimpulso arcano e fatale? Certo, se egli vedeva nelle sembianze dimadonna Fiordalisa il colmo della bellezza umana, si poteva credereche, dovendo egli esprimere alcun che di perfetto, fosse trattonaturalmente ad effigiare l'immagine della sua povera estinta. Ma,allora, perchè il tipo di Fiordalisa non era mai stato espresso intanti volti di Madonne e di Sante che egli aveva pur dovuto dipingere,e col naturale desiderio di accostarsi alla perfezione? Non era inveceda credere che una virtù misteriosa guidasse il suo pennello, se a luiper la prima volta occorreva così facilmente di ritrarre una carasembianza, non mai potuta cogliere appieno, per quanto egli siarrovellasse nel suo proposito? E questa opinione non era forseavvalorata dalla medesima bizzarria che riconduceva al suo pennello ilineamenti di Fiordalisa, mentre egli doveva esprimere la bellezza diuno spirito malvagio?
Vi ho detto che Tuccio di Credi sudava freddo, vedendo l'opera stranache prendeva forma sotto le pennellate del pittore. Era bene madonnaFiordaliso, che si presentava in tal guisa davanti a lui; era madonnaFiordalisa, con gli occhi lampeggianti di sdegno; era madonnaFiordalisa, che piombava nei regni della morte, maledicendo ai suoiuccisori. Pensando a quei riscontri così naturali tra il soggettoceleste e la rimembranza umana che prendeva vita da esso, Tuccio diCredi si sentì correre un brivido di paura per le ossa. Se avessepotuto tirarsi indietro, come lo avrebbe fatto volentieri!
E istintivamente voltando la testa, egli dava un'occhiata alla bucadonde era salito lassù. Ma proprio in quel punto messer DardanoAcciaiuoli lo prendeva amorevolmente per un braccio.
—Vedete, Tuccio, com'è bello quest'angiolo!—diceva il vecchiogentiluomo.—Se si potesse muovere un rimprovero all'artista,ignorando quello che egli ha voluto fare, si direbbe che è troppobello, per rappresentare lo spirito del male.
—Sì, troppo bello;—balbettò Tuccio di Credi, facendosi livido dallapaura.
—Che è?—disse allora messer Dardano, a cui non era sfuggito iltremito della voce di Tuccio.—Che cosa avete voi?—soggiunse tosto,vedendo il suo compagno con la cera stravolta.
—Io nulla, messere;—rispose Tuccio, confuso.—Notavo unarassomiglianza…. Non è quello il volto di madonna Fiordalisa?
—Fiordalisa!—esclamò messer Dardano.—Chi è costei?—
Spinello, dalla eminenza su cui stava seduto, udì le parole di messer Dardano e si volse di schianto.
—Che avete detto, messere? Perchè quel nome, pronunziato da voi?
—Perdonate, maestro;—rispose messer Dardano, turbato da quellaescita improvvisa, ma più assai dalla strana animazione del viso diSpinello.—Si ragionava con Tuccio di Credi, il quale trova una certarassomiglianza, nel volto di Lucifero….
—Ah!—disse Spinello.—Tuccio di Credi ha trovato questo? La cosamerita di esser chiarita.—
E scese dal trèspolo, su cui depose tavolozza e pennelli, per andarsia piantare in uno dei punti estremi del tavolato.
Messer Dardano lo seguiva degli occhi, non pronosticando niente dibuono da quella scena inaspettata.
—È vero!—ripigliò Spinello, dopo essere stato alquanto a guardarel'affresco.—Ecco una somiglianza che io non aveva cercata. Unasomiglianza fatale!—proseguì, con accento cupo, che fece fremere ilvecchio Acciaiuoli.—Tuccio di Credi ha ragione, e a lui va fattoomaggio di un cambiamento necessario. Infine, che diamine m'è saltatoin mente, di far così bello lo spirito delle tenebre? E perchè sarebbeprofanata così la più bella immagine che apparisse mai sulla terra?—
Così dicendo, Spinello correva al trèspolo, ripigliava i pennelli, e,rimescolando i colori sulla tavolozza, andava mutando, insieme con letinte, i lineamenti del suo Lucifero.
—Tuccio di Credi ha ragione!—esclamava, parlando ad intervalli, trauna pennellata e l'altra.—Bisogna correggere. Perchè questo incarnatonel viso? Olivastro vuol essere; anzi terreo come il colore dellamorte. E questi occhi, perchè così belli? Ispide sopracciglia, rugheprecoci, in cui vorrebbe appiattarsi la malvagità del pensiero,trasformate voi questa fronte di dannato. Tuccio di Credi ha ragione.E sarà contento, Tuccio di Credi! Va bene così, Tuccio? non vi paregli che così, e non altrimenti, s'abbia ad esprimere lo spirito delmale?—
Tuccio di Credi non rispondeva; era allibito; era rimasto di sasso.
Ma non era rimasto di sasso il vecchio gentiluomo che lo avevacondotto lassù, e che non poteva intendere le ragioni di quella grancollera di Spinello Spinelli. E non si fosse trattato che di collera!Ma c'era di peggio; c'era il segno di una gravissima ingiuria, o d'unaterribile vendetta. Il volto di Lucifero, sotto le rapide e convulsepennellata di Spinello, si era tramutato dal bello all'orrido, dallesembianze di madonna Fiordalisa a quelle di Tuccio di Credi. Non c'erada dubitarne. Tuccio era lì, e gli occhi di messer Dardano potevanospiccarsi da lui per volgersi al Lucifero, o dal Lucifero per volgersia lui, e vedere tra l'uno e l'altro una rispondenza perfetta.
—Che vuol dir ciò?—chiese il vecchio gentiluomo, con accentosevero.—Spinello mio, non recate voi forse offesa a Tuccio di Credi,che ha avuto il torto di fare una semplice osservazione al vostrodipinto? E perchè una ingiuria così grave, senza cagione, ad uncompagno d'arte, all'amico della vostra giovinezza?—
Spinello era ridisceso in quel punto dal trèspolo.
—Amico, sì;—replicò messer Dardano.—Voi stesso non lo aveterichiamato ieri al vostro fianco?
—Io? Io richiamare quel tristo?
—Maisì, maestro, e dando a me l'incarico di parlargliene. Egli eracosì felice di ritornare con voi!—
Spinello levò la fronte, come in atto d'interrogare la sua memoria; maessa non gli disse nulla di ciò che l'Acciaiuoli asseriva.
—Perdonate, messere,—ripigliò egli,—è impossibile. Vi sareteingannato; dovete esservi ingannato. Io richiamare quel Giuda? Ma seciò fosse, ci sarebbe stato un perchè, ed io sarei venuto con qualchecosa al fianco,—soggiunse Spinello, tastandosi con moto convulso allacintola,—nè egli sarebbe più qui, ritto e sano davanti a me.Guardatelo, messer Dardano; quello è il più malvagio degli uomini. Ah,voi non sapete ciò che m'ha fatto? Amavo una donna, messere…. El'amava anche lui! Il rettile aveva osato levar gli occhi allacolomba. La vigilia delle mie nozze, la bella creatura moriva,avvelenata da lui. Almeno, così parve. Egli non aveva fatto cheaddormentarla con uno de' suoi filtri, scaturiti d'inferno, e madonnaFiordalisa fu seppellita per morta. L'avesse egli dissotterrata persè! L'avrei ucciso, ma non lo avrei disprezzato. In quella vece, egliha venduto il segreto ad un altro. L'amante s'è tramutato in….
—Cessate, messere!—interruppe l'Acciaiuoli, preso da un sentimentodi profondo disgusto.—Ma siete voi ben sicuro che una simileinfamia….
—Oh, giudicatene voi! Madonna Fiordalisa fu venduta al Buontalenti,banditosi dalla sua città per godersi il frutto del tradimento. Mal'opera non è compiuta. A persuadere la povera donna, occorreva cheSpinello apparisse dimentico di lei, sposo felice ad un'altra. ETuccio di Credi si pose al fianco di Spinello, fu con lui aFirenze…. Ciò che avvenisse a Firenze vi è noto. Ah, pazzo che iofui! Mi credono pazzo, ora, a mi guardano sott'occhi e si tirano da unlato quando m'incontrano per via. Lo sono stato, un pazzo, lo sonostato, quando t'ho creduto un onest'uomo, o Tuccio di Credi, rettilevelenoso ed immondo, spirito malvagio, venuto daccanto a me per la miadannazione. Dillo, che non è vero; dillo a quest'uomo onorando, chequesto non era il tuo fine, quando portavi a me i lagni del mio poveropadre…. ed egli sentirà ora come sappiano fischiare i serpenti, equal suono abbia la voce d'un demone!—
Tuccio di Credi guardò bieco il suo avversario, ben vedendo di nonpoter più ingannare nessuno, e crollò sdegnosamente le spalle.
—Quante parole inutili!—esclamò egli.—Bastava dire che mi sonovendicato. Messere, statevi con Dio, e non vi provate a tenermidietro;—soggiunse, vedendo l'atto di Spinello che voleva scagliarsicontro di lui.—Voi andate qualche volta senz'armi; io non ho maidimenticato questo spuntone, che so maneggiare, al bisogno, e chepunge assai meglio della vostra lingua.—
Così dicendo, si avviava verso la scala a piuoli, il cui capo uscivadue o tre palmi fuori del tavolato.
Ma l'amore della frase perdette Tuccio di Credi. Spinello conosceval'impalcatura del ponte su cui stava a dipingere, e il traballar chefece un pancone su cui Tuccio di Credi aveva posto il piede perritirarsi verso la scala, gli rammentò in buon punto che le assi nonerano inchiodate, ma semplicemente posate sulle traverse, l'una dicosta all'altra. E subito chinatosi ad abbrancare un capo del pancone,lo spinse verso l'apertura della scala.
—Riponi il tuo spiedo!—gridò, con accento di trionfo, mentre Tuccioscivolava sull'asse inclinata.—Meglio ti sarebbe aver penne allemani.—
Colto alla sprovveduta, Tuccio di Credi annaspò con le braccia,lasciando cadere lo spuntone, e tentò di aggrapparsi alla traversa,nel punto in cui essa era assicurata all'abetella con parecchi giri difune. Ma non gli venne fatto, ed egli ebbe per gran ventura di trovareun capo della fune, che penzolava dalla traversa, e ad essos'avvinghiò disperatamente, in quella che il suo corpo dava untracollo nel vuoto.
—Salvatemi, per amor del cielo!—urlava il caduto.—Salvatemi! Ve nesupplico, messere Spinello!… Per la memoria di Fiordaliso!
—Infame!—tuonò Spinello, affacciato all'apertura del ponte.—Eardisci profferire quel nome? Trovò ella misericordia presso di te?Tuccio di Credi, bestemmia la tua ultima preghiera; l'abisso èspalancato per accoglierti.
—Spinello!—gridò messer Dardano.—È un uomo che sta per morire!
—Orbene, che c'è di strano!—disse Spinello. La pena segue il—delitto. A Colle Gigliato ho ucciso il suo complice; qui uccido lui.—Se Iddio non avesse voluta la sua morte, non me l'avrebbe cacciato—tra' piedi.—
Intanto quell'altro perdeva le forze. La fune, scorrendogli tra ledita aggranchite, gli aveva lacerate le carni. I tendini denudati nonressero allo strazio, e le mani sanguinolenti si apersero. Tuccio diCredi mise un grido di alto spavento, che parve ruggito di fiera, eprecipitò nello spazio.
Il vecchio Acciaiuoli udì il tonfo del corpo sui gradini dell'altarmaggiore e si ritrasse indietro atterrito.
Poco stante si raccoglievano le membra sfracellate. In chiesa e fuorisi credette ad una disgrazia. Nè messer Dardano volle dire ilcontrario; nè Spinello sapeva più che cosa fosse avvenuto. Sceso dalponte, il povero pazzo non ricordava più nulla.
Per altro quella notte fu un grande trambusto in casa sua. Spinelloaveva una visione e fu agevole intenderla dalle rotte parole che gliuscivano di bocca. Lo spirito delle tenebre era apparso al pittore,dolendosi con lui d'essere stato fatto così spaventosamente brutto,
—Brutto! Brutto!—gridava il povero pazzo.—Non eri forse Tuccio di Credi? ed io non ti ho forse dato il tuo aspetto vero?—
Il vecchio Acciaiuoli prodigò al suo sventurato amico le più amorevolicure. Ma nè le cura dell'amicizia, nè quelle dell'arte, nè i piantidella famiglia, nè le preghiere di tutta Arezzo, che amava il suogrande artefice, valsero a rattenerlo in vita. L'amore di SpinelloSpinelli era morto; le sue vendette erano compiute; non gli restavache di finire anche lui. Ed era misericordia pregare a quell'animatravagliata il riposo della tomba.
E null'altro, forse? Non ci sarà dato di sperare che lo spiritodell'infelice amatore si sia ricongiunto a quello della suaFiordalisa? Ciò che sentiamo di questi grandi esempi d'amore, cosìrari purtroppo nel mondo, ci conforta a credere che tanto ardore nonpossa e non debba morire con questa povera compagine d'ossa e dipolpe. Infine, ogni spettacolo di martirio non richiama l'idea deltrionfo?
FINE
End of Project Gutenberg's Il ritratto del diavolo, by Anton Giulio Barrili
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RITRATTO DEL DIAVOLO ***
Updated editions will replace the previous one—the old editions willbe renamed.
Creating the works from print editions not protected by U.S. copyrightlaw means that no one owns a United States copyright in these works,so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the UnitedStates without permission and without paying copyrightroyalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use partof this license, apply to copying and distributing ProjectGutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark,and may not be used if you charge for an eBook, except by followingthe terms of the trademark license, including paying royalties for useof the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything forcopies of this eBook, complying with the trademark license is veryeasy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creationof derivative works, reports, performances and research. ProjectGutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you maydo practically ANYTHING in the United States with eBooks not protectedby U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademarklicense, especially commercial redistribution.
START: FULL LICENSE
THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK
To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the freedistribution of electronic works, by using or distributing this work(or any other work associated in any way with the phrase “ProjectGutenberg”), you agree to comply with all the terms of the FullProject Gutenberg™ License available with this file or online atwww.gutenberg.org/license.
Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™electronic works
1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™electronic work, you indicate that you have read, understand, agree toand accept all the terms of this license and intellectual property(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by allthe terms of this agreement, you must cease using and return ordestroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in yourpossession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to aProject Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be boundby the terms of this agreement, you may obtain a refund from the personor entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.
1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only beused on or associated in any way with an electronic work by people whoagree to be bound by the terms of this agreement. There are a fewthings that you can do with most Project Gutenberg™ electronic workseven without complying with the full terms of this agreement. Seeparagraph 1.C below. There are a lot of things you can do with ProjectGutenberg™ electronic works if you follow the terms of thisagreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™electronic works. See paragraph 1.E below.
1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“theFoundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collectionof Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individualworks in the collection are in the public domain in the UnitedStates. If an individual work is unprotected by copyright law in theUnited States and you are located in the United States, we do notclaim a right to prevent you from copying, distributing, performing,displaying or creating derivative works based on the work as long asall references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hopethat you will support the Project Gutenberg™ mission of promotingfree access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™works in compliance with the terms of this agreement for keeping theProject Gutenberg™ name associated with the work. You can easilycomply with the terms of this agreement by keeping this work in thesame format with its attached full Project Gutenberg™ License whenyou share it without charge with others.
1.D. The copyright laws of the place where you are located also governwhat you can do with this work. Copyright laws in most countries arein a constant state of change. If you are outside the United States,check the laws of your country in addition to the terms of thisagreement before downloading, copying, displaying, performing,distributing or creating derivative works based on this work or anyother Project Gutenberg™ work. The Foundation makes norepresentations concerning the copyright status of any work in anycountry other than the United States.
1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:
1.E.1. The following sentence, with active links to, or otherimmediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appearprominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any workon which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which thephrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed,performed, viewed, copied or distributed:
This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online atwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.
1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work isderived from texts not protected by U.S. copyright law (does notcontain a notice indicating that it is posted with permission of thecopyright holder), the work can be copied and distributed to anyone inthe United States without paying any fees or charges. If you areredistributing or providing access to a work with the phrase “ProjectGutenberg” associated with or appearing on the work, you must complyeither with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 orobtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.
1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is postedwith the permission of the copyright holder, your use and distributionmust comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and anyadditional terms imposed by the copyright holder. Additional termswill be linked to the Project Gutenberg™ License for all worksposted with the permission of the copyright holder found at thebeginning of this work.
1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™License terms from this work, or any files containing a part of thiswork or any other work associated with Project Gutenberg™.
1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute thiselectronic work, or any part of this electronic work, withoutprominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 withactive links or immediate access to the full terms of the ProjectGutenberg™ License.
1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, includingany word processing or hypertext form. However, if you provide accessto or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a formatother than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the officialversion posted on the official Project Gutenberg™ website(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expenseto the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a meansof obtaining a copy upon request, of the work in its original “PlainVanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include thefull Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1.
1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ worksunless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.
1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providingaccess to or distributing Project Gutenberg™ electronic worksprovided that:
• You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has agreed to donate royalties under this paragraph to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid within 60 days following each date on which you prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty payments should be clearly marked as such and sent to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation.”
• You provide a full refund of any money paid by a user who notifies you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™ License. You must require such a user to return or destroy all copies of the works possessed in a physical medium and discontinue all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™ works.
• You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the electronic work is discovered and reported to you within 90 days of receipt of the work.
• You comply with all other terms of this agreement for free distribution of Project Gutenberg™ works.
1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a ProjectGutenberg™ electronic work or group of works on different terms thanare set forth in this agreement, you must obtain permission in writingfrom the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager ofthe Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as setforth in Section 3 below.
1.F.
1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerableeffort to identify, do copyright research on, transcribe and proofreadworks not protected by U.S. copyright law in creating the ProjectGutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™electronic works, and the medium on which they may be stored, maycontain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurateor corrupt data, transcription errors, a copyright or otherintellectual property infringement, a defective or damaged disk orother medium, a computer virus, or computer codes that damage orcannot be read by your equipment.
1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Rightof Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the ProjectGutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the ProjectGutenberg™ trademark, and any other party distributing a ProjectGutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim allliability to you for damages, costs and expenses, including legalfees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICTLIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSEPROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THETRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BELIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE ORINCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCHDAMAGE.
1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover adefect in this electronic work within 90 days of receiving it, you canreceive a refund of the money (if any) you paid for it by sending awritten explanation to the person you received the work from. If youreceived the work on a physical medium, you must return the mediumwith your written explanation. The person or entity that provided youwith the defective work may elect to provide a replacement copy inlieu of a refund. If you received the work electronically, the personor entity providing it to you may choose to give you a secondopportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. Ifthe second copy is also defective, you may demand a refund in writingwithout further opportunities to fix the problem.
1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forthin paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NOOTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOTLIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.
1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain impliedwarranties or the exclusion or limitation of certain types ofdamages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreementviolates the law of the state applicable to this agreement, theagreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer orlimitation permitted by the applicable state law. The invalidity orunenforceability of any provision of this agreement shall not void theremaining provisions.
1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, thetrademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyoneproviding copies of Project Gutenberg™ electronic works inaccordance with this agreement, and any volunteers associated with theproduction, promotion and distribution of Project Gutenberg™electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,including legal fees, that arise directly or indirectly from any ofthe following which you do or cause to occur: (a) distribution of thisor any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, oradditions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) anyDefect you cause.
Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™
Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution ofelectronic works in formats readable by the widest variety ofcomputers including obsolete, old, middle-aged and new computers. Itexists because of the efforts of hundreds of volunteers and donationsfrom people in all walks of life.
Volunteers and financial support to provide volunteers with theassistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’sgoals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection willremain freely available for generations to come. In 2001, the ProjectGutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secureand permanent future for Project Gutenberg™ and futuregenerations. To learn more about the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation and how your efforts and donations can help, seeSections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.
Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit501(c)(3) educational corporation organized under the laws of thestate of Mississippi and granted tax exempt status by the InternalRevenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identificationnumber is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation are tax deductible to the full extent permitted byU.S. federal laws and your state’s laws.
The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and upto date contact information can be found at the Foundation’s websiteand official page at www.gutenberg.org/contact
Section 4. Information about Donations to the Project GutenbergLiterary Archive Foundation
Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespreadpublic support and donations to carry out its mission ofincreasing the number of public domain and licensed works that can befreely distributed in machine-readable form accessible by the widestarray of equipment including outdated equipment. Many small donations($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exemptstatus with the IRS.
The Foundation is committed to complying with the laws regulatingcharities and charitable donations in all 50 states of the UnitedStates. Compliance requirements are not uniform and it takes aconsiderable effort, much paperwork and many fees to meet and keep upwith these requirements. We do not solicit donations in locationswhere we have not received written confirmation of compliance. To SENDDONATIONS or determine the status of compliance for any particular statevisitwww.gutenberg.org/donate.
While we cannot and do not solicit contributions from states where wehave not met the solicitation requirements, we know of no prohibitionagainst accepting unsolicited donations from donors in such states whoapproach us with offers to donate.
International donations are gratefully accepted, but we cannot makeany statements concerning tax treatment of donations received fromoutside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.
Please check the Project Gutenberg web pages for current donationmethods and addresses. Donations are accepted in a number of otherways including checks, online payments and credit card donations. Todonate, please visit: www.gutenberg.org/donate.
Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works
Professor Michael S. Hart was the originator of the ProjectGutenberg™ concept of a library of electronic works that could befreely shared with anyone. For forty years, he produced anddistributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network ofvolunteer support.
Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printededitions, all of which are confirmed as not protected by copyright inthe U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do notnecessarily keep eBooks in compliance with any particular paperedition.
Most people start at our website which has the main PG searchfacility:www.gutenberg.org.
This website includes information about Project Gutenberg™,including how to make donations to the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how tosubscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.